APPENDICI

Riportiamo le conclusioni di un nostro breve saggio su Dante e i suoi rapporti con le arti figurative intitolato appunto La Pittura di Dante e che riteniamo utili ad un ulteriore chiarimento delle nostre tesi ed al quale rimandiamo per una visione completa dei problemi proposti seguite da alcune considerazioni sulla fortuna di Giotto presso i contemporanei.

 dante

DANTE

Ma perché veggi me' ciò ch'io disegno
A colorar distenderò la mano.
(Purg. XXII, 74 - 75)

Ritratto di Dante dall'edizione commentata da P. A. SERASSI, Commedìa, Firenze 1818.


DANTE E GIOTTO

Tutta la concezione artistica di Dante viene definitivamente chiarita apertis verbis negli ultimi canti del Paradiso nei quali pare proprio che la pittura sia il mezzo più consono ad esprimere ciò che è bello e buono. Per affermare questo concetto in più punti Dante si dichiara incapace di descrivere e ricordare cose e pensieri troppo forti (color troppo vivo) per la mente umana, tali da superare la sua capacità creatrice (la mia fantasia) e sempre facendo ricorso a paragoni con la pittura:

Di quella ch'io notai di più carezza
vid'io uscire un foco sì felice
che nullo vi lasciò di più chiarezza;
e tre fïate intorno di Beatrice
si volse, con un canto tanto divo
che la mia fantasia nol mi ridice
Però salta la penna e non lo scrivo:
ché l'imagine nostra a cotai pieghe,
non che 'l parlare, è troppo color vivo
(Par. XXIV 19-27)

È accennato, qui, il problema delle ombreggiature nelle pie-ghe, allora di difficile soluzione, e che Giotto risolse con sempre maggiore abilità nel progredire della sua arte, specialmente a Padova, ciclo di pitture già conosciuto da Dante quando componeva questi canti del Paradiso. Anche queste considera-zioni, che possono avere un valore solo molto relativo, anche se fondamentalmente esatto, sono utili per risolvere la questione se, in Giotto si evidenzi l'influsso della Commedìa di Dante a Padova o, viceversa, in Dante si riveli una nuova opinione della pittura generata dalla conoscenza della rifondazione Giottesca. Certo in Giotto il sentimento dell'umanità dantesca, specie nell'Inferno, avrebbe dovuto influire sulla pittura padovana mentre, nel frattempo, non aveva probabilmente già conosciuto Dante almeno il ciclo di Assisi? Tuttavia la storia della pubbli-cazione dei primi sette canti dell'Inferno prima dell'esilio è assai poco probabile, mentre è certa la divulgazione delle due prime cantiche dopo il 1312, quando la Cappella degli Scrovegni era certamente già finita. È eventualmente Dante ad ispirarsi a Giotto, e non viceversa!
Giotto è maggiormente in grado di risolvere questi problemi perché aveva chiaramente presente il problema della tridimen-sionalità del soggetto da rappresentare ed in rapporto a questa ed alla sua collocazione nello spazio agisce e modifica la tecnica. Infatti il colore "troppo vivo" non viene solo schiarito dal pittore ma, soprattutto a Padova, viene anche modificato tonalmente, in genere smorzato appena e raffreddato, spostato, cioé, verso tonalità azzurre (ma lo spostamento non ne snatura l'origine) che lo rendono apparentemente, appunto, meno vivo.
In Italia i grandi cicli pittorici prevalevano ormai su quelli scolpiti, ai quali Dante stesso, come abbiamo visto, si era ispirato nel Purgatorio e l'arte di Giotto aveva contribuito non poco ad affrettare questa evoluzione. Il fenomeno, evidentemen-te, interessò anche Dante e la sua concezione dell'arte, visto che nell'ultima cantica è alla pittura che si attribuisce la massima capacità di comunicazione, specie nel campo dei sentimenti. Questa, negli ultimi versi della Commedìa che ne parlano, è paragonata alla Natura per la capacità di agire sull'uomo ed è solo in Paradiso che la sua bellezza pare niente, ma non in terra:.

La mente innamorata, che donnea
con la mia donna sempre, di ridure
ad essa li occhi più che mai ardea;
e se natura o arte fé pasture
da pigliare occhi, per aver la mente,
in carne umana o nelle sue pitture,
tutte adunate, parrebber niente
ver' lo piacer divin che mi refulse
quando mi volsi al suo viso ridente.
(Par. XXVII 88-96)

Dipingere, poetare, seguire la bellezza è lo scopo dell'arte:

Dal primo giorno ch'i' vidi il suo viso
in questa vita, infino a questa vista,
non m'è il seguire al mio cantar preciso;
ma or convien che mio seguir desista
più dietro a sua bellezza, poetando,
come a l'ultimo suo ciascuno artista
(Par. XXX 28-33)

Non crediamo che una simile concezione dell'arte fosse così chiara e sentita in Dante prima della Commedìa né che versi simili avrebbero potuto essere composti al tempo della Vita Nova; si tratta del risultato di una maturazione durata anni che, forse, fu accellerata e perfezionata dalla contemplazione dell'opera di Giotto. Anche le disillusioni passate dal poeta e la certezza di una vita futura, che nella sua mente si concretizzano nelle immagini del Paradiso, hanno sicuramente contribuito ad accellerare il suo sentimento particolare dell'arte che, a questo punto, diviene la sua vera e autentica ragione di vita anche al di là della speranza in quella futura.
La teoria della conoscenza di San Tommaso, con l'impressione che nell'intelletto fa la realtà, corrisponde nel Dolce Stil Novo al trasmigrare degli spiritelli dalla persona che genera amore, l'amato, nell'animo dell'amante dove vanno a rifugiarsi. Nell'ambito della razionalità agiscono le facoltà dell'intelletto per conoscere l'oggetto, nell'ambito della poesia sono altre facoltà dell'animo, preparate da un'educazione "gentile"; per essere precisi più che di facoltà di dovrebbe parlare di un modo di essere di tutta la persona cui doveva corrispondere un adeguato stile di vita. Questa concezione unitaria dell'uomo unita all'idea di progresso che Dante teorizza proprio nei versi in cui attesta la superiorità di Giotto sono decisamente i veri germi del futuro Umanesimo.
Negli ultimi canti del Paradiso l'impostazione eccessivamen-te razionale di origine tomistica viene abbandonata e si diffonde un sentire genericamente più misticheggiante, peraltro perfetta-mente adatto a chi si sia avvicinato tanto a Dio, almeno con l'immaginazione. È come se alla Summa teologica di San Tommaso si sostituisse, come riferimento ideologico, l'Itinerarium mentis in Deum di San Bonaventura ed il poeta considerasse la poesia e l'arte in genere il solo mezzo capace di esprimere un simile modo di essere dello spirito. Non crediamo che si trattasse di una presa di posizione cosciente ma di un naturale evolversi interiore, indotto dalla stessa azione del poetare. La vera novità e il vero progresso della concezione artistica che Dante sviluppa nel corso della Commedìa è il superamento della concezione puramente tecnico-manuale della pittura che è omologata dal poeta alle arti della parola, come già dimostra la sua iniziale educazione al disegno. Un'evoluzione che arriverà per la prima volta a nobilitare i pittori quanto i poeti, come non era mai stato da vari secoli.
È una visione globale del vivere alla quale ci si deve adeguare per ingentilirsi, una sorta di itinerarium animi verso una perfezione che teoricamente è Dio, ma in pratica si ferma a quell'amore per la bellezza dell'arte che la contemplazione del bello materiale genera. Quando Dante, dopo essersi purgato dei suoi peccati, compie il suo personale itinerarium mentis in Deum guidato da Beatrice, nell'ultimo canto, dopo aver costatato di essere ancora legato al mondo, torna a cantare la bellezza e afferma che questo è il fine, scopo e dovere assieme, di un artista. Dante acquisì, nella Commedìa, la capacità di esprimersi direttamente e spontaneamente, ormai padrone della lingua e delle sue possibilità mano a mano che procedeva nell'opera, traducendo direttamente in versi i sentimenti ormai connaturati al suo animo e aprendo alle generazioni future, nuove strade e nuove possibilità superiori perfino, sotto determinati punti di vista, a quelle battute da quegli stessi antichi che tanto ammira-va.
Il parallelismo con l'analoga azione di Giotto chiarisce sino a qual punto ciò non fu proprio del singolo artista ma la nascita di un nuovo modo di essere dell'arte stessa: entrambi modificarono continuamente, nel corso della propria vita, se stessi ed il proprio modo di fare arte. Non intendiamo solamente il naturale evolversi che ogni artista ha nel corso della propria vita, quell'affinarsi dello stile e dei mezzi espressivi che è conse-guenza di una maturazione interiore, ma un processo cosciente di autocorrezione o meglio, una continua ricerca di nuovi mezzi espressivi. Una ricerca precisa e volontaria che è possibile seguire nell'opera dei due grandi artisti e che poteva, come fu, essere continuata anche dopo di loro.
Il concetto di moderno (e forse di rivoluzionario) è anzitutto nel modo di concepire il proprio agire prima ancora che nelle opere realizzate. Naturalmente in Dante un simile modo di concepire l'operato artistico non è neppure teorizzato in alcun modo, ma che la ricerca del senso da dare alla propria vita (l'amore prima, e dall'amore alla verità ed alla salvezza) vada in parallelo con la ricerca di un fine ed uno scopo dell'arte è evidente, sino ad essere affermato negli ultimi versi sopra citati. Di Giotto naturalmente non abbiamo nulla di scritto ma le opere portano alle stesse conclusioni.
A questo punto ci si può porre un'ultima serie di domande che rimarranno, in questa sede, senza risposta visto che esulano dal fine iniziale dell'opera. La grande fama di cui godettero i due grandi artisti, Dante e Giotto, fu dovuta anzitutto all'elevatissima qualità delle loro opere, ma fino a che punto questa qualità fu capita in tutti i suoi significati? E lo fu egualmente per entrambi? Noi moderni, compreso l'autore di questo breve saggio, non fatichiamo a mettere in parallelo i due artisti, le loro personalità e il loro modo di concepire e fare l'arte, ma i loro contemporanei facevano altrettanto? Noi abbiamo una visione unitaria della nuova forza culturale che muoveva l'Italia di allora, ma era poi sentita come tale a quei tempi?.
Ci spieghiamo meglio: l'opera di Dante corrispondeva pie-namente a determinate esigenze dell'anima medioevale, soprattutto negli scopi finali e nell'importanza della struttura concettuale e questo contribuì a determinarne l'immediato successo, ma il nuovo modo di concepire l'arte, così teso a dare rilievo al ruolo stesso dell'artista, fu realmente ben compreso e, soprattutto, ben accettato?
Altrettanto potrebbe dirsi per Giotto, ma precisando il problema: le sue innovazioni tecniche furono subito accettate, se non altro perché ampliavano enormemente la capacità della pittura di comunicare ed impressionare un pubblico sempre più vasto, ma l'eccessiva umanizzazione del sacro non provocò forse delle reazioni?
Secondo alcuni in parte si, ma forse anche questo fu solo apparente. Quelle che sembrarono reazioni all'eccessivo realismo di Giotto furono invece affinamenti culturali nei quali, rendendo la materia dell'arte sempre più elegante e raffinata si ristabiliva la separazione tradizionale tra l'uomo di cultura ed il volgo.
La differenza con i secoli precedenti fu che questa cultura apparteneva a chi sapesse gestirla e farla propria, non a chi ricopriva un qualche ruolo, magari ecclesiastico. In questo senso sarebbe interessante esaminare anche i rapporti tra Francesco Petrarca e Simone Martini notando subito che Petrarca non paragona mai, a differenza di Dante, le capacità espressive della poesia a quelle della pittura pur mantenedo un concetto elevatis-simo e paritetico di entrambe.

LA FORTUNA DI GIOTTO

Tutto il discorso fatto è connesso a quello, più rilevante per la storia dell'arte e della comunicazione per immagine, della pretesa rivoluzionarietà della sua pittura. Come sentirono i contemporanei la sua maniera? Al di la di giudizi di valore (qualitativo) sempre favorevoli, lo videro come un innovatore, un rivoluzionario o solo come uno più bravo, anche se molto, degli altri?.
A posteriori qualunque interpretazione è sostenibile con una certa buona dose di ragione, ma le cose sono sempre state diverse per gli occhi di chi le abbia viste in fieri rispetto a chi le abbia ricevute dopo, già "impacchettate" con una serie di giudizi e di valutazioni aggiunte, esatte magari, ma aggiunte. L'interpretazione stessa dei fatti storici è, di per se, la prima forma di pensiero ideologico. Abbiamo già visto che Dante ha un'idea abbastanza esatta del valore di Giotto e lo accomunò al concetto di un rinnovamento generale delle arti, di cui egli stesso si vedeva come protagonista e la fama di Dante, sappiamo, assunse dimensioni mondiali mentre erano ancora vivi sia lui che Giotto e le mantiene tuttora.
Il concetto di rivoluzione a quel tempo era sconosciuto, tanto che senza cercare una presunta "reazione" antigiottesca Franco Sacchetti fa dire a Taddeo Gaddi che mancavano artisti come Giotto, Cimabue o Buffalmacco, chiunque fosse quest'ultimo, ma si tratta sempre, come si può vedere, di giudizi di valore qualitativo che non riguardano la nuova maniera.
Vediamo le parole del Sacchetti:
" … e fra l'altre questione mosse uno, che avea nome l'Orcagna, il quale fu capo maestro dell'oratorio nobile di Nostra Donna d'Orto San Michele: qual fu il maggior maestro di dipignere, che altro, che sia stato da Giotto in fuori? Chi dicea, che fu Cimabue, chi Stefano, chi Bernardo, e chi Buffalmacco, e chi uno e chi un altro. Taddeo Gaddi, che era nella brigata, disse: per certo assai valentri dipintori sono stati, e che hanno dipinto per forma, ch'è impossibile a natura umana poterlo fare; ma questa arte è venuta e viene mancando tutto dì.".
Questa discussione è stata presa ad esempio dell'andamento alterno delle fortune di Giotto nel XIV secolo, quando la sua superiorità sarebbe stata accettata solo formalmente (ma comunque lo era) anche da quei pittori, come l'Orcagna, che in qualche modo esprimevano una sorta di reazione all'eccessivo materialismo del grande maestro. Osserviamo per inciso che il Sacchetti si preoccupa di spiegare chi fosse l'Orcagna ma lo fa per Taddeo Gaddi, che con Giotto aveva lavorato, come se la fama di questi non lo rendesse necessario.
Crediamo che in questo caso si sia preso come un rifiuto della pittura di Giotto il fatto che sia i contemporanei sia la generazio-ne immediatamente seguente non fossero in grado di rendere espliciti i motivi della sua superiorità; eppure tutte le fonti indicano chiaramente che questa era indiscussa, probabilmente perché evidente anche se non definibile.
Ma come lo avrebbero mai fatto se non avevano neppure una teoria della prospettiva né potevano, visto che questa fu la consequenza e non la causa della "rivoluzione" giottesca. Ma poi, non è forse una caratteristica dell'arte poter comunicare anche se chi riceve la comunicazione non analizza il come ciò avvenga?
Sinceramente non sappiamo quanto si possa dar fede ad un colloquio che il Sacchetti riporta dopo il 1390 e che avrebbe dovuto aver luogo quasi quaranta anni prima, malgrado le proteste in contrario fatte nel proemio alle Trecentonovelle, ma è certo che pochi anni dopo il Cennini ignorerà del tutto queste posizioni.
Precedentemente, circa nel 1374, un commentatore della commedia vissuto a lungo a Firenze, Benvenuto da Imola, aveva ripreso il concetto stesso di Dante che la fama sussiste sino a quando qualcuno non la oscuri proprio a proposito di Giotto commentando le due celebri terzine:

" Oh vana gloria de l'umane posse!
com poco verde in su la cima dùra,
se non è giunta da l'etadi grosse!
Credette Cimabue nella pittura
tener lo campo, e or ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura".
(Purg., XI 92-97)

Scrive in proposito Benvenuto da Imola:

"Giottus adhuc tenet campum, quia nondum venit alius eo subtilior, cum tamen fecerit aliquando ma-gnos errores in picturis suis, ut audivi a magnis ingeniis".

Ma la stessa ammissione di incompetenza che il Commenta-tore fa appellandosi all'autorità di altri non ben precisati fa piuttosto supporre che prevalesse la volontà di dimostrare la validità dell'assunto dantesco piuttosto che il desiderio di trovare difetti in Giotto. Poiché nessuno ha mai pensato che Giotto fosse perfetto non ci sembra che si possa assumere il passo come prova di una reazione antigiottesca quanto del progresso che rispetto a Giotto stesso la pittura aveva fatto in cinquant'anni dopo al sua morte.
Petrarca stesso, apparentemente così lontano da ogni forma di realismo eccessivo, loda Giotto nel suo testamento del 1370 nel quale è citata una Madonna "cuius pulchritudinem ignorantes non intelligunt, magistri autem artis stupent". E neanche noi ci meravigliamo che Petrarca badasse piuttosto alla bellezza del dipinto che ad eventuali errori, ma il fatto che gli ignoranti d'arte non si meravigliassero dimostra anche che certe conquiste tecnico-espressive fossero ormai assodate.
Da questo punto di vista le correnti spiritualiste (non in senso religioso ma solo artistico) che confluirono nella scuola senese di Simone Martini erano in grado di rappresentazioni realistiche e prospettiche di gran lunga migliori. La frase riprende quella di Quintiliano già citata "Docti rationem artis intelligunt, indocti voluptatem", e ci ricorda che Petrarca aveva ritrovato, venti anni prima, parte delle Institutiones Oratoriae; ritrovamento consa-pevole che è forse il primo atto cosciente dell'Umanesimo.
Anche se Petrarca parla di ignoranti in senso tecnico relativo alla pittura e Quintiliano in senso generico si converrà che in entrambi i casi è sotteso un vero senso di superiorità nei confronti di costoro. È questa superiorità culturale, la superiorità dell'ingegno (più in Quintiliano) e dello spirito (più in Petrarca) sulla parte istintiva dell'uomo che viene affermata e che portò a correggere in tal senso l'eccessivo realismo dei due capostipiti dell'arte moderna, Dante e Giotto, nella seconda metà del Trecento.

BREVE NOTA BIBLIOGRAFICA

La bibliografia su Giotto è talmente vasta che un'accenno, sia pure sommario, sarebbe più lungo di tutta quest'opera, si rimanda pertanto, per tutto quanto è anteriore al 1937 a R. Salvini "Giotto - Bibliografia", Roma 1938; alla monografia di C. Gnudi "Giotto", Milano 1959 per gli anni successivi ed al volume di C. De Benedictis, Giotto. Bibliografia. Vol. II (1937 - 1970), Roma 1973.
I principali problemi attributivi furono messi a punto dallo studio di G. Sinibaldi e G. Brunetti "Pittura Italiana del Duecen-to e del Trecento", Catalogo della Mostra Giottesca di Firenze del 1937, Firenze 1943, mentre per i problemi spaziali è particolarmente importante lo studio di G, Gioseffi "Giotto Architetto", Milano 1963. Una menzione particolare merita l'eccellente lavoro riassuntivo operato da Edi Baccheschi nel volume "L'Opera Completa di Giotto", presentata da G. Vigorelli nella collana dei classici dell'Arte di Rizzoli, Milano 1977.
Per le fonti letterarie sulla vita di San Francesco il riferimento più facile è il volume "Fonti Francescane", Edizioni Messagge-ro, Padova 1987, dove possono essere ritrovati tutti i testi utili anche se non in lingua originale e le indicazioni necessarie per un'eventuale ricerca sui testi critici.
Di particolare aiuto sono stati gli studi di R. Manselli, basterà citare "La Religiosità Popolare nel Medio-Evo", Bologna 1983, a cura del medesimo, in cui si trova anche lo studio di E. Delaruelle "San Francesco d'Assisi e la Pietà Popolare", che costituisce un'ottima base di partenza per la ricostruzione della nascita di una iconografia del Santo.

BIBLIOGRAFIA

Su Giotto:

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