Riportiamo le conclusioni di un nostro breve saggio su Dante e i
suoi
rapporti con le arti figurative intitolato appunto La Pittura di Dante
e
che riteniamo utili ad un ulteriore chiarimento delle nostre tesi ed al
quale
rimandiamo per una visione completa dei problemi proposti seguite da
alcune
considerazioni sulla fortuna di Giotto presso i contemporanei.
DANTE
Ma perché veggi me' ciò ch'io disegno
A colorar distenderò la mano.
(Purg. XXII, 74 - 75)
Tutta la concezione artistica di Dante viene definitivamente chiarita apertis verbis negli ultimi canti del Paradiso nei quali pare proprio che la pittura sia il mezzo più consono ad esprimere ciò che è bello e buono. Per affermare questo concetto in più punti Dante si dichiara incapace di descrivere e ricordare cose e pensieri troppo forti (color troppo vivo) per la mente umana, tali da superare la sua capacità creatrice (la mia fantasia) e sempre facendo ricorso a paragoni con la pittura:
Di quella ch'io notai di più carezza
vid'io uscire un foco sì felice
che nullo vi lasciò di più chiarezza;
e tre fïate intorno di Beatrice
si volse, con un canto tanto divo
che la mia fantasia nol mi ridice
Però salta la penna e non lo scrivo:
ché l'imagine nostra a cotai pieghe,
non che 'l parlare, è troppo color vivo
(Par. XXIV 19-27)
È accennato, qui, il problema delle ombreggiature nelle
pie-ghe, allora di difficile soluzione, e che Giotto risolse con sempre
maggiore
abilità nel progredire della sua arte, specialmente a Padova,
ciclo
di pitture già conosciuto da Dante quando componeva questi canti
del Paradiso. Anche queste considera-zioni, che possono avere un valore
solo molto relativo, anche se fondamentalmente esatto, sono utili per
risolvere
la questione se, in Giotto si evidenzi l'influsso della Commedìa
di
Dante a Padova o, viceversa, in Dante si riveli una nuova opinione
della
pittura generata dalla conoscenza della rifondazione Giottesca. Certo
in
Giotto il sentimento dell'umanità dantesca, specie nell'Inferno,
avrebbe dovuto influire sulla pittura padovana mentre, nel frattempo,
non
aveva probabilmente già conosciuto Dante almeno il ciclo di
Assisi?
Tuttavia la storia della pubbli-cazione dei primi sette canti
dell'Inferno
prima dell'esilio è assai poco probabile, mentre è certa
la
divulgazione delle due prime cantiche dopo il 1312, quando la Cappella
degli
Scrovegni era certamente già finita. È eventualmente
Dante
ad ispirarsi a Giotto, e non viceversa!
Giotto è maggiormente in grado di risolvere questi problemi
perché aveva chiaramente presente il problema della
tridimen-sionalità del soggetto da rappresentare ed in rapporto
a questa ed alla sua collocazione nello spazio agisce e modifica la
tecnica. Infatti il colore "troppo vivo" non viene solo schiarito dal
pittore ma, soprattutto a Padova, viene anche modificato tonalmente, in
genere smorzato appena e raffreddato, spostato, cioé, verso
tonalità azzurre (ma lo spostamento non ne snatura l'origine)
che lo rendono apparentemente, appunto, meno vivo.
In Italia i grandi cicli pittorici prevalevano ormai su quelli
scolpiti, ai quali Dante stesso, come abbiamo visto, si era ispirato
nel Purgatorio e l'arte di Giotto aveva contribuito non poco ad
affrettare questa evoluzione. Il fenomeno, evidentemen-te,
interessò anche Dante e la sua concezione dell'arte, visto che
nell'ultima cantica è alla pittura che si attribuisce la massima
capacità di comunicazione, specie nel campo dei sentimenti.
Questa, negli ultimi versi della Commedìa che ne parlano,
è paragonata alla Natura per la capacità di agire
sull'uomo ed è solo in Paradiso che la sua bellezza pare niente,
ma non in terra:.
La mente innamorata, che donnea
con la mia donna sempre, di ridure
ad essa li occhi più che mai ardea;
e se natura o arte fé pasture
da pigliare occhi, per aver la mente,
in carne umana o nelle sue pitture,
tutte adunate, parrebber niente
ver' lo piacer divin che mi refulse
quando mi volsi al suo viso ridente.
(Par. XXVII 88-96)
Dipingere, poetare, seguire la bellezza è lo scopo dell'arte:
Dal primo giorno ch'i' vidi il suo viso
in questa vita, infino a questa vista,
non m'è il seguire al mio cantar preciso;
ma or convien che mio seguir desista
più dietro a sua bellezza, poetando,
come a l'ultimo suo ciascuno artista
(Par. XXX 28-33)
Non crediamo che una simile concezione dell'arte fosse così
chiara e sentita in Dante prima della Commedìa né che
versi simili avrebbero potuto essere composti al tempo della Vita Nova;
si tratta del
risultato di una maturazione durata anni che, forse, fu accellerata e
perfezionata
dalla contemplazione dell'opera di Giotto. Anche le disillusioni
passate
dal poeta e la certezza di una vita futura, che nella sua mente si
concretizzano nelle immagini del Paradiso, hanno sicuramente
contribuito ad accellerare
il suo sentimento particolare dell'arte che, a questo punto, diviene la
sua
vera e autentica ragione di vita anche al di là della speranza
in
quella futura.
La teoria della conoscenza di San Tommaso, con l'impressione che
nell'intelletto fa la realtà, corrisponde nel Dolce Stil Novo al
trasmigrare degli spiritelli dalla persona che genera amore, l'amato,
nell'animo dell'amante dove vanno a rifugiarsi. Nell'ambito della
razionalità agiscono le facoltà dell'intelletto per
conoscere l'oggetto, nell'ambito della poesia sono altre facoltà
dell'animo, preparate da un'educazione
"gentile"; per essere precisi più che di facoltà di
dovrebbe
parlare di un modo di essere di tutta la persona cui doveva
corrispondere
un adeguato stile di vita. Questa concezione unitaria dell'uomo unita
all'idea
di progresso che Dante teorizza proprio nei versi in cui attesta la
superiorità di Giotto sono decisamente i veri germi del futuro
Umanesimo.
Negli ultimi canti del Paradiso l'impostazione eccessivamen-te
razionale di origine tomistica viene abbandonata e si diffonde un
sentire genericamente più misticheggiante, peraltro
perfetta-mente adatto a chi si sia
avvicinato tanto a Dio, almeno con l'immaginazione. È come se
alla
Summa teologica di San Tommaso si sostituisse, come riferimento
ideologico,
l'Itinerarium mentis in Deum di San Bonaventura ed il poeta
considerasse
la poesia e l'arte in genere il solo mezzo capace di esprimere un
simile
modo di essere dello spirito. Non crediamo che si trattasse di una
presa
di posizione cosciente ma di un naturale evolversi interiore, indotto
dalla
stessa azione del poetare. La vera novità e il vero progresso
della
concezione artistica che Dante sviluppa nel corso della Commedìa
è
il superamento della concezione puramente tecnico-manuale della pittura
che è omologata dal poeta alle arti della parola, come
già
dimostra la sua iniziale educazione al disegno. Un'evoluzione che
arriverà
per la prima volta a nobilitare i pittori quanto i poeti, come non era
mai
stato da vari secoli.
È una visione globale del vivere alla quale ci si deve adeguare
per ingentilirsi, una sorta di itinerarium animi verso una perfezione
che teoricamente è Dio, ma in pratica si ferma a quell'amore per
la bellezza dell'arte che la contemplazione del bello materiale genera.
Quando Dante, dopo essersi purgato dei suoi peccati, compie il suo
personale itinerarium mentis in Deum guidato da Beatrice, nell'ultimo
canto, dopo aver costatato di essere ancora legato al mondo, torna a
cantare la bellezza e afferma che questo è il fine, scopo e
dovere assieme, di un artista. Dante acquisì, nella
Commedìa, la capacità di esprimersi direttamente e
spontaneamente, ormai padrone della lingua e delle sue
possibilità mano a mano che procedeva nell'opera, traducendo
direttamente in versi i sentimenti ormai connaturati al suo animo e
aprendo alle generazioni future, nuove strade
e nuove possibilità superiori perfino, sotto determinati punti
di
vista, a quelle battute da quegli stessi antichi che tanto ammira-va.
Il parallelismo con l'analoga azione di Giotto chiarisce sino a qual
punto ciò non fu proprio del singolo artista ma la nascita di un
nuovo
modo di essere dell'arte stessa: entrambi modificarono continuamente,
nel
corso della propria vita, se stessi ed il proprio modo di fare arte.
Non
intendiamo solamente il naturale evolversi che ogni artista ha nel
corso
della propria vita, quell'affinarsi dello stile e dei mezzi espressivi
che
è conse-guenza di una maturazione interiore, ma un processo
cosciente
di autocorrezione o meglio, una continua ricerca di nuovi mezzi
espressivi.
Una ricerca precisa e volontaria che è possibile seguire
nell'opera
dei due grandi artisti e che poteva, come fu, essere continuata anche
dopo
di loro.
Il concetto di moderno (e forse di rivoluzionario) è anzitutto
nel modo di concepire il proprio agire prima ancora che nelle opere
realizzate. Naturalmente in Dante un simile modo di concepire l'operato
artistico non è neppure teorizzato in alcun modo, ma che la
ricerca del senso da dare alla propria vita (l'amore prima, e
dall'amore alla verità ed alla salvezza) vada in parallelo con
la ricerca di un fine ed uno scopo
dell'arte è evidente, sino ad essere affermato negli ultimi
versi
sopra citati. Di Giotto naturalmente non abbiamo nulla di scritto ma le
opere portano alle stesse conclusioni.
A questo punto ci si può porre un'ultima serie di domande che
rimarranno, in questa sede, senza risposta visto che esulano dal fine
iniziale dell'opera. La grande fama di cui godettero i due grandi
artisti, Dante e Giotto, fu
dovuta anzitutto all'elevatissima qualità delle loro opere, ma
fino
a che punto questa qualità fu capita in tutti i suoi
significati?
E lo fu egualmente per entrambi? Noi moderni, compreso l'autore di
questo
breve saggio, non fatichiamo a mettere in parallelo i due artisti, le
loro
personalità e il loro modo di concepire e fare l'arte, ma i loro
contemporanei facevano altrettanto? Noi abbiamo una visione unitaria
della nuova forza
culturale che muoveva l'Italia di allora, ma era poi sentita come tale
a
quei tempi?.
Ci spieghiamo meglio: l'opera di Dante corrispondeva pie-namente a
determinate esigenze dell'anima medioevale, soprattutto negli scopi
finali e nell'importanza della struttura concettuale e questo
contribuì a determinarne l'immediato successo, ma il nuovo modo
di concepire l'arte, così teso a dare
rilievo al ruolo stesso dell'artista, fu realmente ben compreso e,
soprattutto,
ben accettato?
Altrettanto potrebbe dirsi per Giotto, ma precisando il problema: le
sue innovazioni tecniche furono subito accettate, se non altro
perché
ampliavano enormemente la capacità della pittura di comunicare
ed
impressionare un pubblico sempre più vasto, ma l'eccessiva
umanizzazione
del sacro non provocò forse delle reazioni?
Secondo alcuni in parte si, ma forse anche questo fu solo apparente.
Quelle che sembrarono reazioni all'eccessivo realismo di Giotto furono
invece affinamenti culturali nei quali, rendendo la materia dell'arte
sempre più elegante e raffinata si ristabiliva la separazione
tradizionale tra l'uomo di cultura ed il volgo.
La differenza con i secoli precedenti fu che questa cultura apparteneva
a chi sapesse gestirla e farla propria, non a chi ricopriva un qualche
ruolo, magari ecclesiastico. In questo senso sarebbe interessante
esaminare anche i rapporti tra Francesco Petrarca e Simone Martini
notando subito che Petrarca non paragona mai, a differenza di Dante, le
capacità espressive della poesia a quelle della pittura pur
mantenedo un concetto elevatis-simo e
paritetico di entrambe.
Tutto il discorso fatto è connesso a quello, più
rilevante per la storia dell'arte e della comunicazione per immagine,
della pretesa rivoluzionarietà della sua pittura. Come sentirono
i contemporanei la sua maniera? Al di la di giudizi di valore
(qualitativo) sempre favorevoli, lo videro come un innovatore, un
rivoluzionario o solo come uno più bravo, anche se molto, degli
altri?.
A posteriori qualunque interpretazione è sostenibile con una
certa buona dose di ragione, ma le cose sono sempre state diverse per
gli occhi di chi le abbia viste in fieri rispetto a chi le abbia
ricevute dopo, già "impacchettate" con una serie di giudizi e di
valutazioni aggiunte, esatte magari, ma aggiunte. L'interpretazione
stessa dei fatti storici è, di per se, la prima forma di
pensiero ideologico. Abbiamo già visto che Dante ha un'idea
abbastanza esatta del valore di Giotto e lo accomunò al concetto
di un rinnovamento generale delle arti, di cui egli stesso si vedeva
come protagonista e la fama di Dante, sappiamo, assunse dimensioni
mondiali mentre erano ancora vivi sia lui che Giotto e le mantiene
tuttora.
Il concetto di rivoluzione a quel tempo era sconosciuto, tanto che
senza cercare una presunta "reazione" antigiottesca Franco Sacchetti fa
dire a
Taddeo Gaddi che mancavano artisti come Giotto, Cimabue o Buffalmacco,
chiunque
fosse quest'ultimo, ma si tratta sempre, come si può vedere, di
giudizi
di valore qualitativo che non riguardano la nuova maniera.
Vediamo le parole del Sacchetti:
" … e fra l'altre questione mosse uno, che avea nome l'Orcagna, il
quale fu capo maestro dell'oratorio nobile di Nostra Donna d'Orto San
Michele:
qual fu il maggior maestro di dipignere, che altro, che sia stato da
Giotto
in fuori? Chi dicea, che fu Cimabue, chi Stefano, chi Bernardo, e chi
Buffalmacco, e chi uno e chi un altro. Taddeo Gaddi, che era nella
brigata, disse: per certo assai valentri dipintori sono stati, e che
hanno dipinto per forma, ch'è impossibile a natura umana poterlo
fare; ma questa arte è venuta e viene mancando tutto dì.".
Questa discussione è stata presa ad esempio dell'andamento
alterno delle fortune di Giotto nel XIV secolo, quando la sua
superiorità
sarebbe stata accettata solo formalmente (ma comunque lo era) anche da
quei
pittori, come l'Orcagna, che in qualche modo esprimevano una sorta di
reazione
all'eccessivo materialismo del grande maestro. Osserviamo per inciso
che
il Sacchetti si preoccupa di spiegare chi fosse l'Orcagna ma lo fa per
Taddeo Gaddi, che con Giotto aveva lavorato, come se la fama di questi
non lo rendesse
necessario.
Crediamo che in questo caso si sia preso come un rifiuto della pittura
di Giotto il fatto che sia i contemporanei sia la generazio-ne
immediatamente seguente non fossero in grado di rendere espliciti i
motivi della sua superiorità; eppure tutte le fonti indicano
chiaramente che questa era indiscussa, probabilmente perché
evidente anche se non definibile.
Ma come lo avrebbero mai fatto se non avevano neppure una teoria della
prospettiva né potevano, visto che questa fu la consequenza e
non la
causa della "rivoluzione" giottesca. Ma poi, non è forse una
caratteristica dell'arte poter comunicare anche se chi riceve la
comunicazione non analizza il come ciò avvenga?
Sinceramente non sappiamo quanto si possa dar fede ad un colloquio che
il Sacchetti riporta dopo il 1390 e che avrebbe dovuto aver luogo quasi
quaranta anni prima, malgrado le proteste in contrario fatte nel
proemio alle Trecentonovelle, ma è certo che pochi anni dopo il
Cennini ignorerà del tutto queste posizioni.
Precedentemente, circa nel 1374, un commentatore della commedia vissuto
a lungo a Firenze, Benvenuto da Imola, aveva ripreso il concetto stesso
di Dante che la fama sussiste sino a quando qualcuno non la oscuri
proprio
a proposito di Giotto commentando le due celebri terzine:
" Oh vana gloria de l'umane posse!
com poco verde in su la cima dùra,
se non è giunta da l'etadi grosse!
Credette Cimabue nella pittura
tener lo campo, e or ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura".
(Purg., XI 92-97)
Scrive in proposito Benvenuto da Imola:
"Giottus adhuc tenet campum, quia nondum venit alius eo subtilior, cum tamen fecerit aliquando ma-gnos errores in picturis suis, ut audivi a magnis ingeniis".
Ma la stessa ammissione di incompetenza che il Commenta-tore fa
appellandosi all'autorità di altri non ben precisati fa
piuttosto supporre che
prevalesse la volontà di dimostrare la validità
dell'assunto
dantesco piuttosto che il desiderio di trovare difetti in Giotto.
Poiché
nessuno ha mai pensato che Giotto fosse perfetto non ci sembra che si
possa
assumere il passo come prova di una reazione antigiottesca quanto del
progresso che rispetto a Giotto stesso la pittura aveva fatto in
cinquant'anni dopo
al sua morte.
Petrarca stesso, apparentemente così lontano da ogni forma di
realismo eccessivo, loda Giotto nel suo testamento del 1370 nel quale
è citata una Madonna "cuius pulchritudinem ignorantes non
intelligunt, magistri autem artis stupent". E neanche noi ci
meravigliamo che Petrarca badasse piuttosto alla bellezza del dipinto
che ad eventuali errori, ma il fatto che gli ignoranti d'arte non si
meravigliassero dimostra anche che certe conquiste tecnico-espressive
fossero ormai assodate.
Da questo punto di vista le correnti spiritualiste (non in senso
religioso ma solo artistico) che confluirono nella scuola senese di
Simone Martini
erano in grado di rappresentazioni realistiche e prospettiche di gran
lunga
migliori. La frase riprende quella di Quintiliano già citata
"Docti
rationem artis intelligunt, indocti voluptatem", e ci ricorda che
Petrarca
aveva ritrovato, venti anni prima, parte delle Institutiones Oratoriae;
ritrovamento consa-pevole che è forse il primo atto cosciente
dell'Umanesimo.
Anche se Petrarca parla di ignoranti in senso tecnico relativo alla
pittura e Quintiliano in senso generico si converrà che in
entrambi i casi è sotteso un vero senso di superiorità
nei confronti di costoro. È questa superiorità culturale,
la superiorità dell'ingegno (più in Quintiliano) e dello
spirito (più in Petrarca) sulla parte istintiva dell'uomo che
viene affermata e che portò a correggere in tal senso
l'eccessivo realismo dei due capostipiti dell'arte moderna, Dante e
Giotto, nella seconda metà del Trecento.
La bibliografia su Giotto è talmente vasta che un'accenno,
sia
pure sommario, sarebbe più lungo di tutta quest'opera, si
rimanda
pertanto, per tutto quanto è anteriore al 1937 a R. Salvini
"Giotto
- Bibliografia", Roma 1938; alla monografia di C. Gnudi "Giotto",
Milano
1959 per gli anni successivi ed al volume di C. De Benedictis, Giotto.
Bibliografia. Vol. II (1937 - 1970), Roma 1973.
I principali problemi attributivi furono messi a punto dallo studio di
G. Sinibaldi e G. Brunetti "Pittura Italiana del Duecen-to e del
Trecento", Catalogo della Mostra Giottesca di Firenze del 1937, Firenze
1943, mentre per i problemi spaziali è particolarmente
importante lo studio di
G, Gioseffi "Giotto Architetto", Milano 1963. Una menzione particolare
merita l'eccellente lavoro riassuntivo operato da Edi Baccheschi nel
volume "L'Opera Completa di Giotto", presentata da G. Vigorelli nella
collana dei classici dell'Arte di Rizzoli, Milano 1977.
Per le fonti letterarie sulla vita di San Francesco il riferimento
più facile è il volume "Fonti Francescane", Edizioni
Messagge-ro, Padova 1987, dove possono essere ritrovati tutti i testi
utili anche se non in
lingua originale e le indicazioni necessarie per un'eventuale ricerca
sui
testi critici.
Di particolare aiuto sono stati gli studi di R. Manselli,
basterà citare "La Religiosità Popolare nel Medio-Evo",
Bologna 1983, a cura del medesimo, in cui si trova anche lo studio di
E. Delaruelle "San Francesco d'Assisi e la Pietà Popolare", che
costituisce un'ottima base di
partenza per la ricostruzione della nascita di una iconografia del
Santo.
Su Giotto:
- E. GIUSTO, Le vetrate di San Francesco in Assisi. Studio storico
iconografico, Milano, 1911.
- B. BAGHETTI, Vita e miracoli di san Francesco nelle tavole istoriate
dei secoli XIII e XIV, in "Archivium Franciscanum Historicum", 1926,
XXI.
- R. SALVINI, Giotto - Bibliografia, Roma 1938;.
- M. SALMI, Giotto, Novara, 1941.
- G. SINIBALDI e G. BRUNETTI, Pittura italiana del Duecento e del
Trecento, catalogo della mostra giottesca di Firenze del 1937, Firenze
1943.
- P. TOESCA, Giotto, ristampa corretta della I ediz. 1941, Torino, 1945.
- E. AESCHLIMANN, Bibliografia del libro d'arte italiano, Roma, 1953.
- A. TERZI, Memorie francescane nella valle reatina, Roma, 1955.
- C. GNUDI, Giotto, Milano 1959.
- M.A. BROWN, Early portraiture of saint Francis, in Franc. Studies,
1961, XXI.
- G. GIOSEFFI, Giotto architetto, Milano 1963.
- O. SCHMUCKI, De sancti Francisci assisiensis stigmatum susceptione,
in C.F., 1963, XXXIII.
- G. PREVITALI, Giotto e la sua bottega, Milano, 1967.
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in Italy and the discovery of pictorial composition, 1350-1400, Oxford,
1971.
- C. DE BENEDICTIS, Giotto. Bibliografia. Vol. II (1937 - 1970), Roma,
1973.
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storico-salvifica degli affreschi della navata nella chiesa superiore
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