torna alla home page       PREFAZIONE
 

La Valtellina dimentica spesso di essere una terra di montagne. Questo libro viene a ricordarcelo.

Chi arriva in Valtellina è in alto che guarda innanzitutto, verso le montagne che si disegnano nel cielo e ne limitano l’orizzonte. Qui lo sguardo si fa subito verticale e chi viene dalla pianura avverte questo improvviso elevarsi dell’occhio oggi, purtroppo, sempre più compromesso dall’orrendo corridoio di capannoni commerciali che hanno preso il posto dei prati (ma che mangeranno mai le mucche con il cui latte si dovrebbero fare i formaggi tipici?) rompendo quel commovente intreccio tutto valtellinese di natura e lavoro umano di cui sopravvive ormai una pallida eco nel versante del vigneto e che annunciava un tempo l’ingresso nel mondo della verticalità alpina.

A questa verticalità ci riporta appunto il libro di Enrico Benedetti, Beno per gli amici, che ci invita a riscoprire modernamente la montagna con lo spirito dei pionieri dell’alpinismo di un tempo. E’ possibile? Siamo ancora in tempo? Sì, dice Beno, se ci si tira appena fuori dai luoghi più battuti dell’escursionismo alpinistico di massa, per riscoprire quegli itinerari e quelle vette oggi snobbate delle Retiche e delle Orobie che furono in Valtellina le mete predilette dell’alpinismo dell’Ottocento e del primo Novecento, l’alpinismo dei Freshfield, dei Kennedy, dei Leslie Stephen, dei naturalisti scienziati come Bruno Corti e Bruno Galli-Valerio, gente che in montagna non muoveva un passo senza volger l’occhio al fiore solitario sulla parete o all’affiorare di un raro minerale nella ruvida geologia della roccia.

Già, perché l’alpinismo, con tutto il bagaglio di nuove conoscenze sul territorio che ha comportato, non ha disincantato la montagna, non le ha strappato il suo volto enigmatico da sfinge alpina, non le ha tolto quell’aura un po’ demoniaca in cui da sempre ci piace avvolgerla e che sopravvive nelle leggende che Benedetti spesso simpaticamente rievoca. Ma il suo libro, a metà tra il diario alpinistico e la guida-racconto, vuole innanzitutto mostrarci che la montagna non è solo fatica, ma è soprattutto passione e divertimento nel muoversi in una natura intatta, dormendo nei vecchi rifugi, con un’attrezzatura povera ed essenziale, senza la retorica della vetta, senza esibizionismi superomistici, ma solo per poter godere di un panorama dove l’occhio si perde, di un’alba che non si dimentica, di un tramonto che ti toglie la parola o, più semplicemente, per rialzare su una vetta e fissare in modo stabile una croce che il tempo e le intemperie hanno abbattuto, come sulla Vetta di Ron nel racconto che apre il volume. Un grumo di sensazioni e di esperienze che Beno cerca di far rivivere sulla carta con una scrittura antieroica e scanzonata, come il suo stesso modo di andare in montagna. E’ un alpinismo, insomma, quello di Beno, che all’autoesaltazione preferisce l’autoironia, che vuole portare la montagna alla portata di tutti e che nasconde, talora, sotto un velo di dimessa semplicità, vere e proprie performances atletiche di  prim’ordine. Non dimentichiamo, infatti, che due anni fa Beno è salito in cima Bernina partendo a piedi da Sondrio e facendovi ritorno in giornata, una prestazione che non so quanti alpinisti sarebbero oggi in grado di fare. Eppure nessun orgoglio trapela da questa pagine, nessun sentimento di potenza atletica, ma solo rispetto senso di sottomissione alla natura di cui egli si sente ospite più che dominatore. La montagna non è per lui, come per molti oggi, un gigantesco attrezzo ginnastica, ma una maestra di modestia e di umiltà, una palestra di autoeducazione dell’anima. Si va in montagna non per sentirsi più forti, ma per diventare migliori. Alla fine del suo diario Beno scopre, così, che scalando le sue “montagne divertenti” ha, in realtà, solo scalato se stesso, la montagna più difficile e, certo, la più divertente.

 Franco Monteforte   

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