E'
reato
prescrivere ricette senza visita
Corte di Cassazione con la
sentenza n. 34814 del 2001
Commette il reato di falso
ideologico, rischiando una pena fino a due anni di reclusione,
il medico convenzionato con il Servizio Sanitario Nazionale che
prescrive ricette a pazienti sconosciuti e non visitati.
È questo il principio stabilito dalla Suprema Corte che ha così
rigettato il ricorso di un medico dell'Aquila che prescriveva
medicinali a pazienti che non conosceva e il cui nominativo gli
veniva fornito dal medico in pensione al quale era subentrato.
Il tutto all'insaputa dei pazienti stessi e ai danni dello Stato
poiché le ricette venivano richieste per pazienti con
l'esenzione del ticket.
I giudici di diritto, respingendo il ricorso inoltrato dal
medico contro la decisione dei giudici d’appello, arrivavano
alla conclusione di cui sopra, considerando il valore intrinseco
della prescrizione compiuta dal medico, essendo questa un
certificato diretto ad un soggetto che è stato visitato dal
medico nell’esercizio delle sue funzioni, e, ritenendo essere la
visita una sorta di "antefatto" che giustifica la compilazione
della ricetta, un documento, cioè, di cui il paziente necessita
in quanto ne ha fatto esplicita richiesta.
In sostanza il medico può rilasciare ricette "a piacere" al
proprio paziente, a condizione che lo conosca per averlo già
visitato in passato, senza essere obbligato a rivederlo tutte le
volte che deve prescrivergli un farmaco.
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Il ritardo nel sottoporsi ad
indagine diagnostica puo' legittimare la ipotesi di concorso del
fatto colposo
TRIBUNALE di CAMPOBASSO
- In assenza di diverse allegazioni , tese a comprovare
l'impossibilità, soggettiva o oggettiva, di effettuare con
minore ritardo una indagine diagnostica e la successiva visita
in ambulatorio, deve rinvenirsi una ipotesi di ritardo
colpevole; e se il ritardo del paziente (nell'effettuare la
risonanza magnetica e nel farsi visitare dopo aver avuto il
responso della stessa) ha contribuito a provocare l'evento
dannoso, ricorrendo la ipotesi di concorso del fatto colposo
del creditore di cui all'art. 1227.1 c.c., la stessa puo' essere
rilevabile di ufficio.(centro studi di diritto sanitario - (www.dirittosanitario.net
)
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Responsabilita' del medico per
la morte del paziente - il nesso di causalita' deve essere
stabilito con alto grado di probabilita'
Cassazione, sez. Unite n. 30328 dell'11 settembre 2002
Il Pretore di Napoli con sentenza del 28.4.1999 dichiarava il
dott. S. F. colpevole del reato di omicidio colposo in qualità
di responsabile della XVI divisione di chirurgia dell'ospedale
dove era stato ricoverato dal 9 al 17 aprile 1993 P. C.,
deceduto dopo avere subito il 5 aprile un intervento chirurgico
d'urgenza per perforazione ileale a cui era seguita una sepsi
addominale da 'clostridium septicum'.
Il giudice di primo grado riteneva fondata l'ipotesi
accusatoria, secondo cui l'imputato non aveva compiuto durante
il periodo di ricovero del paziente una corretta diagnosi né
praticato appropriate cure, omettendo per negligenza e imperizia
di valutare i risultati degli esami ematologici, che avevano
evidenziato una marcata neutropenia ed un grave stato di
immunodeficienza, e di curare l'allarmante granulocitopenia con
terapie mirate alla copertura degli anaerobi a livello
intestinale, autorizzando anzi l'ingiustificata dimissione del
paziente giudicato 'in via di guarigione chirurgica'. Diagnosi e
cura che, se doverosamente realizzate, sarebbero invece state,
secondo i consulenti medico-legali e gli autorevoli pareri della
letteratura scientifica in materia, idonee ad evitare la
progressiva evoluzione della patologia infettiva letale 'con
alto grado di probabilità logica o credibilità razionale'.
La Corte di appello di Napoli con sentenza del 14.6.2000
confermava quella di primo grado, ribadendo che il dott. F., in
base ai dati scientifici acquisiti, si era reso responsabile di
omissioni che "... sicuramente contribuirono a portare a morte
il C. ...", sottolineando che "... se si fosse indagato sulle
cause della neutropenia e provveduto a prescrivere adeguata
terapia per far risalire i valori dei neutrofili, le probabilità
di sopravvivenza del C. sarebbero certamente aumentate ..." ed
aggiungendo che era comunque addebitabile allo stesso la
decisione di dimettere un paziente che "... per le sue
condizioni versava invece in quel momento in una situazione di
notevole pericolo ...".
L' imputato proponeva ricorso in Cassazione; con successiva
memoria difensiva deduceva altresì la sopravvenuta estinzione
del reato per prescrizione.
Malgrado la sopravvenuta prescrizione, la Cassazione riteneva
di doversi ugualmente investire del problema.
Le S.U. Penali della Suprema Corte di Cassazione, con
sentenza n. 30328 dell’11 settembre 2002, venivano quindi
chiamate a risolvere dei contrasti giurisprudenziali
sorti soprattutto all’interno della IV sezione penale in ordine
all’accertamento del nesso di causalità nei reati omissivi
impropri, con particolare riferimento alle ipotesi di
responsabilità medica.
L’orientamento tradizionale, al fine di affermare la
responsabilità medica, ritiene "sufficienti 'serie ed
apprezzabili probabilità di successo' per l'azione impeditiva
dell'evento, anche se limitate e con ridotti coefficienti di
probabilità, talora indicati in misura addirittura inferiore al
50%" .
Un più recente orientamento, invece, mitiga il rigore di questa
interpretazione, richiedendo "la prova che il comportamento
alternativo dell'agente avrebbe impedito l'evento lesivo con un
elevato grado di probabilità 'prossimo alla certezza', e cioè in
una percentuale di casi 'quasi prossima a cento'".
Le S.U. della Cassazione con la sentenza in esame hanno aderito
a quest’ultima interpretazione, ritenendo che, secondo
l’impostazione tradizionale, "si finisce per esprimere
coefficienti di 'probabilità' indeterminati, mutevoli,
manipolabili dall'interprete, talora attestati su standard
davvero esigui".
A detta dei Giudici della Suprema Corte, anche nel caso di reati
omissivi, occorre verificare in concreto, ossia con riferimento
al singolo caso preso in considerazione, la sussistenza del
nesso causale che deve ritenersi sussistente tutte le volte che
"tenendosi l'azione doverosa omessa, il singolo evento lesivo
non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe inevitabilmente
verificato, ma (nel quando) in epoca significativamente
posteriore o (per come) con minore intensità lesiva".
In altri termini, i giudici hanno voluto evitare che si pervenga
all’accertamento del nesso di causalità e, quindi, della
responsabilità sulla base di dati statistici astratti
richiedendo, al contrario, un’indagine specifica riferita al
caso concreto che tenga conto "delle circostanze del fatto e
dell'evidenza disponibile, così che, all'esito del ragionamento
probatorio che abbia altresì escluso l'interferenza di fattori
alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la
conclusione che la condotta omissiva del medico è stata
condizione necessaria dell'evento lesivo con 'alto o elevato
grado di credibilità razionale' o 'probabilità logica'.
" Il nesso causale, dice la Suprema Corte, può essere
ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale
condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o
di una legge scientifica - universale o statistica -, si accerti
che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta a
doverosa impeditiva dell'evento hic et nunc, questo non si
sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca
significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.
Non é consentito dedurre automaticamente dal coefficiente
di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o
meno, dell'ipotesi accusatoria sull'esistenza del nesso causale,
poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso
concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell'evidenza
disponibile, così che, all'esito del ragionamento probatorio che
abbia altresì escluso l'interferenza di fattori alternativi,
risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che
la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria
dell'evento lesivo con 'alto o elevato grado di credibilità
razionale' o 'probabilità logica'.
L'insufficienza, la contraddittorietà e l'incertezza
del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale,
quindi il ragionevole dubbio, in base all'evidenza
disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta
omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella
produzione dell'evento lesivo, comportano la neutralizzazione
dell'ipotesi prospettata dall'accusa e l'esito assolutorio del
giudizio".
Si dava poi atto che il delitto di omicidio colposo per il
quale si procedeva fosse estinto per prescrizione.
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Esercizio
abusivo
della professione
( Cassazione , sez. VI penale, sentenza
15.04.2003 n° 17921 )
“Gli atti rilevanti ai fini della configurabilità del reato di
cui all'articolo 348 Cp (Abusivo esercizio di una professione)
sono quelli riservati in via esclusiva a soggetti dotati di
speciale abilitazione e cioè ai cosiddetti atti tipici, con
esclusione delle attività "relativamente libere", solo
strumentalmente connesse a quelle tipiche.
L'attività riservata agli esercenti una determinata professione
comprende non soltanto gli atti "tipici" della professione, ma
può estendersi anche agli atti "relativamente liberi", e cioè
non esclusivi del professionista pur se solitamente collegati
alla sua attività tipica, che possono essere compiuti anche da
estranei soltanto a condizione che si tratti di attività
sporadica ed occasionale; per cui costituisce esercizio
abusivo
della professione il compimento di atti del genere in forma
continuativa ed organizzata.
L' occasionalita' della condotta prestata non comporterebbe la
configurazione del reato di cui all'articolo 348 Cp, in quanto
non esiste un esercizio di attività sistematica ed organizzata.
La motivazione della sentenza puo' essere estensibile a tutte le
professioni.
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Reato
di truffa in caso di false attestazioni dei
dipendenti pubblici sui fogli di presenza
Cassazione penale, sez. V, Sentenza
n. 3901 del 31 gennaio 2001, sul
SVOLGIMENTO IN FATTO E DIRITTO
Con sentenza in data 25.6.1998
il Tribunale di Palermo aveva dichiarato R.M.A., P.V., R.R., M.G. e L.G. - tra
gli altri - colpevoli dei delitti di falso in atto pubblico per avere falsamente
attestato nella qualità di dipendenti dell'(omissis) - sul foglio di presenza il
loro regolare servizio sino all'orario di uscita al fine di eseguire il reato di
truffa ai danni della stessa azienda (omissis) consistito nell'essersi procurato
un ingiusto profitto inducendola in errore e con suo danno (artt. 61 n. 2, 479,
493 c.p.; 640 c. 2 n. 1 c.p.), nonché A.F., A.E., R.G., D.M. A e M.P. colpevoli
del reato di cui agli artt. 81 c.p.v., 110 e
328 c.p. per aver omesso la raccolta di rifiuti solidi urbani in alcune strade
L'impugnata sentenza assolveva M. e L. dal reato di falso,
confermando nel resto, la pronuncia del primo giudice.
Il ricorrente R. allegava i seguenti
motivi.
1) Violazione di legge in relazione all'art. 493 c.p., per
mancanza della qualifica di "incaricato di pubblico servizio" ed
alla stessa definizione del p.s. ex art. 358 c.p.. La
compilazione del foglio di presenza non aveva, del resto, alcuna
attinenza con le mansioni svolte dall'operatore ecologico.
2) Vizio di motivazione quanto alla
truffa, ritenuta sulla base di un dato meramente formale senza
alcuna concreta prova sull'assenza dal lavoro.
I ricorrenti P. e R.R. deducevano i
seguenti motivi.
1) Violazione di legge in ordine al
reato di falsità, per carenza del pubblico servizio, anche in
relazione alla natura di "ente
pubblico" dell'(omissis), ed alla qualifica di "incaricato di
p.s." ex art. 358 c.p..
2) Violazione di legge in
relazione alla "induzione in errore" per la truffa,
considerato che l'artificio era ben noto alla azienda parte
offesa. M. e L. allegavano il solo motivo concernente la truffa
(n. 2).
Gli altri ricorrenti (A., A., R. G.,
D.M. e M) denunziavano violazione di legge e carenza di
motivazione su qualifica di
"incaricato di p.s." (art. 358 c.p.), escludente ogni attività
meramente materiale o le semplici mansioni d'ordine, su
interesse al buon funzionamento della pubblica Amministrazione
tutelato dall'art. 328 c.p..
Chiedevano tutti l'annullamento
dell'impugnata sentenza.
Ritiene questa Corte che i ricorsi L.
e M. (concernenti il solo reato di truffa) nonché di R., P. e
R.R. (limitatamente alla medesima imputazione di truffa),
debbano essere rigettati.
Il R. invero, cesura la motivazione
dell'impugnata sentenza ritenendo l'irrilevanza - in relazione
all'artificio - dell'opposizione di una firma di "uscita" prima
dell'orario fissato (ore 11.00), quando poi non era stata
accertata la effettiva assenza dal servizio fino a quell'orario.
La Corte di merito ha, invece,
adottato una motivazione congrua e logica in ordine alla
sussistenza dell'artificio (ritenuto risultante "per tabulas"
dal fatto che al momento dell'irruzione Digos - ore 10.15 - la
firma attestante la cessazione dal servizio alle 11.00 era stata
già apposta) ed alla prova della sua assenza comportante un
danno - sia pure di lievissima entità - ai danni dell'Azienda.
Costituisce, poi, censura di merito la
valutazione in ordine al raggiungimento della prova sulla
mancata presenza fisica. Sempre in tema di truffa, gli altri
quattro ricorrenti sopra ricordati contestano, nel ricorso
congiunto, la presenza dell'elemento di "induzione in errore"
dal momento che la p.o. era consapevole dell'artificio.
La censura è infondata, poiché
confonde palesemente l'accondiscendenza delle persone fisiche
preposte al controllo con il titolare del bene protetto,
costituito da un ente munito di personalità giuridica ben
distinta da quella dei suoi funzionari.
Se, infatti, la presunta
consapevolezza - in funzionari o anche rappresentanti dell'ente
dell'anticipazione di un firma d'uscita da parte di dipendenti
avrebbe potuto comportare una partecipazione morale nel reato,
non è ipotizzabile - invece - il "consenso dell'avente diritto"
se non nel caso di una precisa disposizione, legittimamente
assunta che consentisse una deroga alla regola fissata
dall'ente.
Quanto al reato di falsità, si
sostiene dai ricorrenti P. e R.R. che la natura privatistica
dell'Azienda (omissis) non consentirebbe la qualificazione del
suo dipendente quale "incaricato di pubblico servizio" e dunque
l'equiparabilità al p.u. ex art. 493 c.p..
Va, invece, rilevato che lo stesso
art. 358 c.p. definisce il "pubblico servizio" e,
conseguentemente, l'"incaricato di un p.s." non in una
prospettiva meramente soggettivistica quanto con riferimento
all'attività svolta. Sono incaricati di un pubblico servizio
"coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico
servizio". Quest'ultimo, poi, consiste in ogni prestazione volta
a soddisfare un bene cui la collettività attribuisce rilevanza
primaria, quale è appunto il mantenimento dell'ig nell'ambito
del territorio urbano mediante lo smaltimento dei rifiuti. La
configurazione del reato ex art. 493 c.p. va escluso, nella
specie, sotto altro profilo.
La norma in esame, invero, impone che
l'atto falso venga redatto nell'esercizio delle attribuzioni
proprie dell'incaricato.
Ora, l'incaricato alla raccolta o al
trasporto dei rifiuti quando appone la firma di presenza al
momento dell'inizio e della cessazione del servizio adempie ad
un onere imposto al sole fine di provare l'adempimento del
sinallagma contrattuale, non redige - invece - un atto connesso
alle mansioni cui, è adibito ed assumente rilevanza proprio in
relazione alla specifica esternazione del "pubblico servizio".
Questo basta ad escludere la responsabilità dei ricorrenti,
indipendentemente dall'assunzione di posizione - per il momento
sulla riferibilità del "pubblico servizio" alle mansioni
meramente materiali del netturbino.
Ne consegue che tanto il R. quanto il
P. e R.R. vanno assolti dal reato di falsità in atto pubblico.
Si rende necessario il rinvio alla
corte di merito al fine della rideterminazione della pena per la
truffa, già calcolata solo in aumento ex art. 81 cpv. c.p., una
volta caduta la pena base per il più grave reato di falso.
Va accolto, ancora, il ricorso di A.,
A., R.G., D.M. e M., chiamati a rispondere solo dell'omissione
di atti d'ufficio. L'art. 328 c.p. ancora una volta fa
riferimento all'incaricato del pubblico servizio, secondo la
nozione dettata dall'art. 358 cpv. c.p.. Questa norma si
riferisce ad "attività" che, per essere tale, deve esplicarsi
nelle "forme della pubblica funzione".
Di per sé tale richiamo sancisce la
necessità di veste "documentale" per una "manifestazione di
volontà" anche se non garantita dai "poteri tipici della P.A..
In ogni caso, alla stessa nozione giuridico-amministrativa di
"attività" rimane estranea l'attività meramente materiale o
esecutiva.
L'ultima parte, poi, chiarisce ancora
meglio la portata della disposizione laddove esclude "lo
svolgimento di semplici mansioni d'ordine" e "la prestazione di
opera meramente materiale". L'operatore ecologico in senso
stretto (del quale si discute in questa sede) svolge in sostanza
mansioni manuali meramente materiali, pertanto va affermata la
non configurabilità - nei suoi confronti - del reato p. e p.
dall'art. 328 c.p..
Né può condividersi la possibilità di
qualificare il fatto entro i limiti dell'art. 340 c.p.
(interruzione di un ufficio o servizio pubblico), norma
residuali implicante, anche nella forma meno grave, la turbativa
della regolarità di un servizio inteso, comunque, in senso
globale.
La pronuncia di assoluzione deve
ricorrere alla formula più ampia dell'insussistenza del fatto,
comportante l'annullamento senza rinvio. La soluzione adottata
consente l'estensione del giudicato, ex art. 587 c. 1 c.p.p., a
T.G. e T.G., già condannati anche in secondo grado per il
medesimo reato e non ricorrenti.
I ricorrenti M. e L., che vedono
rigettata la loro impugnazione, vanno condannati in solido al
pagamento delle spese del procedimento.
PER QUESTI MOTIVI
Annulla la sentenza impugnata, nei
confronti di P.V., R.M.A. e R.R. - limitatamente ai reati di
falsità in atto pubblico - perché il fatto non sussiste. Rigetta
nel resto i ricorsi dei predetti e rinvia ad altra sezione della
Corte d'appello di Palermo per la rideterminazione della pena.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di
A.F.P., A. E., R.G., D.M. A. e M. P. - quanto al reato di cui
all'art. 328 c.p. - perché il fatto non sussiste, con effetto
estensivo nei confronti di T.G. e T.G., imputati non ricorrenti.
Rigetta i ricorsi di M. G. e L. G. che
condanna al pagamento in solido delle spese processuali.
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Trasferimento del lavoratore dipendente: occorre la comunicazione
(Cassazione , sez. lavoro, sentenza 14.07.2005 n° 14816)
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Visite
domicilari a
pagamento
Corte di Cassazione con la
sentenza n. 41646 del 21 novembre 2000
Se non è per motivi gravi la visita domiciliare
può essere considerata una prestazione privata e, pertanto, il
medico di base può farsi pagare le visite a domicilio.
È questo quanto stabilito dalla Corte di Cassazioene che ha
assolto un medico milanese che si era fatto retribuire una
visita domiciliare nel caso di una paziente trasportabile.
Non commette, infatti, reato il medico di famiglia che, su
richiesta del paziente, non in condizioni così gravi da non
potersi muovere, si rechi nell'abitazione per visitarlo e
accetti danaro.
Lo ha stabilito la Prima Sezione Penale della Corte di
Cassazione annullando, "perché il fatto non sussiste", la
sentenza di condanna per corruzione inflitta dal Tribunale di
Milano ad un medico di famiglia che, dopo essere stato
sollecitato dalla madre di una giovane paziente affetta da
febbre alta, si era recato a casa per effettuare la visita,
chiedendo il pagamento di 100.000 lire.
Secondo la Suprema Corte si tratta di una visita a carattere ''privatistico''
che non rientra nell'ambito delle prestazioni in regime di
convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale.
Questa sentenza ha stabilito, in pratica, che la visita
domiciliare del medico di medicina generale convenzionato con il
servizio sanitario nazionale deve essere retribuita direttamente
al medico quando il medico, chiamato a domicilio, giudichi
l'ammalato in grado di recarsi presso lo studio medico.
Il medico di base può farsi retribuire le visite che effettua a
domicilio.
Positiva la reazione del sindacato nazionale autonomo dei medici
italiani (SNAM) che ha sottolineato che se lo Stato riconosce
il pagamento per prestazioni non urgenti che affluiscono al
Pronto Soccorso, appare corretto e giustificato l'atteggiamento
del medico che, effettuata la visita e riconosciuta la non
appropriatezza della chiamata domiciliare,considera tale
prestazione in regime libero professionale.
Il cittadino può quindi richiedere una visita domiciliare solo
quando le sue condizioni di salute non gli consentono di uscire
di casa.
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Se al paziente non viene
prospettata una possibilita' di
scelta, il medico ne risponde
(terza sezione civile
della Cassazione, sentenza n. 11488 del 21 giugno 2004),
Se con
l' ecografia il medico non rileva la malformazione del feto deve
risarcire la madre per il danno subito per averle impedito di
esercitare il suo diritto all’interruzione della gravidanza.
E' stato
così sentenziato: "La prestazione medica non è qualificabile
come particolarmente difficile alla stregua dell’articolo 2236
Cc solo perché il risultato sperato è incerto, ben potendo
accadere che una prestazione sia agevole (ad esempio la corretta
somministrazione dei farmaci necessari) e che il risultato (ad
esempio la guarigione o il miglioramento del paziente) sia
tuttavia incerto". Le difficoltà vanno invece legate a problemi
tecnici che trascendano la preparazione medica specialistica o
che siano non ancora studiati a sufficienza o dibattuti. Inoltre
"la prova dell’incolpevolezza dell’inadempimento (...) e della
diligenza è sempre riferibile alla sfera d’azione del debitore;
in misura inoltre tanto più marcata quanto più l’esecuzione
della prestazione consista nell’applicazione di regole tecniche
sconosciute al creditore". Come nel caso della medicina. Da
ultimo, la Cassazione afferma che il danno può assumere
semplicemente la veste di una perdita di chance. Nel caso in
questione, quindi, il punto non sta nell’indagare se la donna,
venuta a conoscenza della malformazione del feto, avrebbe o meno
interrotto la gravidanza; il punto è che la condotta del medico
le ha tolto una possibilità di scelta.
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Qualora la struttura pubblica non
sia in grado di fornire l'assistenza, la ASL
deve provvedere. (Assistenza obbligatoria per piccolo affetto da
tetraparesi)
(Tribunale di Roma, Sezione Lavoro, ordinanza 21/3/2003)
"Qualora la
struttura pubblica sia impossibilitata ad assicurare
l'assistenza necessaria ad un bambino affetto da tetraparesi, la
ASL dovrà provvedere all’erogazione di prestazioni
specialistiche oppure al pagamento delle eventuali terapie
effettuate privatamente".
Questo principio e'
stato stabilito, mediante ordinanza, dal Tribunale di Roma che
ha accolto con procedura d' urgenza il ricorso dei genitori di
un bambino affetto da una grave patologia neuromotoria.
A causa della carenza
di personale specializzato, nonche' di posti-letto disponibili
nell' unica struttura specializzata convenzionata, la ASL aveva
improvvisamente interrotto l' assistenza al piccolo malato
tetraparetico. I genitori del bambino, a questo punto, erano
stati costretti a ricorrere a forme di assistenza privata,
rivolgendosi ad uno specialista non convenzionato, sopportandone
i relativi costi.
A questo punto i
genitori si sono rivolti al Tribunale di Roma chiedendo che
venisse emessa un' ordinanza urgente verso la Regione Lazio, il
Ministero della Sanità e la ASL competente, affinche' si
provvedesse all’assistenza necessaria al loro bambino, ovvero al
pagamento delle necessarie terapie.
Veniva invocato
l’art. 32 della Costituzione che sancisce il diritto del
cittadino alla salute.
Il Tribunale, avendo
accertato che la struttura pubblica non era in grado di
assicurare l’assistenza necessaria, ha riconosciuto che l' onere
di tale assistenza ricadeva, a norma di legge, sulla ASL, e che
questa, concordemente a precedenti pronunce della Cassazione
(Cass. nn. 8661/96, 3870/94), che in caso di terapie
indispensabili ed insostituibili per il trattamento di gravi
condizioni, l'imposizione dell'erogazione deve essere posta a
carico del servizio sanitario nazionale.
Per questi motivi il
Tribunale ha ordinato all’azienda ASL di provvedere
all’erogazione, in favore del bambino, di cinque sedute
domiciliari settimanali di riabilitazione neuromotoria da
effettuarsi in orari compatibili con gli impegni scolastici
dell’assistito, mediante personale specializzato o, in
alternativa, tramite il pagamento in forma diretta delle terapie
domiciliari in questione al terapista prescelto dalla famiglia.
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Diritto al
rimborso delle spese in caso di intervento
cardiochirurgico urgente in strutture private
(Cassazione, Sezione Lavoro,
Sentenza n. 2444 del 20 febbraio 2001)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
C. S., a seguito di infarto miocardico
acuto inferiore, era stato ricoverato in centro di cura
Cardiologico Pubblico e successivamente dimesso in quanto tale
Centro non era in grado in tempi brevi di effettuare
l'intervento previsto.
Per tale ragione, aveva cercato altra clinica convenzionata con
la U.S.S.L. che potesse operarlo con la necessaria urgenza,
senza esito positivo, sicché era stato costretto a rivolgersi
alla Casa di Cura Privata ove era stato ricoverato e sottoposto
al previsto intervento chirurgico.
Soggiungeva che invano aveva richiesto
alla USSL la restituzione delle somme versate alla Casa di Cura
e alla Clinica e quantificate in lire 73.735.984.
Il
giudice del lavoro condannava
l'U.S.S.L. a rifondergli la somma di lire 60.588.787, pari
all'80% delle somme versate, ex art. 4 della legge regionale n.
36/93.
Con sentenza dell'11 febbraio – 15 marzo 1999 il Tribunale di
Bergamo confermava la sentenza di primo grado, osservando che
l'assenza di autorizzazione preventiva da parte lla USSL
all'intervento presso un luogo di cura non pubblico, ove esso
sia necessitato da ragioni di urgenza, comportanti pericolo di
vita, o di aggravamento della malattia, o di non adeguata
guarigione – come nel caso di specie, secondo quanto accertato
dal CTU – non escludeva di per sé la sussistenza dei
presupposti per il riconoscimento ex post del concorso dell'USSL
alle spese sostenute dal soggetto interessato, in considerazione
della preminente tutela del diritto alla salute ex art. 32 Cost.
MOTIVI DELLA DECISIONE
L'Ente ricorrente denuncia violazione dell'art. 3 della legge 23
ottobre 1985 n. 595, dell'art. 2 della legge regionale Lombardia
5 novembre 1993 n. 36 e dell'art. 12, primo comma. In
particolare, il ricorrente fa riferimento all'art. 3 della legge
statale n. 595/1985, il quale, regolando la materia delle
prestazioni sanitarie erogabili in forma indiretta, stabilisce
che dette prestazioni possono essere erogate “nel caso in cui le
strutture pubbliche o convenzionate siano nella impossibilità di
erogarle tempestivamente in forma diretta” e quindi demanda
alle leggi regionali la definizione delle “modalità per accedere
alle prestazioni e per ottenere il concorso nella spesa
sostenuta”.
La
legge regionale 5 novembre 1993 n. 36 che, all'art. 2, precisa
che la forma di assistenza indiretta può verificarsi solo nel
caso in cui le strutture pubbliche o private convenzionate siano
nella impossibilità di erogare l'assistenza in forma diretta o
di erogarla tempestivamente, il cui significato di
“tempestività” è in relazione al periodo di attesa che
comprometterebbe gravemente lo stato di salute dell'assistito,
ovvero precluderebbe la possibilità dell'intervento o delle
cure.
In
secondo luogo sempre il ricorrente fa riferimento alla stessa
legge all'art.2 il quale precisa che
l'assistenza in forma indiretta deve essere preventivamente
autorizzata dalle competenti USSL.
La questione che si pone è dunque se
la preventiva autorizzazione della USSL abbia carattere
inderogabile – come sostiene il ricorrente - o invece non trovi
applicazione allorché il cittadino si trovi in una situazione di
grave crisi di salute, con imminente pericolo anche per la sua
vita, come invece ritenuto dal Giudice “a quo”.
Poiché la situazione in esame, se C.S.
avesse seguito la procedura
prevista dalla legge per avere il rimborso delle spese avrebbe
messo in pericolo la propria esistenza, trova il suo fondamento
nell'art. 32, primo comma, della Costituzione, in base
al quale diritto dei cittadini all'assistenza sanitaria
come diritto primario alla tutela
della salute che rientra fra quelli inviolabili della persona ed
è oggetto, pertanto, di incondizionata protezione.
Sulla base di tale presupposto la
Corte ha affermato che nell'ipotesi in cui a fondamento della
domanda di un assistito dal servizio sanitario nazionale,
rivolta ad ottenere il rimborso di spese ospedaliere non
preventivamente autorizzate dalla Regione, vengano dedotte
ragioni di urgenza (che comportano per l'assistito pericoli di
vita o di aggravamento della malattia o di non adeguata
guarigione evitabili soltanto con cure tempestive non ottenibili
dalla struttura pubblica), manca ogni potere autorizzatorio
discrezionale della pubblica amministrazione, non essendo
rilevante in contrario la eventuale discrezionalità tecnica
nell'apprezzamento del motivo di urgenza, atteso che oggetto
della domanda è il diritto primario e fondamentalmente alla
salute, il cui necessario temperamento con altri interessi, pure
costituzionalmente protetti non vale a privarlo della
consistenza di diritto soggettivo perfetto
Accertato quindi che nel caso in esame
si verteva in “un vero stato di necessità di intervento” ha
correttamente sostenuto che C. S., pur in mancanza di preventiva
autorizzazione, ben poteva richiedere il rimborso delle spese
sostenute per l'intervento chirurgico effettuato presso un
centro specializzato esterno alla struttura pubblica
o convenzionata rigettando quindi il ricorso dell'U.S.S.L.
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Responsabilità medica, nesso
di causalità e colpa medica per mancata
diagnosi di malformazione del feto
Cass. Pen., sez. III, sent. n. 6735 del 10 maggio 2002,
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