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Cristoforo Beggiami

Savigliano

LUIGI BOTTA PER SAVIGLIANO

UN'ASSOCIAZIONE CHE SI OCCUPA DI EDITORIA SIN DALL'ORIGINE

A prima lettura, i testi narrativi di Spaliviero rivelano un impasto variopinto e stratificato, a volte bizzarro, ricco di materiali e di forme ispiratrici e di stili.

Chi volesse cavarsi il gusto di rintracciare ad ogni costo nobili ascendenze letterario-etnografiche, potrebbe riascoltare le molte voci, ormai antiche e spente, che dal popolo raccolse il nostro Nuto Revelli; oppure, se proprio insiste, potrebbe rivedere certe pagine, certe immagini di Fenoglio, nostre anche quelle, e anch'esse, come le vite dei vinti, ormai immuni dalla stoltezza del tempo presente, perché salvate e preservate dall'alta, rude poesia dell'albese ferrigno.

Potrebbe perfino, un curioso tenace, avventurarsi nel confronto con altre amare figurazioni di sconfitti, di beffati dalla storia, di estinti: ritratti di vita vicini nel tempo ma lontani dall'orizzonte regionale, e probabilmente ignoti al narratore della bassa Valsusa. Tale è, fra le tante, la letteratura fantabiografica, quotidianistica, nata nella Germania orientale degli anni '90, dopo la riunificazione ambita. Elegia evocativa di un'incruenta, caotica agonia storica, letteratura dello sconcerto e della delusione: un'erba asprigna, cresciuta sulle rovine dell'identità semisecolare, dei valori respirati nella primavera della vita, di molte illusioni e speranze derise.

Sarebbe però, questo frugare tra le fonti possibili, un esercizio abbastanza peregrino, una sorta di compiacimento accademico. Spaliviero è autore "genuino e istintivo", come s'usava dire con espressione un po' trita: è popolarescamente corale e individualista, insieme, ed è lettore, testimone e narratore nello stesso tempo. La sua è una scrittura che, comunque, crivella, rimodella e crogiola a modo proprio, inconsapevolmente, tutto quanto egli abbia attinto dalle più diverse ispirazioni, e soprattutto dagli strati variegati della memoria di fatti e detti, dall'acervo di testimonianze e ricordi dell'esistenza sua e di quelle altrui. E anche lo stile eteroclito, quel coniugare o giustapporre con qualche stridore il parlato popolare (con radici nell'italiano regionale e nel dialetto) ed espressioni e riflessioni più vicine agli scritti di divulgazione (il linguaggio "giornalese", il "rivistese" …), oppure con forme del neoitaliano oggi parlato, ebbene, anche questo fa parte di una sua tavolozza espressiva personale e autentica, formata e sedimentata nel tempo, come è successo a tanti dialettofoni approdati alla lingua nazionale.

Il popolare, però, e ancor più il popolaresco, possono discendere a volte i gradini scivolosi della nostalgia insistita, artificiosa, o di un certo folklorismo di maniera, a suo modo "decadentista". Non è certo questo il caso di Spaliviero. Nelle parti che preferisco, quelle che celebrano senza enfasi un passato popolare che abbiamo perduto, la sua narrazione è sorretta da robuste impalcature, da solidi riferimenti alla memoria personale, familiare e comunitaria, e questi spingono il testo verso i terreni della storia orale e dell'etnografia.

I racconti di guerra hanno spesso il sentore delle lunghe, frammentarie rievocazioni fatte dai reduci veri, nelle vere osterie, nelle vere cascine. Vero e sofferto è il senso della famiglia, così come lo è il disegno della screziata, inevitabilmente pittoresca umanità delle comunità rurali: c'è gente e gente …

E suggestivamente autentiche sono le descrizioni delle opere manuali, dei lavoratori, del loro corpo, degli strumenti, delle bestie buone o bizzose. Nessun lavoro, nessun artefice è umile nei racconti di Spaliviero, perché lavorare con le braccia, con le mani, con la schiena, non significa mai umiliarsi né lasciarsi umiliare, almeno laddove la gente si sente libera dentro, com'era nelle nostre montagne. Tanti, quasi tutti, ci appaiono in queste pagine liberi e superbi: primi, tra loro, i carbonai e i margari, cavalieri epicheggianti delle terre alte, separati dalle valli da un manto di nubi e di nebbie, amici della luna e delle stelle, come il pastore errante dell'Asia.

E, a proposito: a Spaliviero su questo punto vorrei assegnare un primato, un premio simbolico. Sono suoi i ritratti più veri dei margari, di quei margari di una volta; io, almeno, finora non ne ho trovati di più vivi. Dalle sue pagine li ho visti uscire, brandire il bastone, camminare, sedersi, parlare, loro, i conoscitori di tre, quattro linguaggi diversi, i portatori di voci esotiche, di sapienze esoteriche. Proprio così erano: un popolo a parte. Alti, orgogliosi, vinosi, in brache e corpetto di velluto, pervicaci negli abiti immutabili, uomini fragranti di vacca e di trinciato nero, duri e nodosi come vecchi legni. Lo dico perché di scritti novelleschi sui margari ne ho sfogliati pochi, ma di margari vivi ne ho visti molti, glaucopidi: nelle miande o nelle gàwene di pietre accatastate, dove il vento era padrone e non lasciava accendere un fiammifero, sotto il Rocciamelone, o a Brùnnjene e alla z'Indra, gli alpeggi estremi della valle di Gressoney, alti, altissimi, vicini alla Via Lattea.

Alberto Guaraldo

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