In California ci si interroga sulle conseguenze
della liberalizzazione che, salutata come un passo avanti, ha portato come unica
conseguenza bollette più care e un paese in ginocchio.
Per fronteggiare un'improvvisa penuria di gas naturale, alcune centrali sono state inoltre
alimentate provvisoriamente col petrolio.
I legami di interesse fra i politici più in vista e le aziende produttrici sembrano
essere all'origine del mancato riassetto del settore e della crisi attuale.
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Nella più grande crisi della California si uniscono dunque due elementi: da un
alto fattori contingenti come la ristrutturazione della rete elettrica e la penuria di
materie prime (gas soprattutto). Dall'altro un problema strutturale ed economico
Le due aziende si sono ritrovate a pagare un prezzo maggiore per comprare l'energia
elettrica di quello che poi praticavano al consumatore.
Inoltre nel sud dello stato è improvvisamente venuto a scarseggiare il gas naturale, dal
quale dipende un terzo di tutta l'energia prodotta in California. Così è stato
necessario fare ricorso al petrolio, ma molte centrali hanno frattanto dovuto operare a
basso ritmo.
Le due principale società di distribuzione elettrica, La Southern California Edison e la
Pacific Gas&Elettric hanno accumulato montagne di debiti.
"La nostra deregulation non ha abbassato i prezzi e non ha aumentato la
disponibilità di energia - ha dichiarato ieri il governatore Davis -. Al contrario:
abbiamo prezzi alle stelle, speculazione, incertezza nell'approvvigionamento di
elettricità".
Il suo piano per uscire dalla crisi. Innanzitutto una parziale ri-nazionalizzazione: lo
Stato della California si darà i mezzi per acquistare o costruire in proprio nuove
centrali, visto che il problema principale è la scarsità nella produzione locale di
energia. Lo Stato si riserva anche la facoltà di espropriare impianti privati, per
assicurare una produzione a prezzi stabili.
Il colosso dei semiconduttori Intel (basato a Santa Clara nella Silicon Valley) ha
congelato ogni progetto di nuovi investimenti in California a causa del rischio blackout,
e sta considerando la possibilità di delocalizzare nuovi stabilimenti in Oregon, Arizona
o New Mexico. Inoltre questa crisi ha un forte impatto politico negli Stati Uniti e nel
resto del mondo: la California è uno dei primi Stati ad aver varato la deregulation
elettrica, ed è considerato un "laboratorio" in questo campo.
Già nel 1997 un rapporto dell'Energy Institute dell'università di Berkeley, sotto la
direzione di Severin Borenstein, ammoniva contro i rischi di un'eccessiva concentrazione
nella produzione elettrica. Il rapporto indicava chiaramente che occorreva più
concorrenza a monte, con una maggiore pluralità di proprietari di centrali, altrimenti
pochi oligopolisti avrebbero manipolato i prezzi a loro esclusivo vantaggio. E'
esattamente quanto accaduto, con l'aggravante che il meccanismo della Borsa elettrica
"spot" ha reso ancora più volatili i prezzi e ha esaltato le possibilità di
manipolazione del mercato.
Perché i moniti degli esperti non furono ascoltati? Forse, insinuano le associazioni dei
consumatori, perché le aziende elettriche sono tra i principali finanziatori della
campagna elettorale del governatore Gray Davis: da esse ha ricevuto 770.000 dollari di
contributi dichiarati. Oggi Davis è a Washington per affrontare l'emergenza con le
autorità federali. Ma il nuovo presidente non è meno sospettabile di conflitto
d'interessi: tra i maggiori finanziatori della campagna di George Bush figurano Enron, Aes
e Green Mountain Energy, tre giganti nella produzione di energia elettrica.
(18 genaio 2001) |