UMBERTO MARIA MILIZIA
 
STRUTTURA
DI UNA
LEGGENDA
LA VITA DI SAN FRANCESCO DIPINTA DA GIOTTO AD ASSISI.

 

Copyright by UMBERTO MARIA MILIZIA e ARTECOM

giotto
GIOTTO
Credette Cimabue nella pittura
Tener lo campo, e or ha Giotto il grido.
(Purg. XI, 94 - 95)
Ritratto di Giotto da G. VASARI, Vite dei più eccellenti pittori, scultori, e architetti, Firenze 1568.

PREMESSA ALLA SECONDA EDIZIONE

Visto il successo tra gli studiosi di questo libricino l'autore ha creduto opportuno procedere ad una seconda edizione per venire incontro alle richieste dei molti che non riuscivano più a trovare copie disponibili della prima.
In questa sono stati introdotte alcune piccole ma significative correzioni, un breve capitolo sulle ultime proposte di attribuzio-ne degli affreschi di Assisi ed una appendice sui rapporti tra l'arte di Dante e quella di Giotto che riteniamo utile a chiarire meglio tutto l'argomento.



ELENCO DELLE FONTI LETTERARIE.
sulla vita di san Francesco d'Assisi citate nel testo, loro data-zione approssimativa ed abbreviazione usata:

1) Lettera Enciclica di frate Elia a tutte le provincie dell'ordine, sulla morte di San Francesco, inviata subito dopo la morte del santo il 3 ottobre 1226 = LEE;.
2) Vita Prima di Tommaso da Celano, 1228/29 = 1c;.
3) Vita Seconda di Tommaso da Celano, 1246/47 = 2c;.
4) Trattato dei Miracoli di san Francesco di Tommaso da Celano, 1252/53 = 3c;.
6) Leggenda Maggiore di san Bonaventura da Bagnoregio, 1263 = LM;.
7) Leggenda dell'anonimo perugino, tra il 1266 e il 1279 = AP;.
8) Leggenda dei tre compagni, posteriore alla Leggenda dell'Anonimo Perugino = 3Cp;.
9) Leggenda Perugina, fine XIII inizio XIV secolo = LP;.
10) Specchio di perfezione dello stato di frate minore, circa 1318 = SP;.
11) I fioretti di san Francesco, composti probabilmente da Ugolino da Montegiorgio, circa 1327/1340 = Fior;.
12) Delle sacre istimate di santo Francesco e delle loro consi-derazioni, in appendice ai Fioretti = Cons.


PARTE PRIMA
PREMESSE METODOLOGICHE
PROPOSTE DI LETTURA DEL CICLO DI ASSISI

Ad Assisi noi abbiamo dinanzi una fascia di affreschi tra loro collegati da un filo conduttore, anzi, cuciti come in una stoffa: ed il disegno del tessuto è stato fatto prima di ordire la trama e prima della tessitura. Basta dare loro un titolo ed incolonnarli per avere quasi un indice della storia che raccontiamo; data l'ipotesi che l'intera opera sia stata concepita unitariamente dai frati e dai pittori prima della sua realizzazione pratica, la lettura dei singoli affreschi deve essere effettuata a partire dal primo, secondo l'ordine logico che hanno voluto dare loro gli ideatori.
La stessa architettura dipinta entro la quale sono contenuti gli affreschi li unifica tra loro (oltre ad integrarli all'architettutra reale della Basilica) e conferma l'esistenza di un progetto unico, originario ed antecedente. Iniziare ad esaminarli secondo l'ordine cronologico di esecuzione vorrebbe dire snaturare le intenzioni di chi li ha realizzati: narrare una storia precisa. Si deve tenere presente che chi, per caso, non abbia alcuna specifica conoscenza dell'Arte del Trecento inizierà comunque a guardarli secondo la loro disposizione sulle pareti della Chiesa e il significato storico originario sarà sempre conservato. Comin-ciare dal più antico è utile allo studio dello sviluppo della pittura giottesca, dell'Arte del Trecento, della personalità di Giotto, non della storia del Francescanesimo o della Basilica di Assisi.
Questi affreschi non sono disposti in relazione all'entrata della Basilica e si snodano rigorosamente da sinistra a destra con continuità, passando anche per la parete di ingresso. Il pellegrino o il visitatore, perciò, entrava (ed entra ancora oggi) e poi cercava o si faceva indicare l'inizio del ciclo che percorreva sia col pensiero che fisicamente venendo così istruito sull'Ordine ed il Francescanesimo, mentre gli veniva narrata la storia della vita del suo fondatatore. È evidente come non si sia cercato in alcun modo di sfruttare il fatto che, comunque, per arrivare al primo degli affreschi si dovesse attraversare tutta la Basilica; ordine e razionalità investivano necessariamente non solo gli ideatori ed i realizzatori, ma anche i fruitori degli affreschi. Questo "ordine" è il più semplice immaginabile: quello della scrittura, lineare da sinistra a destra.
Per capire quanto si vorrebbe dire è bene considerare prima chi siano l'autore del ciclo di San Francesco ed il suo committente: infatti gli affreschi sono stati studiati sinora soprattutto allo scopo di individuare quali parti fossero state fatte dal "maestro", cioè Giotto stesso, e quali dai suoi aiuti; ma se si considera l'organizzazione del lavoro in quest'epoca, per cui il magister era l'esponente di punta, se così si può dire, di tutta una associazione corporativa, forse si dovrebbe dire che l'autore di questo ciclo di affreschi non fu Giotto con alcuni aiuti, ma un gruppo di pittori, il cui maggiore rappresentante era un certo Giotto.
Si pensi solamente a come dovevano essere realizzati gli affreschi: alcuni preparavano i colori, altri li stendevano ed altri davano gli ultimi strati di intonaco ad arriccio, mentre magari si innalzava rapidamente un palco per permettere al magister o a qualcuno degli aiuti più esperti di dare col pennello il colore su di un tratto di muro già preparato.. e così via, con un lavoro certamente più del gruppo che del singolo. Tutto ciò naturalmen-te veniva accuratamente studiato e pianificato con largo anticipo: la struttura dell'immagine ad esempio doveva permettere una facile giunzione delle aree colorate, senza che poi ciò si vedesse, facendole corrispondere pienamente, nella distribuzione e nelle parti, a quanto dovesse essere espresso.
Che la realizzazione di un grande affresco murale sia opera collettiva e non di un singolo, almeno materialmente, è ovvio, ma , proprio per tale ragione, si può lecitamnete affermare che il maestro (nel nostro caso Giotto) può aver lasciato fare ai suoi aiuti in maggiore o minore misura e che per noi non sia essen-ziale distinguere esattamente quali linee siano state tracciate dall'uno o dall'altro. In altre parole questi affreschi non sono tante opere separate l'una dall'altra ma una unica "opera d'arte" fatta da Giotto e collaboratori (non semplici aiuti manuali) che non perde o acquista maggiore o minore valore in una parte o nell'altra secondo chi l'abbia fatta. In effetti forse sarebbe solo un problema terminologico dire che Giotto lavorava con degli aiuti o dire che egli era il capo di un gruppo di pittori, accen-tuando così il carattere comunitario della "bottega" se il committente fosse stato una sola persona, ma in questo caso si tratta, invece, di una intera comunità, quella dei frati Francescani e non solo di Assisi, ma di tutto l'Ordine, dato che non si può certo affermare che il Ministro Generale che trattò con Giotto fosse "un Ministro Generale con alcuni frati per aiuto".
Propongo in poche parole di vedere questo ciclo di affreschi nato dall'incontro di due volontà comunitarie, da una parte quella dei frati e dall'altra quella dei pittori, per verificare se partendo da una simile posizione, certo non lontana dal vero, non si possa così spiegare meglio il ciclo stesso. Egualmente si ipotizza che tutto questo ciclo di affreschi sia stato "progettato" prima della sua realizzazione materiale e che, anche per ciò, non ha (o ne ha molto meno) importanza il sapere se un affresco sia stato eseguito temporalmente prima di un altro.
Un fatto del genere può essere avvenuto per cause di altra natura anche occasionali, quali ad esempio lavori in alcune parti della Basilica, che abbiano consigliato i pittori a cominciare da un punto piuttosto che da un'altro la propria opera oppure che questi lavori siano stati iniziati ed interrotti successivamente più volte secondo le disponibilità finanziarie dei frati (afflusso di offerte, ecc.) che allora non potevano tenere denaro: oggi si direbbe lavori in economia. La lunga cornice dipinta in prospet-tiva che unisce tutto il ciclo acquista così maggior valore alla luce di quanto ora detto e rafforza queste ipotesi.
Date queste premesse rimane il problema più interessante: trovare chi abbia ideato questo ciclo così come fu eseguito. È proprio per rispondere a questa domanda che conviene esamina-re uno ad uno tutti gli affreschi cercando di individuarne i contenuti evidenti e nascosti ed eventualmente compararli alle fonti letterarie. Per conoscere il pensiero di questo ideatore e la sua ispirazione e per poter arrivare a comprenderli appieno è anche utile lo studio della loro struttura, come si farebbe con l'analisi logica di un periodo. Conoscendo le idee che l'autore doveva esprimere in questi dipinti si può arrivare a trovare chi avesse sentito il bisogno di farlo e non si può negare che la maniera di esprimersi (la forma e la sua struttura) non sia strettamente legata a ciò che si deve comunicare.
Pur non potendosi dare una risposta certa, è interessante notare questa combinazione: da un lato l'ideazione dei soggetti è probabilmente da cercare tra i francescani che sono, comunque, una comunità anche quando parlano per bocca di un solo Ministro Generale; dall'altro l'ideazione della forma delle pitture e della loro struttura è probabilmente dovuta a Giotto ed ai suoi collaboratori che costituiscono un'altra comunità o, almeno, un "gruppo", come oggi si dice. Tutto ciò viene dimostrato ampiamente proprio da quei critici che si sono sforzati di accertare che Giotto, in alcuni periodi, non era ad Assisi mentre i suoi collaboratori proseguivano il lavoro e, conseguentemente, hanno dimostrato proprio come la sua presenza non fosse essenziale a tal fine (ovviamente la presenza del maestro, è bene sottolinearlo, fu comunque determinante per la qualità finale). Dall'incrocio di queste due volontà quella dei frati e quella dei pittori, nacque forse il ciclo di Assisi.
Il susseguirsi degli affreschi ha quindi una disposizione ed una struttura precise che dipendono da ciò che doveva essere narrato e questo, appunto, dipese dalla volontà di rappresentare ciò che fu il Francescanesimo sin dalla sua origine. Come prima conseguenza ne viene che non si può fare a meno di confrontare i racconti che sono in questi affreschi con quelli scritti, prece-denti o coevi, e di considerarli alla pari, come fonte delle narrazioni letterarie.
È proprio da quì che bisogna partire: confrontare ciò che gli affreschi dicono con le altre fonti, specie, ovviamente, quelle dei biografi. Si deve leggere Giotto (o chi si sottende a questo nome) come un libro ed imparando a distinguere i periodi, le frasi, le parole della sua pittura. La maggior parte degli storici dell'Arte, invece, ha sempre dato per scontata, nei propri riguardi, la conoscenza della vita del Santo.
Non importa, almeno in un primo momento, sapere quali pezzi di un certo affresco siano stati fatti da Giotto e quali dai suoi aiuti, anche se è possibile che il ripetersi di un certo modo di periodare o anche, se si vuole, di una certa grafia, aiuti ad identificare il maestro dagli altri. Bisogna piuttosto puntualizza-re e verificare i rapporti tra questi ed il mondo francescano dato che spesso, molto spesso, si trascura la carica spirituale che ne veniva al Pittore e si parla dei frati di Assisi come di un committente qualsiasi. Troppo frequentemente viene sottolineato il carattere "borghese" della pittura di Giotto eliminando totalmente la sua problematica religiosa. Il significato di questi affreschi va ulteriormente determinato da questo punto di vista, per poter essere compreso appieno anche se, contravvenendo apparentemente a quanto è stato appena detto, per un'indagine in tal senso è utile conoscere ed imparare a conoscere, tramite l'opera, l'artista.
Del resto le parole prima espresse non vanno certamente intese in senso assoluto ma relativamente alla considerazione della collettività o meglio, della collegialità nella genesi degli affreschi di Assisi che, come frutto di un lavoro corporativo, rientrano nel Medioevo più di quanto gli sforzi successivi fatti per esaltare la personalità di Giotto possano far supporre. Giotto è stato considerato il primo artista della nuova arte ma fu anche l'ultimo della vecchia, e non si parla solo dell'evoluzione dello stile ma anche del valore e del sentimento della religione, o non si spiegherebbero i ritorni e le involuzioni ancora così frequenti nel secolo seguente.
Questo breve studio vuole essere al massimo un piccolo contributo non tanto, o meglio, non solo alla questione giottesca, quanto a quella più generale riguardante l'intero quadro della civiltà del Trecento e del Francescanesimo in particolare che era allora uno dei cardini principali del pensiero e della spiritualità europei: il linguaggio adottato non sempre sarà perciò stretta-mente scientifico dal punto di vista della Critica d'Arte, ma ciò è voluto per favorire la comprensione generale del discorso; del resto, se si volesse celiare, si potrebbe notare come nulla sia più fumoso ed indefinibile (e anche meno capace di definire) del linguaggio degli Storici dell'Arte. Inoltre, poiché non è pensabi-le che Giotto e i suoi collaboratori abbiano dipinto sempre nella stessa maniera, senza mai cambiare, è anche verosimile che dallo studio della struttura delle immagini, lette correttamente, si possa arrivare a tracciare una linea evolutiva del modo di comporre di questi pittori. Chi vuole potrà poi precisare meglio l'ordine cronologico in cui furono composti gli affreschi di Assisi, nonché le altre opere attribuite a Giotto; anche se questo può non interessare in un primo momento per la lettura, si tratta comunque di un problema importantissimo per tutta la Storia dell'Arte Italiana.
È facile trarsi in inganno e considerare tutti gli uomini del nostro passato come precursori di un futuro che non potevano conoscere e, nel caso specifico, dire che Giotto fu il pittore di quella borghesia fiorentina che nei secoli seguenti diede origine non solo alla nuova concezione artistica ma anche, e soprattutto, a quella economica del mondo attuale. Anche se vogliamo considerare Giotto esclusivamente dal punto di vista dell'essere "precursore", non possiamo non tenere presenti tutta quella serie di artisti che consideravano troppo avanzate le ricerche del pittore fiorentino e soprattutto poco adatte ad esprimere una religiosità più interiore. Fatto sta che quello che noi diamo per scontato nella pittura giottesca considerandola assunta nei suoi valori da tutti i pittori seguenti, non lo fu affatto ai suoi tempi. Nel corso del XIV secolo, durante e dopo la peste nera a Firenze, non ci fu tanto un ritorno all'antico quanto semplicemente una prevalenza della cultura di determinate classi, più vicina al popolo rispetto a quella della borghesia.
Di fatto, quando Giotto realizzò il ciclo con la Vita di Cristo a Padova la sua concezione spaziale era talmente lontana da quella dei pittori della generazione precedente da giustificare piena-mente i giudizi dei contemporanei che ce lo presentano come colui che superò di gran lunga tutti i suoi predecessori. Questi giudizi non insistono solo sull'innovazione tecnica e compositi-va introdotta da Giotto ma soprattutto sulla qualità delle sue opere, è questa che viene presa in considerazione per dare una valutazione sull'artista.
Tutto il fermento letterario, musicale, artistico che caratteriz-za l'Italia a cavallo tra il Duecento ed il Trecento deve essere visto in funzione di una ricerca volta anzitutto a migliorare continuamente la qualità artistica. La fortuna della nuova maniera fu dovuta in buona parte a questa elevatissima qualità così come avvenne per Dante. Probabilmente i cambiamenti sarebbero stati accettati con molta maggiore cautela se i livelli artistici fossero stati inferiori. Con tutto ciò, teniamo conto del fatto che periodizzare è necessario non solo ai fini didattici, ma anche, e soprattutto, per chiarire a noi stessi ciò che portiamo della cultura dei secoli passati ed in che misura: certamente possiamo affermare che Giotto fu precursore dell'umanesimo, o meglio, che da lui ha inizio un nuovo periodo nella cultura figurativa italiana che porterà all'umanesimo.
Egli è stato uno dei maggiori artisti nella Storia dell'Arte Italiana, ben distinguibile dagli altri maestri. Il suo contributo alla creazione di un nuovo linguaggio figurativo è stato determi-nante, trattandosi, come si è giustamente rilevato, di una personalità potente, in grado di riassumere in sé le esperienze delle generazioni passate e di tradurle in un nuovo modo di vedere. Forse è vero che sotto molti aspetti fu un'evoluzione naturale della pittura, ma è da dubitare che senza il suo contribu-to questa avrebbe potuto avvenire con tanta rapidità.
L'affermazione che per una lettura del ciclo di Assisi possa essere poco importante determinare quali parti siano del maestro e quali no è perciò relativa alla comprensione ed all'interpretazione del ciclo nel suo complesso, mentre, riguardo la visione generale dello sviluppo dell'Arte Italiana si tratta evidentemente del contrario, sia per lo studio delle possibilità della comunicazione visiva, sia per una valutazione più stretta-mente estetica. Tra l'altro, considerando quest'ultimo punto, in qualunque maniera si studino questi affreschi, certamente quelli nei quali Giotto interviene più direttamente sono sempre superiori e, sia lecito dirlo, più belli e piacevoli a guardarsi.
Mi si consentirà infine di chiamare, tradizionalmente l'autore o gli autori di questi affreschi sempre col nome di Giotto perché il fatto che si tratti di opere nate da un lavoro collettivo non pregiudica quello che una personalità particolarmente dotata sia stata da sprone e da guida agli altri, e questa non può essere ovviamente che quella di Giotto, magister (o manager?), anche gerarchicamente, del suo gruppo di lavoro, e sappiamo bene quanto fossero attenti alle gerarchie nel Medioevo!



DISPOSIZIONE DEGLI AFFRESCHI

Prima di cominciare a esaminare secondo quali criteri siano stati disposti gli affreschi sono necessarie un paio di brevi considerazioni: la prima è che la scelta, ovvia apparentemente, di mettere i vari episodi della vita nella stessa sequenza in cui avvennero deve essere controllata verificando se la loro disposi-zione corrisponda realmente a questa ipotesi: ogni decisione in proposito dipese strettamente anche dalle vicende interne dell'Ordine Francescano e può essere stata tale da consigliare un criterio diverso da quello cronologico; la seconda considerazione è che in questi anni ogni opera di grossa mole fu composta in modo che il soggetto, l'ordine, il numero delle varie parti avessero uno o più significati in sé oltre a quelli espressi esplicitamente dal contenuto loro e dell'opera tutta.
La cultura di quell'epoca non è certamente definibile come storicistica e nessun dotto di allora, a partire da Dante, si preoccupa di seguire criteri strettamente cronologici. Il tempo è nel tardo Medioevo un dato di per sé evidente, senza alcuna particolare importanza propria se non strettamente pratica o troppo teorica. Ogni grande opera letteraria, ad esempio la Divina Commedia stessa, è ordinata con criteri simbolici e numerici che fanno parte dell'opera in sé, alla pari del contenuto espresso nella narrazione.
Ne consegue che un grande ciclo pittorico quale quello di Giotto ad Assisi non dovrebbe essere stato ordinato non tanto secondo un criterio solamente cronologico quanto in base a considerazioni di carattere retorico e teologico di vario tipo. Sono queste che hanno determinato il numero degli affreschi, la loro suddivisione ed il valore simbolico da attribuire sia a tutto il complesso sia alle sue parti. Infine, che nel ciclo non si segua un criterio cronologico può essere facilmente dimostrato facendo ricorso all'analoga dichiarazione di San Bonaventura all'inizio della sua Legenda Maior, la principale fonte letteraria di Giotto.
Alla luce di ciò sembra opportuno cercare di vedere anzitutto se l'intero ciclo di affreschi possa o meno essere suddiviso in gruppi o parti regolari secondo qualche ragionamento particola-re. La prima osservazione che viene spontaneo fare è che, essendovi in tutto ventotto affreschi, sia possibile dividerli in quattro gruppi di sette o in sette gruppi di quattro; entrambi i numeri sono carichi di molti significati simbolici e allegorici.
Poiché nessuna di queste ipotesi ha potuto essere verificata in alcun modo, una terza è stata adottata e successivamente controllata. Il ciclo di Assisi sembra essere suddiviso in tre gruppi distinti: il primo e l'ultimo di sette quadri ciascuno, il mediano di sette coppie, quattordici in tutto. In tale maniera anche il gruppo centrale risulta formato dal numero sette: tre gruppi di sette sono una combinazione che per il fatto che il tre indichi normalmente il perfetto (come la Santissima Trinità) ed il sette un'opera totalmente compiuta (dai biblici sette giorni della creazione) può essere stata adottata a suo tempo forse senza neppure pensarci troppo; sono numeri sempre ricorrenti nei testi dell'epoca per la suddivisione degli argomenti. Che il gruppo centrale sia formato da coppie di affreschi dipende probabilmente dal fatto che quel periodo della vita del Santo era considerato il più importante: quello in cui egli agisce insieme "con" e "per" l'Ordine, ormai realtà compiuta, logico quindi che ad esso si sia voluto riservare lo spazio maggiore.
I primi sette episodi rappresentano l'iter della conversione di San Francesco sino all'approvazione della regola. Gli ultimi sette sono le esequie e la canonizzazione del Santo, compresi i miracoli post mortem ritenuti necessari a questa. Il gruppo centrale, considerato evidentemente il principale, mostra tutto lo sviluppo dell'Ordine con San Francesco, sino alla sua morte. Si tenga presente che per riunire questi quattrordici affreschi in sette coppie non è stato facile trovarne sempre le connessioni, perché le sette paia di affreschi centrali sono ordinate senza un criterio cronologico, per argomenti. Invece è stato abbastanza intuitivo vedere come i primi sette e gli ultimi sette costituiscano due gruppi a sé.
Nel primo gruppo San Francesco è senza l'Ordine, nel secon-do è insieme all'Ordine, nel terzo è l'Ordine che prosegue l'opera di San Francesco. I protagonisti sono prima uno (San Francesco), poi due (il Santo e il suo Ordine) e infine ancora uno (il solo Ordine Francescano): quando i protagonisti sono due i riquadri sono raddoppiati.
Una così precisa disposizione è anche nella Divina Comme-dia, che mi piace citare perché è in volgare, per poter essere letta da tutti, come da tutti dovevamo essere visti gli affreschi di Giotto. Che dalla Divina Commedia di Dante e dalla pittura di Giotto siano nate rispettivamente una Lingua Italiana letteraria ed una pittorica è una questione che quì non è il caso di affronta-re; si deve solo tenere conto che per tutto il Medioevo e per vari secoli ancora le immagini nelle Chiese furono la principale forma di istruzione del popolo.

Esaminando lo schema ora proposto analiticamente il significato degli affreschi è il seguente:.
- nel primo episodio è indicata la profezia della futura voca-zione nel gesto profetico dell'uomo semplice;.
- nel secondo si ha la conversione interiore, la scelta, attraverso il dono del mantello, di una nuova strada;.
- nel terzo San Francesco viene indirizzato ad una strada di perfezione maggiore con la promessa del sogno del palazzo;.
- nel quarto l'invito a riparare la Chiesa diviene esplicito per bocca di Cristo stesso a San Damiano;.
- nel quinto, con la rinuncia ai beni paterni, San Francesco compie il primo atto concreto della sua nuova vita ed assieme viene già accolto dal Vescovo di Assisi tra i chierici;.
- nel sesto la Volontà divina si manifesta al Papa stesso nel celebre sogno della Basilica Lateranense crollante ed attua così il proprio disegno;.
- nel settimo la conferma della prima regola dell'Ordine chiude e conclude questa prima parte del ciclo di Assisi.
Tutto è teso a mostrare come la nascita dell'Ordine Francescano rientrasse in un preciso piano di Dio per restaurare la Chiesa che parte dalla scelta dell'uomo, San Francesco, e lo porta sino alla fondazione di una prima comunità, attraverso un iter di conversione precisamente indicato dai vari episodi.

Più difficile è ritrovare il perché delle scelte relative ai quat-tordici affreschi che seguono, questi, a coppie, hanno temi comuni:.
- l'ottavo ed il nono episodio sono due chiare profezie della futura gloria di San Francesco che viene collocato alla pari dei grandi profeti (Isaia) e degli angeli (è per lui il trono di Lucife-ro), esse sono collocate all'inizio della sua attività come fondatore dell'Ordine Francescano;.
- il decimo e l'unicesimo testimoniano della potenza della Parola del Santo, anche per interposta persona come quando scaccia i demoni da Arezzo e perfino quando apparentemente non ha successo come nella predica al Sultano;.
- il dodicesimo ed il tredicesimo mostrano quanto San Fran-cesco fosse vicino a Cristo e quanto, tramite Lui e seguendo il suo esempio, si possa avanzare per questa strada; il secondo episodio di questa coppia in particolare, il Presepe di Greccio, ha una notevole importanza per lo studio delle tradizioni popolari mentre il primo, che mostra San Francesco in estasi, è più vicino al modo di vedere la santità nel medioevo;.
- negli episodi quattordicesimo e quindicesimo che sono al centro del ciclo, disposti materialmente ai lati del portale della Basilica, San Francesco esplica la sua azione sulla natura (fa sgorgare una fonte, predica agli uccelli) anche se si deve tener conto dei significati allegorici di questi gesti;.
- nel sedicesimo e nel diciassettesimo ciò che viene messo in risalto è lo spirito profetico (in senso proprio) di San Francesco per la cui bocca parla lo Spirito Santo, sia quando predice la morte al Cavaliere di Celano, sia quando predica dinanzi al Papa;.
- nel diciottesimo e nel diciannovesimo viene sottolineato come il Santo di Assisi, al termine del suo cammino di imitazio-ne di Cristo, gli rassomigli in tutto (ha il dono dell'ubiquità e può essere ad Assisi e ad Arles contemporaneamente) sino ad avere le Sacre Stimmate; questi episodi sono perciò collocati prima della sua morte corporale, essendo San Francesco ormai giunto al culmine della perfezione in Terra, a prescindere dal fatto che siano avvenuti prima o meno di altri fatti raccontati;.
- nel ventesimo e nel ventunesimo episodio viene narrata la morte corporale di San Francesco, attestando, contemporanea-mente, la sua immediata ascesa al Cielo; nel ventunesimo riquadro le scene rappresentate sono due, contemporanee tra loro, ma l'episodio narrato è uno solo: la morte del Santo. Evidentemente non si poteva fare a meno di narrarli entrambi (furono determinanti al momento della canonizzazione) ma non si poteva nemmeno rompere la simmetria stabilita, secondo la quale non c'era altro posto succesivamente.

Gli ultimi sette affreschi furono destinati ad illustrare episodi successivi alla morte del Santo per testimoniare della continuità della sua opera anche dopo la sua scomparsa:.
- il ventiduesimo, il primo di questi, riguarda l'attestazione delle Sacre Stimmate;.
- il ventitreesimo rappresenta il funerale del Santo;.
- il ventiquattresimo illustra la sua solenne canonizzazione; episodio necessario, come i due precedenti, a dimostrare che San Francesco era realmente stato il maggiore tra i Santi;.
- il venticinquesimo è connesso ai precedenti e ribadisce, mediante un sogno profetico del Papa, la veridicità delle Sacre Stimmate, il più grande ma anche il più difficile ad accettarsi dei miracoli riguardanti San Francesco;.
- gli ultimi tre episodi riguardano altrettanti miracoli avvenuti invocando il Santo d'Assisi ed ottenendo la sua intercessione presso Dio, essi attestano la sua potenza anche dopo la morte.

Si deve tenere presente, tuttavia, che una lettura di questi episodi uno per uno o, se il caso, a coppie, è molto più ricca di significati di quanto possa apparire in un primo momento ad uno sguardo d'assieme, ed è a questa che si rimanda per una migliore comprensione di tutto il ciclo d'Assisi. Questi affreschi non sono disposti in relazione all'entrata della Basilica e si snodano rigorosamente da sinistra a destra con continuità passando anche per la parete d'ingresso; il pellegrino o il visitatore, perciò entrava (ed ancora oggi entra, volendo) e poi si metteva a percorrere, col pensiero ma anche fisicamente, tutto il ciclo, venendo così istruito sull'Ordine ed il Francescanesimo mentre gli veniva narrata la storia di San Francesco. Evidentemente non si cercò di sfruttare in alcun modo il fatto che, comunque, per arrivare al primo degli affreschi si doveva percorrere tutta la Basilica: si riteneva che ordine e razionalità così investissero necessariamente non solo gli ideatori e i realizzatori, ma anche i fruitori degli affreschi.



STRUTTURA DELL'IMMAGINE IN GIOTTO

Dopo l'analisi della struttura d'assieme di tutto il ciclo il passaggio successivo è, logicamente, compiere la stessa operazione per i singoli affreschi. Ripetere che Giotto compì vari tentativi per costruire prospetticamente lo spazio non è il caso, Giotto non aveva ancora iniziato una ricerca prospettica perché non aveva il concetto di una prospettiva come metodo di rappresentazione matematica dello spazio, ma certamente mostra di voler chiarire a se stesso un nuovo modo di concepire lo spazio stesso; ciò diede inizio ad un processo di continuo affinamento nell'ideare nuove strutture nelle quali componeva l'immagine. Un processo di questo tipo è qualcosa di più e di diverso che lasciare cho lo spazio sia determinato automatica-mente dalla posizione dei personaggi e degli oggetti: in queste strutture rientrano infatti elementi non visibili, anzi, non disegnati (le linee che l'occhio stesso segna seguendo la direzione degli sguardi, l'inclinazione delle figure, le teste di una folla) che raccordano tra loro cose e persone; per essere precisi tutti gli oggetti del quadro ne fanno parte, assieme a queste linee non disegnate ed a quelle ben visibili tracciate dalle architetture e dai paesaggi. La struttura non è segnata prima delle cose ma si forma assieme ad esse, che a loro volta ne partecipano.
Più tardi la struttura dell'immagine sarà resa indipendente, si chiamerà prospettiva e preesisterà alle cose che verranno collocate al suo interno ed anche se, evidentemente, saranno comunque necessari degli elementi particolari ad indicarla, sarà sempre, concettualmente, preesistente; ancora in Giotto, invece, le cose, la loro collocazione nello spazio e la loro struttura non si possono distinguere; tuttavia la destinazione dello spazio non è casuale o intuitiva (prospetticamente) ma ragionata, anzi, strutturata. Per inciso, si scusino ora e in seguito, le ripetizione terminologiche, necessarie alla maggiore chiarezza concettuale possibile; quando un termine viene usato nel suo senso proprio ed esatto difficilmente può essere sostituito da un altro.
Quegli elementi che nella pittura precedente erano funzionali al racconto (la direzione degli sguardi, le parti semplificate delle architetture, qualche gesto) ora sono coordinati coscientemente in un unicum razionale e, quindi, spaziale e temporale; l'immagine è inquadrata e si può ben comprendere che il passaggio alla creazione di un reticolo prospettico potrebbe anche essere breve; si può notare, infatti, un continuo processo di affinamento a partire dagli affreschi più antichi per terminare ai più recenti. Questo discorso è valido, però, solamente per quegli affreschi in cui sia stato determinante l'apporto diretto di Giotto; dove si procedè senza di lui la capacità di determinare lo spazio viene meno e gli ultimi tre affreschi, totalmente estranei al maestro, sono anche senza una precisa cognizione del tempo che viene tendenzialmente proiettato nell'atemporalità della favola popolare.
Deve anche essere messo adeguatamente in rilievo che spesse volte Giotto si serve di quelle linee, non tracciate ma seguite dall'occhio dello spettatore nell'esaminare il riquadro, per caricare di significati, di indicazioni e talvolta anche di Pathos la propria pittura; ciò è sfuggito all'attenzione di molti che hanno indagato soprattutto le espressioni dei volti, spesso senza trovarvi adeguatamente espressi i sentimenti dei personaggi, ma senza accorgersi neppure che Giotto badava ad esprimere il sentimento individuale sempre nell'ambito di una realtà generale e collettiva, inserendo perciò anche gli sguardi, che dell'espressione di un viso costituiscono la nota fondamentale, nella struttura generale. In linea di massima si può notare che la delineazione degli interni è la più precisa e, in un certo senso, la più solida; mano a mano che lo scenario si allarga Giotto evita sempre più di indicare particolari lontani e delinea i paesaggi con pochi elementi a ciò deputati, anche se non si può assoluta-mente affermare che siano simbolici; quasi sempre c'è anche il tentativo di costruire uno spazio più limitato all'interno della scena in cui collocare uno o più personaggi e tornare, così, entro limiti più controllabili. Negli affreschi in cui la presenza del grande maestro è minore le sue indicazioni non sono certamente capite dai collaboratori che spesso mettono i personaggi anche fuori dei limiti loro assegnati o riempiono troppo o troppo poco le varie zone spaziali del dipinto. Si pensi ad esempio alla coerenza (spaziale, appunto) dello scomparto con la conferma della regola ed all'unità cui sono ricondotti i due gruppi di personaggi, coerenza che troviamo anche nelle simmetrie del "Dono del Mantello", della "Rinuncia ai Beni Paterni", della "Predica agli Uccelli" e nella "predica dinanzi a Onorio III"; in tutti questi casi anche se lo spazio non è del tutto concepito in maniera unitaria la struttura lo è sempre. Altrove la tendenza a dare una propria zona spaziale a ciascun elemento del racconto è più accentuata, come nella "Morte del Cavaliere di Celano", nel "Miracolo della Fonte", nel "Miracolo delle Stimmate", nella "Visione dei Troni di Gloria" ed in quella del "Carro di Fuoco", tutti casi in cui l'uso di elementi architettonici serve a distingue-re spazi privilegiati, pur senza definire una qualsiasi architettura in senso proprio.
Per contro è facile accorgersi che quando la partecipazione del maestro è più rada i suoi collaboratori tendono a riempire i riquadri con troppe figure, come nella "Morte del Santo", nel "Presepe gi Greccio", nella "Canonizzazione" o nel "Pianto delle Clarisse", oppure inseriscono male i personaggi nel particolare spazio loro riservato e spesso quasi a forza come nella "Visione di Frate Agostino", cosa particolarmente evidente negli ultimi tre affreschi nei quali, per altro, certamente è da escludere qualsiasi apporto di Giotto. Anche in questo caso per la verifica e lo studio di quanto si è ora affermato si rimanda all'esame dei singoli episodi del ciclo.



LA NUOVA ARTE FRANCESCANA

È una caratteristica dell'arte medioevale l'essere espressione di una volontà collettiva e, contemporaneamente, essere anche una realizzazione collettiva diretta, senza mediatori: in architet-tura, nei secoli immediatamente precedenti Giotto e per un buon altro secolo almeno le grandi cattedrali prima romaniche e poi gotiche ne sono la dimostrazione più evidente.
Proprio all'architettura gotica si rivolsero i francescani per utilizzare nelle loro chiese una serie di forme espressive largamente in uso ormai in tutta Europa, ma nella sostanza la struttura di queste, in Italia, non era "gotica" nel senso che queste forme avevano nel Nord-Europa. Il Gotico vero e proprio, infatti, è tensione lineare e spaziale che non viene generata (né vi arriva) da una visione totale dello spazio; è, d'altro canto, una coscienza collettiva che non trova una visione totale del mondo nel tempo e non compie mai il passagio dal collettivo all'universale e deve e vuole continuamente trascendere da se verso l'atemporale e l'eterno: Dio.
Per contro il francescanesimo vive "nella" realtà storica e si formula come "l'Ordine" religioso immerso nel mondo per operarvi il mistero della salvezza. San Francesco è un "alter Christus" perché opera come Cristo nel mondo e non solo perché lo imiti sino ai limiti del possibile per un uomo ed anche oltre.
Le chiese francescane tendono all'eliminazione delle navate laterali, delle guglie, degli eccessi di vetrate per mantenere una fondamentale unità e concretezza spaziale, cui corrisponde una coscienza storica prima sconosciuta. Se si pensa che dopo pochi lustri i grandi architetti inizieranno a teorizzare le costruzione prospettica dello spazio come costruzione intellettuale della realtà proprio in corrispondenza della nascita di questa nuova coscienza storica (che si determina nella riscoperta dell'antico), si vedrà come questa lettura dell'arte francescana, in fondo, non è poi del tutto impossibile.
Gli umanisti ad una visione storicistica del mondo facevano corrispondere una visione salda e unitaria dello spazio architet-tonico (e così di tutta la realtà nei suoi due aspetti logici di tempo e di spazio); nel mondo francescano, nel duecento e nel trecento forse il più fecondo intellettualmente, tali concezioni erano in certo qual modo anticipate. Tali "anticipazioni", dovute al nuovo modo di "calarsi" nel mondo e nella realtà, in contrap-posizione agli antichi ordini monastici, sono del resto riscontra-bili anche nel nuovo modo di guardare la natura proprio del Santo e dei suoi seguaci che da molti è già stato interpretato come anticipatore del Rinascimento.
Questa purezza dello spazio era anche connessa a delle nuove regole rappresentative ma la necessità di conoscere queste rendeva forse più difficile l'acquisizione dei significati dell'immagine nel momento stesso in cui sembrava aumentarne il realismo. Un esempio: per secoli il personaggio più importan-te, in una pittura o in un mosaico, era stata collocata quasi sempre aal centro e, facilmente, in una dimensione fisica maggiore, d'ora in poi ciò non è sempre vero e necessario e per poter comprendere il significato di un affresco sono necessari una serie di dati alla luce dei quali, poi, tutto si chiarifica con maggior precisione che nel passato.
Valgono quì due considerazioni: primo, gli episodi attestanti l'amore ed il rispetto di San Francesco per la natura nei suoi vari aspetti e nei suoi esseri sono numerosi e tutti possono essere fatti risalire alle prime fonti sul Santo; secondo, Giotto non introdu-ce, nel suo ciclo pittorico, alcun elemento nuovo nella narrazione della vita di questi.
Ne consegue che anche se, prima di Giotto, le rappresentazioni della natura e degli esseri e dellecose che sono in essa erano realmente ridotte al minimo, non per questo egli compie una grande novità rappresentandola in questo ciclo di affreschi, dato che già nella particolare concezione del mondo del francescanesimo essa ha un suo posto particolare. In altre parole Giotto asseconda una tendenza propria del movimento che, dopo alcuni anni, si era rivelata come una tendenza generale della società del tempo, in anticipo notevole sull'umanesimo.
In fondo San Francesco ripropone come realmente possibile una vita povera e simile a quella di Cristo non tanto per ascetica mortificazione della carne quanto perché servisse di esempio in una società ormai avviata, da poco forse, ma decisamente, a calarsi sempre più nel proprio interesse verso le cose terrene, dando a queste la forza di alcuni nuovi valori: il lavoro soprattutto e i suoi frutti. È con una nuova coscienza storica che agisce il movimento francescano ed è per questo che, nel suo interno, hanno avuto meno fortuna quelle correnti che più si attardavano sui principi altomedioevali della povertà e dell'astinenza.
Giotto ed i suoi non agirono applicando i loro schemi compo-sitivi "moderni" ai soggetti indicati dai frati ma perfezionarono, se non inventarono, tali schemi proprio per poter rappresentare quello che di "nuovo" veniva loro proposto: tra cui la concezio-ne della natura e quindi dello spazio, non dichiarata esplicita-mente ma non per questo meno reale e ampiamente analizzabile in tutte le fonti sia scritte che visive.
Risulta necessario, ancora, indagare la struttura dell'immagine in questo senso. Da un altro punto di vista si studierà lo spettatore cui gli affreschi furono destinati: la partecipazione all'immagine sacra era allora estremamente sentita. Va considerato come l'Arte, nel corso dei secoli, fosse sempre più divenuta fredda esecutrice (ma è poi vero?) di moduli iconografici prefissati e questo, in fondo, era un problema principalmente degli artisti.
Quanto Giotto fosse o non fosse libero nei confronti dei propri committenti ecclesiastici di tentare nuove strade era una questione che interessava lui personalmente (ed interessa noi attualmente) ma certo non riguardava le folle di pellegrini che visitavano le tomba del Santo: tanto meno le masse, ancor più numerose, che, nei conventi e nelle chiese dell'Ordine sparse ormai per tutta l'Europa, guardavano le immagini che, riprese dagli affreschi giotteschi, si uniformavano alla nuova iconogra-fia.
Un ordine innovatore ricorse ad un pittore innovatore: il problema era proprio quello di creare un'iconologia del fondatore e con essa un'iconografia, tenendo conto come alcuni elementi fossero nuovi e corressero anche il rischio di essere rigettati. Primo fra tutti la rappresentazione delle Sacre Stimmate, che ponevano San Francesco in una posizione assolutamente particolare tra tutti i santi. Giotto non fece altro che concludere, con il suo ciclo di affreschi nella Basilica Superiore, il periodo di formazione di questa nuova iconografia, completando l'opera iniziata precedentemente nella chiesa inferiore dove erano già state indicate, da altri pittori, le vie da seguire.
Si consideri ora la situazione interna dell'Ordine e le lotte tra le varie tendenze, stavo per dire fazioni, che partivano apparen-temente dal dibattito e dall'interpretazione della Regola ed arrivavano, in sostanza, ad assumere posizioni che riguardavano l'agire stesso dell'Ordine nella Chiesa sfiorando la riforma vera e propria. In questo quadro è naturale che gli affreschi di Giotto fossero, in realtà, indirizzati ad indicare una posizione "ufficia-le" rispetto le tante correnti d'opinione interne.
Del fatto che essi fossero, comunque, indirizzati ai pellegrini che giungevano si terrà debito conto specie se si consideri come l'impressione che si voleva fare su costoro fosse un tutt'uno con l'azione specifica di evangelizzazione che si voleva intraprende-re e dei modi e tempi necessari a tale azione; modi e tempi sanciti e regolati, appunto, dalla "Regola" stessa. Va inoltre tenuto presente che, al di fuori della Germania, l'Ordine Francescano era l'organizzazione ecclesiale più potente, complessa e diffusa e che, in questo quadro, Assisi sia da considerare quasi al pari di Roma.
Non per niente gli affreschi furono inizizati poco innanzi il primo Anno Santo indetto da Bonifacio VIII nel 1300, anche se non vi è alcuna relazione diretta tra i due fatti, per motivazioni simili e relative proprio al grande numero di pellegrini che affluivano da ogni parte del mondo per poi proseguire verso l'Urbe. Del resto l'impegno messo dall'Ordine nel costruire e decorare il complesso delle due Basiliche è certamente equipa-rabile a quello richiesto dalle maggiori realizzazioni architetto-niche ed artistiche dell'epoca.
Questi dipinti sono paragonabili ai libri "Aperta" destinati da sempre ai laici e al popolo, contrapposti tradizionalmente agli "Arcana" o "Profunda" riservati ai Chierici; Arcana e Aperta erano, ovviamente, termini riferiti principalmente alle Sacre Scritture. I francescani predicavano per exempla (i ventotto episodi) al popolo e rinunciano in parte alle complessità della retorica; in parte e solo apparentemente perché, come abbiamo visto, la struttura del ciclo è di per sé complessa e retorica.
In quest'ambito interpretativo, molta importanza va data al fatto che il popolo cui si predica sia già negli affreschi stessi(!) e ciascun fedele potesse immedesimarvisi. Questo spiega anche meglio l'uso frequente di spazi delegati nei riquadri in maniera simile alle sacre rappresentazioni. Anche l'immagine di Cristo è emblematica del tipo di azione evangelizzante dell'Ordine Francescano, indirizzato preferenzialmente verso i più poveri: è infatti un Cristo sofferente quello che compare ad Assisi.
Un'ultima considerazione va fatta a proposito della presenza dei "Tituli" sotto le scene figurate; da varie fonti sappiamo che nella cultura medioevale la parola figurata era un surrogato necessario ma inferiore della Parola scritta: i Tituli in versi od in prosa erano quindi necessari per spiegare le immagini. L'arte medioevale cercò tanto accuratamente un'iconografia precisa proprio per evitare confusioni, perché, entrata in seguito tale iconografia nella cultura popolare, i Tituli non fossero (come fu) più necessari.
L'arte era rappresentativa, ma come generare una nuova iconografia senza invitare a partecipare al fatto rappresentato e proporre un modello di comportamento adeguato senza meravi-gliare con nuovi miracoli? Facciamo un piccolo passo indietro. La necessità di dimostrare che le immagini fossero ammirate per la loro bellezza e non perché avessero in sé un che di divino, spinge, nei Libri Carolini, ad una attenta valutazione dell'Arte Sacra; si dimostrava chiaramente come la preoccupazione principale degli autori fosse quella di contestare (contrariamente a quanto affermato nei decreti iconoclasti costantinopolitani) che le immagini sacre fossero adorate per sé. Per la stessa ragione, nel dimostrare come ad una stessa immagine possano essere dati diversi contenuti o significati, gli autori dimostrano che il sacro è dato dalla fede stessa. Nei libri viene sottolineato che neppure la devozione con cui l'artista le abbia fatte può attirare la venerazione dei fedeli, ma solo le loro qualità estetiche, sottolineando, così, che le immagini più belle attirano di più. Venerare un'immagine attratti dalla sua bellezza è forse troppo mondano ma comunque ben diverso che venerarla per se stessa.
Fatto sta che divenne sempre più necessario che le immagini nelle chiese, già indispensabili per educare i fedeli, fossero anche di facile comprensione, sempre meno astratte ed allegori-che e più dirette nel comunicare i propri significati. Era un riaccostarsi graduale ma deciso alla realtà del mondo per poter meglio comunicare col mondo stesso.
Quale forza all'interno della Chiesa poteva farsi promotrice di questa strada se non l'Ordine Francescano stesso, così vicino al popolo ed alla povera gente e così concreto non tanto e non solo nell'aiutare e nel soccorrere quanto nel comprendere e nel consolare? I nuovi fruttuosi tentativi di Giotto di dare una sistemazione organica all'immagine non potevano che essere anche i più adatti a rappresentarci l'essenza di fatti pregni di spiritualità che avevano però come conseguenza l'invito ad un nuovo agire nel mondo per e con l'Ordine Francescano.
Alle nuove necessità ideologiche e pratiche doveva necessariamente corrispondere non solo una adatta iconografia del Santo di Assisi ma anche una nuova maniera di rappresentare e intendere la realtà. La creazione di questi nuovi moduli espressivi costituisce un punto fermo nella Storia dell'Arte Italiana comunque la si pensi relativamente alla tradizione che ne vede Giotto come iniziatore. Si devono anche correggere le tesi storiche che vedono questo artista quasi esclusivamente come un pittore delle nuove classi sociali e che interpreta in senso borghese il sentimento religioso, dimenticando spesso quale spessore questo sentimento potesse avere all'epoca.



GIOTTO COME FONTE STORICA

La Legenda Maior di San Bonaventura da Bagnoregio fu evidentemente la fonte principale di ispirazione cui ci si rifece per scegliere ciò che dovesse essere rappresentato e come. Tutti e ventinove gli episodi (in un riquadro ce ne sono due) sono raccontati da San Bonaventura.
La cosa è facilmente spiegabile: la Legenda Maior era la vita ufficiale del Santo e l'unica cui si dovesse prestare fede; a suo tempo San Bonaventura, divenuto Ministro Generale dell'Ordine, aveva fatto perfino bruciare le altre Legendae, secondo quanto deciso nel Capitolo Generale di Parigi del 1266, per porre fine alle polemiche interne all'Ordine stesso in cui molti si rifacevano a fonti e racconti su San Francesco fatti ascendere ai suoi primi compagni.
Le scene non sono sempre aderenti al racconto della Legenda Maior, anzi, spesso ne divergono in modo significativo, talora rifacendosi ad altri racconti e, più spesso, innovativamente. Di conseguenza lo studio e l'analisi di questi affreschi sarà utile soprattutto per conoscere quali fossero gli ordinamenti e le tendenze all'interno dell'Ordine Francescano alla fine del XIII secolo più che per avere informazioni inedite sulla vita di San Francesco.
Ad esempio, ci si discosta parecchio dal racconto di San Bonaventura, rifacendosi ad altre fonti, nella coppia di affreschi in cui viene illustrato il raggiunto culmine di perfezione terrena di San Francesco, simile a Cristo non solo nell'anima ma anche nel corpo (diciottesimo e diciannovesimo episodio), proprio in uno dei punti cruciali di tutta la storia.
Questo ciclo di Assisi deve essere considerato alla pari di qualunque altra testimonianza letteraria, il valore esemplificativo ed universale, datogli dal fatto stesso di essere messo nel cuore dell'Ordine, spinge a ciò. Si tratterà di calarsi nel modo di vedere e leggere le immagini del tempo di Giotto per poterle reinterpretare, cercando di identificare come e perché egli cambiò tale modo di vedere. Ricordiamo l'ipotesi iniziale di questo studio: tutto il ciclo fu ideato e progettato prima della sua realizzazione pratica, senza che nulla fosse lasciato all'improvvisazione e il lavoro fu deciso ed organizzato da due comunità, quella dei frati e quella dei pittori di cui erano esponenti Giotto da Bondone e frà Giovanni della Marca.
I continui riferimenti a San Francesco visto come Alter Chri-stus, il problema evidente di far accettare nell'iconografia popolare le Sacre Stimmate, la preoccupazione di non far mai dipendere i momenti principali della vita del,Santo da decisioni della Gerarchia Ecclesiastica ma direttamente dalla volontà Divina, senza comunque voler mai uscire (anzi ribadendo) dalla dovuta sottomissione, mostrano l'influsso di altre legendae ed una sorta di "rientro" di tradizioni più antiche.
Sono temi questi, tra i tanti, che possono essere oggetto di studio da parte degli storici cui questo studio sarà utile forse più che ai critici d'Arte; quì però si trova il limite cui il sottoscritto può arrivare senza invadere il campo altrui.
Una nota va comunque riservata alla presenza, separata dagli altri frati, dei primi compagni di San Francesco negli affreschi che illustrano la sua morte. È il riconoscimento di una loro posizione particolare ed in un certo qual senso privilegiata, ma anche la constatazione che essi non sono che una delle compo-nenti originarie dell'Ordine, destinata a rimanere per sempre legata direttamente e solo al maestro.
Tra tutte le fonti letterarie citate si noterà che una, la cosiddetta Leggenda Antica Perugina o Leggenda Antica di San Francesco è praticamente contemporanea agli affreschi di Giotto; essa fu composta con materiali vari al fine di ricostruire una Vita di San Francesco che recuperasse memorie e ricordi che discendessero direttamente dai primi compagni del Santo.
Non può essere del tutto casuale che nello stesso periodo la parte più ufficiale dell'Ordine si preoccupasse di fissare definitivamente, ad Assisi, la vita e l'iconografia del Santo citando anche proprio i suoi primi compagni ai quali viene riconosciuto un ruolo particolare, ma limitato nel tempo e nello spazio alla durata della vita del fondatore stesso, per levare, se così si può dire, armi alle correnti più estremiste nell'interpretazione della Regola.



NUOVE ATTRIBUZIONI ?

A proposito di alcune "nuove" proposte di attribuzione degli affreschi nella Basilica Superiore di Assisi vorremmo fare qualche osservazione per chiarire come, secondo noi, debba essere affrontato il problema, sia in generale da un punto di vista metodologico che nel caso specifico. Durante i recenti restauri del Ciclo si è ripresa la vecchia ipotesi che questo sia da attribuire, massimamente, a Pietro Cavallini e porta, fondamen-talmente, a corredo della propria ipotesi alcune somiglianze formali riscontrabili soprattutto in dei volti nei quali si riscontra la stessa tecnica di stesura del colore; diciamo subito che concordiamo pienamente con queste affermazioni ma osservia-mo anche che questa tecnica di stesura del colore è esattamente quella che avrebbe usato qualunque pittore per distribuire il colore se si ha riguardo alle inclinazioni ed alle direzioni dei pennelli. Pure, tralasciando ciò, il discorso che si dovrebbe fare è anzitutto metodologico e storico e non stilistico, premesso che nulla può mai essere affermato con sicurezza senza documenti precisi e questi, salvo rari casi, non sono mai diretti; dire però che non ne esistano non ci sembra assolutamente esatto. Per ora ripetiamo ancora che Giotto, fino a che non ebbe lo status giurico di magister non potè neppure avere una reale autonomia nè artistica nè imprenditoriale.
L'errore consiste proprio nel dover pensare che sia stretta-mente necessario identificare sempre un nome preciso, quando, per loro stessa natura, i grandi affreschi richiedevano il concorso di molti, con diversi ruoli, dai più umili a quelli più propriamente artistici e che questo concorrere di varie mani doveva essere più frequente in grosse imprese (anche commercialmente) in cui poteva capitare che si assumessero varie commissioni contemporaneamente. La grande fama che Dante attribuì a Giotto già nell'anno 1300, quello del primo giubileo, derivava forse dal fatto che questi fu chiamato da Bonifacio VIII a Roma proprio in quell'importantissimo evento; il che spiegherebbe anche il suo abbandono del ciclo, terminato certamente da un gruppo di pittori della sua bottega diverso da quello che l'aveva iniziato.
È anche stata fatta l'osservazione che Giotto fosse troppo giovane per poter avere un incarico così importante ma non siamo d'accordo: infatti valutare se Giotto fosse o no troppo giovane quando iniziò il ciclo va fatto con i criteri dell'epoca, in cui a 50 anni si è già considerati vecchi e a 25/30 anni, qualunque datazione si voglia assumere, si era certamente uomini decisamente maturi; se non ci si crede si leggano un po' di novelle dell'epoca e se ne avrà la conferma. Nello stesso ciclo di Assisi San Francesco è rappresentato imberbe nei primi tre episodi, quando era poco più che un'adolescente e come un vecchio canuto e piegato negli ultimi, e San Francesco morì a circa 44/45 anni!.
Insomma, è perfettamente vero che nella Basilica superiore di Assisi si riconoscono almeno tre mani, e certamente, per motivi cronologici, un Giotto giovane può aver lavorato, nelle storie dell'Antico Testamento, solo negli ultimi due episodi, ma questo era stato acquisito da gran tempo e non si vede perché presentarlo come una grande novità. Per quanto riguarda il ciclo inferiore, invece, come singoli operatori se ne riconoscono ben più di tre e gli ultimi sei/sette episodi sono, anche questo è vero, tutti da attribuire ad esecutori diversi da quelli di quelli precedenti, ma è anche vero, si scusi la ripetizione, che molti scompaiono o ricompaiono a tratti in diversi punti e che la concezione del ciclo è unitaria, nei significati e nello stile, tanto da far pensare, come è logico, ad un'unica mente organizzatrice, quella, appunto, di Giotto. Piuttosto è nella Basilica Inferiore che si sono sempre avuti molti dubbi e che l'ipotesi della presenza di Giotto è sempre stata condizionata da quella di Cimabue e, forse , chissà, anche del Cavallini, vista la loro maggiore arcaicità iconografica; ma anche in questo caso ci sono talmente pochi documenti, per non dire nessuno, che ogni ipotesi è possibile.
Noi stessi abbiamo provocatoriamente sostenuto che non fosse importante definire quali parti avesse fatto Giotto di persona e quali no, ma non era certo per dire che si dovesse tirare in ballo un artista così poco determinabile come il Cavallini, del quale nessuna fonte attesta la presenza ad Assisi al contrario di Giotto, i cui spostamenti, anche se con possibilità di datazione abbastanza fluttuanti, sono tutti documentati. In poche parole, perché mai sostituire ad un Giotto attestato storicamente un Cavallini mai sentito ad Assisi? Il Cavallini, da quanto si può vedere a Santa Cecilia, era ancora troppo attaccato alla tradizione per poter essere incaricato di cose "nuove" sia iconograficamente che nello stile. Insomma, si può anche parlare una stessa lingua, ma se si dicono cose diverse non è possibile che si sia confusi.
La novità in Giotto era nel suo modo di vedere le cose, collocate in uno spazio e in un tempo sempre più precisi, che egli derivò dalla capacità di Cimabue di avvicinarsi al sentimento degli uomini e che corrisponde al nuovo modo di essere della società medioevale; di qui la sua ricerca che porterà, in meno di un secolo, alla prospettiva rinascimentale. Cavallini era lontano sia da Cimabue che da Giotto prima che nella tecnica, che si evolveva con lentezza, soprattutto per mentalità, anche se, forse, i suoi collaboratori più giovani certamente dovettero risentire maggiormente delle novità in atto; e se qualcuno di questi fosse stato assunto da Giotto? È più che probabile, vista la mole di lavoro che l'appalto richiedeva. Al contrario, fu Giotto ad essere chiamato, evidentemente come pittore alla moda, a Roma dove il Cavallini già si trovava, così, probabilmente, Bonifacio VIII potè anche levare ai francescani, sempre un poco sospetti di eccessiva indipendenza, il loro migliore artista; e poi, se non avesse avuto incarichi tanto importanti, come avrebbe potuto Dante, parlando dell'anno 1300, quando colloca il suo viaggio all'Inferno, citarlo come esempio indiscusso di una fama universalmente riconosciuta?.
L'osservazione di Zeri che lo stile del pittore da Assisi a Padova cambia, forse non meriterebbe risposta, ma visto che Lionello Venturi ne trovò l'anello di congiunzione nel Crocefis-so di Rimini, dovremo ricordare all'illustre studioso che sono moltissimi, anzi la maggioranza, i pittori che hanno più volte cambiato stile, anche subitaneamente, nel giro di pochi anni, sia antichi che moderni, anche nell'arco di vite relativamente brevi, da Raffaello a Picasso.. e chi più può più ne metta.