Sibilla Aleramo (pseudonimo di Rina Faccio), scrittrice italiana di inizio novecento, è nata ad Alessandria nel 1876 e morta a  Roma nel 1960.

Figlia di un ingegnere piemontese, quando il padre andò a dirigere una fabbrica in una cittadina delle Marche trasferendovi la famiglia, si trovò adolescente a doversi inserire in un ambiente profondamente diverso dalla realtà cittadina della sua infanzia.Si sposò a sedici anni, ebbe un figlio, e lasciò il marito, quando si fece chiaro in lei il diritto alla libertà e l'insofferenza per le restrizione impostele dal marito-padrone.

 Dopo un tirocinio nel giornalismo, pubblicò nel 1906 il romanzo Una donna che ebbe subito un grande successo sia in Italia che all'estero.

 Dopo un periodo in cui fu pressoché dimenticata, la sua figura e la sua opera hanno recuperato in questi ultimi anni importanza e attualità. A riproporle all'attenzione hanno sicuramente contribuito le problematiche del femminismo, di cui la Aleramo è stata una anticipatrice con la sua vita, sempre condotta e vissuta con estrema libertà e pagando di persona, e con la sua opera fin dal romanzo dell'esordio.

Vita e letteratura si sono sempre fuse nell'esistenza di questa scrittrice che ha tratto dalla propria autobiografia, ricca di avventure sentimentali (si ricordano i suoi amori con Campana, Boine, Quasimodo) e politiche, spunti e temi per un'opera che, non a caso, ha conosciuto i suoi momenti maggiori, più che nelle prose di Andando e stando (1921) e Gioie d'occasione (1930 e poi 1954), nei romanzi Amo, dunque sono (1926) e Il frustino(1932) o nelle numerose poesie, raccolte poi in Selva d'amore(1947), proprio nelle pagine diaristiche.

 In esse la scrittrice ha trasferito le sue esperienze più intime, come l'amore per il poeta Franco Matacotta, più giovane di 40 anni, e registrato gli avvenimenti storici e culturali di cui si è trovata al centro durante la sua vita spregiudicata. Dal mio diario 1940-1944 (1945), e poi Diario di una donna 1945-1960 (1978) e Un amore insolito (1979), pubblicati postumi e in edizione integrale.

La raccolta Selva d'amore le fruttò nel 1948 il premio Versilia, per il teatro scrisse Endimione nel 1923, rappresentato l'anno dopo a Parigi.

 

La sua voce è importante per la sottolineatura dei temi femministi, che sono ancora attuali, per l'impegno politico sul territorio e per la denuncia di una letteratura" femminile "( di cui a suo parere sono responsabili anche scrittrici di successo come Neera o Mura) che tende a mantenere la donna nel ghetto dei buoni sentimenti del sacrificio, della rinuncia, della dedizione alla famiglia e all'uomo,  in uno stato di inferiorità senza stimoli culturali che non siano quelli dei romanzi di evasione o di amore e sentimentalismo.

Il tema più percorso nella sua poesia è senza dubbio quello autobiografico, sincero e talvolta disarmante nel suo dire senza filtri, nella confessione senza pudori, nelle lacrime, ma si caratterizza anche in  una costante ricerca della propria identità, con la forza di esprimere   l'esigenza e il diritto all'amore come sentimento fondante della vita.

I termini espressivi sono spesso nell'area semantica della negatività, quasi volesse farci soffrire con lei la mancanza delle parole di donna, il silenzio cui le donne sono state costrette da sempre.

La metafora dello specchio ricorre negli anni: non è solo l'oggetto simbolico della seduzione femminile, ma è anche lo strumento critico dell'autocontroll, l'identità spesso negata da inseguire sempre, in ogni stagione della vita.

 

 

SONO TANTO BRAVA (Momenti 1912-1920)

 

Sono tanto brava lungo il giorno.

Comprendo, accetto, non piango.

Quasi imparo ad avere orgoglio quasi fossi un uomo.

Ma al primo brivido di viola in cielo

ogni diurno sostegno dispare.

Tu mi sospiri lontano; <Sera, sera dolce e mia!>

Sembrami d'aver tra le dita la stanchezza di tutta la terra.

Non son più che sguardo, sguardo sperduto, e vene.

 

 


SOVRANA ( Poesie 1921-1927)

 

Quanti s'affaticano e quant'altri danzano

in quest'ora stessa di vento e di primavera?

E v'ha chi s'innamora e v'ha chi alleva fiori.

Io, io di me sola vivo  e di desolato silenzio,

o forse silenzio non è, ma frusciante potenza,

ahi sovrana e vana, da ogni cuore lontana!

 

SENZA PAROLE

 

Senza parole

senza parole in petto,

anima spodestata sono,

nessuna antenna per richiamarti,

solo questo mio silenzio,

groviglio in cui ardo, -

qualche lacrima rada

mi si posa come vento sulle ciglia,

tu non la senti

e l'incendio più avvampa

silenzioso -

anima spodestata sono,

nessuna antenna per richiamarti, nessuna parola...

 

PIANGO

 

Piango

come dovrebbero gli altri su me piangere,

e nessuno invece nessuno

la mia agonia intende.

Piango

per la cecità degli altri,

di tutti che non sanno vedermi,

che sulla lor strada m'incontrano

e nel fondo dei miei occhi

vedere non sanno

quest'infinita supplica d'amore,

ch'io in carità essere sentita vorrei,

e cara a tutti sentirmi

qual mi son creata

con lungo martirio e sì pura fede...

Piango

come dovrebbero gli altri su me piangere,

O, non piangere, no

ma all'agonia strapparmi,

dalla morte che pietosa sola mi vuole.

 

MIEI VERSI

 

Miei versi,

mia nobiltà,

voi soli,

di tutto quanto,

somme immense,

alla vita donai,

voi soli restate,

piccoli in piccolo volume,

lucenti,

tutto s’è fatto gemmeo,

le lacrime i sorrisi i notturni aneliti

il vento e le rose,

il pensiero degli umani squallori

e i volti degli amori,

oh miei versi,

mia nobiltà,

voi soli restate,

 lucenti…

 

LUNARE (Sì alla terra, 1928-1934)

 

Luna falcata fra correnti nubi

Alta sur un ciglio di rupi nere,

e pensier e sensi in me d’eterna notte,

argentata appena da fuggente beltà.

 

Per tutta la vita volli de’ mie giorni

Far cosa di luce, cosa d’amore,

ed essi posi avanti ogni mia arte,

e d’essi feci poesia perenne,

 

oh giorni, trascoloranti riviere,

giorni miei duri diamanti!

 

Ma in eterno non saprò se errai,

se più savio era per l’opere sole vivere,

opere tante create più che vivo palpito,

e dai baci dai pianti dai sogni,

se saggezza umana sotto i cieli respira,

voler più fortemente trarre statue e leggi,

trarre un canto più di me grande.

 

GUARDO I MIEI OCCHI ( Imminente sera, 1936-1942)

 

Guardo i miei occhi cavi d’ombra

E i solchi sottili sulle mie tempie,

guardo, e sei tu, mio povero stanco volto,

così a lungo battuto dal tempo?

 

Mi grava l’ombra di un occulto sogno.

Ah, che un ultimo fiore in me s’esprima!

Come un’opaca pietra

Non voglio morire fasciata di tenebra,

ma d’un tratto, dalla radice fonda,

alzare un canto alla ultima mia sera.