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UN
RICORDO DI LUIGI BACCOLO
Biografo
e saggista ha onorato Savigliano
Forse
è destino d'una provincia di frontiera quale
la nostra aver avuto due Maestri -se
«piccoli» o «grandi» non saprei
dire, «buoni» sì, sicuramente-
formatisi nell'alveo della grande cultura di lingua
francese: Clemente Fusero, mancato a Cherasco una
decina d'anni fa; Luigi Bàccolo, che ha
raggiunto la scorsa settimana la sua amatissima
madre e le altre «Care Ombre», come
soleva dire con pindarica maestria.
Curioso
destino il loro. Che si siano conosciuti e
frequentati non mi risulta, eppure hanno avuto
comuni interessi: entrambi critici letterari,
specialista il primo dell'Ottocento francese, del
Settecento francese il secondo, entrambi biografi
di stile in epoca di sciatterie biografiche,
accomunati sia nella scelta culturale sia
nell'indole di uomini miti, appartati più
che per regioni geografiche per dignità di
salvaguardia spirituale, giacchè hanno
dovuto attraversare dapprima le restrizioni
intellettuali del fascismo e poi la «lunga
penombra» e letteraria e civile dei nostri
anni in cui si è barattato con disinvoltura
e cinismo l'esprit con il «minimalismo»
newyorkese, la conversazione arguta e brillante col
chiacchierume televisivo. Bàccolo, in
particolare, è stato conversatore «de
plume» brillante e raffinato nel senso
francese di intrattenitore su cose letterarie in
un'epoca in cui la letteratura era sostanziata dal
pensiero e felicemente intrecciata alla vita
mondana, poiché -come dice Bénichou-
«con i Lumi nasce una nuova legislazione del
pensiero, senza più veti di sorta e gli
scrittori si autodefiniscono
"philosophes"».
Bàccolo
aveva fatto proprie le convinzioni che uno dei suoi
più cari amici letterari, Paul Leautaud, per
la penna di Boissard rivolse a Diderot: «Mon
cher maitre, quale epoca! La fortuna che avete
avuto di vivere nella vostra! Epoca deliziosa,
chiaramente, la più bella che il mondo abbia
conosciuto e che si conoscerà mai! Il regno
dell'esprit, dell'originalità, della
fantasia!» Bàccolo non mancò di
porlo in incipt del suo «Casanova e i suoi
amici». La sua appassionata adesione al
«regno dell'esprit» si consolidò
verosimilmente nel 1938 al tempo del suo soggiorno
alla Normale di Pisa ai tempi di Luigi Russo,
chiamatovi in seguito alle attenzioni di Croce per
un suo saggio su Pirandello, Bàccolo infatti
definì «mormorio delle passioni
nascenti» quel periodo, come risulterà
dal titolo d'una raccolta di ritratti che
vedrà insieme agli amatissimi Casanova e
Sade anche i contemporanei Cioran, Céline,
Giono (che splendido ritratto, il suo!), libro che
vincerà nel 1982 il Premio
Estense.
Ma era
stato il Prix Casanova ottenuto due anni prima per
il «Vita di Casanova» (già
affermatosi al «Comisso») ad averlo reso
noto in ambito europeo, dieci anni dopo che il suo
eccellente «Sade» era passato invece
quasi inosservato.
Allo
stesso modo ipotizzato per Restif de la Bretonne
(altro suo grande «amico» settecentesco)
in una biografia del 1982, Bàccolo con il
proprio orientamento culturale volle
presumibilmente costituire un universo alternativo,
più immaginato che reale, di galateo
letterario vivificato dall'intelligenza dei
«philosophes» e dei loro discendenti
diretti, tra cui umilmente si annoverava. Non a
caso intitolò «Vivere come sopra una
montagna» un suo romanzo del 1965 volutamente
«inattuale», o, se volete, in anticipo
sui tempi.
Ma fu
anche un uomo straordinariamente legato agli
affetti della «sua» Savigliano, che gli
ispirò nel 1980 un romanzo ben più
felice del precedente, «Amore a quattro
voci», nel quale con poetica leggiadria e
garbata arguzia sa far vivere una Savigliano
d'epoca, omaggio ad una donna tanto amata ( e tanto
amabile, a quanto pare) della sua prima giovinezza,
dissimulando se stesso nell'anagramma di
Còlcabo, uno dei protagonisti della storia.
«E così addio, diletti Fantasmi! E
arrivederci a suo tempo ove Dio, eventualmente,
intendesse risparmiarci l'onta del Nulla»,
scriverà successivamente Còlcabo ne
«Il commiato del mago e delle fate», che
è stato quasi per una sorta di premonizione
il commiato dello scrittore da una sua epoca
ideale, in cui la sanità dello spirito
può salvare dall'infermità della
storia, già prefigurando il distacco
definitivo della amata Savigliano e della vita
stessa.
Ora che
il tempo è venuto, mi sembra doveroso
proporre che chi ha tanto onorato, e non soltanto
in Italia, il nome di Savigliano venga a sua volta
onorato nel famedio cittadino.
Beppe
Mariano
(«Il
Saviglianese», 17 novembre 1992)
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