Moricone, Nazzano, Palombara Sabina, Percile, Ponzano Romano, Rocca Canterano, Roccagiovine

MORICONE

La storia
Moricone si trova sulla strada che dalla Tiburtina-Valeria porta alla Salaria costeggiando i Lucretili ed il Monte Gennaro; il nome viene dal toponimo del monte Morrecone, primo nucleo del castello. Il territorio circostante è abitato da tempi antichissimi come è comprovato dal ritrovamento di tombe risalenti al Duemila avanti Cristo. Diversissimi i pareri degli archeologi sul nome del primitivo abitato in epoca romana. La zona era abitata da sabini ma gli storici, tra cui Tito Livio, danno notizia di un certo numero di colonie romane. Oggi come oggi prevale l'opinione del Nibby, che vedeva in Moricone l'antica Regillum sabina. Da Regillum e da Cures veniva la parte della popolazione romana di origine sabina tra cui la gens Claudia, stirpe di consoli e imperatori.
Nel Medioevo la citazione più antica indica Moricone come possesso dei conti di Palombara. In seguito, fino al 1619, il paese fu proprietà dei Savelli a parte una breve confisca voluta da Alessandro VI Borgia a favore di Giulio Orsini dal 1501 al 1503, anno di morte del pontefice. Il nuovo proprietario fi Marcantonio Borghese che rimodernò il paese, costruì il palazzo baronale, realizzò un acquedotto e costruì nuovi mulini. Successivi prprietari furono nell'Ottocento i Torlonia e nel Novecento gli Sforza Cesarini che finirono per lottizzare i terreni tra gli abitanti.

Il centro rinascimentale
Andando verso il centro del paese si arriva in una piazza alla base della collinetta da dove non si accede, come avviene per quasi tutti gli altri centri della zona, direttamente al centro storico, ma si sale, per una salita breve ed erta, risalente al Seicento, sino ad un palazzo fortificato di impostazione rinascimentale che, a sua volta, si affaccia su di un'ampia piazza e fronteggia la chiesa parrocchiale del paese dedicata all'Assunta. Era qui, prima di questo secolo, il nucleo della vita del paese; la piazza è comoda, ampia e non oppressa da costruzioni incombenti. Sulla destra della chiesa una costruzione medioevale che termina all'angolo con una torre rotonda indica che in tempi più antichi il castello era quello, affacciato e dominante la valle dalla parte del Tevere.
La parrocchiale è nel suo stato attuale, una bella chiesa dell'inizio '800, sobria e senza inutili fronzoli barocchi; inizialmente si trattava della cappella del convento di suore che era stato installato nel vecchio castello e, dimensionalmente, non andava oltre l'attuale arco trionfale. L'abside fu ricavato, appunto, in seguito, proprio dai locali del convento; questi lavori furono terminati solamente nel 1815, benché iniziati nel secolo precedente, per mancanza di fondi. L'età della chiesa è documentata anche dalla presenza di due quadri, uno quattrocentesco di Antoniazzo Romano, rappresentante, su tavola, Nostro Signore ed uno di Corrado Giaquinto, probabilmente, vista la maturità dello stile, posteriore alla metà del XVIII secolo. È vero che entrambe le opere non sono firmate, ma in questo caso l'attribuzione può essere considerata certa, sia per la qualità dei dipinti, sia per lo stile perfettamente identificabile; la mancanza di documenti negli archivi parrocchiali, in questo come in altri casi, non deve meragliare, visto che ordinativi e ricevute venivano conservati, come è ovvio, dal committente o dal donatore, in genere il feudatario o il vescovo del luogo; in entrambi i casi ora citati, tra l'altro, i pittori lavorarono per i vescovi della zona anche in altri posti. A lato dell'altare, murato, un tabernacolo rinascimentale che riproduce, con una prospettiva accentuata ma perfetta, una stanza nella quale lo sportello del vano interno figurerebbe come una porta. L'epoca? La somiglianza con le prospettive schiacciate di Donatello è fortissima e anche se questa soluzione estetica è in genere del '500 in questo caso si potrebbe tentare di risalire indietro di un secolo senza paura di fare brutte figure.
Alla navata sinistra è notabile una pala d'altare di Ludovico Prasseda, un bravo incisore nativo proprio di Moricone, raffigura la Pietà. Il quadro è pulito e proporzionato anche se non ha gli arditi accostamenti cromatici tra azzurro ed arancio del Giaquinto ed è circondato da una serie di piccole e graziose scenette in tondo. È chiara l'appartenenza dell'autore a quella scuola romana, un po' purista e un po' eclettica che, partendo dal Minardi, sviluppò nell'Ottocento il tema della pittura religiosa nel Lazio.
Nella stessa piazza della chiesa parrocchiale e del palazzo baronale si trova una cappella seicentesca che di particolare ha, esternamente, un abside troppo piccolo e basso, simile all'esterno di un forno a legna, che deve risalire forse ad un più antico tabernacolo poi ampliato. Oggi viene utilizzata come aula di catechismo e, qualche volta, per qualche matrimonio ma una volta l'uso principale cui era destinata era quello delle veglie funebri. Infatti, data la ristrettezza degli ambienti nelle case del vecchio borgo duecentesco, questo importante momento del rapporto tra la comunità ed i propri valori doveva essere trasferito in un posto più adatto, senza, ovviamente, pregiudicare troppo a lungo l'uso della chiesa vera e propria.

Il centro medioevale
La seconda sorpresa è che, dietro la parrocchia, a sinistra, si accede, attraverso una porta nelle mura, nel vero nucleo storico di Moricone. Un altro torrione rotondo, massiccio ed imponente come pochi, ci riporta indietro di sette secoli. Ci si trova, ora, in un borgo fortificato del Duecento, abbarbicato e quasi fuso alla roccia, e basta guardare le fondazioni delle case per rendersene conto. Poco più avanti è l'ingresso dell'antico castello. Archi di passaggio tra una casa e l'altra, vicoli coperti, spigoli sporgenti appena sopra l'altezza di una persona su mensole fatte talora in un solo blocco di pietra, pertugi strettissimi tra una casa e l'altra dove ancora oggi, come allora, si scaricano le acque piovane delizieranno gli amanti del medioevo.
Girando si arriva alla chiesa vecchia, che dà in una piccola piazzetta, intatta nel suo fascino; oggi è praticamente deserta ma nel Duecento e nel Trecento era certamente il centro della vita sociale. L'edificio è stato ceduto dalla parrocchia al comune, con il solo vincolo di evitare qualsiasi uso non confacente alla primitiva dignità del luogo; attualmente viene utilizzato come auditorium e sala per conferenze.

Un poco decentrato è il convento dei padri Scolopi, la cui chiesa è meta di pellegrinaggi perché vi si conservano le spoglie di Santo Bernardo Silvestrelli, canonizzato nel 1988. Interessanti sono anche le collezioni di opere di Ludovico Prasseda, conservate nella settecentesca Villa Aureli, di cui era proprietario.

Il folklore
Tra le feste tradizionali ricordiamo quella di San Liberato il 2 maggio, durante la quale si chiede al santo un buon raccolto e quella dell'8 settembre, dedicato alla Madonna del Passo, durante la quale si tirano alla statua dei sottili rami in cui sono infilate delle foglie chiamati filastrocche.
La festa dell'Assunta, la più importante, dura vari giorni ma si celebra a partre dal 22 agosto invece che dal 15.
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NAZZANO

MONACI SANTI E PADRONI

Tra i centri dell'Interland che meglio conservano le loro caratteristiche urbanistiche originarie sono quelli della valle del Tevere; vale la pena di visitarli e di curiosare nella loro storia.
Seguendo la strada provinciale Civitellese, per chi viene da Fiano Romano, se si oltrepassa Civitella San Paolo (e chi ha detto che una strada debba terminare alla località della quale porta il nome?) si arriva, dopo cinque minuti di macchina, sino a Nazzano.

LA STORIA
Anche questo paese era soggetto all'Abazia di San Paolo e, come Civitella, faceva parte di un complesso di fortificazioni che si snodava lungo la riva destra del Tevere; la differenza è che, prima di appartenere agli abati di San Paolo, Nazzano era stato degli Abati Benedettini del monastero dei Santi Andrea e Gregorio al Celio, benedettini come quelli di Farfa. Gli abati di San Paolo tenevano per il Papa e quelli di Farfa per l'Imperatore, da cui avevano ricevuto una gran quantità di privilegi, e la rivalità , all'epoca, doveva essere molto accesa. Per comprendere l'importanza che in questo quadro politico e militare aveva Nazzano basta proseguire lungo la strada provinciale per cinque minuti, forse meno, e si è già arrivati a Torrita Tiberina, che fronteggia a Nord-Est Nazzano; Torrita era un castello già sotto la giurisdizione diretta dei Benedettini di Farfa, ben munito e difeso e che, per di più, si trovava al di quà del Tevere. In altre parole, Nazzano si trovava a difendere l'accesso alla strada che avrebbe permesso la comunicazione diretta tra la via Flaminia e Farfa e, eventualmente, a doverne bloccare il passaggio.

L'ABITATO
Non ci si deve stupire, perciò, che il paese sia dominato da un poderoso castello che, secondo le angolazioni e le distanze, appare veramente imponente; i Papi non si fidarono mai degli Abati del monastero romano, anche se questi erano sotto la loro giurisdizione, e fecero di tutto per trasferire questo feudo a quelli di San Paolo. Per la verità quando questo avvenne (nel XV secolo) le lotte con gli imperatori erano terminate da un pezzo, ma le minacce delle grandi famiglie romane no!
Il paese si svela pienamente solo quando ci si entra dentro, a piedi naturalmente, passando attraverso l'antica porta a lato della quale una decorazione, ben tenuta e assai singolare, offre in una fascia decorativa una panoramica di simboli e segni di vario tipo che possono essere trovati in molti posti (in genere architravi e pietre angolari) a scopo scaramantico o magico un po' in tutto il Lazio; sono di origine assai diversa e si possono scomodare anche gli Etruschi e i Sabini, oltre ai Cristiani primitivi, per spiegarne le origini.La strada per arrivare sotto al Castello non è lunga ma assai suggestiva, ricca di scorci caratteristici del Medioevo; in taluni casi si possono riconoscere quei brevi spazi, larghi pochi palmi, che separavano le case tra di loro, tipica è la misura di un piede (circa 33 cm.); si riconoscono, dove apparentemente sono scomparsi, dal fatto che si vedono chiaramente le strisce di muratura che li hanno tappati nei secoli mano a mano che divenivano superflui.
A metà strada si può notare una piccola chiesa abbandonata e chi è più curioso può guardare attraverso le due finestrelle, chiuse da sbarre, che si trovano al livello del terreno a lato del portone; non sarà difficile, poi, verificare che molte case hanno cantine e seminterrati scavati nella roccia vergine. Tre erano i livelli delle case medioevali più antiche, ma due di questi consistevano in un sottotetto e in un seminterrato e gli ambienti coincidevano con i vari piani; col passare degli anni, come è ovvio, era facile che si fossero aggiunti altri piani e si ristrutturassero gli edifici per renderli sempre più funzionali.
Quando si arriva sotto al castello si rimane per lo meno impressionati, lo stato di conservazione, esternamente, è ottimo e una fotografia sulla scalinata che dà ad un ingresso laterale oggi non più in uso è d'obbligo. Un buon numero di finestre di tutte le forme e dimensioni, non allineate tra di loro, testimonia dei molti interventi di ristrutturazione intervenuti. Molte volte, tra il '400 ed il '500, gli antichi castelli venivano trasformati in palazzi, riordinandone gli interni, la cui funzionalità era, in genere, di tipo strettamente militare; in questo caso, la soggezione ad un feudatario che non aveva interessi mondani, come i monaci di San Paolo, potrebbe aver influito negativamente in tal senso, per noi è sicuramente meglio così.
Davanti al castello, nella piazza antistante, un edificio atipico, in cui le abitazioni sono sopraelevate rispetto ad un imponente porticato sotto il quale si trovano locali adatti a magazzino o rimessa, porticato che superiormente forma la stradina di accesso alle case. Forse, ma è solo un ipotesi, si tratta di un espediente per rinforzare un edificio pericolante. Poco più in là, sempre davanti al castello, delle abitazioni basse, ad un solo piano e assai graziose, rendono meglio l'idea di come dovesse essere l'abitato in tempi più antichi; nessuna costruzione, ovviamente, poteva minacciare il castello o limitare la portata delle sue armi di difesa con una altezza eccessiva. Proseguendo un poco il panorama si allarga e si può avere la vista, senza esagerazione molto bella, della valle del Treia e del parco naturale; si consiglia di proseguire sino alla Piazza del Belvedere poco distante, vale la pena.

UN GIOIELLO D'ARTE
Si è lasciato di proposito, sino ad ora, di parlare della chiesa di Sant'Antimo che si trova su di un'altura, dopo una breve salita, prima di entrare in paese e che da sola merita un viaggio. Questa è un piccolo capolavoro, la cui struttura di base è di epoca ottoniana, o almeno la parte principale di questa; il pergamo è infatti del X secolo, ma l'uso di colonne romane per separare le tre navate può far supporre un edificio ancora anteriore. Le colonne vengono da costruzioni differenti, anche se probabilmente non lontane, e le loro altezze, non eguali, furono compensate fornendole di basi di differente misura.
Bei resti di pavimentazione cosmatesca originale si trovano dentro e attorno al pergamo; non ci si stanca mai di stupire della fantasia e delle capacità inventive di questi artigiani che, tagliando piccoli pezzi di marmo prelevati dagli edifici antichi, componevano riquadri sempre simmetrici e mai uguali tra loro.
Nell'abside spiccano, tra il biancore delle pareti, affreschi della scuola di Antoniazzo Romano (Antonio Aquili, attivo nella seconda metà del XIV secolo circa) rappresentanti la Vergine tra quattro Apostoli e, più in alto, l'Incoronazione della Madonna. La qualità della parte inferiore è tale da rendere quasi certa l'attribuzione al maestro e si può anche pensare ad un'opera della maturità , dato che sono ben riscontrabili gli influssi di Melozzo da Forlì, con cui Antoniazzo aveva collaborato nella Biblioteca Vaticana. Le complesse costruzioni prospettiche di Melozzo sono quì tradotte in una sorta di polittico vagamente arcaizzante e decisamente arcaica è la struttura della parte superiore, quella con l'Incoronazione. Antoniazzo portò nei paesi e nelle campagne del Lazio i modi dell'arte (allora) contemporanea, ma dolcemente, senza provocare traumi nelle popolazioni che erano, certamente, affezionate alle loro tradizioni figurative e non avrebbero compreso facilmente i complessi significati esoterici dell'avanguardia dell'epoca. Un'opera di divulgazione, insomma, che va considerata meritoria se si tiene conto dell'arretratezza delle campagne.
L'esterno della chiesa è caratterizzato lateralmente da una costruzione muraria particolarmente elegante, certo successiva ed aggiunta alla primitiva; il perchèdeve essere connesso alla necessità di consolidare una situazione precaria delle strutture, tanto è vero che il piccolo portico anteriore è stato aggiunto alla facciata originaria, ancora visibile all'interno con tanto di due contrafforti ai lati della porta. Sempre ai lati della porta due mensole di pietra per le lanterne. Nell'Alto Medioevo si preferiva sostenere o riporre gli oggetti servendosi di mensole di pietra piuttosto che di costoso metallo, la manodopera necessaria non era considerata rilevante.
Per finire bisognerebbe dare qualche notizia sull'origine e l'etimo di Nazzano, ma ci sono almeno tre teorie diverse, e tutte e tre possibili: la prima connette l'origine del paese con la colonia penale romana di Messano, la seconda identifica il paese con la fortezza capenate di Serpenas, la terza fa derivare il nome dal nome proprio Nattius; una cosa è certa, l'abitato ha origini antichissime e forse, in assoluto, più antiche di Roma stessa, come dimostrano gli scavi che recentemente studiosi, specie stranieri, hanno condotto sul territorio.
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PALOMBARA SABINA
Palombara, come dicono i suoi abitanti, ha storia da vendere, e una descrizione accurata dell'abitato e delle sue vicende richiederebbe un grosso volume, per non parlare, poi, dei dintorni, ricchi di località e resti importanti tra cui, un nome per tutti, è la celeberrima abazia di San Giovanni in Argentella. Questa sorgeva lungo antichissime vie di transumanza; proprio queste controllava il primitivo castello di Palombara, nel punto in cui dovevano aggirare il Soratte. È probabile che anche nei tempi più "bui" del medioevo lungo questi itinerari, che si fanno risalire ad epoche preistoriche, abbiano continuato a svolgersi quei commerci connessi alla pastorizia che non erano mai cessati neppure dopo che i Romani avevano costruito la loro efficiente rete stradale.
La struttura urbana di Palombara Sabina si sviluppa così in modo classico per molti paesi del Lazio sorti o cresciuti attorno ad una torre del IX o del X secolo, in periodo carolingio. In genere questa torre originaria diveniva un vero e proprio castello nel XII secolo, quando cominciò ad esserci una certa ripresa demografica, e quando, contemporaneamente, cominciarono a sorgere i primi nuclei di borgo attorno a questi castelli. Questo spiegherebbe, in parte, perchèspesse volte i primi documenti dei paesi di quest'area risalgono proprio al XII secolo. Oggi il paese, per la verità , ha superato quella dimensione particolare che permette ai suoi abitanti di viverlo, se così si può dire, unitariamente e va considerato ormai una cittadina: si distinguono, ormai, una periferia dal centro storico e materialmente, non è possibile attraversare agevolmente tutto l'abitato senza ricorrere ai mezzi pubblici. Per fortuna, senza risentire di questa recente espansione, la parte più antica è rimasta praticamente intatta, avvolgendosi a spirale sul colle sino ad arrivare all'ingresso del castello.
Il visitatore dovrebbe avere la pazienza di lasciare la macchina prima di arrivare alla piazza centrale; in questo modo, lungo la via Garibaldi, si può godere di un vasto e piacevole panorama dalla parte di Roma che, nelle giornate limpide, è estesissimo. Si distinguono tra gli altri, ben rilevati, Montecelio e Sant'Angelo Romano che dominano quella che, vista dall'alto, è una pianura ondulata e che, prima di salire, sembrava una serie continua di colline per via dei continui saliscendi della strada; non c'è che dire, i nostri antenati sapevano scegliere bene i posti dove difendersi. Dopo i Conti di Tuscolo il Castello passò ai Savelli, ai quali si deve in parte la sua struttura attuale e, a conferma di quanto si è detto sopra, resistette agli assedi che nel Quattrocento gli portarono gli Orsini, nemici dei Colonna e dei Savelli loro alleati. Troilo Savelli, per resistere meglio, fece abbattere le case del borgo e quando papa Alessandro VI Borgia riuscì ad imporre la pace Palombara era ormai un cumulo di rovine, ma invitta. Troilo stesso la ricostruì, la consolidò ed aggiunse un giardino pensile al castello che andò subito famoso per il panorama che vi si godeva.
Più in basso, passeggiando, si possono vedere alcune ville signorili, quasi Liberty, ormai entro l'abitato, ma che all'inizio del secolo dovevano esserne ai limiti, tutte con in cima dei bei terrazzi panoramici. Dalla parte del castello, invece, le case mostrano chiaramente di essere state costruite originariamente su antiche mura difensive. Una caratteristica di Palombara è di avere, specie dalla parte di ingresso, una serie di cantine che si estendono dalla strada sulla quale si aprono sotto un altra, più alta; dato che nessuna amministrazione moderna (almeno dal Seicento in poi) avrebbe mai permesso che si scavasse sotto unlugo di passaggio pubblico, per evidenti motivi di stabilità , si deve dedurne che l'abitato fosse così esteso sin dal medioevo; il che non può che confermare l'importanza che aveva Palombara nella regione.
Si giunge presto ad un piccolo belvedere ed alla piazza Vittorio Veneto, su un lato della quale sale la via Piave con il palazzo comunale. La piazza è fortunatamente area pedonale e permette ai palombaresi un recupero reale del loro centro storico. La monumentale facciata di Sant'Egidio da un lato ed un imponente torrione dall'altro costituiscono i due termini entro i quali si stende questo spazio urbano. Quest'ultimo in particolare è talmente imponente che costituisce, per l'occhio, un punto di riferimento fisso e costante, si spiega, così, perchèla fontana, classica nella sua forma circolare, sia stata collocata sotto di lui. Il punto viù vivace, però, è dalla parte in cui il traffico automobilistico è permesso, davanti alla chiesa di Sant'Egidio, in cui i giovani si incontrano.... in moto o in auto, meglio se fuoristrada, mostrando spesso anche una certa ritrosia a scenderne. Questo, comunque, è un problema comune a tutti i centri italiani, grandi e piccoli, e i rimedi implicherebbero una revisione del modo di rapportarsi all'ambiente urbano di tutti; ma chi ne ha voglia? A Palombara quattro linee di servizio urbano cercano di ovviare a questo tipo di inconvenienti, un vero e proprio record per una cittadine di queste dimensioni.
Il visitatore, a questo punto, arrivato sotto al torrione, prosegue naturalmente e trova un altro belvedere, quasi dalla parte del monte Soratte, che termina con la piazza di San Biagio, la chiesa più ricca d'arte e di storia di Palombara. Attualmente sono iniziati da poco dei lavori di restauro e l'interno non è visibile; vale la pena di ricordare lo stesso la Madonna della Neve di Antonio da Viterbo, uno dei punti di riferimento della devozione dei Palombaresi. Sarà molto interessante avere un quadro generale di questo complesso in cui sono già venuti fuori i resti dell'antico edificio dell'ottavo secolo e di una cella benedettina del sesto e chiarirne meglio la storia, che sposta l'esistenza dell'abitato forse a prima ancora della costruzione della torre: davanti alla chiesa una statua romana, rappresentante probabilmente un magistrato, come si può dedurra dalla toga, porta una testimonianza ancora più antica. Sempre davanti alla chiesa sta il monumento ai caduti, del 1929, in cui gruppo scultoreo, in bronzo, è tutt'altro che da disprezzare artisticamente, specialmente il soldato morente; c'è un poco troppo di retorica, è vero, ma dato il soggetto e l'epoca, si poteva forse evitare? L'autore, comunque, meriterebbe di essere ricordato sul monumento stesso; troppo spesso si trascurano queste testimonianze del nostro passato prossimo, monumenti, fontane, lapidi, dalle quali si imparerebbe molto più di quanto si può immaginare perchèpermettono di ricostruire, dentro di noi, come i nostri antenati hanno vissuto quei fatti che, inutilmente, ci si sforza di imparare dai libri di scuola.
Passando accanto a San Biagio si entra nella parte più antica del borgo e la cosa migliore da fare è perdersi, letteralmente, tra i vicoli, senza seguire un itinerario preciso, tendendo solamente a salire verso il castello. Prima o poi ci si troverà sotto le sue mura, che escono altissime dalla roccia viva. Tutte le caratteristiche del medioevo sono riscontrabili quì: stradine coperte, spigoli tagliati per agevolare il passaggio anche dove i carri non potevano arrivare, immagini della Vergine o dei Santi agli angoli, ridipinte non si sa quante volte, messe spesso per fare un poco di luce con il lumino ad olio che stava davanti; si pensava che un minimo di timore per il Sacro avrebbe frenato eventuali teppisti o malintenzionati, ma questa, purtroppo, era solo una pia speranza.
Nel passeggiare si incontrerà il camminamento del soccorso, che andava direttamente dal castello al torrione sulla piazza, lungo ben 83 metri e con 37 feritoie esterne alle quali si può aggiungere quella messa verticalmente sotto l'arco che ne permette l'attraversamento, più o meno dove dovrebbe uno si aspetterebbe un lampadario, anche se il nemico avesse sfondato la porta non sarebbe certo passato indenne! Davanti all'ingresso del castello (in restauro) c'è un'altra piazza sulla quale si affacciano due palazzetti, uno dell'ottocento e uno del settecento, di caratteristiche signorili; accadeva infatti che le famiglie più in vista cercassero di stare vicine all'abitazione dei signori per averne un poco di prestigio ed una possibilità di contatti più frequenti. Il palazzetto settecentesco, in particolare, è assai grazioso e meriterebbe quel restauro che ha già avuto l'altro. L'ingresso del castello, fortificato, dà su di un piccolo cortile sul quale, da un lato, si trovano alcune casette ad un piano, certamente, nel medioevo, degli addetti alla portineria; ma non basta, anche accanto al portone del castello si trova una feritoia, lunga e stretta, dalla quale si può immaginare che il visitatore non gradito avrebbe potuto ricevere una bella archibugiata.
A questo punto si può tornare, scendendo sempre, sino in piazza, dove si arriverà dalla parte del torrione, dopo aver attraversato la suggestiva di Portici. Un cartello avverte dell'intenzione di fare del castello un centro per conferenze, un modo buono per tenere vivo un edificio e non estraniarlo dalla vita cittadina, dopo che per secoli ne è stato parte integrante. Arrivare a Palombara è facilissimo, basta seguire la via Palomabarese, ed il mese di giugno è particolarmente adatto, c'è la Festa delle Cerase, una manifestazione cinematografica e tra le altre cose, famosa, la sfilata dei carri allegorici, tutti coperti di cerase raccolte la sera prima dai campi, o, in qualche caso, portate via, per così dire, abusivamente, con grandi arrabbiature dei contadini; ma pare che anche questo faccia parte della tradizione.

RAFFAELLO A PALOMBARA?

Parlare di Raffaello a Palombara Sabina può sembrare, e forse è, eccessivo, ma sul fatto che qualcuno della sua scuola sia venuto fino a quì non ci sono dubbi.
Sono ormai circa cinque anni che durante alcuni restauri del castello dei Savelli, a Palombara, sono venuti alla luce una serie di affreschi cinquecenteschi, in due locali, uno, più piccolo, che ha tutte le caratteristiche di uno studiolo privato, e l'altro, il maggiore, che è quasi un salone. Il fatto non ha avuto la diffusione che meritava e non sono molti gli studiosi che ne sono a conoscenza, proprio ora, poi, che gli studi sulla scuola di Raffaello stanno ricevendo nuovi impulsi, come la recente mostra al Vaticano dimostra. La colpa probabilmente è dovuta a qualche funzionario della sopraintendenza che, a scoperta avvenuta, pare abbia intimato che nessuno pubblicasse gli affreschi prima dei suoi uffici; ovviamente ancora si sta aspettando che da Roma venga partorito qualcosa, mentre, per fortuna già qualche studioso se ne è interessato e la notizia comincia ad essere inserita nelle guide turistiche migliori. Delle due stanze lo studiolo è decorato con figure che rappresentano allegoricamente le arti liberali, tra le quali ha un particolare vigore l'astronomo (l'Astronomia), mentre sembrano più popolaresche la scena dei quattro musici (la Musica) e quella allegorica della Retorica, più rovinate le figurazioni che dovrebbero rappresentare l'Aritmentica, la Geometria e la Dialettica. Le parti senza figure sono affrescate con finti tendaggi, paraste dipinte, festoni e grottesche con arpie. La cosa più interessante è la data, 1514, dipinta sul globo retto dall'Astronomo, ne parleremo tra poco, prima, infatti, bisogna descrivere il salone. Questo è decorato con una serie di ritratti immaginari di antichi eroi romani dell'età regia sino al primo secolo della repubblica, ciascuno accompagnato da un motto che ne esalta le specifiche virtù, quello che forse si è conservato meglio rappresenta Attilio Regolo. Una fascia regolare di grottesche accompagna tutto il ciclo ornando tutto il soffitto; si tratta di una serie di cantari, affiancati da putti che si trasformano in fiori di acanto divisi da teschi di bue, nei classici colori marrone e verde su ocra.
Le grottesche così fatte sono, come è facile immaginare, un prodotto allora recentissimo della scuola di Raffaello, basti pensare che nel 1514 questi aveva finito da poco la Stanza della Signatura al Vaticano e la sua scuola era ancora in piena formazione. Una maggiore conoscenza di Raffaello può spiegare, perciò, perchà Troilo Savelli abbia chiamato un artista meno provinciale direttamente da Roma per decorare, dopo lo studiolo, il più impegnativo salone. Chi? effettivamente la prima ipotesi, accentrata su Baldassarre Peruzzi, facendo un raffronto con il Castello di Ostia Antica, oltre che suggestiva trova riscontro in molte somiglianze nel modo di condurre le decorazioni.
Una parola va detta anche sulle circostanze storiche in cui nasce questo ciclo. Troilo Savelli, infatti, dopo la distruzione dI Palombara nei due assedi subiti tra il 1496 ed il 1497, dopo che era stata imposta la pace da Alessandro VI col trattato di Tivoli, si diede ad ornare e rendere più abitabile il suo castello, che nel 1508, gli era stato restituito da Giulio II, come del resto era avvenuto per tutte le proprietà confiscate precedentemente a tutti i signori coinvolti nella guerra: ebbene, sarà forse un caso, ma è proprio nel 1508 che si è accertato l'arrivo a Roma di Raffaello, sempre per volontà del papa. Nel 1509 una lettera di Troilo attesta la sua volontà di dedicarsi tutto al suo piccolo regno; la Guerra era stata sostituita dall'Arte!
Notizie più precise sono su "Un ciclo di Affreschi del Pieno Rinascimento Tornato alla Luce a Palombara Sabina" di Enzo Silvi e Augusto Donò, Casamari 1989.
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PERCILE

La storia della valle che sulla riva destra dell'Aniene sbocca tra Vicovaro e Mandela ha connotazioni caratteristiche ed interessanti per chi voglia ricostruire un quadro generale della storia del Lazio. Il Licenza, che prende il nome dal paese omonimo, è un piccolo fiume (ma non un torrente) che scorre all'incirca da nord a sud costeggiando i monti Lucretili e seguendo il quale si giunge, passando per Orvinio, sino alla valle del Farfa. Questa direttrice costiuiva un secondo arco di comunicazione tra la Tiburtina-valeria e la Salaria dopo la strada che passava per Palombara Sabina e Marcellina ma a nord del blocco formato dai Lucretili e dal monte Gennaro, aprendo anche un passaggio verso l'Abruzzo. Ancora oggi questa strada ha un'importanza tale da farla classificare tra le strade statali piuttosto che tra quelle provinciali o regionali.
Nel IX secolo i Saraceni, già sbarcati sulla costa da alcuni anni, tentarono di chiudere le vie di accesso a Nord di Roma e fu proprio nella piana di San Cosimato, dove il Licenza si immette nell'Aniene, che l'imperatore Carlo il Calvo, con il contributo degli abitanti della zona, li sconfisse costringendoli a stabilirsi a Saracinesco, Ciciliano e Sambuci ed a convertirsi al cristianesimo. L'insediamento dei mercenari di Carlo nella valle del Licenza, dettato da ovvie ragioni militari e politiche, diede origine ai paesi di Roccagiovine, Licenza e Percile. " difficile poter stabilire se all'epoca di Carlo il Calvo la valle fosse ancora popolata come lo era durante i primi secoli dell'impero, quando era cosparsa di ville celebrate per la loro amenità come quella che gli studiosi attribuiscono ad Orazio, ma si deve ritenere che le continue scorrerie dei Longobardi verso l'Urbe l'avessero ridotta come il resto della regione, semidertica.
Successivamente gli abati di Farfa, che erano di nomina imperiale, riuscirono a farsi donare il paese dai feudatari del luogo (anch'essi messi li dall'imperatore) ed a realizzare quel collegamento tra Salaria e Valeria che era indispensabile a chi voleva minacciare dal nord i Papi mentre, contemporaneamente, questi rafforzavano la propria presenza nella campagna romana incrementando i possedimenti dei più fedeli abati di San paolo. Quando queste lotte finirono, nel XIII secolo, Percile fu venduto e passò succesivamente dagli Orsini agli Atti ai Borghese. La storia dei paese in questi secoli ha una costante ben precisa, la continua lotta dei suoi abitanti per difendere e rivendicare i propri diritti e la propria libertà nei confronti dei feudatari, lotta di tribunali e non cruenta, ma tenace. Questa tradizione di libertà portò a dare rifugio ai garibaldini reduci da Mentana e a dover subire, nell'ultimo conflitto, un bombardamento ed il saccheggio da parte dei Tedeschi mentre la popolazione doveva fuggire sui monti per non subire rappresaglie.
Oggi Percile si presenta con un tessuto urbano sostanzialmete immutato e particolarmente omogeneo anche, caso più unico che raro sul piano cromatico; basta guardarlo dalla Licinese, da lontano, per constatare il suo perfetto inserimento nello splendido scenario dei monti. Un altro punto di vista che ne sottolinea l'omogeneità si può avere, dall'alto, da Civitella, oltre che, ovviamente dai Lucretili stessi.
Girando per i vicoli risalta immediatamente il rispetto degli abitanti per l'ambiente storico, quasi eccessivo secondo alcuni, ma certamente encomiabile. Dalla piazza principale, intitolata a Garibaldi, si può fare il giro dell'antico palazzo Borghese, il vecchio castello oggi sede del comune, che in alcuni punti si erge sulla roccia tagliata in una posizione tale da essere praticamente inavvicinabile almeno prima che si sviluppasse il borgo dopo il '200, epoca cui sembrano risalire le case più antiche. La parrocchiale, accanto all'ingresso del comune, era forse originariamente la cappella del castello e si presenta ben tenuta e restaurata con cura; è l'unica chiesa della diocesi di Tivoli dedicata a Santa Lucia. All'interno vari quadri di un certo valore tra i quali spicca una Madonna del Rosario tra i santi Domenico e Caterina, del 1583, dopo il Concilio di Trento che tanto impulso diede a questo culto. La compattezza originaria del nucleo medioevale non ha escluso che Percile avesse, nei secoli successivi una espansione urbanistica sulla collina antistante che ha il suo centro nella piazza Mazzini su cui si affaccia la chiesetta di Santa Anatolia, anch'essa ben restaurata, del 1642, data che forse è da mettere in relazione con la sistemazione del quartiere.
Naturalmente, data la collocazione di Percile praticamente all'interno del parco naturale dei Lucretili, non mancano neppure le occasioni per delle piacevoli escursioni trale quali la più famosa è certamente quella ai Lagustelli, due laghetti di tipo carsico senza emissari che sono più o meno ricchi di acqua secondo gli anni ma sempre collocati in uno scenario incantevole; a chi soffra di calcoli e malattie renali, poi, si può consigliare di andare a bere alla fonte degli Aliucci, che si raggiunge con una suggestiva mulattiera partendo da Santa Maria della Vittoria, dove arriva un torrentello che contribuisce a formare il Licenza, seguendo un percorso che somiglia talora ad un canion americano in piccolo.
Infine, merita una citazione particolare l'usanza, assai singolare, di lanciare nella festa patronale un pallone aerostatico di carta, con attaccate sotto 18 fiaccole in forma di stella. I segreti per la costruzione del pallone vengono tramandati di generazione in generazione. A questo punto non si può che consigliare di andare a vedere di persona, tanto più che dall'autostrada a Percile non c'è che poco più di un quarto d'ora di macchina, un percorso a prova di qualsiasi pigrizia.
S. MARIA DELLA VITTORIA
Appena fuori Percile si trova la chiesa di Santa Maria della Vittoria (la battaglia di Tagliacozzo vinta da Corradino di Svevia), accanto al vecchio tracciato della Licinese che in quel punto scavalca un torrentello con un ponte molto antico, probabilmente di origine romana. Questa chiesa, con annesso un romitorio dei benedettini di Farfa, era stata ben restaurata nel 1970 dalla Sovrintendenza alle Belle Arti ed aveva recuperato tutta la bellezza della sua antica struttura che viene fatta risalire al XII secolo. Probabilmente le arcate mediane, leggermente ogivate, sono posteriori al '200, ma è certo che si tratta di una dei luoghi di culto più antichi della zona, anzi la prima epoca di edificazione è romana, come testimonia la pavimentazione traianea visibile nell'orto, e sin da allora si trattava di un piccolo tempio. Caratteristica di questa chiesa era la ricchezza del portale, proveniente dalla Villa Adriana di Tivoli, dove si possono trovare frammenti di una decorazione assai simile nelle absidi della Piazza d'Oro. Si trattava di una decorazione a soffitto adattata alla nuova funzione ed era arricchita da suggestive raffigurazioni del dio Oceano e da scene mitiche marine, messa in opera in tempi successivi quando l'ingresso principale fu spostato a lato della chiesa..
Di tutto ciò rimangono solamente le fotografie! Visto che (ci piange il cuore a dirlo) nel 1986, evidentemente su commissione, il portale è stato rubato con un danno realmente incalcolabile. La bellezza delle scene è tale da renderle facilmente riconoscibili anche ai meno esperti e chi ne avesse notizia sappia che non ci sarebbero certo problemi di identificazione, con un po' di attenzione sono molti i capolavori rubati che potrebbero essere recuperati. La chiesa comunque è molto bella da visitare, mentre nella parrocchiale di Santa Lucia è possibile vedere ancora, per fortuna, un crocefisso del Seicento molto espressivo trasportato li per precauzione.
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PONZANO ROMANO

La presenza dell'Abbazia di Farfa ha sempre polarizzato l'attenzione degli studiosi di Storia e di Arte del Medioevo, oscurando gli altri centri di vita religiosa a Nord di Roma. Le vicende di questi, nonchèdegli abitati che vicino o attorno a loro erano sorti, sono intrecciate con tutta la storia dei rapporti tra papato e longobardi prima e impero romano-germanico poi.
È noto che il controllo della via flaminia, che collegava Roma alla pentapoli e a Ravenna in mano ai bizantini, permise ai Pontefici di salvaguardare, specie nei primi tempi, la propria indipendenza politica e spirituale assieme.
Vicino al paese di Ponzano Romano si trovano i resti dell'abbazia di Sant'Andrea in Flumine, la cui origine risale proprio ai tempi in cui i Papi cercavano appoggio nei re franchi contro quelli longobardi. Per la verità la tradizione, riportata da un certo monaco di nome Benedetto, attribuisce la costruzione della prima chiesa a Galla, moglie di Simmaco, che quì si sarebbe ritirata dopo la morte del marito; per inciso è interessante notare che Simmaco fu uno degli ultimi grandi esponenti della cultura pagana a Roma. Questa storia è da considerarsi, allo stato attuale degli studi, poco più che una leggenda, anche se tutta la zona è piena di resti antichi, dall'epoca etrusca in poi. Di certo il nome del paese, Ponzano, deriva da quello dell'antico proprietario del "fundus": Ponziano.
Galla, secondo la leggenda, si era ritirata dapprima sull'eremo del monte Soratte, Carlomanno, fratello di Pipino re dei Franchi, si ritirò anch'egli prima a San Silvestro al Soratte e poi fondò questa abbazia in riva al Tevere e ai piedi del Soratte stesso; la presenza nella zona di Carlomanno è storicamente documentata e nel Codice Carolingio è riportata la lettera con cui papa Paolo I donava il monastero di S. Silvestro al Soratte e quello di S. Andrea in flumine a Pipino nell'anno 762. Questi poteva così controllare meglio il fratello che, anche se ritiratosi a vita monastica, avrebbe sempre potuto rivendicare metà del regno, come voleva la legge franca.
Proprio in quei tempi i Longobardi premevano su Roma, tentando di unificare l'Italia, mentre negli ambienti della curia si era fatta strada la tesi giuridica che tutti gli ex possedimenti bizantini in Italia spettassero al Papa; Desiderio, re dei Longobardi, aveva addirittura deposto il duca longobardo di Spoleto perchètroppo soggetto a Roma. Si può quindi comprendere che donare al re dei franchi i due monasteri e con essi praticamente tutto il massiccio del Soratte aveva un preciso e forte significato politico. Si deve ritenere che quando il figlio di Pipino, Carlo Magno, invase il regno di Desiderio una simile base operativa, immediatamente a Nord dell'Urbe, dovette essere molto comoda.
Successivamente, nel 1074, S.Andrea entrò a far parte dei possedimenti dell'abbazia di San Paolo fuori le Mura, allo scopo di formare un un feudo sulla riva destra del Tevere che contrastasse l'imperiale abbazia di Farfa e che, partendo quasi dall'attuale Fiano Romano, avendo per centro Civitella San paolo, arrivava a comprendere tutto il Soratte.
Durante questi secoli si formò lentamente l'abitato di Ponzano, che crebbe tanto da divenire sede vescovile, cosa possibile perchè gli abati di S. Andrea non erano "Abbas Nullius", abati cioè che non dipendevano da alcuno fuori che il Papa, titolo che spettava invece a quelli di Farfa.
Purtroppo nessuno studioso moderno si è dato cura di raccogliere i documenti e le notizie relative a S. Andrea tranne il marchese Liberati nel nel XIX secolo, ma i documenti da lui copiati sono andati persi. Nel 1627 l'abbazia era ancora vitale e l'abbandono definitivo da parte dei monaci deve essere avvenuto proprio all'epoca del Liberati, nel primo quarto dell'Ottocento, per cause attualmente ignote. Si può ipotizzare che i costi di manutenzione fossero diventati eccessivi per un edificio così grande e che, forse, i monaci stessi fossero ormai troppo pochi.
Nel 1836 il monastero appare "diruto, le cui parti intatte servono ora per comodo di magazzini e stalle", uso tuttora riservato alla parte anteriore della costruzione, che copre la facciata. Nel 1930 una relazione alla Sovraintendenza lo descrive semidistrutto e bisognò attendere fino al 1959 perchèsi cominciasse il restauro della sola chiesa; nel 1979 fu restaurato il campanile e finalmente, adesso, sono in atto più profondi restauri del complesso, compreso il monastero.
Attualmente, per quanto si può vedere dall'esterno, si sta procedendo alla ricopertura del tetto del monastero, dopo che è stata rifatta quella della chiesa.
Anticamente il complesso era circondato da un muro di difesa rafforzato da tre torri, una di queste è stata sopraelevata e trasformata in campanile, la tecnica costruttiva del muro, della torre e di parte della casa colonica costruita davanti alla facciata sono simili e risalgono, orientativamente, al mille o poco prima: più in là nel tempo non è il caso di andare, al tempo di Pipino e Carlo Magno i "castella" erano difesi da grossi terrapieni con palizzate e le costruzioni murarie erano assai più piccole e rozze di quanto i rifacimenti successivi possano far credere. In questo caso certamente la Chiesa e il Monastero sono costruzioni certamente succesive e solamente la parte centrale del complesso può risalire al secolo XI; per la precisione pare che debbano essere del X secolo le fondamenta dell'abside e del XI secolo il portichetto che taglia a metà la navata centrale.
Prima del restauro del 1959 attraverso questo portichetto si accedeva ad un'aula più piccola, dato che tra l'abside e il portico interno erano stati costruiti due muri continui, in questa occasione eliminati e sostituiti con le colonne originarie riprese da altri monumenti della diocesi dove erano state riutilizzate a Ponzano e a Monterosi. I pilastri mediani, originari, recano tracce di affreschi del XI secolo forse con scene di vita di S. Andrea. Altri particolari sull'interno, in questo momento non è il caso di riportare, dato che comunque, fino alla fine degli attuali lavori, l'abbazia è chiusa ai visitatori. Accenniamo solo che si potranno rivedere gli affreschi quattrocenteschi dell'abside, di scuola umbra, e il pavimento cosmatesco del XII secolo, che ricorda nei motivi quelli delle chiese romane e del Duomo di Anagni.
Certamente all'esterno l'aspetto è di gran lunga migliore di quanto fosse in precedenza e quello che si vede del lavoro degli esperti lascia ben sperare, alla fine dei lavori sarà interessante paragonare le fotografie di trent'anni fa con l'aspetto attuale; l'edificio è tuttora di privati e sarebbe auspicabile che un accordo tra sovraintendenza e proprietà , ad esempio per la custodia, ne facilitasse l'accesso al pubblico. Una curiosità per finire: durante la peste del Cinquecento l'abbazia fu adibita a lazzaretto.
Naturalmente a Ponzano non c'è solo l'abbazia da vedere, ma, come è quasi sempre da queste parti, tutto il paese è un'interessante motivo di studio. Vista da lontano la struttura urbana si rileva con un nucleo più antico costruito a semicerchio dalla parte dove la collina digrada con un pendio meno ripido; se questo semicerchio, come è probabile a prima vista, corrisponde ad una antica cerchia di mura, se ne possono vedere le tracce nei resti di torri, sia quadrate che circolari, che sono incorporate nelle case. Buona parte del terrapieno dietro le mura è ancora esistente sotto forma di giardini privati.
Una favorevole impressione si ha dal fatto che a Ponzano si nota una certa cura nella manutenzione degli edifici e sono molte le case ben tenute e restaurate, in qualche caso forse un po' troppo per un ambiente medioevale, ma in fondo quello che sembra talvolta troppo recente dopo pochi anni acquista la sua giusta patina. Si deve tenere presente che normalmente, dal '400 in poi, le case sono sempre state intonacate, tranne le più povere, e periodicamente rinnovate nei tetti e nell'aspetto, e basta esaminare un muro antico per verificare quante volte sia stato rifatto, reintonacato e riverniciato nei secoli. Forse basterebbe coprire qualche trave di cemento troppo sporgente o qualche serranda metallica con del legno per eliminare le proteste degli amanti dell'antico a tutti i costi, come nel caso della fila di garages che si incontra arrivando al paese dalla parte di Filacciano.
Tra i monumenti più importanti abbiamo la chiesa di Santa Maria ad Nives, attualmente in fase di restauro, il Palazzo Vescovile, e la parrocchiale, al centro dell'abitato, anch'essa in restauro ma ancora aperta. In quest'ultima si trovano alcuni quadri di notevole bellezza provenienti dall'Abbazia di S. Andrea. Tra questi un Battesimo di Cristo di scuola carraccesca, in cui è applicato pienamente il principio di attrarre gli spettatori dentro il quadro stesso con una serie di gesti che rimandando di personaggio in personaggio arrivano fino al piano di affioramento (quello che divide lo spazio reale da quello immaginario del quadro).
Più interessante è, sul piano storico, la Madonna con Bambino che si trova nel primo altare a sinistra, non si tratta di una tela ma di un affresco del '400 staccato con tutto il muro. Tutta la chiesa, comunque, è interessante per la ricchezza delle opere d'arte e, quando saranno bloccate le infiltrazioni al soffitto, è anche fondamentalmente ben conservata. Sulla porta si può notare un avviso che invita a contribuire al mantenimento dell'asilo che non gode di sovvenzioni statali, un rapido controllo ed è stato facile verificare che il fondatore era quello stesso Monsignor Valeriano Sebastiani che aveva fondato un asilo a sue spese, notevole architettonicamente, anche a Filacciano. Un personaggio certamente notevole e vicino realmente ai poveri sul quale sarebbe interessante sapere di più.
Ponzano è anche un paese vitale e allegro: a Carnevale vi si svolge una sfilata di carri allegorici mentre particolare importanza viene data alle tradizioni gastronomiche.
Le principali feste religiose sono quella della Natività di Maria Santissima l'8 settembre, con processione nella mattinata e spettacoli nel pomeriggio, e quella di S. Nicola di Bari il 6 dicembre, durante la quale si svolge la Festa Dotale della Zitella (una volta era un grave problema per le famiglie povere) e la Sagra della Bruschetta, la cui denominazione dice già tutto.
Del paesaggio non si è parlato, ma lo spettacolo della Valle del Tevere si commenterà da solo ai vostri occhi.
DOMENICO DE ANGELIS, PITTORE PONZANESE

Sabato 10 settembre, a Ponzano Romano, è stato presentato il terzo di tre volumi dedicati a questo paese dalla dottoressa Anna Maria Ramieri: Il Pittore Domenico De Angelis (1735 - 1804), a cura del Comune di Ponzano Romano, 1994.
I primi due libri erano: Ponzano. La Storia, i Monumenti, il Territorio, Roma 1987 e Gli Archivi Storico e Notarile del Comune di Ponzano Romano, Roma 1993.
Si viene a costituire, così, una vera e propria trilogia che permette agli studiosi di orientarsi con sempre maggiore precisione nelle problematiche connesse al territorio della Campagna Romana; non i soli studiosi, ovviamente, ma ogni appassionato di Arte e di Storia troverà la lettura di questo volume interessante, ma certamente l'accuratezza della ricerca effettuata e la ricchezza di documenti portano la pubblicazione ad un livello che, superando di gran lunga la media, è da considerarsi scientifico nel vero senso del termine.
Vari sono gli aspetti interessanti che si devono considerare, anzitutto il recupero di un pittore tutt'altro che secondario nella scena artistica romana della seconda metà del XVII secolo che, tra l'altro, occupò uno dei posti di maggior prestigio di allora come direttore della Scuola del Nudo ed insegnante dell'Accademia di San Luca e che contribuì non poco all'affermazione del Neoclassico a Roma ed alla formazione, anche come professore, delle nuove leve artistiche dell'Urbe.
La Ramieri, tra l'altro, sgombra il campo da alcuni grossolani equivoci che avevano fatto attribuire, al nostro, opere a lui certamente posteriori, (in un caso addirittura di un secolo e mezzo!) convincendoci sempre più che certe professioni bisogna lasciarle fare a chi realmente se ne intenda, come l'autrice di questo volume.
Chi volesse documentarsi visivamente della qualità artistica del De Angelis può andare a vedere i suoi lavori a Palazzo Borghese o alla Galleria Borghese e la decorazione del Gabinetto delle Maschere al Museo Pio-Clementino al Vaticano.
Ricordiamo che il Gabinetto delle Maschere prende il nome dal famoso mosaico pavimentale trovato a Villa Adriana e rappresentante, appunto, una serie di maschere teatrali.
La decorazione del De Angelis contribuisce a creare, su questo mosaico, una straordinaria scenografia teatrale in piena sintonia con il soggetto antico; vale la pena di tornare a rivedere ancora (siamo sicuri tutti ci siano già stati almeno una volta) questa splendida sala.
Oltre ai soggetti mitologici il De Angelis fu anche eccellente ritrattista e, a nostro personale giudizio, ora che l'opera della Ramieri chiarisce definitivamente la sua figura, di qualità certamente non inferiore a tanti celebrati artisti neoclassici stranieri che magari, e non è improbabile, ebbero a maestro proprio lui all'Accademia di San Luca, perché, non va dimenticato, il Neoclassicismo, per sua stessa natura, nasce e si concretizza, come movimento, proprio a Roma, città madre e prototipo dell'antichità per tutti i secoli successivi.
A questo punto non rimane che congratularsi per la pubblicazione ed auspicare che in tutti gli altri comuni dell'hinterland si prendano iniziative analoghe; non c'è molto da scoprire, ma tutto!
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ROCCA CANTERANO

Le Origini
Sulle origini di Rocca Canterano sono state scritte molte cose, in genere inesatte. L'errore più frequente è quello di legare troppo strettamente il nome del paese con quello, assai simile, del vicino Canterano e di pensare che in origine i due abitati fossero legati tra di loro. I pochi, anzi, pochissimi documenti storici rimasti del medioevo attestano, invece, il contrario. Il nome originario era, quasi sicuramente, quello di Montepietra e quello successivo di Rocca di Canterano sarebbe derivato dalla necessità di indicare quale fosse il paese più vicino al fortilizio originario; così, nello sgrammaticato latino medioevale, spesso non si riesce a comprendere bene se in un documento sia indicato il castello vero e proprio di Canterano o il nostro paese. Insomma, quando l'abate Giovanni V volle edificare l'originaria fortezza di Montepietra forse, in loco, già c'era un nucleo fortificato, anche se più piccolo, Non è priva di fondamento neppure la tradizione che vuole il paese fondato da briganti che, come gli antichi romani, si sarebbero poi procurate delle donne rapendole nei paesi vicini; a Rocca Canterano c'è ancora l'usanza di cene o "rinfreschi" di riconciliazione tra famiglie rivali che si vuole far risalire a quei tempi. Poco importa, da dopo il mille i due paesi sono ben distinti tra di loro. Certamente Rocca Canterano era sottol'amministrazione diretta di un militare nominato dagli abati con il compito di controllare sia le strade che andavano verso Tivoli che Canterano stesso che era divenuto un feudo indipendente solo nominalmente soggetto agli abati; in proposito, comunque, manca qualsiasi documento.
La storia
Nel 1302 Filippo d'Antiochia, fedele al papa Bonifacio VIII, prese la rocca per minacciare Subiaco ma fu sconfitto nella valle da Roberto d'Angiò, famoso per aver dato uno schiaffo, se non altro morale, proprio a sua Santità.
Per molti secoli la storia di Rocca Canterano fu la storia di Subiaco, della quale seguì sempre le sorti politiche, salvo essere, ogni tanto, sotto il dominio dei vescovi di Tivoli; nel '700 i Colonna poterono annoverare Rocca Canterano tra i propri domini, forse a seguito di un regolare acquisto; fu proprio alla fine del XVIII secolo che la Repubblica Romana, prima amministrazione rivoluzionaria del Lazio, trasformò tutti i paesi della regione in comuni indipendenti.
All'inizio dell'800 , quando l'amministrazione napoleonica aveva insegnato a censire regolarmente le popolazioni, Rocca Canterano contava quasi 1600 abitanti e Canterano circa la metà, la produzione era incentrata soprattutto sull'allevamento, suino ed ovino, sulla vigna e sulla produzione di ghiande, quasi tutta per il consumo di una popolazione "fornita di abitazioni che poco o nulla vagliono". Il fascino del medioevo era assai poco sentito, ma il giudizio era dovuto al numero di porcili: dobbiamo dedurre che la produzione suina fosse sicuramente esportata verso il ricco mercato di Roma, non essendo possibile che tanta gente vivesse solo di ghiande. Dalla notizia di una abbondante produzione di ghiande si può dedurre anche che nel territorio fossero particolarmente ricchi i boschi di querce.
Il Paese
La struttura urbana è semplice ed esemplificativa e, caso abbastanza raro, ben identificabile sia dall'interno che guardando da qualche colle vicino, percorrendo l'Empolitana, ad esempio, prima di arrivare al bivio del paese, lo si può vedere in tutta la sua lunghezza, altrettanto venendo dalla valle dell'Aniene; in tutti e due i casi si comprende bene che l'unica via di accesso, una volta, era lungo la cresta del monte. Una lunga salita più o meno diritta, senza vicoli laterali di rilievo, porta praticamente quasi al centro. Non ci sono, inizialmente, tracce di mura o chiusure e non abbiamo difficoltà a credere che in questo primo tratto fossero collocati i ricoveri per gli animali; a conferma di ciò, dopo un po', salendo, si trova un abbeveratoio,.
Quando la salita termina in una piazzetta panoramica, si trova il bell'arco ogivale dell'antica porta di ingresso al paese, con tanto di buchi per i cardini e per la stanga di chiusura. I vicoli ora diventano più stretti e, se possibile, più ripidi ma anche disposti ed intrecciati tra di loro con minor ordine. Il portale di ingresso è databile con buona approssimazione a partire dall'ultimo quarto del '200, o poco dopo e ricorda quelli coevi di altre città del tempo di Bonifacio VIII, facendo supporre una fortificazione del paese in quei tempi di tardive lotte tra papato e potere imperiale.
Salendo, oltre la chiesa si nota chiaramente l'impostazione di una massiccia torre difensiva; infatti si giunge presto alla Piazza della Corte, che, come il nome stesso indica, era al centro dell'antico castello. La chiesa, quindi, si trovava al di fuori del borgo originario che solo in un secondo momento fu recintato. Più su, proprio all'ingresso della piazza, si notano i resti di una torre cilindrica, quasi crollata, che era il mastio del castello non posteriore al 1000. Quattro fasi, quindi, si potrebbero identificare: la torre solitaria, la torre circondata da un muro, la costruzione di un castello vero e proprio, la fortificazione di tutto il paese.
Rocca di Mezzo
Dipendente da Canterano è il piccolo abitato di Rocca di Mezzo, che, come dice il nome, era una piccola fortificazione destinata a proteggerlo a monte, ma "in mezzo" a cosa o rispetto a cosa fosse non è stato tramandato. È facile ritrovare i resti delle mura e delle difese ed una sorpresa viene al visitatore quando entra nella piccola chiesa: in fondo ad un impianto ingrandito in epoche successive, forse nell'Ottocento, l'abside originario conserva una bella Madonna tra santi di un certo Pomponio, firmata e datata 1525, interessante per il buono stato di conservazione in cui è arrivata sino a noi.
Il Folklore
A maggio si ricorda la festa di S. Michele, nella quale si offrono delle ciambelle all'anice; in agosto la sagra dei "cecamariti", maccheroni di farina di grano e mais in salsa piccante da servire rigorosamente in piccole "scifette" di legno; in settembre si svolge la processione notturna della Madonna del Divino Amore; a novembre, a S. Martino, la caratteristica festa dei "cornuti", da intendersi in senso allegorico, con tanto di "re" e processione burlesca.
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ROCCAGIOVINE

Con un territorio per il 90% del territorio compreso nel parco naturale dei Lucretili il comune di Roccagiovine -l'antica Arx Juvenis- sta diventando, oggi, sempre più meta di tutti coloro che desiderano, almeno una volta ogni tanto, poter respirare un poco di aria pulita; tra l'altro è assai facile da raggiungersi dalla Capitale, almeno se si utilizza l'autostrada, visto sul del traffico sulla Tiburtina-Valeria è meglio sorvolare. Il paese è la prima delle rocche che controllano la strada di collegamento trasvrsale che dalla Tiburtina portava alla Salaria e ai domini degli abati di Farfa; come è lecito aspettarsi, ancora oggi mantiene un'impostazione urbanistica tale che si può facilmente identificare questa sua caratteristica militare.
Già avvicinandosi si può distinguere la mole dominante del castello Orsini che, nei secoli, è stato via via reso sempre più simile ad un palazzo ma senza perdere mai, come è avvenuto in altri casi, le sue caratteristiche strutturali principali. Il fatto è che, dopo la fine delle lotte tra le maggiori famiglie romane nel '500, le roccaforti principali divennero quelle sulle vie di comunicazione per l'Abruzzo, verso il regno di Napoli, mentre non esistevano più da tempo degli abati di Farfa più fedeli all'imperatore che al papa. Prima di arrivare al paese si può notare, vicino al castello ma un poco sotto, un'antica torre, ancora ben conservata, le cui murature, almeno al binocolo, sembrano poter risalire a tempi ben più antichi di quelli attestati sui documenti conosciuti; senza timore di sbilanciarsi troppo si può fare un ipotesi di datazione attorno al XIII secolo, ma sarebbe interessante poter verificare, nelle fondazioni degli edifici del paese, se si trovano tracce di costruzioni risalenti all'epoca carolingia, quando la zona fu un poco ripopolata; sembra poi che la torre , in epoche successive, sia stata probabilmente "rifoderata", circondando le murature più antiche con un nuovo strato di pietre che le irrobustivano e le consolidavano, cosa che veniva fatta solo finchÈ una struttura manteneva un certo valore difensivo e dopo che era stata danneggiata gravemente.
Una grossa scheggia di roccia staccatasi dal monte non è compresa nel sistema difensivo, è vero che per arrivarci in cima si deve fare una vera e propria scalata, ma è anche vero che un eventuale nemico che l'avesse fatto, poi, si sarebbe trovato assai vicino al castello e addirittura al di sopra della torre ora menzionata; questo fatto può portare ad una seconda ipotesi, praticamente impossibile da verificare su documenti ma da non scartare a priori, che, cioË, il distacco di questa roccia sia avvenuto in epoca successiva all'impianto di base del castello.
Altrettanto facile da identificare è il piccolo borgo che sorgeva attorno, abbarbicato al monte e che, come accade facilmente da queste parti, è ancora praticamente rimasto incontaminato e fedele alla sua impostazione medioevale. Forse per i più anziani, in questi casi, è faticoso salire e scendere per le ripide scalinate senza poter salire su di un'automobile, ma si assicura che i bambini si divertono un mondo: è un ambiente che non ha nulla di ostile, ben controllabile dalla loro psiche in formazione e che, per di più , si presta al gioco con l'imprevedibilità e la molteplicità delle sue varianti.
Dalla piazza Vacuna, dove si arriva, si può salire al castello con una breve ma ripida salita ad S; a sinistra, benleggibile anche se non completa, una lapide che attesta come l'imperatore Vespasiano avesse restaurato il tempio della dea Vittoria che sorgeva nelle vicinanze; questo tempio viene concordenmente identificato dagli studiosi con quello della dea sabina Vacuna, che, a quanto pare, i Latini facevano corrispondere, appunto, alla Vittoria. Terenzio Varrone, Orazio, Ovidio, Plinio il Vecchio celebrarono questo santuario e c'è sempre la speranza che un giorno si possa arrivare ad una sua identificazione certa. Sempre a sinistra, poco più su, l'ingresso al castello, accessibile solamente sino al cortile, dove si trova un ristorante, visto che è ancora proprietà dell'ultima famiglia feudale del paese, i del Gallo, che successero agli Orsini e ai Nun~ez-Sanchez. Si possono comunque ammirare alcuni reperti romani provenienti probabilmente da tombe e la cappella del castello.
Vicino a questo, nella parte più alta del paese, si trova la chiesa di san Nicola di Bari. Vi si possono ammirare pitture di scuola romana del '600 e soprattutto, una Madonna detta di Ronci di scuola del Perugino che la leggenda dice essere un ex voto di un Orsini; questi, durante la caccia, aveva bestemmiato per la cattiva riuscita della battuta e si era sutito trovato dinanzi un mostro che voleva divorarlo. Solamente invocando la Vergine il signore potÈ far scomparire la bestia e il quadro, appunto, sarebbe il ringraziamento per lo scampato pericolo. Un'altra leggenda racconta che, quando gli abitanti di Vicovaro tentarono di portare via il quadro profittando della rovina dell'edificio in cui si trovava, non riuscirono a far passare il confine al carro con cui lo trasportavano, mentre perfino gli alberi gli si inchinavano.
Sempre salendo si può vedere che la piccola espansione urbanistica del paese, dettata più da motivi di comodità che da un aumento della popolazione nel tempo, è avvenuto tutto lungo la strada che porta a Licenza a metà costa e attorno alla piazza da cui parte la salita al castello. Anche se gli edifici più vecchi sono stati risistemati certamente nel secolo scorso da molti particolari, come gli archi ribassati degli ingressi, si vede bene che alcuni di loro (non sono poi tanti) risalgono all'epoca in cui il paese fu ripopolato dopo la peste del 1655, anno in cui due sole famiglie scamparono al contagio.
Al Comune la disponibilità verso i visitatori, da parte dei responsabili dell'amministrazione, è totale, le manifestazioni interessanti e caratteristiche nel corso dell'anno sono parecchie, l'ambiente e il parco sono incredibili specie se si pensa che si è a cosÏ poca distanza da Roma: non resta che muoversi.
UN ANTICO DIPINTO
Nella piccola corte di accesso al castello Orsini di Roccagiovine si trova una piccola cappella gentilizia. Ben conservata e tenuta è il posto ideale per una cerimonia con pochi invitati e l'atmosfera dell'ambiente, dominato da un grande affresco sopra l'altare, assai suggestiva, immaginiamo, per una coppia di giovani sposi.
Vale la pena di soffermarsi un momento a considerare questo dipinto. La qualità forse non è pari a quella della Madonna di Ronci ma sempre notevole. Il soggetto rappresenta la Vergine col Bambino in trono, nel cielo, circondata da angeli. Più in basso due santi che, nella penombra, ci sono sembrati san Giovanni Battista (il santo che col battesimo faceva scendere lo Spirito Santo) e san Giuseppe (ha un giglio in mano) mentre ai piedi della Vergine si può vedere la colomba che lo Spirito simboleggia; ancora, nella lunetta a sinstra dell'altare si vede un angelo annunziante al quale, certamente, doveva corrispondere una raffigurazione dell'Annunziata a destra.
A questo punto non ci sembra fuori di luogo che il tema del dipinto fosse l'Immacolata Concezione per opera dello Spirito Santo, una problematica che si è già ritrovata, ad esempio, a San Polo nei feudi di Federigo Cesi. L'impostazione ancora rinascimentale dei due santi e della struttura generale unita però ad un cerchio di angeli attorno al trono di chiara impostazione già baroccheggiante fa coincidere le date, anche se si vuole tenere conto del fatto che in provincia agivano spesso pittori meno aggiornati che nell'Urbe. Tra i due santi è rappresentato, con molta chiarezza e ricchezza di particolari il paese stesso di Roccagiovine che, nel caso, sarebbe stato dipinto prima della grande strage del 1655. Si vede chiaramente, ad esempio, la cerchia delle mura su cui sorgono oggi le case più esterne e l'antica torre sotto al castello, sulla destra, ma non si vede, invece, la grande scheggia di roccia che da quella parte si è distaccata dal monte, è bene chiarire, perÚ, che da questo particolare non si possono trarre con facilità delle conclusioni, perchÈ onestamente la sua resenza sarebbe stata un poco superflua; più importante anche per una corretta gestione futura dello sviluppo urbano ci sembra la fedele rappresentazione del tessuto urbanistico che, in quest'epoca, non aveva ancora quelle estensioni fuori delle mura che, come abbiamo visto, sono iniziate nel XVII secolo.
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