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A prima
lettura, i testi narrativi di Spaliviero rivelano
un impasto variopinto e stratificato, a volte
bizzarro, ricco di materiali e di forme ispiratrici
e di stili.
Chi
volesse cavarsi il gusto di rintracciare ad ogni
costo nobili ascendenze letterario-etnografiche,
potrebbe riascoltare le molte voci, ormai antiche e
spente, che dal popolo raccolse il nostro Nuto
Revelli; oppure, se proprio insiste, potrebbe
rivedere certe pagine, certe immagini di Fenoglio,
nostre anche quelle, e anch'esse, come le vite dei
vinti, ormai immuni dalla stoltezza del tempo
presente, perché salvate e preservate
dall'alta, rude poesia dell'albese
ferrigno.
Potrebbe
perfino, un curioso tenace, avventurarsi nel
confronto con altre amare figurazioni di sconfitti,
di beffati dalla storia, di estinti: ritratti di
vita vicini nel tempo ma lontani dall'orizzonte
regionale, e probabilmente ignoti al narratore
della bassa Valsusa. Tale è, fra le tante,
la letteratura fantabiografica, quotidianistica,
nata nella Germania orientale degli anni '90, dopo
la riunificazione ambita. Elegia evocativa di
un'incruenta, caotica agonia storica, letteratura
dello sconcerto e della delusione: un'erba
asprigna, cresciuta sulle rovine
dell'identità semisecolare, dei valori
respirati nella primavera della vita, di molte
illusioni e speranze derise.
Sarebbe
però, questo frugare tra le fonti possibili,
un esercizio abbastanza peregrino, una sorta di
compiacimento accademico. Spaliviero è
autore "genuino e istintivo", come s'usava dire con
espressione un po' trita: è popolarescamente
corale e individualista, insieme, ed è
lettore, testimone e narratore nello stesso tempo.
La sua è una scrittura che, comunque,
crivella, rimodella e crogiola a modo proprio,
inconsapevolmente, tutto quanto egli abbia attinto
dalle più diverse ispirazioni, e soprattutto
dagli strati variegati della memoria di fatti e
detti, dall'acervo di testimonianze e ricordi
dell'esistenza sua e di quelle altrui. E anche lo
stile eteroclito, quel coniugare o giustapporre con
qualche stridore il parlato popolare (con radici
nell'italiano regionale e nel dialetto) ed
espressioni e riflessioni più vicine agli
scritti di divulgazione (il linguaggio
"giornalese", il "rivistese"
), oppure con
forme del neoitaliano oggi parlato, ebbene, anche
questo fa parte di una sua tavolozza espressiva
personale e autentica, formata e sedimentata nel
tempo, come è successo a tanti dialettofoni
approdati alla lingua nazionale.
Il
popolare, però, e ancor più il
popolaresco, possono discendere a volte i gradini
scivolosi della nostalgia insistita, artificiosa, o
di un certo folklorismo di maniera, a suo modo
"decadentista". Non è certo questo il caso
di Spaliviero. Nelle parti che preferisco, quelle
che celebrano senza enfasi un passato popolare che
abbiamo perduto, la sua narrazione è
sorretta da robuste impalcature, da solidi
riferimenti alla memoria personale, familiare e
comunitaria, e questi spingono il testo verso i
terreni della storia orale e
dell'etnografia.
I
racconti di guerra hanno spesso il sentore delle
lunghe, frammentarie rievocazioni fatte dai reduci
veri, nelle vere osterie, nelle vere cascine. Vero
e sofferto è il senso della famiglia,
così come lo è il disegno della
screziata, inevitabilmente pittoresca
umanità delle comunità rurali:
c'è gente e gente
E
suggestivamente autentiche sono le descrizioni
delle opere manuali, dei lavoratori, del loro
corpo, degli strumenti, delle bestie buone o
bizzose. Nessun lavoro, nessun artefice è
umile nei racconti di Spaliviero, perché
lavorare con le braccia, con le mani, con la
schiena, non significa mai umiliarsi né
lasciarsi umiliare, almeno laddove la gente si
sente libera dentro, com'era nelle nostre montagne.
Tanti, quasi tutti, ci appaiono in queste pagine
liberi e superbi: primi, tra loro, i carbonai e i
margari, cavalieri epicheggianti delle terre alte,
separati dalle valli da un manto di nubi e di
nebbie, amici della luna e delle stelle, come il
pastore errante dell'Asia.
E, a
proposito: a Spaliviero su questo punto vorrei
assegnare un primato, un premio simbolico. Sono
suoi i ritratti più veri dei margari, di
quei margari di una volta; io, almeno, finora non
ne ho trovati di più vivi. Dalle sue pagine
li ho visti uscire, brandire il bastone, camminare,
sedersi, parlare, loro, i conoscitori di tre,
quattro linguaggi diversi, i portatori di voci
esotiche, di sapienze esoteriche. Proprio
così erano: un popolo a parte. Alti,
orgogliosi, vinosi, in brache e corpetto di
velluto, pervicaci negli abiti immutabili, uomini
fragranti di vacca e di trinciato nero, duri e
nodosi come vecchi legni. Lo dico perché di
scritti novelleschi sui margari ne ho sfogliati
pochi, ma di margari vivi ne ho visti molti,
glaucopidi: nelle miande o nelle gàwene di
pietre accatastate, dove il vento era padrone e non
lasciava accendere un fiammifero, sotto il
Rocciamelone, o a Brùnnjene e alla z'Indra,
gli alpeggi estremi della valle di Gressoney, alti,
altissimi, vicini alla Via Lattea.
Alberto
Guaraldo
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