Moricone, Nazzano, Palombara Sabina, Percile, Ponzano Romano,
Rocca Canterano, Roccagiovine
MORICONE
La storia
Moricone si trova sulla strada che dalla Tiburtina-Valeria porta
alla Salaria costeggiando i Lucretili ed il Monte Gennaro; il
nome viene dal toponimo del monte Morrecone, primo nucleo del
castello. Il territorio circostante è abitato da tempi
antichissimi come è comprovato dal ritrovamento di tombe
risalenti al Duemila avanti Cristo. Diversissimi i pareri degli
archeologi sul nome del primitivo abitato in epoca romana. La
zona era abitata da sabini ma gli storici, tra cui Tito Livio,
danno notizia di un certo numero di colonie romane. Oggi come
oggi prevale l'opinione del Nibby, che vedeva in Moricone l'antica
Regillum sabina. Da Regillum e da Cures veniva la parte della
popolazione romana di origine sabina tra cui la gens Claudia,
stirpe di consoli e imperatori.
Nel Medioevo la citazione più antica indica Moricone come
possesso dei conti di Palombara. In seguito, fino al 1619, il
paese fu proprietà dei Savelli a parte una breve confisca
voluta da Alessandro VI Borgia a favore di Giulio Orsini dal 1501
al 1503, anno di morte del pontefice. Il nuovo proprietario fi
Marcantonio Borghese che rimodernò il paese, costruì
il palazzo baronale, realizzò un acquedotto e costruì
nuovi mulini. Successivi prprietari furono nell'Ottocento i Torlonia
e nel Novecento gli Sforza Cesarini che finirono per lottizzare
i terreni tra gli abitanti.
Il centro rinascimentale
Andando verso il centro del paese si arriva in una piazza alla
base della collinetta da dove non si accede, come avviene per
quasi tutti gli altri centri della zona, direttamente al centro
storico, ma si sale, per una salita breve ed erta, risalente al
Seicento, sino ad un palazzo fortificato di impostazione rinascimentale
che, a sua volta, si affaccia su di un'ampia piazza e fronteggia
la chiesa parrocchiale del paese dedicata all'Assunta. Era qui,
prima di questo secolo, il nucleo della vita del paese; la piazza
è comoda, ampia e non oppressa da costruzioni incombenti.
Sulla destra della chiesa una costruzione medioevale che termina
all'angolo con una torre rotonda indica che in tempi più
antichi il castello era quello, affacciato e dominante la valle
dalla parte del Tevere.
La parrocchiale è nel suo stato attuale, una bella chiesa
dell'inizio '800, sobria e senza inutili fronzoli barocchi; inizialmente
si trattava della cappella del convento di suore che era stato
installato nel vecchio castello e, dimensionalmente, non andava
oltre l'attuale arco trionfale. L'abside fu ricavato, appunto,
in seguito, proprio dai locali del convento; questi lavori furono
terminati solamente nel 1815, benché iniziati nel secolo
precedente, per mancanza di fondi. L'età della chiesa è
documentata anche dalla presenza di due quadri, uno quattrocentesco
di Antoniazzo Romano, rappresentante, su tavola, Nostro Signore
ed uno di Corrado Giaquinto, probabilmente, vista la maturità
dello stile, posteriore alla metà del XVIII secolo. È
vero che entrambe le opere non sono firmate, ma in questo caso
l'attribuzione può essere considerata certa, sia per la
qualità dei dipinti, sia per lo stile perfettamente identificabile;
la mancanza di documenti negli archivi parrocchiali, in questo
come in altri casi, non deve meragliare, visto che ordinativi
e ricevute venivano conservati, come è ovvio, dal committente
o dal donatore, in genere il feudatario o il vescovo del luogo;
in entrambi i casi ora citati, tra l'altro, i pittori lavorarono
per i vescovi della zona anche in altri posti. A lato dell'altare,
murato, un tabernacolo rinascimentale che riproduce, con una prospettiva
accentuata ma perfetta, una stanza nella quale lo sportello del
vano interno figurerebbe come una porta. L'epoca? La somiglianza
con le prospettive schiacciate di Donatello è fortissima
e anche se questa soluzione estetica è in genere del '500
in questo caso si potrebbe tentare di risalire indietro di un
secolo senza paura di fare brutte figure.
Alla navata sinistra è notabile una pala d'altare di Ludovico
Prasseda, un bravo incisore nativo proprio di Moricone, raffigura
la Pietà. Il quadro è pulito e proporzionato anche
se non ha gli arditi accostamenti cromatici tra azzurro ed arancio
del Giaquinto ed è circondato da una serie di piccole e
graziose scenette in tondo. È chiara l'appartenenza dell'autore
a quella scuola romana, un po' purista e un po' eclettica che,
partendo dal Minardi, sviluppò nell'Ottocento il tema della
pittura religiosa nel Lazio.
Nella stessa piazza della chiesa parrocchiale e del palazzo baronale
si trova una cappella seicentesca che di particolare ha, esternamente,
un abside troppo piccolo e basso, simile all'esterno di un forno
a legna, che deve risalire forse ad un più antico tabernacolo
poi ampliato. Oggi viene utilizzata come aula di catechismo e,
qualche volta, per qualche matrimonio ma una volta l'uso principale
cui era destinata era quello delle veglie funebri. Infatti, data
la ristrettezza degli ambienti nelle case del vecchio borgo duecentesco,
questo importante momento del rapporto tra la comunità
ed i propri valori doveva essere trasferito in un posto più
adatto, senza, ovviamente, pregiudicare troppo a lungo l'uso della
chiesa vera e propria.
Il centro medioevale
La seconda sorpresa è che, dietro la parrocchia, a sinistra,
si accede, attraverso una porta nelle mura, nel vero nucleo storico
di Moricone. Un altro torrione rotondo, massiccio ed imponente
come pochi, ci riporta indietro di sette secoli. Ci si trova,
ora, in un borgo fortificato del Duecento, abbarbicato e quasi
fuso alla roccia, e basta guardare le fondazioni delle case per
rendersene conto. Poco più avanti è l'ingresso dell'antico
castello. Archi di passaggio tra una casa e l'altra, vicoli coperti,
spigoli sporgenti appena sopra l'altezza di una persona su mensole
fatte talora in un solo blocco di pietra, pertugi strettissimi
tra una casa e l'altra dove ancora oggi, come allora, si scaricano
le acque piovane delizieranno gli amanti del medioevo.
Girando si arriva alla chiesa vecchia, che dà in una piccola
piazzetta, intatta nel suo fascino; oggi è praticamente
deserta ma nel Duecento e nel Trecento era certamente il centro
della vita sociale. L'edificio è stato ceduto dalla parrocchia
al comune, con il solo vincolo di evitare qualsiasi uso non confacente
alla primitiva dignità del luogo; attualmente viene utilizzato
come auditorium e sala per conferenze.
Un poco decentrato è il convento dei padri Scolopi, la cui chiesa è meta di pellegrinaggi perché vi si conservano le spoglie di Santo Bernardo Silvestrelli, canonizzato nel 1988. Interessanti sono anche le collezioni di opere di Ludovico Prasseda, conservate nella settecentesca Villa Aureli, di cui era proprietario.
Il folklore
Tra le feste tradizionali ricordiamo quella di San Liberato il
2 maggio, durante la quale si chiede al santo un buon raccolto
e quella dell'8 settembre, dedicato alla Madonna del Passo, durante
la quale si tirano alla statua dei sottili rami in cui sono infilate
delle foglie chiamati filastrocche.
La festa dell'Assunta, la più importante, dura vari giorni
ma si celebra a partre dal 22 agosto invece che dal 15.
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NAZZANO
MONACI SANTI E PADRONI
Tra i centri dell'Interland che meglio conservano le loro caratteristiche
urbanistiche originarie sono quelli della valle del Tevere; vale
la pena di visitarli e di curiosare nella loro storia.
Seguendo la strada provinciale Civitellese, per chi viene da Fiano
Romano, se si oltrepassa Civitella San Paolo (e chi ha detto che
una strada debba terminare alla località della quale porta
il nome?) si arriva, dopo cinque minuti di macchina, sino a Nazzano.
LA STORIA
Anche questo paese era soggetto all'Abazia di San Paolo e, come
Civitella, faceva parte di un complesso di fortificazioni che
si snodava lungo la riva destra del Tevere; la differenza è
che, prima di appartenere agli abati di San Paolo, Nazzano era
stato degli Abati Benedettini del monastero dei Santi Andrea e
Gregorio al Celio, benedettini come quelli di Farfa. Gli abati
di San Paolo tenevano per il Papa e quelli di Farfa per l'Imperatore,
da cui avevano ricevuto una gran quantità di privilegi,
e la rivalità , all'epoca, doveva essere molto accesa.
Per comprendere l'importanza che in questo quadro politico e militare
aveva Nazzano basta proseguire lungo la strada provinciale per
cinque minuti, forse meno, e si è già arrivati a
Torrita Tiberina, che fronteggia a Nord-Est Nazzano; Torrita era
un castello già sotto la giurisdizione diretta dei Benedettini
di Farfa, ben munito e difeso e che, per di più, si trovava
al di quà del Tevere. In altre parole, Nazzano si trovava
a difendere l'accesso alla strada che avrebbe permesso la comunicazione
diretta tra la via Flaminia e Farfa e, eventualmente, a doverne
bloccare il passaggio.
L'ABITATO
Non ci si deve stupire, perciò, che il paese sia dominato
da un poderoso castello che, secondo le angolazioni e le distanze,
appare veramente imponente; i Papi non si fidarono mai degli Abati
del monastero romano, anche se questi erano sotto la loro giurisdizione,
e fecero di tutto per trasferire questo feudo a quelli di San
Paolo. Per la verità quando questo avvenne (nel XV secolo)
le lotte con gli imperatori erano terminate da un pezzo, ma le
minacce delle grandi famiglie romane no!
Il paese si svela pienamente solo quando ci si entra dentro, a
piedi naturalmente, passando attraverso l'antica porta a lato
della quale una decorazione, ben tenuta e assai singolare, offre
in una fascia decorativa una panoramica di simboli e segni di
vario tipo che possono essere trovati in molti posti (in genere
architravi e pietre angolari) a scopo scaramantico o magico un
po' in tutto il Lazio; sono di origine assai diversa e si possono
scomodare anche gli Etruschi e i Sabini, oltre ai Cristiani primitivi,
per spiegarne le origini.La strada per arrivare sotto al Castello
non è lunga ma assai suggestiva, ricca di scorci caratteristici
del Medioevo; in taluni casi si possono riconoscere quei brevi
spazi, larghi pochi palmi, che separavano le case tra di loro,
tipica è la misura di un piede (circa 33 cm.); si riconoscono,
dove apparentemente sono scomparsi, dal fatto che si vedono chiaramente
le strisce di muratura che li hanno tappati nei secoli mano a
mano che divenivano superflui.
A metà strada si può notare una piccola chiesa abbandonata
e chi è più curioso può guardare attraverso
le due finestrelle, chiuse da sbarre, che si trovano al livello
del terreno a lato del portone; non sarà difficile, poi,
verificare che molte case hanno cantine e seminterrati scavati
nella roccia vergine. Tre erano i livelli delle case medioevali
più antiche, ma due di questi consistevano in un sottotetto
e in un seminterrato e gli ambienti coincidevano con i vari piani;
col passare degli anni, come è ovvio, era facile che si
fossero aggiunti altri piani e si ristrutturassero gli edifici
per renderli sempre più funzionali.
Quando si arriva sotto al castello si rimane per lo meno impressionati,
lo stato di conservazione, esternamente, è ottimo e una
fotografia sulla scalinata che dà ad un ingresso laterale
oggi non più in uso è d'obbligo. Un buon numero
di finestre di tutte le forme e dimensioni, non allineate tra
di loro, testimonia dei molti interventi di ristrutturazione intervenuti.
Molte volte, tra il '400 ed il '500, gli antichi castelli venivano
trasformati in palazzi, riordinandone gli interni, la cui funzionalità
era, in genere, di tipo strettamente militare; in questo caso,
la soggezione ad un feudatario che non aveva interessi mondani,
come i monaci di San Paolo, potrebbe aver influito negativamente
in tal senso, per noi è sicuramente meglio così.
Davanti al castello, nella piazza antistante, un edificio atipico,
in cui le abitazioni sono sopraelevate rispetto ad un imponente
porticato sotto il quale si trovano locali adatti a magazzino
o rimessa, porticato che superiormente forma la stradina di accesso
alle case. Forse, ma è solo un ipotesi, si tratta di un
espediente per rinforzare un edificio pericolante. Poco più
in là, sempre davanti al castello, delle abitazioni basse,
ad un solo piano e assai graziose, rendono meglio l'idea di come
dovesse essere l'abitato in tempi più antichi; nessuna
costruzione, ovviamente, poteva minacciare il castello o limitare
la portata delle sue armi di difesa con una altezza eccessiva.
Proseguendo un poco il panorama si allarga e si può avere
la vista, senza esagerazione molto bella, della valle del Treia
e del parco naturale; si consiglia di proseguire sino alla Piazza
del Belvedere poco distante, vale la pena.
UN GIOIELLO D'ARTE
Si è lasciato di proposito, sino ad ora, di parlare della
chiesa di Sant'Antimo che si trova su di un'altura, dopo una breve
salita, prima di entrare in paese e che da sola merita un viaggio.
Questa è un piccolo capolavoro, la cui struttura di base
è di epoca ottoniana, o almeno la parte principale di questa;
il pergamo è infatti del X secolo, ma l'uso di colonne
romane per separare le tre navate può far supporre un edificio
ancora anteriore. Le colonne vengono da costruzioni differenti,
anche se probabilmente non lontane, e le loro altezze, non eguali,
furono compensate fornendole di basi di differente misura.
Bei resti di pavimentazione cosmatesca originale si trovano dentro
e attorno al pergamo; non ci si stanca mai di stupire della fantasia
e delle capacità inventive di questi artigiani che, tagliando
piccoli pezzi di marmo prelevati dagli edifici antichi, componevano
riquadri sempre simmetrici e mai uguali tra loro.
Nell'abside spiccano, tra il biancore delle pareti, affreschi
della scuola di Antoniazzo Romano (Antonio Aquili, attivo nella
seconda metà del XIV secolo circa) rappresentanti la Vergine
tra quattro Apostoli e, più in alto, l'Incoronazione della
Madonna. La qualità della parte inferiore è tale
da rendere quasi certa l'attribuzione al maestro e si può
anche pensare ad un'opera della maturità , dato che sono
ben riscontrabili gli influssi di Melozzo da Forlì, con
cui Antoniazzo aveva collaborato nella Biblioteca Vaticana. Le
complesse costruzioni prospettiche di Melozzo sono quì
tradotte in una sorta di polittico vagamente arcaizzante e decisamente
arcaica è la struttura della parte superiore, quella con
l'Incoronazione. Antoniazzo portò nei paesi e nelle campagne
del Lazio i modi dell'arte (allora) contemporanea, ma dolcemente,
senza provocare traumi nelle popolazioni che erano, certamente,
affezionate alle loro tradizioni figurative e non avrebbero compreso
facilmente i complessi significati esoterici dell'avanguardia
dell'epoca. Un'opera di divulgazione, insomma, che va considerata
meritoria se si tiene conto dell'arretratezza delle campagne.
L'esterno della chiesa è caratterizzato lateralmente da
una costruzione muraria particolarmente elegante, certo successiva
ed aggiunta alla primitiva; il perchèdeve essere connesso
alla necessità di consolidare una situazione precaria delle
strutture, tanto è vero che il piccolo portico anteriore
è stato aggiunto alla facciata originaria, ancora visibile
all'interno con tanto di due contrafforti ai lati della porta.
Sempre ai lati della porta due mensole di pietra per le lanterne.
Nell'Alto Medioevo si preferiva sostenere o riporre gli oggetti
servendosi di mensole di pietra piuttosto che di costoso metallo,
la manodopera necessaria non era considerata rilevante.
Per finire bisognerebbe dare qualche notizia sull'origine e l'etimo
di Nazzano, ma ci sono almeno tre teorie diverse, e tutte e tre
possibili: la prima connette l'origine del paese con la colonia
penale romana di Messano, la seconda identifica il paese con la
fortezza capenate di Serpenas, la terza fa derivare il nome dal
nome proprio Nattius; una cosa è certa, l'abitato ha origini
antichissime e forse, in assoluto, più antiche di Roma
stessa, come dimostrano gli scavi che recentemente studiosi, specie
stranieri, hanno condotto sul territorio.
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PALOMBARA SABINA
Palombara, come dicono i suoi abitanti, ha storia da vendere,
e una descrizione accurata dell'abitato e delle sue vicende richiederebbe
un grosso volume, per non parlare, poi, dei dintorni, ricchi di
località e resti importanti tra cui, un nome per tutti,
è la celeberrima abazia di San Giovanni in Argentella.
Questa sorgeva lungo antichissime vie di transumanza; proprio
queste controllava il primitivo castello di Palombara, nel punto
in cui dovevano aggirare il Soratte. È probabile che anche
nei tempi più "bui" del medioevo lungo questi
itinerari, che si fanno risalire ad epoche preistoriche, abbiano
continuato a svolgersi quei commerci connessi alla pastorizia
che non erano mai cessati neppure dopo che i Romani avevano costruito
la loro efficiente rete stradale.
La struttura urbana di Palombara Sabina si sviluppa così
in modo classico per molti paesi del Lazio sorti o cresciuti attorno
ad una torre del IX o del X secolo, in periodo carolingio. In
genere questa torre originaria diveniva un vero e proprio castello
nel XII secolo, quando cominciò ad esserci una certa ripresa
demografica, e quando, contemporaneamente, cominciarono a sorgere
i primi nuclei di borgo attorno a questi castelli. Questo spiegherebbe,
in parte, perchèspesse volte i primi documenti dei paesi
di quest'area risalgono proprio al XII secolo. Oggi il paese,
per la verità , ha superato quella dimensione particolare
che permette ai suoi abitanti di viverlo, se così si può
dire, unitariamente e va considerato ormai una cittadina: si distinguono,
ormai, una periferia dal centro storico e materialmente, non è
possibile attraversare agevolmente tutto l'abitato senza ricorrere
ai mezzi pubblici. Per fortuna, senza risentire di questa recente
espansione, la parte più antica è rimasta praticamente
intatta, avvolgendosi a spirale sul colle sino ad arrivare all'ingresso
del castello.
Il visitatore dovrebbe avere la pazienza di lasciare la macchina
prima di arrivare alla piazza centrale; in questo modo, lungo
la via Garibaldi, si può godere di un vasto e piacevole
panorama dalla parte di Roma che, nelle giornate limpide, è
estesissimo. Si distinguono tra gli altri, ben rilevati, Montecelio
e Sant'Angelo Romano che dominano quella che, vista dall'alto,
è una pianura ondulata e che, prima di salire, sembrava
una serie continua di colline per via dei continui saliscendi
della strada; non c'è che dire, i nostri antenati sapevano
scegliere bene i posti dove difendersi. Dopo i Conti di Tuscolo
il Castello passò ai Savelli, ai quali si deve in parte
la sua struttura attuale e, a conferma di quanto si è detto
sopra, resistette agli assedi che nel Quattrocento gli portarono
gli Orsini, nemici dei Colonna e dei Savelli loro alleati. Troilo
Savelli, per resistere meglio, fece abbattere le case del borgo
e quando papa Alessandro VI Borgia riuscì ad imporre la
pace Palombara era ormai un cumulo di rovine, ma invitta. Troilo
stesso la ricostruì, la consolidò ed aggiunse un
giardino pensile al castello che andò subito famoso per
il panorama che vi si godeva.
Più in basso, passeggiando, si possono vedere alcune ville
signorili, quasi Liberty, ormai entro l'abitato, ma che all'inizio
del secolo dovevano esserne ai limiti, tutte con in cima dei bei
terrazzi panoramici. Dalla parte del castello, invece, le case
mostrano chiaramente di essere state costruite originariamente
su antiche mura difensive. Una caratteristica di Palombara è
di avere, specie dalla parte di ingresso, una serie di cantine
che si estendono dalla strada sulla quale si aprono sotto un altra,
più alta; dato che nessuna amministrazione moderna (almeno
dal Seicento in poi) avrebbe mai permesso che si scavasse sotto
unlugo di passaggio pubblico, per evidenti motivi di stabilità
, si deve dedurne che l'abitato fosse così esteso sin dal
medioevo; il che non può che confermare l'importanza che
aveva Palombara nella regione.
Si giunge presto ad un piccolo belvedere ed alla piazza Vittorio
Veneto, su un lato della quale sale la via Piave con il palazzo
comunale. La piazza è fortunatamente area pedonale e permette
ai palombaresi un recupero reale del loro centro storico. La monumentale
facciata di Sant'Egidio da un lato ed un imponente torrione dall'altro
costituiscono i due termini entro i quali si stende questo spazio
urbano. Quest'ultimo in particolare è talmente imponente
che costituisce, per l'occhio, un punto di riferimento fisso e
costante, si spiega, così, perchèla fontana, classica
nella sua forma circolare, sia stata collocata sotto di lui. Il
punto viù vivace, però, è dalla parte in
cui il traffico automobilistico è permesso, davanti alla
chiesa di Sant'Egidio, in cui i giovani si incontrano.... in moto
o in auto, meglio se fuoristrada, mostrando spesso anche una certa
ritrosia a scenderne. Questo, comunque, è un problema comune
a tutti i centri italiani, grandi e piccoli, e i rimedi implicherebbero
una revisione del modo di rapportarsi all'ambiente urbano di tutti;
ma chi ne ha voglia? A Palombara quattro linee di servizio urbano
cercano di ovviare a questo tipo di inconvenienti, un vero e proprio
record per una cittadine di queste dimensioni.
Il visitatore, a questo punto, arrivato sotto al torrione, prosegue
naturalmente e trova un altro belvedere, quasi dalla parte del
monte Soratte, che termina con la piazza di San Biagio, la chiesa
più ricca d'arte e di storia di Palombara. Attualmente
sono iniziati da poco dei lavori di restauro e l'interno non è
visibile; vale la pena di ricordare lo stesso la Madonna della
Neve di Antonio da Viterbo, uno dei punti di riferimento della
devozione dei Palombaresi. Sarà molto interessante avere
un quadro generale di questo complesso in cui sono già
venuti fuori i resti dell'antico edificio dell'ottavo secolo e
di una cella benedettina del sesto e chiarirne meglio la storia,
che sposta l'esistenza dell'abitato forse a prima ancora della
costruzione della torre: davanti alla chiesa una statua romana,
rappresentante probabilmente un magistrato, come si può
dedurra dalla toga, porta una testimonianza ancora più
antica. Sempre davanti alla chiesa sta il monumento ai caduti,
del 1929, in cui gruppo scultoreo, in bronzo, è tutt'altro
che da disprezzare artisticamente, specialmente il soldato morente;
c'è un poco troppo di retorica, è vero, ma dato
il soggetto e l'epoca, si poteva forse evitare? L'autore, comunque,
meriterebbe di essere ricordato sul monumento stesso; troppo spesso
si trascurano queste testimonianze del nostro passato prossimo,
monumenti, fontane, lapidi, dalle quali si imparerebbe molto più
di quanto si può immaginare perchèpermettono di
ricostruire, dentro di noi, come i nostri antenati hanno vissuto
quei fatti che, inutilmente, ci si sforza di imparare dai libri
di scuola.
Passando accanto a San Biagio si entra nella parte più
antica del borgo e la cosa migliore da fare è perdersi,
letteralmente, tra i vicoli, senza seguire un itinerario preciso,
tendendo solamente a salire verso il castello. Prima o poi ci
si troverà sotto le sue mura, che escono altissime dalla
roccia viva. Tutte le caratteristiche del medioevo sono riscontrabili
quì: stradine coperte, spigoli tagliati per agevolare il
passaggio anche dove i carri non potevano arrivare, immagini della
Vergine o dei Santi agli angoli, ridipinte non si sa quante volte,
messe spesso per fare un poco di luce con il lumino ad olio che
stava davanti; si pensava che un minimo di timore per il Sacro
avrebbe frenato eventuali teppisti o malintenzionati, ma questa,
purtroppo, era solo una pia speranza.
Nel passeggiare si incontrerà il camminamento del soccorso,
che andava direttamente dal castello al torrione sulla piazza,
lungo ben 83 metri e con 37 feritoie esterne alle quali si può
aggiungere quella messa verticalmente sotto l'arco che ne permette
l'attraversamento, più o meno dove dovrebbe uno si aspetterebbe
un lampadario, anche se il nemico avesse sfondato la porta non
sarebbe certo passato indenne! Davanti all'ingresso del castello
(in restauro) c'è un'altra piazza sulla quale si affacciano
due palazzetti, uno dell'ottocento e uno del settecento, di caratteristiche
signorili; accadeva infatti che le famiglie più in vista
cercassero di stare vicine all'abitazione dei signori per averne
un poco di prestigio ed una possibilità di contatti più
frequenti. Il palazzetto settecentesco, in particolare, è
assai grazioso e meriterebbe quel restauro che ha già avuto
l'altro. L'ingresso del castello, fortificato, dà su di
un piccolo cortile sul quale, da un lato, si trovano alcune casette
ad un piano, certamente, nel medioevo, degli addetti alla portineria;
ma non basta, anche accanto al portone del castello si trova una
feritoia, lunga e stretta, dalla quale si può immaginare
che il visitatore non gradito avrebbe potuto ricevere una bella
archibugiata.
A questo punto si può tornare, scendendo sempre, sino in
piazza, dove si arriverà dalla parte del torrione, dopo
aver attraversato la suggestiva di Portici. Un cartello avverte
dell'intenzione di fare del castello un centro per conferenze,
un modo buono per tenere vivo un edificio e non estraniarlo dalla
vita cittadina, dopo che per secoli ne è stato parte integrante.
Arrivare a Palombara è facilissimo, basta seguire la via
Palomabarese, ed il mese di giugno è particolarmente adatto,
c'è la Festa delle Cerase, una manifestazione cinematografica
e tra le altre cose, famosa, la sfilata dei carri allegorici,
tutti coperti di cerase raccolte la sera prima dai campi, o, in
qualche caso, portate via, per così dire, abusivamente,
con grandi arrabbiature dei contadini; ma pare che anche questo
faccia parte della tradizione.
RAFFAELLO A PALOMBARA?
Parlare di Raffaello a Palombara Sabina può sembrare,
e forse è, eccessivo, ma sul fatto che qualcuno della sua
scuola sia venuto fino a quì non ci sono dubbi.
Sono ormai circa cinque anni che durante alcuni restauri del castello
dei Savelli, a Palombara, sono venuti alla luce una serie di affreschi
cinquecenteschi, in due locali, uno, più piccolo, che ha
tutte le caratteristiche di uno studiolo privato, e l'altro, il
maggiore, che è quasi un salone. Il fatto non ha avuto
la diffusione che meritava e non sono molti gli studiosi che ne
sono a conoscenza, proprio ora, poi, che gli studi sulla scuola
di Raffaello stanno ricevendo nuovi impulsi, come la recente mostra
al Vaticano dimostra. La colpa probabilmente è dovuta a
qualche funzionario della sopraintendenza che, a scoperta avvenuta,
pare abbia intimato che nessuno pubblicasse gli affreschi prima
dei suoi uffici; ovviamente ancora si sta aspettando che da Roma
venga partorito qualcosa, mentre, per fortuna già qualche
studioso se ne è interessato e la notizia comincia ad essere
inserita nelle guide turistiche migliori. Delle due stanze lo
studiolo è decorato con figure che rappresentano allegoricamente
le arti liberali, tra le quali ha un particolare vigore l'astronomo
(l'Astronomia), mentre sembrano più popolaresche la scena
dei quattro musici (la Musica) e quella allegorica della Retorica,
più rovinate le figurazioni che dovrebbero rappresentare
l'Aritmentica, la Geometria e la Dialettica. Le parti senza figure
sono affrescate con finti tendaggi, paraste dipinte, festoni e
grottesche con arpie. La cosa più interessante è
la data, 1514, dipinta sul globo retto dall'Astronomo, ne parleremo
tra poco, prima, infatti, bisogna descrivere il salone. Questo
è decorato con una serie di ritratti immaginari di antichi
eroi romani dell'età regia sino al primo secolo della repubblica,
ciascuno accompagnato da un motto che ne esalta le specifiche
virtù, quello che forse si è conservato meglio rappresenta
Attilio Regolo. Una fascia regolare di grottesche accompagna tutto
il ciclo ornando tutto il soffitto; si tratta di una serie di
cantari, affiancati da putti che si trasformano in fiori di acanto
divisi da teschi di bue, nei classici colori marrone e verde su
ocra.
Le grottesche così fatte sono, come è facile immaginare,
un prodotto allora recentissimo della scuola di Raffaello, basti
pensare che nel 1514 questi aveva finito da poco la Stanza della
Signatura al Vaticano e la sua scuola era ancora in piena formazione.
Una maggiore conoscenza di Raffaello può spiegare, perciò,
perchà Troilo Savelli abbia chiamato un artista meno provinciale
direttamente da Roma per decorare, dopo lo studiolo, il più
impegnativo salone. Chi? effettivamente la prima ipotesi, accentrata
su Baldassarre Peruzzi, facendo un raffronto con il Castello di
Ostia Antica, oltre che suggestiva trova riscontro in molte somiglianze
nel modo di condurre le decorazioni.
Una parola va detta anche sulle circostanze storiche in cui nasce
questo ciclo. Troilo Savelli, infatti, dopo la distruzione dI
Palombara nei due assedi subiti tra il 1496 ed il 1497, dopo che
era stata imposta la pace da Alessandro VI col trattato di Tivoli,
si diede ad ornare e rendere più abitabile il suo castello,
che nel 1508, gli era stato restituito da Giulio II, come del
resto era avvenuto per tutte le proprietà confiscate precedentemente
a tutti i signori coinvolti nella guerra: ebbene, sarà
forse un caso, ma è proprio nel 1508 che si è accertato
l'arrivo a Roma di Raffaello, sempre per volontà del papa.
Nel 1509 una lettera di Troilo attesta la sua volontà di
dedicarsi tutto al suo piccolo regno; la Guerra era stata sostituita
dall'Arte!
Notizie più precise sono su "Un ciclo di Affreschi
del Pieno Rinascimento Tornato alla Luce a Palombara Sabina"
di Enzo Silvi e Augusto Donò, Casamari 1989.
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PERCILE
La storia della valle che sulla riva destra dell'Aniene sbocca
tra Vicovaro e Mandela ha connotazioni caratteristiche ed interessanti
per chi voglia ricostruire un quadro generale della storia del
Lazio. Il Licenza, che prende il nome dal paese omonimo, è
un piccolo fiume (ma non un torrente) che scorre all'incirca da
nord a sud costeggiando i monti Lucretili e seguendo il quale
si giunge, passando per Orvinio, sino alla valle del Farfa. Questa
direttrice costiuiva un secondo arco di comunicazione tra la Tiburtina-valeria
e la Salaria dopo la strada che passava per Palombara Sabina e
Marcellina ma a nord del blocco formato dai Lucretili e dal monte
Gennaro, aprendo anche un passaggio verso l'Abruzzo. Ancora oggi
questa strada ha un'importanza tale da farla classificare tra
le strade statali piuttosto che tra quelle provinciali o regionali.
Nel IX secolo i Saraceni, già sbarcati sulla costa da alcuni
anni, tentarono di chiudere le vie di accesso a Nord di Roma e
fu proprio nella piana di San Cosimato, dove il Licenza si immette
nell'Aniene, che l'imperatore Carlo il Calvo, con il contributo
degli abitanti della zona, li sconfisse costringendoli a stabilirsi
a Saracinesco, Ciciliano e Sambuci ed a convertirsi al cristianesimo.
L'insediamento dei mercenari di Carlo nella valle del Licenza,
dettato da ovvie ragioni militari e politiche, diede origine ai
paesi di Roccagiovine, Licenza e Percile. " difficile poter
stabilire se all'epoca di Carlo il Calvo la valle fosse ancora
popolata come lo era durante i primi secoli dell'impero, quando
era cosparsa di ville celebrate per la loro amenità come
quella che gli studiosi attribuiscono ad Orazio, ma si deve ritenere
che le continue scorrerie dei Longobardi verso l'Urbe l'avessero
ridotta come il resto della regione, semidertica.
Successivamente gli abati di Farfa, che erano di nomina imperiale,
riuscirono a farsi donare il paese dai feudatari del luogo (anch'essi
messi li dall'imperatore) ed a realizzare quel collegamento tra
Salaria e Valeria che era indispensabile a chi voleva minacciare
dal nord i Papi mentre, contemporaneamente, questi rafforzavano
la propria presenza nella campagna romana incrementando i possedimenti
dei più fedeli abati di San paolo. Quando queste lotte
finirono, nel XIII secolo, Percile fu venduto e passò succesivamente
dagli Orsini agli Atti ai Borghese. La storia dei paese in questi
secoli ha una costante ben precisa, la continua lotta dei suoi
abitanti per difendere e rivendicare i propri diritti e la propria
libertà nei confronti dei feudatari, lotta di tribunali
e non cruenta, ma tenace. Questa tradizione di libertà
portò a dare rifugio ai garibaldini reduci da Mentana e
a dover subire, nell'ultimo conflitto, un bombardamento ed il
saccheggio da parte dei Tedeschi mentre la popolazione doveva
fuggire sui monti per non subire rappresaglie.
Oggi Percile si presenta con un tessuto urbano sostanzialmete
immutato e particolarmente omogeneo anche, caso più unico
che raro sul piano cromatico; basta guardarlo dalla Licinese,
da lontano, per constatare il suo perfetto inserimento nello splendido
scenario dei monti. Un altro punto di vista che ne sottolinea
l'omogeneità si può avere, dall'alto, da Civitella,
oltre che, ovviamente dai Lucretili stessi.
Girando per i vicoli risalta immediatamente il rispetto degli
abitanti per l'ambiente storico, quasi eccessivo secondo alcuni,
ma certamente encomiabile. Dalla piazza principale, intitolata
a Garibaldi, si può fare il giro dell'antico palazzo Borghese,
il vecchio castello oggi sede del comune, che in alcuni punti
si erge sulla roccia tagliata in una posizione tale da essere
praticamente inavvicinabile almeno prima che si sviluppasse il
borgo dopo il '200, epoca cui sembrano risalire le case più
antiche. La parrocchiale, accanto all'ingresso del comune, era
forse originariamente la cappella del castello e si presenta ben
tenuta e restaurata con cura; è l'unica chiesa della diocesi
di Tivoli dedicata a Santa Lucia. All'interno vari quadri di un
certo valore tra i quali spicca una Madonna del Rosario tra i
santi Domenico e Caterina, del 1583, dopo il Concilio di Trento
che tanto impulso diede a questo culto. La compattezza originaria
del nucleo medioevale non ha escluso che Percile avesse, nei secoli
successivi una espansione urbanistica sulla collina antistante
che ha il suo centro nella piazza Mazzini su cui si affaccia la
chiesetta di Santa Anatolia, anch'essa ben restaurata, del 1642,
data che forse è da mettere in relazione con la sistemazione
del quartiere.
Naturalmente, data la collocazione di Percile praticamente all'interno
del parco naturale dei Lucretili, non mancano neppure le occasioni
per delle piacevoli escursioni trale quali la più famosa
è certamente quella ai Lagustelli, due laghetti di tipo
carsico senza emissari che sono più o meno ricchi di acqua
secondo gli anni ma sempre collocati in uno scenario incantevole;
a chi soffra di calcoli e malattie renali, poi, si può
consigliare di andare a bere alla fonte degli Aliucci, che si
raggiunge con una suggestiva mulattiera partendo da Santa Maria
della Vittoria, dove arriva un torrentello che contribuisce a
formare il Licenza, seguendo un percorso che somiglia talora ad
un canion americano in piccolo.
Infine, merita una citazione particolare l'usanza, assai singolare,
di lanciare nella festa patronale un pallone aerostatico di carta,
con attaccate sotto 18 fiaccole in forma di stella. I segreti
per la costruzione del pallone vengono tramandati di generazione
in generazione. A questo punto non si può che consigliare
di andare a vedere di persona, tanto più che dall'autostrada
a Percile non c'è che poco più di un quarto d'ora
di macchina, un percorso a prova di qualsiasi pigrizia.
S. MARIA DELLA VITTORIA
Appena fuori Percile si trova la chiesa di Santa Maria della Vittoria
(la battaglia di Tagliacozzo vinta da Corradino di Svevia), accanto
al vecchio tracciato della Licinese che in quel punto scavalca
un torrentello con un ponte molto antico, probabilmente di origine
romana. Questa chiesa, con annesso un romitorio dei benedettini
di Farfa, era stata ben restaurata nel 1970 dalla Sovrintendenza
alle Belle Arti ed aveva recuperato tutta la bellezza della sua
antica struttura che viene fatta risalire al XII secolo. Probabilmente
le arcate mediane, leggermente ogivate, sono posteriori al '200,
ma è certo che si tratta di una dei luoghi di culto più
antichi della zona, anzi la prima epoca di edificazione è
romana, come testimonia la pavimentazione traianea visibile nell'orto,
e sin da allora si trattava di un piccolo tempio. Caratteristica
di questa chiesa era la ricchezza del portale, proveniente dalla
Villa Adriana di Tivoli, dove si possono trovare frammenti di
una decorazione assai simile nelle absidi della Piazza d'Oro.
Si trattava di una decorazione a soffitto adattata alla nuova
funzione ed era arricchita da suggestive raffigurazioni del dio
Oceano e da scene mitiche marine, messa in opera in tempi successivi
quando l'ingresso principale fu spostato a lato della chiesa..
Di tutto ciò rimangono solamente le fotografie! Visto che
(ci piange il cuore a dirlo) nel 1986, evidentemente su commissione,
il portale è stato rubato con un danno realmente incalcolabile.
La bellezza delle scene è tale da renderle facilmente riconoscibili
anche ai meno esperti e chi ne avesse notizia sappia che non ci
sarebbero certo problemi di identificazione, con un po' di attenzione
sono molti i capolavori rubati che potrebbero essere recuperati.
La chiesa comunque è molto bella da visitare, mentre nella
parrocchiale di Santa Lucia è possibile vedere ancora,
per fortuna, un crocefisso del Seicento molto espressivo trasportato
li per precauzione.
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PONZANO ROMANO
La presenza dell'Abbazia di Farfa ha sempre polarizzato l'attenzione
degli studiosi di Storia e di Arte del Medioevo, oscurando gli
altri centri di vita religiosa a Nord di Roma. Le vicende di questi,
nonchèdegli abitati che vicino o attorno a loro erano sorti,
sono intrecciate con tutta la storia dei rapporti tra papato e
longobardi prima e impero romano-germanico poi.
È noto che il controllo della via flaminia, che collegava
Roma alla pentapoli e a Ravenna in mano ai bizantini, permise
ai Pontefici di salvaguardare, specie nei primi tempi, la propria
indipendenza politica e spirituale assieme.
Vicino al paese di Ponzano Romano si trovano i resti dell'abbazia
di Sant'Andrea in Flumine, la cui origine risale proprio ai tempi
in cui i Papi cercavano appoggio nei re franchi contro quelli
longobardi. Per la verità la tradizione, riportata da un
certo monaco di nome Benedetto, attribuisce la costruzione della
prima chiesa a Galla, moglie di Simmaco, che quì si sarebbe
ritirata dopo la morte del marito; per inciso è interessante
notare che Simmaco fu uno degli ultimi grandi esponenti della
cultura pagana a Roma. Questa storia è da considerarsi,
allo stato attuale degli studi, poco più che una leggenda,
anche se tutta la zona è piena di resti antichi, dall'epoca
etrusca in poi. Di certo il nome del paese, Ponzano, deriva da
quello dell'antico proprietario del "fundus": Ponziano.
Galla, secondo la leggenda, si era ritirata dapprima sull'eremo
del monte Soratte, Carlomanno, fratello di Pipino re dei Franchi,
si ritirò anch'egli prima a San Silvestro al Soratte e
poi fondò questa abbazia in riva al Tevere e ai piedi del
Soratte stesso; la presenza nella zona di Carlomanno è
storicamente documentata e nel Codice Carolingio è riportata
la lettera con cui papa Paolo I donava il monastero di S. Silvestro
al Soratte e quello di S. Andrea in flumine a Pipino nell'anno
762. Questi poteva così controllare meglio il fratello
che, anche se ritiratosi a vita monastica, avrebbe sempre potuto
rivendicare metà del regno, come voleva la legge franca.
Proprio in quei tempi i Longobardi premevano su Roma, tentando
di unificare l'Italia, mentre negli ambienti della curia si era
fatta strada la tesi giuridica che tutti gli ex possedimenti bizantini
in Italia spettassero al Papa; Desiderio, re dei Longobardi, aveva
addirittura deposto il duca longobardo di Spoleto perchètroppo
soggetto a Roma. Si può quindi comprendere che donare al
re dei franchi i due monasteri e con essi praticamente tutto il
massiccio del Soratte aveva un preciso e forte significato politico.
Si deve ritenere che quando il figlio di Pipino, Carlo Magno,
invase il regno di Desiderio una simile base operativa, immediatamente
a Nord dell'Urbe, dovette essere molto comoda.
Successivamente, nel 1074, S.Andrea entrò a far parte dei
possedimenti dell'abbazia di San Paolo fuori le Mura, allo scopo
di formare un un feudo sulla riva destra del Tevere che contrastasse
l'imperiale abbazia di Farfa e che, partendo quasi dall'attuale
Fiano Romano, avendo per centro Civitella San paolo, arrivava
a comprendere tutto il Soratte.
Durante questi secoli si formò lentamente l'abitato di
Ponzano, che crebbe tanto da divenire sede vescovile, cosa possibile
perchè gli abati di S. Andrea non erano "Abbas Nullius",
abati cioè che non dipendevano da alcuno fuori che il Papa,
titolo che spettava invece a quelli di Farfa.
Purtroppo nessuno studioso moderno si è dato cura di raccogliere
i documenti e le notizie relative a S. Andrea tranne il marchese
Liberati nel nel XIX secolo, ma i documenti da lui copiati sono
andati persi. Nel 1627 l'abbazia era ancora vitale e l'abbandono
definitivo da parte dei monaci deve essere avvenuto proprio all'epoca
del Liberati, nel primo quarto dell'Ottocento, per cause attualmente
ignote. Si può ipotizzare che i costi di manutenzione fossero
diventati eccessivi per un edificio così grande e che,
forse, i monaci stessi fossero ormai troppo pochi.
Nel 1836 il monastero appare "diruto, le cui parti intatte
servono ora per comodo di magazzini e stalle", uso tuttora
riservato alla parte anteriore della costruzione, che copre la
facciata. Nel 1930 una relazione alla Sovraintendenza lo descrive
semidistrutto e bisognò attendere fino al 1959 perchèsi
cominciasse il restauro della sola chiesa; nel 1979 fu restaurato
il campanile e finalmente, adesso, sono in atto più profondi
restauri del complesso, compreso il monastero.
Attualmente, per quanto si può vedere dall'esterno, si
sta procedendo alla ricopertura del tetto del monastero, dopo
che è stata rifatta quella della chiesa.
Anticamente il complesso era circondato da un muro di difesa rafforzato
da tre torri, una di queste è stata sopraelevata e trasformata
in campanile, la tecnica costruttiva del muro, della torre e di
parte della casa colonica costruita davanti alla facciata sono
simili e risalgono, orientativamente, al mille o poco prima: più
in là nel tempo non è il caso di andare, al tempo
di Pipino e Carlo Magno i "castella" erano difesi da
grossi terrapieni con palizzate e le costruzioni murarie erano
assai più piccole e rozze di quanto i rifacimenti successivi
possano far credere. In questo caso certamente la Chiesa e il
Monastero sono costruzioni certamente succesive e solamente la
parte centrale del complesso può risalire al secolo XI;
per la precisione pare che debbano essere del X secolo le fondamenta
dell'abside e del XI secolo il portichetto che taglia a metà
la navata centrale.
Prima del restauro del 1959 attraverso questo portichetto si accedeva
ad un'aula più piccola, dato che tra l'abside e il portico
interno erano stati costruiti due muri continui, in questa occasione
eliminati e sostituiti con le colonne originarie riprese da altri
monumenti della diocesi dove erano state riutilizzate a Ponzano
e a Monterosi. I pilastri mediani, originari, recano tracce di
affreschi del XI secolo forse con scene di vita di S. Andrea.
Altri particolari sull'interno, in questo momento non è
il caso di riportare, dato che comunque, fino alla fine degli
attuali lavori, l'abbazia è chiusa ai visitatori. Accenniamo
solo che si potranno rivedere gli affreschi quattrocenteschi dell'abside,
di scuola umbra, e il pavimento cosmatesco del XII secolo, che
ricorda nei motivi quelli delle chiese romane e del Duomo di Anagni.
Certamente all'esterno l'aspetto è di gran lunga migliore
di quanto fosse in precedenza e quello che si vede del lavoro
degli esperti lascia ben sperare, alla fine dei lavori sarà
interessante paragonare le fotografie di trent'anni fa con l'aspetto
attuale; l'edificio è tuttora di privati e sarebbe auspicabile
che un accordo tra sovraintendenza e proprietà , ad esempio
per la custodia, ne facilitasse l'accesso al pubblico. Una curiosità
per finire: durante la peste del Cinquecento l'abbazia fu adibita
a lazzaretto.
Naturalmente a Ponzano non c'è solo l'abbazia da vedere,
ma, come è quasi sempre da queste parti, tutto il paese
è un'interessante motivo di studio. Vista da lontano la
struttura urbana si rileva con un nucleo più antico costruito
a semicerchio dalla parte dove la collina digrada con un pendio
meno ripido; se questo semicerchio, come è probabile a
prima vista, corrisponde ad una antica cerchia di mura, se ne
possono vedere le tracce nei resti di torri, sia quadrate che
circolari, che sono incorporate nelle case. Buona parte del terrapieno
dietro le mura è ancora esistente sotto forma di giardini
privati.
Una favorevole impressione si ha dal fatto che a Ponzano si nota
una certa cura nella manutenzione degli edifici e sono molte le
case ben tenute e restaurate, in qualche caso forse un po' troppo
per un ambiente medioevale, ma in fondo quello che sembra talvolta
troppo recente dopo pochi anni acquista la sua giusta patina.
Si deve tenere presente che normalmente, dal '400 in poi, le case
sono sempre state intonacate, tranne le più povere, e periodicamente
rinnovate nei tetti e nell'aspetto, e basta esaminare un muro
antico per verificare quante volte sia stato rifatto, reintonacato
e riverniciato nei secoli. Forse basterebbe coprire qualche trave
di cemento troppo sporgente o qualche serranda metallica con del
legno per eliminare le proteste degli amanti dell'antico a tutti
i costi, come nel caso della fila di garages che si incontra arrivando
al paese dalla parte di Filacciano.
Tra i monumenti più importanti abbiamo la chiesa di Santa
Maria ad Nives, attualmente in fase di restauro, il Palazzo Vescovile,
e la parrocchiale, al centro dell'abitato, anch'essa in restauro
ma ancora aperta. In quest'ultima si trovano alcuni quadri di
notevole bellezza provenienti dall'Abbazia di S. Andrea. Tra questi
un Battesimo di Cristo di scuola carraccesca, in cui è
applicato pienamente il principio di attrarre gli spettatori dentro
il quadro stesso con una serie di gesti che rimandando di personaggio
in personaggio arrivano fino al piano di affioramento (quello
che divide lo spazio reale da quello immaginario del quadro).
Più interessante è, sul piano storico, la Madonna
con Bambino che si trova nel primo altare a sinistra, non si tratta
di una tela ma di un affresco del '400 staccato con tutto il muro.
Tutta la chiesa, comunque, è interessante per la ricchezza
delle opere d'arte e, quando saranno bloccate le infiltrazioni
al soffitto, è anche fondamentalmente ben conservata. Sulla
porta si può notare un avviso che invita a contribuire
al mantenimento dell'asilo che non gode di sovvenzioni statali,
un rapido controllo ed è stato facile verificare che il
fondatore era quello stesso Monsignor Valeriano Sebastiani che
aveva fondato un asilo a sue spese, notevole architettonicamente,
anche a Filacciano. Un personaggio certamente notevole e vicino
realmente ai poveri sul quale sarebbe interessante sapere di più.
Ponzano è anche un paese vitale e allegro: a Carnevale
vi si svolge una sfilata di carri allegorici mentre particolare
importanza viene data alle tradizioni gastronomiche.
Le principali feste religiose sono quella della Natività
di Maria Santissima l'8 settembre, con processione nella mattinata
e spettacoli nel pomeriggio, e quella di S. Nicola di Bari il
6 dicembre, durante la quale si svolge la Festa Dotale della Zitella
(una volta era un grave problema per le famiglie povere) e la
Sagra della Bruschetta, la cui denominazione dice già tutto.
Del paesaggio non si è parlato, ma lo spettacolo della
Valle del Tevere si commenterà da solo ai vostri occhi.
DOMENICO DE ANGELIS, PITTORE PONZANESE
Sabato 10 settembre, a Ponzano Romano, è stato presentato
il terzo di tre volumi dedicati a questo paese dalla dottoressa
Anna Maria Ramieri: Il Pittore Domenico De Angelis (1735 - 1804),
a cura del Comune di Ponzano Romano, 1994.
I primi due libri erano: Ponzano. La Storia, i Monumenti, il Territorio,
Roma 1987 e Gli Archivi Storico e Notarile del Comune di Ponzano
Romano, Roma 1993.
Si viene a costituire, così, una vera e propria trilogia
che permette agli studiosi di orientarsi con sempre maggiore precisione
nelle problematiche connesse al territorio della Campagna Romana;
non i soli studiosi, ovviamente, ma ogni appassionato di Arte
e di Storia troverà la lettura di questo volume interessante,
ma certamente l'accuratezza della ricerca effettuata e la ricchezza
di documenti portano la pubblicazione ad un livello che, superando
di gran lunga la media, è da considerarsi scientifico nel
vero senso del termine.
Vari sono gli aspetti interessanti che si devono considerare,
anzitutto il recupero di un pittore tutt'altro che secondario
nella scena artistica romana della seconda metà del XVII
secolo che, tra l'altro, occupò uno dei posti di maggior
prestigio di allora come direttore della Scuola del Nudo ed insegnante
dell'Accademia di San Luca e che contribuì non poco all'affermazione
del Neoclassico a Roma ed alla formazione, anche come professore,
delle nuove leve artistiche dell'Urbe.
La Ramieri, tra l'altro, sgombra il campo da alcuni grossolani
equivoci che avevano fatto attribuire, al nostro, opere a lui
certamente posteriori, (in un caso addirittura di un secolo e
mezzo!) convincendoci sempre più che certe professioni
bisogna lasciarle fare a chi realmente se ne intenda, come l'autrice
di questo volume.
Chi volesse documentarsi visivamente della qualità artistica
del De Angelis può andare a vedere i suoi lavori a Palazzo
Borghese o alla Galleria Borghese e la decorazione del Gabinetto
delle Maschere al Museo Pio-Clementino al Vaticano.
Ricordiamo che il Gabinetto delle Maschere prende il nome dal
famoso mosaico pavimentale trovato a Villa Adriana e rappresentante,
appunto, una serie di maschere teatrali.
La decorazione del De Angelis contribuisce a creare, su questo
mosaico, una straordinaria scenografia teatrale in piena sintonia
con il soggetto antico; vale la pena di tornare a rivedere ancora
(siamo sicuri tutti ci siano già stati almeno una volta)
questa splendida sala.
Oltre ai soggetti mitologici il De Angelis fu anche eccellente
ritrattista e, a nostro personale giudizio, ora che l'opera della
Ramieri chiarisce definitivamente la sua figura, di qualità
certamente non inferiore a tanti celebrati artisti neoclassici
stranieri che magari, e non è improbabile, ebbero a maestro
proprio lui all'Accademia di San Luca, perché, non va dimenticato,
il Neoclassicismo, per sua stessa natura, nasce e si concretizza,
come movimento, proprio a Roma, città madre e prototipo
dell'antichità per tutti i secoli successivi.
A questo punto non rimane che congratularsi per la pubblicazione
ed auspicare che in tutti gli altri comuni dell'hinterland si
prendano iniziative analoghe; non c'è molto da scoprire,
ma tutto!
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ROCCA CANTERANO
Le Origini
Sulle origini di Rocca Canterano sono state scritte molte cose,
in genere inesatte. L'errore più frequente è quello
di legare troppo strettamente il nome del paese con quello, assai
simile, del vicino Canterano e di pensare che in origine i due
abitati fossero legati tra di loro. I pochi, anzi, pochissimi
documenti storici rimasti del medioevo attestano, invece, il contrario.
Il nome originario era, quasi sicuramente, quello di Montepietra
e quello successivo di Rocca di Canterano sarebbe derivato dalla
necessità di indicare quale fosse il paese più vicino
al fortilizio originario; così, nello sgrammaticato latino
medioevale, spesso non si riesce a comprendere bene se in un documento
sia indicato il castello vero e proprio di Canterano o il nostro
paese. Insomma, quando l'abate Giovanni V volle edificare l'originaria
fortezza di Montepietra forse, in loco, già c'era un nucleo
fortificato, anche se più piccolo, Non è priva di
fondamento neppure la tradizione che vuole il paese fondato da
briganti che, come gli antichi romani, si sarebbero poi procurate
delle donne rapendole nei paesi vicini; a Rocca Canterano c'è
ancora l'usanza di cene o "rinfreschi" di riconciliazione
tra famiglie rivali che si vuole far risalire a quei tempi. Poco
importa, da dopo il mille i due paesi sono ben distinti tra di
loro. Certamente Rocca Canterano era sottol'amministrazione diretta
di un militare nominato dagli abati con il compito di controllare
sia le strade che andavano verso Tivoli che Canterano stesso che
era divenuto un feudo indipendente solo nominalmente soggetto
agli abati; in proposito, comunque, manca qualsiasi documento.
La storia
Nel 1302 Filippo d'Antiochia, fedele al papa Bonifacio VIII, prese
la rocca per minacciare Subiaco ma fu sconfitto nella valle da
Roberto d'Angiò, famoso per aver dato uno schiaffo, se
non altro morale, proprio a sua Santità.
Per molti secoli la storia di Rocca Canterano fu la storia di
Subiaco, della quale seguì sempre le sorti politiche, salvo
essere, ogni tanto, sotto il dominio dei vescovi di Tivoli; nel
'700 i Colonna poterono annoverare Rocca Canterano tra i propri
domini, forse a seguito di un regolare acquisto; fu proprio alla
fine del XVIII secolo che la Repubblica Romana, prima amministrazione
rivoluzionaria del Lazio, trasformò tutti i paesi della
regione in comuni indipendenti.
All'inizio dell'800 , quando l'amministrazione napoleonica aveva
insegnato a censire regolarmente le popolazioni, Rocca Canterano
contava quasi 1600 abitanti e Canterano circa la metà,
la produzione era incentrata soprattutto sull'allevamento, suino
ed ovino, sulla vigna e sulla produzione di ghiande, quasi tutta
per il consumo di una popolazione "fornita di abitazioni
che poco o nulla vagliono". Il fascino del medioevo era assai
poco sentito, ma il giudizio era dovuto al numero di porcili:
dobbiamo dedurre che la produzione suina fosse sicuramente esportata
verso il ricco mercato di Roma, non essendo possibile che tanta
gente vivesse solo di ghiande. Dalla notizia di una abbondante
produzione di ghiande si può dedurre anche che nel territorio
fossero particolarmente ricchi i boschi di querce.
Il Paese
La struttura urbana è semplice ed esemplificativa e, caso
abbastanza raro, ben identificabile sia dall'interno che guardando
da qualche colle vicino, percorrendo l'Empolitana, ad esempio,
prima di arrivare al bivio del paese, lo si può vedere
in tutta la sua lunghezza, altrettanto venendo dalla valle dell'Aniene;
in tutti e due i casi si comprende bene che l'unica via di accesso,
una volta, era lungo la cresta del monte. Una lunga salita più
o meno diritta, senza vicoli laterali di rilievo, porta praticamente
quasi al centro. Non ci sono, inizialmente, tracce di mura o chiusure
e non abbiamo difficoltà a credere che in questo primo
tratto fossero collocati i ricoveri per gli animali; a conferma
di ciò, dopo un po', salendo, si trova un abbeveratoio,.
Quando la salita termina in una piazzetta panoramica, si trova
il bell'arco ogivale dell'antica porta di ingresso al paese, con
tanto di buchi per i cardini e per la stanga di chiusura. I vicoli
ora diventano più stretti e, se possibile, più ripidi
ma anche disposti ed intrecciati tra di loro con minor ordine.
Il portale di ingresso è databile con buona approssimazione
a partire dall'ultimo quarto del '200, o poco dopo e ricorda quelli
coevi di altre città del tempo di Bonifacio VIII, facendo
supporre una fortificazione del paese in quei tempi di tardive
lotte tra papato e potere imperiale.
Salendo, oltre la chiesa si nota chiaramente l'impostazione di
una massiccia torre difensiva; infatti si giunge presto alla Piazza
della Corte, che, come il nome stesso indica, era al centro dell'antico
castello. La chiesa, quindi, si trovava al di fuori del borgo
originario che solo in un secondo momento fu recintato. Più
su, proprio all'ingresso della piazza, si notano i resti di una
torre cilindrica, quasi crollata, che era il mastio del castello
non posteriore al 1000. Quattro fasi, quindi, si potrebbero identificare:
la torre solitaria, la torre circondata da un muro, la costruzione
di un castello vero e proprio, la fortificazione di tutto il paese.
Rocca di Mezzo
Dipendente da Canterano è il piccolo abitato di Rocca di
Mezzo, che, come dice il nome, era una piccola fortificazione
destinata a proteggerlo a monte, ma "in mezzo" a cosa
o rispetto a cosa fosse non è stato tramandato. È
facile ritrovare i resti delle mura e delle difese ed una sorpresa
viene al visitatore quando entra nella piccola chiesa: in fondo
ad un impianto ingrandito in epoche successive, forse nell'Ottocento,
l'abside originario conserva una bella Madonna tra santi di un
certo Pomponio, firmata e datata 1525, interessante per il buono
stato di conservazione in cui è arrivata sino a noi.
Il Folklore
A maggio si ricorda la festa di S. Michele, nella quale si offrono
delle ciambelle all'anice; in agosto la sagra dei "cecamariti",
maccheroni di farina di grano e mais in salsa piccante da servire
rigorosamente in piccole "scifette" di legno; in settembre
si svolge la processione notturna della Madonna del Divino Amore;
a novembre, a S. Martino, la caratteristica festa dei "cornuti",
da intendersi in senso allegorico, con tanto di "re"
e processione burlesca.
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ROCCAGIOVINE
Con un territorio per il 90% del territorio compreso nel parco
naturale dei Lucretili il comune di Roccagiovine -l'antica Arx
Juvenis- sta diventando, oggi, sempre più meta di tutti
coloro che desiderano, almeno una volta ogni tanto, poter respirare
un poco di aria pulita; tra l'altro è assai facile da raggiungersi
dalla Capitale, almeno se si utilizza l'autostrada, visto sul
del traffico sulla Tiburtina-Valeria è meglio sorvolare.
Il paese è la prima delle rocche che controllano la strada
di collegamento trasvrsale che dalla Tiburtina portava alla Salaria
e ai domini degli abati di Farfa; come è lecito aspettarsi,
ancora oggi mantiene un'impostazione urbanistica tale che si può
facilmente identificare questa sua caratteristica militare.
Già avvicinandosi si può distinguere la mole dominante
del castello Orsini che, nei secoli, è stato via via reso
sempre più simile ad un palazzo ma senza perdere mai, come
è avvenuto in altri casi, le sue caratteristiche strutturali
principali. Il fatto è che, dopo la fine delle lotte tra
le maggiori famiglie romane nel '500, le roccaforti principali
divennero quelle sulle vie di comunicazione per l'Abruzzo, verso
il regno di Napoli, mentre non esistevano più da tempo
degli abati di Farfa più fedeli all'imperatore che al papa.
Prima di arrivare al paese si può notare, vicino al castello
ma un poco sotto, un'antica torre, ancora ben conservata, le cui
murature, almeno al binocolo, sembrano poter risalire a tempi
ben più antichi di quelli attestati sui documenti conosciuti;
senza timore di sbilanciarsi troppo si può fare un ipotesi
di datazione attorno al XIII secolo, ma sarebbe interessante poter
verificare, nelle fondazioni degli edifici del paese, se si trovano
tracce di costruzioni risalenti all'epoca carolingia, quando la
zona fu un poco ripopolata; sembra poi che la torre , in epoche
successive, sia stata probabilmente "rifoderata", circondando
le murature più antiche con un nuovo strato di pietre che
le irrobustivano e le consolidavano, cosa che veniva fatta solo
finchÈ una struttura manteneva un certo valore difensivo
e dopo che era stata danneggiata gravemente.
Una grossa scheggia di roccia staccatasi dal monte non è
compresa nel sistema difensivo, è vero che per arrivarci
in cima si deve fare una vera e propria scalata, ma è anche
vero che un eventuale nemico che l'avesse fatto, poi, si sarebbe
trovato assai vicino al castello e addirittura al di sopra della
torre ora menzionata; questo fatto può portare ad una seconda
ipotesi, praticamente impossibile da verificare su documenti ma
da non scartare a priori, che, cioË, il distacco di questa
roccia sia avvenuto in epoca successiva all'impianto di base del
castello.
Altrettanto facile da identificare è il piccolo borgo che
sorgeva attorno, abbarbicato al monte e che, come accade facilmente
da queste parti, è ancora praticamente rimasto incontaminato
e fedele alla sua impostazione medioevale. Forse per i più
anziani, in questi casi, è faticoso salire e scendere per
le ripide scalinate senza poter salire su di un'automobile, ma
si assicura che i bambini si divertono un mondo: è un ambiente
che non ha nulla di ostile, ben controllabile dalla loro psiche
in formazione e che, per di più , si presta al gioco con
l'imprevedibilità e la molteplicità delle sue varianti.
Dalla piazza Vacuna, dove si arriva, si può salire al castello
con una breve ma ripida salita ad S; a sinistra, benleggibile
anche se non completa, una lapide che attesta come l'imperatore
Vespasiano avesse restaurato il tempio della dea Vittoria che
sorgeva nelle vicinanze; questo tempio viene concordenmente identificato
dagli studiosi con quello della dea sabina Vacuna, che, a quanto
pare, i Latini facevano corrispondere, appunto, alla Vittoria.
Terenzio Varrone, Orazio, Ovidio, Plinio il Vecchio celebrarono
questo santuario e c'è sempre la speranza che un giorno
si possa arrivare ad una sua identificazione certa. Sempre a sinistra,
poco più su, l'ingresso al castello, accessibile solamente
sino al cortile, dove si trova un ristorante, visto che è
ancora proprietà dell'ultima famiglia feudale del paese,
i del Gallo, che successero agli Orsini e ai Nun~ez-Sanchez. Si
possono comunque ammirare alcuni reperti romani provenienti probabilmente
da tombe e la cappella del castello.
Vicino a questo, nella parte più alta del paese, si trova
la chiesa di san Nicola di Bari. Vi si possono ammirare pitture
di scuola romana del '600 e soprattutto, una Madonna detta di
Ronci di scuola del Perugino che la leggenda dice essere un ex
voto di un Orsini; questi, durante la caccia, aveva bestemmiato
per la cattiva riuscita della battuta e si era sutito trovato
dinanzi un mostro che voleva divorarlo. Solamente invocando la
Vergine il signore potÈ far scomparire la bestia e il quadro,
appunto, sarebbe il ringraziamento per lo scampato pericolo. Un'altra
leggenda racconta che, quando gli abitanti di Vicovaro tentarono
di portare via il quadro profittando della rovina dell'edificio
in cui si trovava, non riuscirono a far passare il confine al
carro con cui lo trasportavano, mentre perfino gli alberi gli
si inchinavano.
Sempre salendo si può vedere che la piccola espansione
urbanistica del paese, dettata più da motivi di comodità
che da un aumento della popolazione nel tempo, è avvenuto
tutto lungo la strada che porta a Licenza a metà costa
e attorno alla piazza da cui parte la salita al castello. Anche
se gli edifici più vecchi sono stati risistemati certamente
nel secolo scorso da molti particolari, come gli archi ribassati
degli ingressi, si vede bene che alcuni di loro (non sono poi
tanti) risalgono all'epoca in cui il paese fu ripopolato dopo
la peste del 1655, anno in cui due sole famiglie scamparono al
contagio.
Al Comune la disponibilità verso i visitatori, da parte
dei responsabili dell'amministrazione, è totale, le manifestazioni
interessanti e caratteristiche nel corso dell'anno sono parecchie,
l'ambiente e il parco sono incredibili specie se si pensa che
si è a cosÏ poca distanza da Roma: non resta che muoversi.
UN ANTICO DIPINTO
Nella piccola corte di accesso al castello Orsini di Roccagiovine
si trova una piccola cappella gentilizia. Ben conservata e tenuta
è il posto ideale per una cerimonia con pochi invitati
e l'atmosfera dell'ambiente, dominato da un grande affresco sopra
l'altare, assai suggestiva, immaginiamo, per una coppia di giovani
sposi.
Vale la pena di soffermarsi un momento a considerare questo dipinto.
La qualità forse non è pari a quella della Madonna
di Ronci ma sempre notevole. Il soggetto rappresenta la Vergine
col Bambino in trono, nel cielo, circondata da angeli. Più
in basso due santi che, nella penombra, ci sono sembrati san Giovanni
Battista (il santo che col battesimo faceva scendere lo Spirito
Santo) e san Giuseppe (ha un giglio in mano) mentre ai piedi della
Vergine si può vedere la colomba che lo Spirito simboleggia;
ancora, nella lunetta a sinstra dell'altare si vede un angelo
annunziante al quale, certamente, doveva corrispondere una raffigurazione
dell'Annunziata a destra.
A questo punto non ci sembra fuori di luogo che il tema del dipinto
fosse l'Immacolata Concezione per opera dello Spirito Santo, una
problematica che si è già ritrovata, ad esempio,
a San Polo nei feudi di Federigo Cesi. L'impostazione ancora rinascimentale
dei due santi e della struttura generale unita però ad
un cerchio di angeli attorno al trono di chiara impostazione già
baroccheggiante fa coincidere le date, anche se si vuole tenere
conto del fatto che in provincia agivano spesso pittori meno aggiornati
che nell'Urbe. Tra i due santi è rappresentato, con molta
chiarezza e ricchezza di particolari il paese stesso di Roccagiovine
che, nel caso, sarebbe stato dipinto prima della grande strage
del 1655. Si vede chiaramente, ad esempio, la cerchia delle mura
su cui sorgono oggi le case più esterne e l'antica torre
sotto al castello, sulla destra, ma non si vede, invece, la grande
scheggia di roccia che da quella parte si è distaccata
dal monte, è bene chiarire, perÚ, che da questo
particolare non si possono trarre con facilità delle conclusioni,
perchÈ onestamente la sua resenza sarebbe stata un poco
superflua; più importante anche per una corretta gestione
futura dello sviluppo urbano ci sembra la fedele rappresentazione
del tessuto urbanistico che, in quest'epoca, non aveva ancora
quelle estensioni fuori delle mura che, come abbiamo visto, sono
iniziate nel XVII secolo.
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