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Dedicata
a Luigi Bàccolo, una testimonianza di dieci
anni fa.
L'INCONTRO
CON IL GENTILUOMO
Rimando
ad altra occasione il mio omaggio al professore ed
amico, per lasciare spazio a questo scritto che
un'altra «allieva» dell'indimenticabile
maestro Luigi Bàccolo «visse»
circa dieci anni fa, dopo un incontro avvenuto in
Cuneo. Poco tempo dopo usciva in libreria la
«Vita del Marchese di Sade»... (Enrico
Sanna)
Sono in
Piazza Galimberti quando vedo l'esile figura del
prof. Bàccolo avanzare con passo inceppato
tra la folla del mercato. È convalescente da
un malanno di stagione ed è uscito a fare
quattro passi per scacciar la noia:
«passeggiare avanti e indietro, come un
animale in gabbia, da una stanza all'altra,
prendere un libro e posarlo di nuovo...»,
dice. Ci affianchiamo e proseguiamo per corso
Nizza, verso un'ipotetica tabaccheria. E tutto
assume sempre una forma ipotetica e improbabile,
vaga e fluttuante, come quel sorriso di chi ha
molto vissuto, in compagnia di Gino Bàccolo,
figura nota tra l'intellighenzia cuneese,
èlite intellettuale di provincia tinta di
nostalgia, così diversa dal compostismo
anche solo di Torino. Bàccolo, personaggio
affascinante con quella sua aria tra il filosofo
antico e il gentiluomo settecentesco, assiduo
frequentatore di Sade, di Casanova, di Restif de la
Bretonne. Questa la triade che subito si affaccia
alla mente di chi conosce le deliziose biografie
delle antiche ombre che questo erudito predilige,
in quella porzione vastissima che è il
Settecento di quel campo sterminato che è la
letteratura. La sua prosa è come i suoi
discorsi: piana, elegante e spoglia, ironica e
cortese. Suoi scritti sono lui, vivo e immediato:
come le sue parole, intessute di cultura vissuta e
assimilata da sempre.
Ricordo
il nostro primo incontro; da tempo lettrice delle
sue opere, studentessa al primo anno di
università, impregnata di letteratura,
grondavo entusiasmo per tutta una folla di
spettatori che per me avevano spessore e
consistenza reale. Mi stavo arrischiando, inoltre,
proprio allora, sul terreno accidentato dello
scrivere, e sentivo urgere in me grandi passioni e
ideali, dei quali spesso non riuscivo a trasporre
sulla carta che il fugace bagliore, creando,
così, prosa, e, rarissimamente, quando
riuscivo a coglierne una favilla, creando «la
mia poesia».
Finalmente
gli accennarono di me, e lui subito volle
conoscermi, suppongo per quella deformazione
professionale degli insegnanti che, sempre e
inspiegabilmente, amano prendersi la briga di
«guidare la gioventù». Mi recai da
lui e seduti nel salotto, alla luce soffusa di
un'abat-jour restammo a parlare per ore. Toccammo
tutti gli argomenti che mi interessavano, e altri
ne trovammo: Bàccolo parlava con quella sua
voce pacata e gentile, l'eterno sorriso che gli
indugiava sul volto, la malizia negli occhi saggi,
dava forma ai miei pensieri e me ne rivelava
talvolta addirittura l'esistenza, qualora essi non
erano, nella mia mente giovanile, che una sostanza
amorfa e incandescente, galassie in formazione. Non
andò in estasi di fronte ai miei primi
incerti abbozzi letterari, come io
irragionevolmente speravo, ma disse quietamente
«Il faut passer par là».
C'incontrammo altre volte: egli disse, durante
quelle conversazioni, cose sagge e vere che io
purtroppo ho in gran parte dimenticato; mi disse di
prendere ogni cosa come un piacere, e di farla solo
se c'è entusiasmo, gioia; e qui citò
un altro dei suoi aforismi prediletti, «Il
faut bien que je m'amuse»...
Adesso,
durante questo breve incontro vengo a sapere delle
sue ultime pubblicazioni. «Ho amoreggiato
letterariamente con la marchesa di
Brinvilliers...»
Come dice
Proust, «La vraie vie ... c'est la
littérature»!
L'atteggiamento
«serio» di fronte all'esistenza,
rettaggio della sua generazione: «Bisogna fare
le cose sul serio, non da dilettanti. Se un giorno
mi accorgessi che faccio le cose solo più da
dilettante, smetterei. Bisogna imporsi un certo
rigore, dei termini... Non ho mai avuto un hobby
tranne, un tempo, la pesca. Poi mi sono detto che
se per divertirmi avevo bisogno di uccidere quelle
bestioline ho smesso.
Camminiamo
lentamente; siamo sul viale del tramonto? Un
pizzico d'orgoglio, legittimo peraltro:
«Quando scriveranno la mia biografia...».
E, sottile, una vena di malinconia, ma classica:
«Il mio epitaffio». L'ha composto in
latino e irride ai medici, me lo ha recitato a
memoria. O solitudine della vecchiaia, il suo
spirito è tutto con i morti -l'ha scritto
lui stesso- e parla di morte per bocca di coloro
che non sono più...!
Il suo
parlare si colora sovente di una autoironia
leggera, garbata e gentile come nello stile del suo
settecento... parliamo delle «Liaisons
dangereuses», opera stupenda che ho letto nel
giro di due mesi e che,
naturalmente,
lui adora, «soprattutto appena l'ho scoperta,
dice, da giovane». Abbiamo dunque la medesima
sensibilità, oppure la gioventù
è una malattia i cui sintomi e i cui
entusiasmi sono universali?
Mi saluta
al semaforo -fosse per me non lo lascerei ancora,
ma lui dev'essere affaticato, e si vede...
«Giusy!», esclama, e mi stringe la mano,
e mi ammonisce: «Si riposi, si distragga (gli
ho parlato dei miei studi), però non come
me, il mio è un riposo forzato; devo
illudermi che sia libero arbitro...» La vera
illusione è quella che nutre su di me, caro
ex professore liceale, cara antica ombra che si
muove a suo agio nell'inferno dantesco dei
filosofi, come dice lui stesso, che lascia agli
altri l'incombenza del reale, essendo vissuto a
lungo -confessa con candore- senza sapere come si
fa un assegno; la sua vita è trascorsa nel
dolce limbo di un mondo ideale, e lei crede che io
le somigli. Ebbene, sotto molti aspetti non ha
torto, ma ahimè, da tempo Baudelaire non mi
fa più rabbrividire, né mi esalto
tanto facilmente dietro al fantasma allegro di
Whitman o al pallido Keats, non posso dire che la
vera vita è l'altra, quella concreta che
pulsa minuto per minuto, poiché da quella mi
sento schiacciare con il polso dei mille dettagli
del quotidiano. Caro prof. Bàccolo, spero
che lei possa ancora a lungo amoreggiare con i
fantasmi dolcissimi del passato, che il suo
«Commiato del mago e
delle
fate» non siano che una finzione letteraria e
che continui a narrarci di questo mondo ideale in
cui noi ci rispecchiamo, e chissà che, tra
un libertino di due secoli fa e un'evocazione
intenerita della sua giovinezza, non sia possibile,
per noi, ritrovare noi stessi e la nostra
via.
Giuseppina
Peirone
(«La
Masca», 16 dicembre 1992)
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