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In
ricordo di Luigi Baccolo
INCANTATO
DALLA SUA CITTÀ
Cade un
mese dalla morte di Luigi Bàccolo. Beppe
Mariano ha qui degnamente commemorato le
grandissime doti dell'uomo di cultura e di lettere.
Con lui lo hanno fatto, su giornali nazionali,
firme prestigiose: ricordando che ormai celebri sue
biografie di Casanova, del Marchese di Sade, di
Restif de la Bretonne; ed insieme la sua opera di
romanziere e di giornalista.
Nulla, a
tutto ciò, io sono in grado di aggiungere.
Bàccolo scriveva in modo delizioso, certo.
Ricordo le sue cose minori, che io amavo molto:
quei suoi articoli che erano gioielli, pensati e
poi sgorgati dalla sua penna senza una parola men
che appropriata, senza un concetto che non fosse di
rilievo, essenziale ai temi che andava
svolgendo.
Non lo
posso ricordare neppure come insegnante, e anche
come tale fu grandissimo: ma dispensò sapere
vivo, principi, e valori, a generazioni più
giovani della mia. E comunque non più a
Savigliano.
Mi
è caro ricordarlo, invece, come amico, e mi
onora il pensiero di aver goduto di tanto
privilegio. A sfondare le porte del suo cuore
furono comunione di sentimenti e di pensieri,
certo. Ma io credo che una ragione abbia su di ogni
altra prevalso: il mio essere saviglianese, come
lui; ed il mio vivere a Savigliano -fortuna che
egli considerava immensa, ed io ... anche- mentre
lui ne era lontano.
Arrivavo
a casa sua, mi facevo strada tra i suoi libri, ed
eccolo rischiararsi, per me come per chiunque gli
portasse aria di Savigliano: «Dimmi, dimmi
della mia città».
Eppoi a
parlare era lui: la vedeva con gli occhi della
giovinezza o, meglio ancora, con gli occhi del
sogno. Ricordava le persone, conosceva i luoghi
meglio di me, li amava più di quanto io
stesso li ami: perché io credo che qui,
nella sua Savigliano ideale, egli trasfigurasse
ricordi della sua vita, e qui continuasse a vivere
i suoi incanti di poeta.
«Dimmi,
dimmi ... quella casa vicino alla chiesetta,
c'è ancora? E quell'androne, quel
portone...».
Vi era
ritornato alcuni anni fa, per pochissimi giorni
troppo veloci. Passo dopo passo aveva seguito tutti
i percorsi della sua memoria, rivisitato tutta la
città vecchia; e mentre avresti creduto che
la realtà, come quasi sempre accade,
cozzasse con il sogno, fino a romperlo o quantomeno
a disgelarlo per tale, no: ne era tornato
più preso che mai, più attaccato che
mai. «Io camminavo, sostavo, riprendevo il
cammino, ed ogni pietra evocava, mi parlava,
diceva...».
Avrei
dovuto ricordare, dell'amico, mille e mille altre
doti: l'intransigente sentire democratico e
sociale, che lo aveva collocato nella cerchia degli
spiriti cuneesi più illustri: Piero Camilla,
Nuto Revelli, gli altri cuneesi insigni della
Resistenza e delle battaglie civili; l'intelligenza
brillante e l'umorismo gentile; la dolcezza
affettuosa, la galanteria affascinante dei signori
di un tempo, e di cui si è persa la
razza.
Tutto
questo era Gino, e molto altro, e molto di
più.
Ma io
-che scrivo a nome, anche, dei molti amici di qui;
che ne ebbero affettuosa frequentazione; che ne
piangono la scomparsa, amico carissimo, amico che
ci manchi così tanto e che mai
dimenticheremo- io ho voluto ricordare, su questo
nostro foglio di Savigliano, il Saviglianese
straordinario che egli era.
Ed amo
pensare -a consolazione mia; e perché so che
ne sarebbe felice- che egli sia tornato finalmente
tra noi. E passeggi, ormai senza limiti di tempo,
per le vecchie sue vie, tra le antiche contrade,
lungo i palazzi sontuosi e le umili, bellissime
case di cui il tempo e la storia ci hanno fatto
dono. Dove ogni pietra continua a parlargli. In
questa città che se lo è ripreso, e
di cui ormai fa parte, oltre la vita.
Giuseppe
Trucco
(«Il
Saviglianese», 14 gennaio 1993)
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