PARTE SECONDA

ANALISI DEGLI AFFRESCHI

Per ogni episodio è riportata la ricostruzione in volgare del titulus che lo descriveva fatta da Padre Bonaventura Marinange-li, sono indicate le fonti letterarie in cui è narrato e l'indicazione del gruppo al quale l'affresco appartiene.



PRIMO EPISODIO
(Primo della Prima Serie)

Quando un uomo semplice di Assisi stende le vesti per terra dinanzi al beato Francesco e rende onore al suo passaggio per giunta affermando, ispirato, come si crede, da Dio, essere Francesco degno di ogni riverenza, perché sarebbe per compie-re prossimamente cose grandiose, e perciò deve essere onorato da tutti..

LM 1,1.

Nell'affresco, come in molti altri del ciclo, la prospettiva mantiene tutte le linee parallele sia frontalmente che lateralmen-te, rimanendo sempre alla vista il lato destro (relativamente a chi guarda) delle case. San Francesco e l'uomo semplice formano un triangolo rettangolo in cui un cateto è Francesco stesso, l'altro cateto è la linea formata da un lato del mantello e dall'orlo della veste dell'uomo semplice e l'ipotenusa, non segnata, dalla linea ideale che unisce lo sguardo di Francesco allo sguardo dell'uomo e prosegue fino ai piedi di lui.
Tutti i personaggi sono chiusi nella linea coloristica delle proprie vesti e la composizione ha una struttura simmetrica rispetto la chiesa sullo sfondo evidente rielaborazione del tempio romano di Minerva, allora carcere e divenuto poi chiesa in Assisi. Manca la porta e Giotto diminuisce il diametro delle colonne per lasciare intravedere il muro posteriore. Le quattro figure ai lati tendono a formare un emiciclo, secondo uno schema che avrà grande fortuna nel '400. È da notare che la parte più importante della composizione è a mala pena contenuta in questo emiciclo.
La centralità di San Francesco ancora deve essere raggiunta quasi che il Santo non fosse pronto a divenire il protagonista della propria missione; l'uomo di Assisi lo invita al posto che gli compete: al centro; il Santo lo interroga con lo sguardo o meglio cerca nel volto di quell'uomo una risposta a domande ancora evidentemente non ben chiare; comunque, è evidente, passa sul mantello e non rifiuta l'invito. Alla semplicità dell'uomo (nella Legenda Maior "uomo, certo molto semplice") fa poi riscontro il discutere e il ragionare dei dotti e ricchi cittadini che fanno da cornice alla scena. I quattro personaggi sono disposti su rette convergenti verso il centro della composizione, San Francesco e l'uomo semplice sono collocati tra di loro un poco avanti, mentre lo sfondo è costruito con una vista (non si può dire prospettica) a sé.
Certo tale modo di dipingere, anche se "ingenuo", viene sfruttato assai bene da Giotto per distinguere i vari momenti della Legenda Maior: la città, il Santo e l'uomo semplice, gli uomini "non semplici", dando a ciascuno di questi momenti una propria esatta collocazione logica.
È indicativa la sottolineatura di "uomo semplice" contrappo-sta a "uomini dotti" nelle fonti letterarie (cultura e classi sociali si identificavano) che in Giotto significa evidentemente "uomo immediato" nel seguire il comando di Cristo come anche Francesco viene invitato a fare.
I gesti stessi dei quattro testimoni, quattro come per un atto legale od un matrimonio (e la scena si svolge dinanzi ad un luogo dove si teneva giustizia), non mostrano certo nessun segno di intendere alcun che di divino nell'avvenimento, dato che i due a sinistra sembrano totalmente indifferenti mentre dei due a destra uno indica interrogativamente il fatto e si rivolge al compagno che alza moderatamente la mano quasi a dire "lascia perdere".
L'invito che l'uomo semplice fa a Francesco, per contro, è estremamente chiaro, deciso, come lo sguardo che rivolge al giovane: troppo per essere incosciente.
Dio in lui non solo suscita il gesto materialmente ma fa na-scere anche la coscienza della "giustizia", o meglio, della "giustezza" del proprio atto. L'inconsuetudine del gesto non è "strana" ma solo "estranea" agli altri ed alla città che non possono essere spontanei perché chiusi nel cuore ai messaggi divini. Non è così evidentemente in Francesco che, per ciò, accetta di passare sul mantello anche se ancora non sa perché: ma bisogna ricordare che sia il Nuovo che l'Antico Testamento sono pieni di inviti a seguire le vie del Signore senza chiedere.
Il gesto ha un riscontro in Luca 19,36 quando Cristo entra in Gerusalemme, ma più interessante è notare che "Francesco non conosceva ancora i piani del Signore sopra di lui" (Giobbe), ciò che spiega la sua aria interrogativa, ma non spiega tutto quanto è stato detto a proposito dell'atteggiamento dei quattro testimoni.
Dal numero delle persone si può arguire che la loro presenza serva a documentare il fatto come vero, dato che viene riportato solo in San Bonaventura, forse per rendere Francesco simile ad un Alter Christus anche in questo annuncio. Chi ne volesse dedurre che per seguire le vie del Signore ci si debba fare "semplici" può certamente farlo senza andare lontano dalla verità. Attualmente l'episodio è spesso indicato come "omaggio della città al Santo", quasi per attenuare il ricordo dell'incomprensione verso questi da parte della città.
Volendo gli si potrebbe dare un senso ancora più forte: il valore dello sfondo, con il tempio senza porta, potrebbe anche indicare che si era persa la via vera del Signore per una Chiesa fatta di apparenze. È vero che l'attuale chiesa di Santa Maria sopra Minerva ai tempi del Santo era il carcere del comune, ma è anche vero che Giotto, riprendendo le forme di quell'antico tempio romano vi inserisce un rosone sorretto da due angeli proprio per ricordare una chiesa, ma sempre senza porte, anzi con una colonna proprio al centro, dove nessuno l'avrebbe collocata, né nell'antichità né a quei tempi, per non nascondere la porta retrostante ed ostruire il passaggio. D'altronde è difficile dire se le colonne che in Santa Maria Sopra Minerva sono sei quì siano cinque per qualche altro motivo, magari teorico, o semplicemente per noncuranza.



SECONDO EPISODIO
(Secondo della Prima Serie)

Quando il beato Francesco si incontrò con un cavaliere nobile e malvestito e mosso a compassione, rispettoso per la sua povertà, toltosi immediatamente l'abito lo rivestì.

LM 1,2 - 2c 5 - 3cp 6.

Questo episodio, pur non essendo in alcun modo miracoloso, viene rappresentato come un vero e proprio miracolo perché rappresenta il momento in cui San Francesco si converte. Nella Leggenda dei Tre Compagni prima viene la chiamata e poi la conversione. Nella prima vita di Tommaso da Celano e di San Bonaventura il sogno, primo annuncio della chiamata di Dio, viene dopo che Francesco ha mostrato il suo cuore operando con questo gesto una scelta. Nella Leggenda dei Tre Compagni la "chiamata miracolosa" viene accentuata con il parallelo a San Paolo che cade da cavallo ed ode una voce misteriosa, ricordo assente nelle vite più antiche (del resto l'episodio in questione è ridotto proprio al minimo).
Giotto è evidentemente cosciente che l'affresco rappresenta un momento, anzi, "il momento" cruciale della vita di San Francesco e pone da una parte la vecchia vita, la città, e dall'altra la nuova, la Chiesa, entrambe su due monti perché un abisso le separa. L'episodio viene visto da Tommaso da Celano come l'omologo inverso del dono di San Martino al povero: questi, infatti, non inizia una vita di perfezione ma la termina, ed è implicito che la via intrapresa da Francesco porterà molto più lontano di quanto fosse arrivata quella di San Martino, con la rinuncia al superfluo. In Giotto non vi è traccia di questo parallelo che può essere fatto indirettamente con i posteriori affreschi di Simone Martini nella Basilica Inferiore.
In entrambi i casi il Santo lascia la città, ma nel caso del San Martino di Simone questo serve solo ad ambientare l'episodio, dato che un mantello si porta solo in viaggio; in Giotto invece, come si è già notato, la città è una città lontana ed indeterminata, non dei ricchi ma certamente opulenta nel suo notevole sviluppo. Tutta materiale, questa città è "il mondo" che i frati abban-donano per vivere, idealmente, nella chiesa di Dio e quindi in povertà, e dalla parte del povero si trova il monte (la direzione da seguire) su cui è collocata la Chiesa.
San Francesco rimane al centro, proprio al bivio, nell'attimo in cui cambia la propria strada con un gesto che implica una scelta, quando si avvicina a trovare una risposta alla domanda che da tempo si poneva (si ricordi l'espressione interrogativa rivolta all'uomo semplice che stendeva il mantello ai suoi piedi).
La linea che unisce lo sguardo di Francesco e del cavaliere povero forma di queste due figure una massa quadrangolare compatta, più alta però di quella pure quadrangolare del cavallo da cui San Francesco è sceso: con la nuova vita umiliandoci e scendendo si è innalzati.
A questo mantello, capo di abbigliamento essenziale e costoso dell'epoca (per la quantità della lana e la fittezza dell'ordito) tanto da essere privilegio dei soli benestanti, si può rinunciare: non una rinuncia a quanto sopravanza (San Martino lo aveva diviso in due) ma a tutto; e tutto, ci racconta Giotto, era vera-mente se guardiamo al cavallo lasciato sulla vecchia strada, ex simbolo di condizione agiata e di potere.
Una lettura di questo episodio in chiave di "cambiamento di strada" può essere avvalorata dal fatto che San Francesco desiderava andare da chi poteva alzarlo ulteriormente nella scala dei valori umani nominandolo cavaliere (Gualtiero di Brienne). San Martino non rinunciò ad essere cavaliere, ma San France-sco, proprio per questa rinuncia, fonderà un Ordine che sarà spesso paragonato alla cavalleria. Si noti che, facendo San Francesco diritto in piedi ed il cavaliere povero un poco curvo, Giotto riesce a collocare il Santo al centro ed in una posizione superiore ormai da protagonista.
Anche in questo riquadro i vari momenti sono collocati cia-scuno in una sua veduta separata. Si tratta quindi di un maggiore interesse che Giotto mostra verso le cose e la natura, interesse del resto già pieno di significato in San Francesco. Il cavallo ripete col collo la stessa curvatura della schiena del cavaliere povero mentre riceve il mantello in dono da San Francesco che non si fa più povero del povero ma coscientemente si spoglia di ciò che gli sopravvanza.
Una linea ideale è tesa con gli sguardi tra il povero e San Francesco e questa volta è questi che fa un gesto d'invito e intraprende l'azione verso il povero. La conversione non è tanto pentimento quanto azione, iniziativa: e chi più del poverello d'Assisi fu pieno di iniziative? Il colore quì è più teso: il Santo su toni freddi, come il cielo che fa vertice sul suo capo, dietro l'aureola, mentre il cavaliere povero e il cavallo sono su toni caldi; in toni neutri, con il colore a tratti più addensato, sono i monti e le costruzioni rappresentanti la città e la chiesa.
Questi sono diversi tra loro: roccioso e frastagliato, variamen-te costruito quello della città come varia è quest'ultima; più dolce e semplice quello su cui è costruita la massa meglio definita e compatta della chiesa.
Da notare che vi è l'inizio non di una prospettiva ma di un nodo centrale da cui si dipartono le linee (due diagonali) lungo le quali è costruita l'immagine, quasi un punto di fuga.
Il braccio ed il bordo superiore del mantello di San Francesco proseguono la costa del monte della città, indicando una di queste diagonali; l'altra è tracciata con la costa del monte della chiesa e la linea d'ombra che segna la parte non illuminata del monte della città.
Giotto tende sempre a far vedere il lato destro delle cose, ma si tenga conto che è la parte dalla quale vengono i visitatori ed i pellegrini nella chiesa. Dunque San Francesco parte per perfezionarsi da dove gli altri si erano fermati. La sua conver-sione, iniziando da tale punto, giustifica l'affermazione prece-dente fatta da Tommaso da Celano che nessuno fu più perfetto di lui tra i fondatori di ordini. L'episodio non è semplicemente iniziale ma anche essenziale all'iter spirituale di San Francesco.
L'immagine nella sua struttura è più unitaria di quella prece-dente dove il fatto e l'ambiente sono nettamente separati con due viste indipendenti. Tra i monti ed i protagonisti non ci sono elementi intermendi di raccordo perché logicamente inutili. Tra questi va annoverato anche il cavallo, inteso nel significato sopra detto; ancora circa trecanto anni dovranno passare perché un cavallo divenga protagonista (pittoricamente parlando) di un quadro alla pari del proprio cavaliere, come farà Michelangelo Merisi da Caravaggio nella Conversione di San Paolo in Santa Maria del Popolo a Roma.
Va notato infine come anche quì ogni figura sia chiusa nella propria massa, tanto che i piedi, che evidentemente Giotto non vi vedeva inseriti, sono storti e quasi autonomi.Per quanto riguarda il cavallo il volume da considerare non è solo quello delineato dal colore (il corpo) ma tutto quello racchiuso tra le linee del collo, delle gambe e della coda. Non è il solo colore ma la linea che racchiude anche il colore a delineare una massa per Giotto.



TERZO EPISODIO
(Terzo della Prima Serie)

 

Il beato Francesco, essendosi assopito nella seguente notte vide un palazzo splendido e sontuoso con armi cavalleresche fregiate del segno della Croce di Cristo, e a lui che chiedeva di chi fossero, fu risposto dall'alto che sarebbero state tutte sue e dei suoi cavalieri.

LM 1,3 - 1c 6 - 2c 6 - 3Cp 5 - AP 5.
Quando San Francesco sogna il palazzo ha già compiuto il passo decisivo della propria conversione. In questo sogno nel racconto di Tommaso da Celano, nella vita seconda, si parla oltre che di armi e di armature, di una bellissima sposa, eviden-temente la povertà. Giotto, come di consueto seguendo la vita “ufficiale” di San Bonaventura, non mette nel suo quadro questo elemento. Ciò gli permette di essere più coerente col suo modo di dipingere in questo periodo, schivo nell’eccedere nel numero dei personaggi per semplificare al massimo l’azione con pochi e distinti spazi facilmente identificabili, dato che per ognuno di essi il pittore usa una “veduta” diversa.
Il sogno accentua e continua il paragone tra l’Ordine France-scano ed un ordine cavalleresco. In San Bonaventura l’accenno alla sposa bellissima scompare, le armi vengono indicate come contrassegnate con la Croce e manca qualsiasi rapporto tra la voce che San Francesco ode ed il Cristo, che in Tommaso da Celano si manifesta al Santo, come a San Martino, per lodarlo. San Bonaventura trovava troppo mondani i rapporti tra l’Ordine e la Cavalleria ritenendo inutili i rapporti con il Santo cavaliere Martino, ormai offuscato da San Francesco anche nel culto popolare.
In San Bonaventura le parole della voce che guida San Fran-cesco citano, oltre il padrone ed il servo, anche il ricco e il povero (naturalmente di ricchezze spirituali) per indicare la vera ricchezza dell’Ordine. Nell’Anonimo Perugino, poi, non si parla di Cristo e neppure di una voce ma di un accompagnatore non meglio determinato. In Giotto, benché manchi la bellissima sposa, le armi non sono crociate e accanto a San Francesco appare Cristo stesso con una evidente sintesi tra i vari racconti a dimostrazione che il maestro era evidentemente a conoscenza di più testi. Egli dà al palazzo un duplice punto di vista e lo divide in due parti: una, inferiore, più massiccia, con un portico a pian terreno e un loggiato sovrastante; e una superiore, più ristretta, quasi un torrione, terminante con un terrazzo e due piani con le finestre accostate tanto da formare trifore. Anche in questo caso del palazzo si vedono la fronte e il lato destro; la differenza è che la parte inferiore è vista dall’alto e la superiore dal basso. Una vista (non dico un punto di vista per non creare confusioni con i concetti ed i termini usuali della scienza prospettica completamente differente hanno i due personaggi, Cristo e San Francesco che dorme, in primo piano.
Il sogno e la realtà sono riferiti con stacco adeguato. Il letto ripete la forma del loggiato al primo piano del palazzo, con due avancorpi laterali e una rientranza centrale. Anche il baldacchi-no, come il letto, viene visto dal lato destro ma i piedi e le sommità delle aste che lo sorreggono sembrano posti su due rette convergenti verso un punto retrostante, quasi un accenno di prospettiva vera. Giotto servendosi del baldacchino costruisce nello spazio (o lo spazio con..) un parallelepipedo in cui i due personaggi principali devono necessariamente essere visti frontalmente e compongono una figura autonoma.
L’asse strutturale principale, lungo il quale si stende il corpo di San Francesco, Giotto lo indica facendo intravedere la coscia e la gamba del dormiente servendosi di una profonda piega della coperta. Si forma così un triangolo con il braccio di Cristo, sottolineato dalla toga che ne taglia a metà il petto e il cui terzo lato è uno dei sostegni del baldacchino. San Francesco non poggia il capo sul cuscino ma sulla propria mano, come se più che di un sogno si tratti di un dormiveglia, come dice la Leggenda dei Tre Compagni. La tenda anteriore è raccolta attorno al piedritto del baldacchino (quello stesso che forma un triangolo apparente con Cristo e San Francesco), col compito di riempire un vuoto compositivo.
Il Santo è visto un poco dall’alto, quasi certamente proprio per far risaltare meglio la curvatura della coscia sotto la coperta: il Cristo è visto decisamente di fronte. Anche il letto di San Francesco è visto dall’alto, come il loggiato di cui riprende la forma (o l’inverso) mentre la porta del baldacchino che lo copre superiormente è vista dal basso, ripetendo la stessa struttura del palazzo che è a lato.
Questo spiega come Giotto, che ignora totalmente il problema di accordare in un’unica visione prospettica il palazzo, Cristo, San Francesco e il baldacchino, dia una notevole omogeneità alla composizione con viste che approssimativamente sono dall’alto nella parte inferiore del riquadro e dal basso in quella superiore.
Il Cristo è visto esattamente di fronte ed acquista così una sua centralità anche senza essere sulla linea che taglia verticalmente il riquadro in due e separa il baldacchino-spazio-parallelepipedo dal palazzo, ma il suo braccio fa cadere lo sguardo sul vertice del gruppo in San Francesco. All’interno di questo parallelepi-pedo, come già detto, Cristo e San Francesco formano un triangolo, da sempre simbolo di perfezione.
In questo caso il triangolo è perfettamente inserito nella composizione e non a mala pena contenuto come nell’episodio dell’uomo semplice, dove però si sottolinea l’estraneità tra l’episodio e la città in cui avviene. In fondo anche la riquadratu-ra dell’episodio del mantello, fatta da Giotto su diagonali che tracciano una croce per il centro del quadro come quì, è formata da quattro triangoli. Si tenga presente che all’epoca si faceva assai caso a queste combinazioni e che su di esse veniva basata in genere la costruzione dei grandi edifici e delle cattedrali in particolare.
Si noti infine come Giotto ancora collochi il personaggio più importante (generalmente il Santo ma quì Cristo) in una posizione che rifletta una superiorità gerarchica ma senza ricorrere più all’espediente di farne uno più grande ed uno più piccolo ma con altri mezzi: quì Cristo è in piedi e San Francesco sdraiato, ad esempio.



QUARTO EPISODIO
(Quarto della Prima Serie)

Pregando il beato Francesco dinanzi ad una immagine del Crocifisso dalla Croce discese una voce che disse tre volte:"Francesco va e ripara la mia casa che tutta si dissolve in rovina", significando con ciò la Chiesa Romana..

LM 2,1 - 2c 10 - 3Cp 13 - 3c 2.

Nella Legenda Maior l'episodio viene riportato facendo notare che San Francesco ode per tre volte una voce "con le orecchie del corpo", per sottolineare come il miracolo sia avvenuto realmente. Viene anche detto che egli in un primo momento credeva di dover riparare materialmente una Chiesa di mura piuttosto che quella che Cristo acquistò col suo sangue secondo l'espressione degli Atti degli Apostoli (20,28).
Il racconto è derivato da Tommaso da Celano, Vita Seconda, e San Bonaventura tende a rendere più graduale la conversione di quanto fosse in Tommaso. In questi San Francesco intende perfettamente le intenzioni di Cristo, anche se ode la voce una sola volta, ma "non vuole" (intenzionalmente dunque) giungere di colpo alla perfezione dell'opera ma "passare grado a grado dalla carne allo spirito".
Del resto abbiamo già visto come Tommaso da Celano pon-ga, come punto interiore di partenza per San Francesco, il punto di arrivo dei Santi precedenti (San Martino). Sia in Tommaso da Celano che nella Leggenda dei Tre Compagni l'episodio viene visto come la ricezione da parte di San Francesco della passione di Cristo nel proprio animo, primo gradino ad esternare questa passione attraverso le Sacre Stimmate.
In Giotto viene rappresentato il momento in cui il Santo ode le parole e ne rimane attonito; gli elementi che il pittore deve rappresentare sono, quindi: San Francesco, il Crocifisso, la Chiesa crollante di San Damiano. Per fare questo ricorre ancora ad una divisione del riquadro affrescato in quattro parti con una croce ideale e dà ad ogni elemento una collocazione in questa suddivisione.
A sinistra è collocato il Santo ed a destra il Crocifisso; il terzo elemento necessario per l'individuazione del miracolo, la Chiesa, costituisce lo spazio stesso in cui si collocano i primi due. Giotto non rinuncia ad indicarli separatamente e, per poter situare il Santo ed il Crocifisso in due spazi autonomi, spezza lo spazio della chiesa in più parti. Ciò è necessario perché non può, dimensionalmente, realizzare con una proporzione verisimile il Crocifisso, il Santo e la chiesa stessa.
Prima gli edifici avevano sempre potuto essere messi sullo sfondo, nelle dimensioni volute, ora no. San Francesco ci appare troppo grande rispetto alle navate della Chiesa, alto quasi quanto una delle colonne pur essendo in ginocchio. Per contro il Crocifisso è, almeno in una dimensione, proporzionato all'altezza di tutto l'edificio.
Il pittore non poté fare il Santo troppo piccolo, egli è sempre il protagonista dell'episodio e la Chiesa costituisce solo un elemento indicativo. L'artificio cui ricorre Giotto è estremamen-te elaborato: San Francesco si vede come se mancasse il muro esterno o, meglio, come se la parte inferiore di questo, sino all'altezza dell'architrave, fosse trasparente. La parte superiore, sempre a sinistra, è chiusa dal muro esterno e dal tetto della Chiesa.
Egli occupa una delle quattro parti in cui è divisa l'immagine: quella inferiore sinistra e si trova tra quattro colonne disposte a coppie, due dietro di lui a sinistra e due a destra davanti; in ognuna di queste coppie una è più vicina a chi guerda ed una più lontana, dato che della chiesa si vede il fianco.
Le due colonne più lontane sono entrambe verso l'interno, collocate quasi secondo gli schemi di una prospettiva con punto di fuga centrale relativamente al solo spazio in cui è collocato San Francesco, hanno però la stessa altezza e lo stesso diametro di quelle più vicine.
Sembra un primo accenno a rompere, all'interno di una unità spaziale la regola secondo la quale le cose vengono viste sempre dallo stesso lato e le linee lungo le quali è costruita l'immagine sono sempre parallele tra loro.
Ma, ancora, un solo episodio è diviso in maniera che vi siano più spazi distinti, anche se non separati, tanti quanti sono gli elementi da rappresentare: solo il tetto della navata più vicina è fatto da cassettoni costruiti su linee sempre parallele tra loro e inclinate da destra a sinistra, riproponendo così lo schema usuale dei riquadri precedenti. La metà destra dell'affresco è invece costruita in maniera che lo spazio in cui è inserito il Crocifisso sia tutto unito.
La croce con cui Giotto ha tagliato in quattro il riquadro (uso questo termine perché esatto nel suo significato compositivo) è appena accennata dalle sporgenze dell'architrave della chiesa interrotto dal crollo del muro.
All'estrema destra si vede una colonna per indicare che la parte inferiore di questa metà si può vedere immaginando inesistente il muro; come per la metà in cui è San Francesco, solo che quì, superiormente, il muro manca del tutto perché è crollato al di sopra dell'architrave che a sinistra era proprio l'elemento che tagliava in due lo spazio. Così dal basso in alto lo sguardo può salire liberamente dall'altare al Crocifisso e di quì al catino dell'abside sino al cielo, dato che anche il tetto è sfondato.
Il Santo è molto grande rispetto all'architettura della Chiesa e Giotto per non fare il Cristo ancora più grande, lo colloca in uno spazio doppio in altezza ottenendo il duplice scopo di lasciare al Santo una dimensione da protagonista nel corpo e al Crocifisso una dimensione gerarchicamente maggiore nello spazio; questo va dall'altare, dove Cristo si incarna, alla immagine di Questi al simbolo della volta celeste (il catino absidale), dove Egli risiede, al Cielo vero e proprio. Nulla sembra casuale in Giotto e di tali simboli ed allegorie la cultura del tempo è farcita.
Due parole anche riguardo gli atteggiamenti di San Francesco e del Cristo: per intendere l'episodio bisogna considerare come il momento della conversione non sia quello in cui San France-sco ode la voce a San Damiano, essa non è generata da un fatto esclusivamente miracolistico, ma è già avvenuta quando il Santo ha donato il mantello al povero.
Tutte le fonti parlano di un San Francesco già convertito interiormente e quì si rappresenta un secondo e importante momento di modifica dell'uomo San Francesco. Non la conver-sione a Cristo ma il momento in cui egli intraprende il suo nuovo modo di vivere e di agire, come povero di Dio o come pazzo nel mondo secondo le varie interpretazioni, ma comunque sempre con un'azione imperniata sulla rinuncia ai beni terreni e l'amore per la povertà.
A questo episodio, immediatamente prima o immediatamente dopo, viene connesso quello della vendita dei beni a Foligno (anzi i due episodi ne costituiscono in effetti uno solo) e il cui ricavato San Francesco vuole dare per restaurare questa Chiesa di San Damiano.
In alcune fonti, soprattutto nelle più antiche, e soprattutto nella più antica in assoluto, la Vita Prima di Tommaso da Celano, non si parla di una voce che dica materialmente qualcosa a San Francesco, tanto è vero che anche nella Vita Seconda Tommaso non dà per certo che il Crocifisso abbia parlato.
San Bonaventura parla di un San Francesco che udì una voce e le altre fonti sono divise fra queste due versioni. In questo caso le mani allargate, ma poco, come se prima fossero state giunte in preghiera, di San Francesco inginocchiato, la sua espressione di meraviglia e il modo in cui il Crocifisso sembra lievemente tendere in avanti, col corpo curvato ed inclinato, per rivolgersi a San Francesco, fanno credere che Giotto mostri proprio il Crocifisso mentre parla al Santo.
Tra l'altro per far cadere lo spazio del Crocifisso verso quello del Santo questo (lo spazio) ruota intorno ad un asse immagina-rio sullo spigolo destro dell'abside, che per ciò è visto quasi frontalmente e non nasconde alcuna sua parte allo spettatore.
Ancora: l'altare ha i lati corti non paralleli (e in Giotto le linee parallele rimangono sempre tali) e sembra che siano costruiti su raggi uscenti della colonna anteriore che divide lo spazio di San Francesco. Si introduce così un ulteriore senso di rotazione sempre in senso antiorario che sposta anche questo elemento verso sinistra, cioè verso il Santo. A ciò si aggiunga che il gradino dell'altare è disegnato con un senso di resa prospettica tale da accordarlo con i rimanenti elementi dello spazio in cui si trova e che lo torce in maniera abbastanza strana.
Quando ad un unico oggetto in una immagine vengono dati contemporaneamente due o più diverse inclinazioni (come farà in seguito di proposito Guido Reni nei suoi crocifissi) si ha un movimento di rotazione apparente.
Dato che tutto il Crocifisso, l'altare, il catino dell'abside non escono dal piano anteriore, delimitato dal muro superiore della chiesa e dell'architrave, è evidente che il Crocifisso stesso sembra in movimento verso il Santo, anche se Giotto non lo rappresenta come corpo tridimensionale ma dipinto su di una tavola, secondo i moduli consueti della sua epoca, tanto che ai lati del braccio lungo della croce sono rappresentate le pie donne. In questo movimento si risolve e si spiega tutta la rotazione apparente sopra descritta.
Una curiosità: dei piedi di San Francesco Giotto ne fa vedere uno solo (probabilmente gli interessano poco) anche se l'immagine non è perfettamente di profilo. Giotto tiene presente che è Cristo a parlare e vuole determinare che la voce proviene proprio dal Crocifisso: guardando il Cristo si va automaticamen-te verso San Francesco e viceversa seguendo lo sguardo di San Francesco si arriva al Cristo.
Sebbene l'immagine del Cristo sia molto rovinata, si può affermare, a questo punto che la "comunicazione" tra i perso-naggi in Giotto è effettuata non con gesti o pose particolari ma dal fare intrecciare, unendoli con linee ideali, gli sguardi. Un parlare con l'anima, insomma.
Ovviamente San Francesco non ha la chierica ma un coprica-po e non porta il saio francescano, ma il suo atteggiamento è estremamente devoto, anche se sembra che sia in una fase più passiva che attiva. È San Francesco che si converte ed accetta Cristo, ma è la Volontà Divina che agisce in questo terreno fertile.
Si dovrebbe verificare se il fatto che l'iconografia si precisi nel corso del ciclo, per noi ovvio, lo fosse anche a quei tempi; in genere l'aspetto esteriore dei vari santi, attraverso il quale i fedeli potevano riconoscerli, era immutabile per evitare probabi-li confusioni.



QUINTO EPISODIO
(Quinto della Prima Serie)

Quando restituì al Padre ogni cosa, e, spogliatosi, rinunziò ai beni paterni e terreni, dicendo al padre: "d'ora in poi con tutta sicurezza, possa dire: Padre Nostro che sei nei cieli, poiché Pietro di Bernadone mi ha ripudiato".

LM 2,4 - 1c 15 - 2c 12 - 3Cp 19 - AP 8.

Questo episodio, negli anni, fu spogliato del suo carattere drammatico ed interpretato sempre più in senso simbolico e giuridico. Nella Vita Prima di Tommaso da Celano la rinuncia ai beni è fusa con la restituzione della borsa ed il padre è un poco placato. Nella Vita Seconda l'episodio è già sdrammatizzato: San Francesco non viene portato dal padre innanzi al Vescovo ma è questi a suggerirgli la restituzione del denaro; San France-sco fa di più, restituendo le vesti e mostrando così di portare il cilicio.
In San Bonaventura si riprende lo schema della Vita Prima di Tommaso da Celano ma con l'aggiunta del cilicio, particolare che sposta l'attenzione su di un piano più strettamente religioso. Nella Leggenda dei tre compagni è trattata anche la questione giurisdizionale dei consoli, con l'evidente intento di legittimare le scelta di San Francesco al di là di ogni preventiva approvazio-ne paterna; l'atto non è più impulsivo come nella Vita Prima di Tommaso da Celano ma meditato (va in una stanza) ed è quì che Pietro Bernadone si infuria.
Quella della rinuncia ai beni paterni è una delle tappe fonda-mentali della conversione di San Francesco e della fondazione dell'Ordine. Nei precedenti quattro riquadri abbiamo seguito il Santo in un itinerario di perfezione che va dal presagio di ciò che lo attende e l'invito a convertirsi (l'episodio dell'uomo semplice), alla conversione interiore esternata con un atto (il dono del mantello), ad un secondo presagio più direttamente comunicato da Cristo (il sogno del palazzo) e termina con l'invito esplicito ad intraprendere una nuova via (San Damiano).
Questi episodi possono essere suddivisi in due gruppi: il primo relativo al raggiungimento di una perfezione più antica (San Francesco raggiunge San Martino); il secondo prepara il Santo a superare tale perfezione per opera diretta di Cristo che parla in un primo momento oscuramente e poi esplicitamente.
È lecito ora attendersi degli episodi che avviino concretamen-te tale nuova impresa e di questi il primo è proprio questo, che con quelli successivi del sogno del Laterano e dell'approvazione della Regola forma una trilogia relativa alla nascita dell'Ordine.
Anche questo riquadro è diviso in zone o spazi nettamente separati che corrispondono a due distinti gruppi: a sinistra i cittadini, tra i quali il padre di San Francesco, Pietro Bernadone e a destra il Vescovo con due chierici e San Francesco.
Nella donazione del mantello era una separazione tra la città di Dio, la Chiesa, e la città degli uomini e anche quì le costru-zioni retrostanti che fanno da sfondo, pur essendo genericamente costruzioni cittadine, si interrompono al centro dando luogo ad un vuoto che non sembra possibile poter configurare come piazza. Esse, secondo l'uso di Giotto sono allungate esternamen-te verso l'alto e occupano tutta la parte superiore corrispondente al cielo, mentre tutta la parte inferiore corrisponde alla massa delle figure in movimento.
Stavolta, sia a destra che a sinistra, le costruzioni non hanno la fronte rivolta verso lo spettatore ma uno degli spigoli e i lati che si vedono sono due e non uno; benché le linee che sono parallele rimangano sempre tali si ha quasi una prospettiva divergente invece che convergente, ciò si vede soprattutto nella costruzione retrostante il gruppo di San Francesco col Vescovo e i chierici.
Il racconto ripete la genericità di tutti gli altri riguardo le fonti cui Giotto può essersi ispirato: San Francesco dà gli abiti al padre e il Vescovo lo ricopre col suo stesso manto, i chierici rimangono, ovviamente, dietro il Vescovo.
Una linea parte dalle braccia di San Francesco, con le mani giunte, e porta sino a una mano con l'indice teso in forma di comando come nei Cristi Pantocrati bizantini. Questo gesto va direttamente verso San Francesco e tutta la parte destra del quadro, nella quale sono compresi il Vescovo coi chierici, anche se la mano si trova sulla perpendicolare di Pietro Bernadone.
Questa mano che spunta dal cielo rappresenta ovviamente la Volontà Divina La contrapposizione tra chierici e laici in questo caso è nettissima e San Francesco è già messo tra i chierici dal comando della mano e non chiamato dalla Gerarchia della Chiesa, senza che questo implichi, tuttavia, alcuna contraddizio-ne con questa.
Il Vescovo lo accoglie con il mantello e lo ricovera ufficial-mente sotto la propria protezione tanto è vero che la reazione altrimenti legittima del Pater Familias viene frenata da un signore vestito da magistrato, come dimostrano la cappa e la veste togata. Va ricordato che è nella Leggenda dei Tre Compa-gni che viene citato il particolare in cui San Francesco è invitato dai consoli ad andare dal Vescovo perché, quando gli inviano i messi con un mandato di comparizione, come voleva la legge, egli risponde loro di essersi già votato a Dio.
Ora, noi sappiamo dal diritto ecclesiastico che l'ingresso tra i religiosi, con tutti i conseguenti spostamenti di giurisdizione dai tribunali civili a quelli ecclesiastici, non avveniva, e non avviene, mai per esclusiva dichiarazione del singolo ma sempre a seguito di particolari atti formali che sancivano anche l'indispensabile approvazione della Gerarchia alle decisioni individuali.
A questo punto è evidente che nella Leggenda dei tre Com-pagni si sottolinea non tanto come San Francesco appartenga agli ecclesiastici, cosa che sarà poi ovvia dopo l'approvazione della regola da parte del Papa, quanto che San Francesco si trovi già tra gli ecclesiastici soprattutto per elezione divina, della quale egli, dopo la rivelazione diretta di San Damiano è ormai pienamente cosciente, ma senza che questo diminuisca l'importanza del riconoscimento del Vescovo.
Quì sembra proprio che si voglia avvalorare questa tesi: San Francesco è sottratto alla giurisdizione del padre benché ancora non appartenga ad alcun ordine religioso monacale o al clero regolare per effetto essenzialmente della sola Volontà Divina.
Il Vescovo di Assisi, nell'accoglierlo e coprirlo con il suo manto, non fa altro che seguire questa stessa volontà, mentre pudicamente volta lo sguardo dalle nudità di San Francesco. La Chiesa ratifica un atto che parte da Dio stesso, anche se forse San Francesco aveva già, sin da allora, un qualche minimo status religioso.
Da notare che il padre regge tra le mani oltre le vesti anche le brache, di cui si fa menzione esplicita nella Legenda Maior, per indicare che si era tolto proprio tutti i vestiti: però, a differenza della Legenda Maior, non si vede assolutamente il cilicio di cui parla anche la Vita Seconda di Tommaso da Celano, forse per non dare un esempio di eccessiva mortificazione della carne e perché San Francesco, in seguito, proibì ai suoi frati di portarlo. Quello che conta è la presenza delle brache, che allora era usuale portare sotto le vesti.
Intanto a destra si svolge un dialogo tra il Vescovo e uno dei chierici; la Legenda Maior di San Bonaventura da Bagnoregio riferisce che il Vescovo, copertolo con il suo stesso manto, ordinò ai suoi di dare a San Francesco qualcosa perché si coprisse ma è la Vita Seconda di Tommaso da Celano che accenna al fatto che il Vescovo intuì di trovarsi dinanzi a qualche fatto generato da Dio.
In San Bonaventura il Vescovo agisce più che altro per mise-ricordia mentre in Tommaso da Celano l'intervento divino è più evidente. La presenza contemporanea della mano divina e di questo particolare di conversazione attestano la molteplicità delle fonti utilizzate.
Ancora: lo sguardo di San Francesco, parallelo alle braccia, è rivolto verso la mano di Dio; una diagonale ideale taglia ed occupa tutto il grande vuoto azzurro che domina la scena e che così da un punto di vista strutturale, vuoto non è.
In questo caso uno squarcio di cielo freddo, sia pure compen-sato dal colore caldo delle case, non ha la funzione di generare profondità alla scena, come invece accade nel Dono del Mantel-lo, in cui, proprio per questo, nessuna linea reale o ideale lo attraversa.
Una piccola osservazione va fatte anche riguardo l'assenza di donne in una scena in cui appare un uomo nudo, benché tra la folla, per indicare la presenza di tutta la popolazione e quindi della pubblicità dell'atto, ci siano anche dei bambini.
Le donne non sono escluse solo perché allora non erano soggetti giuridici pieni, se il motivo fosse questo non dovrebbero essere presenti neppure i bambini, ma per evitare che il racconto fosse di esempio indiretto a comportamenti scandalosi.



SESTO EPISODIO
(Sesto della Prima Serie)

Come il Papa vedesse la Basilica Lateranense ormai vicina a rovina, e un poverello, ossia il beato Francesco, messala sotto il suo dorso, la sostenesse per impedirne la caduta.

LM 3,10 - 2c 17 - 3Cp 51.

Anche in questa scena Giotto divide il riquadro in due parti, tante quanti sono gli elementi del racconto, il Papa che dorme e il Poverello d'Assisi che regge la Basilica del Laterano. A differenza delle fonti letterarie, San Francesco non ha l'aspetto spregevole che queste gli attribuiscono e, anzi, non è neppure piccolo e di sembiante troppo povero.
Il racconto non compare nella Vita Prima di Tommaso da Celano, ma in tutte le altre fonti sì. Lo scopo è di sottolineare come l'apparenza umile del Santo e dei frati e il loro abito, che corrispondeva (e corrisponde) ad un reale modus vivendi, costituissero non solo la loro forza ma anche quella dell'intera Chiesa. Quì, l'originaria sottolineatura della povertà, anche esteriore, cui tanto teneva il Santo di Assisi, è stata probabilmen-te sacrificata alla necessità di farlo apparire in una veste che corrisponda a quella ormai codificata (per ovvie necessità) e regolare in uso tra i frati all'epoca in cui l'artista operava e che, ancora oggi, vige come simbolo della continuità dell'Ordine stesso, pur non essendo più un vestito da poveri in senso stretto. Come sia, in questo affresco San Francesco non è né piccolo né spregevole, anzi, di aspetto piuttosto prestante rispetto anche ad altri riquadri.
Si deve anche comprendere che il Santo doveva apparire sempre grande abbastanza da assurgere al ruolo di protagonista; Giotto, come abbiamo visto fino ad ora, non sottolinea tanto una piccolezza fisica di San Francesco quanto, se è il caso, un suo atteggiarsi umile e un volere farsi piccolo.
Questo, inoltre, è il primo affresco del ciclo in cui il Santo appaia in veste di frate, con la chierica e la barba. Nell'affresco precedente lo avevamo già visto tra i chierici, in contrapposizio-ne ai laici, ed era quindi lecito aspettarsi di trovarlo presto in abito di religioso. Si noti che il Papa, per essere meglio identifi-cabile, è stato dipinto con tanto di manto e tiarae come sotto il ricco baldacchino, chiuso da tende di tessuto orientale, stiano due camerieri pronti, come voleva il rango e la dignità del personaggio.
In questo caso interessa la maggiore cura di Giotto nella resa prospettica dell'interno del baldacchino e dell'interno del portico della Basilica, specie se si fa un confronto col Sogno del Palazzo Pieno d'Armi.
Una incongruenza nella composizione dell'affresco viene dal fatto che il Santo poggia i piedi, (sempre poco curati) sullo stesso portico, inclinato, della Basilica che egli stesso sorregge, tralasciando naturalmente ogni considerazione sulla relatività delle dimensioni. Il suo sforzo ben graduato e il suo atteggia-mento sicuro sono resi da Giotto con uno studio magistrale, per la sua epoca, dei panneggi e delle ombreggiature della tonaca che mettono in risalto la tensione della gamba sinistra e con una cura particolare nell'intensità dello sguardo.
Molto curati sono anche i due camerieri (in senso proprio) alla base del letto papale, certamente molto più che il Papa stesso, malamente appoggiato sul letto per farlo vedere frontal-mente. Il suo atteggiamento è quello di un uomo supino e non corrisponde alla posizione di chi dorme sul fianco.
In poche parole le figure di San Francesco e dei due servi mostrano chiaramente come Giotto cominci a curare sempre di più ciascun personaggio e a chiuderlo, in una sorta di perfezione formale, nei contorni delineati dal disegno.
I due, con la nobiltà dei loro volti barbuti (forse per far vedere che non sono chierici) e una certa naturalezza negli atteggiamen-ti, mostrano come l'artista si stia maggiormente dedicando ai personaggi secondari: molto belli sono il contrasto tonale del servo di sinistra col manto scuro e la veste chiara e l'ombreggiatura e i chiaroscuri di quello di destra.
Essi potrebbero essere quelli che furono poi mandati dal Papa, al suo risveglio, a prendere San Francesco per farlo portare al proprio cospetto, secondo un'aggiunta posteriore alla Legenda Maior voluta dal Padre Generale Gerolamo d'Ascoli e basata su testimonianze precise; in tal modo essi sarebbero anche i primi testimoni del sogno miracoloso.
Lo spazio entro il quale sta San Francesco che sorregge la Basilica entra a contatto (quasi sembra voglia cadere) col baldacchino papale. Le due colonne che lo dividono anterior-mente non sono un limite netto; anche se è vero che San Francesco è tangente ma non oltrepassa la prima, Giotto deve dare la sensazione che aveva il Papa dormendo: che la Basilica quasi gli cadesse addosso e San Francesco la fermasse sorreg-gendola.
Per questo la suddivisione in quattro parti di tutto l'affresco con una croce non è più tanto netta. Nella parte centrale non è possibile distinguere quale delle due colonne possa essere il braccio verticale di questa croce o quale delle due barre che reggono le tende possa essere quello orizzontale e, soprattutto, il tetto della Basilica è storto rispetto a tutto il resto.
In somma, la composizione è molto meno precisa di quella degli affreschi precedenti e la parte superiore, che prima tendeva a vuotarsi, quì è vuota di personaggi, ma riempita da architetture complesse. Anche se esistono uno spazio per San Francesco e la Basilica e uno per il Papa che dorme con i suoi servi, essi non sono tra loro costruiti simmetricamente né separati nettamente. Ciò non è un regresso, dato che prelude alla volontà di una costruzione unitaria della scena.



SETTIMO EPISODIO
(Settimo della Prima Serie)

Quando il Papa approvò la Regola e diede la missione di predicare la penitenza, e ai frati che avevano accompagnato il Santo permise di fare la tonsura chiericale affinché predicassero la parola divina.

LM 3,10 - 1c 33 - 2c 17 - 3Cp 51 - AP 36.

Questo è uno dei momenti di maggiore importanza nella storia del Francescanesimo: la legalizzazione del movimento da parte del papato. Tutto l'Ordine è rappresentato, sia nella Vita Prima di Tommaso da Celano che nella Leggenda dei Tre Compagni e nell'Anonimo Perugino, in cui si fa accenno al numero dei frati e se ne nominano dodici compreso San Francesco: quanti ne ha dipinto Giotto e quanti dovevano essere i nuovi apostoli di Cristo. La prima cosa che si nota è il Papa, con la mano destra benedice San Francesco e i suoi e con la sinistra gli dà materialmente una pergamena che, evidentemente, contiene la Regola approvata dell'Ordine stesso. Ora, è chiaro che da un punto di vista formale un'autorità dà e concede anche quando, in effetti, si limita solamente a prendere atto o a lasciar fare. In questo caso si trattò, secondo le fonti, di un permesso orale, quasi una prova, come dimostra il fatto stesso che solo successivamente San Francesco scrisse una vera e propria regola, con tutte le discussioni che la precedettero e la seguirono.
Nelle due vite di Tommaso da Celano non si parla affatto di regole, mentre in San Bonaventura il Papa "approvò" la Regola dato che San Francesco "scrisse per sé e per i suoi frati, con parole semplici una formula di vita…". È da dedurne, quindi, che Giotto abbia seguito qui San Bonaventura, anche nel particolare delle "piccole chieriche" dei frati che li sottraevano alla giurisdizione civile. In tale modo si afferma esplicitamente che, sin dai primi contatti con la Gerarchia, l'Ordine Francesca-no ebbe una forma costituzionale assai simile a quella definitiva, in disaccordo con chi invocava una maggiore fedeltà alla Regola primitiva: nella sede prima e principale dell'Ordine non poteva essere altrimenti! La composizione mostra dei caratteri di novità rispetto le precedenti da un punto di vista prospettico: lo spazio nel quale sono inseriti i protagonisti è unitario.
Dei riquadri precedenti rimane la netta divisione tra i gruppi di personaggi del racconto, ma lo spazio che li racchiude è unitario e ben delimitato dalle pareti del fondo, dei lati e dalle arcate che sorreggono il soffitto e che vengono a formare una serie di volte a botte reggenti una ipotetica copertura a cassettoni. La prospettiva adottata in questo caso è tale che le pareti laterali si vedono convergere proprio verso parete di fondo. Le tre arcatelle mostrano la parte interna più lontana e aderente a questa, parte minore di quella più vicina e sporgente; così si vede tutta la piccola volta. Se le linee orizzontali delle due pareti laterali non fossero tra loro parallele si sarebbe quasi ad una prospettiva centrale rinascimentale. Ma queste linee rimangono sempre parallele e le due pareti hanno un unico punto di vista con due direttrici diverse e divergenti di un angolo piuttosto ampio. Il soffitto che, teoricamente si potrebbe vedere, manca e con lui l'unico elemento in cui le linee avrebbero dovuto essere convergenti rispetto una linea centrale, perpendicolare al fondo nella prospettiva e verticale nell'esecuzione del disegno, forse era ancora troppo presto per una concezione così ardita.
Lo spazio, comunque, è realmente unitario. È interessante anche notare come la decorazione delle arcatelle superiori sia di carattere musivo e, a copertura delle pareti, siano posti pesanti tendaggi orientali, allora in uso nelle dimore dei potenti anche per le loro qualità di coibenti termici.
Gli elementi del racconto, pur non avendo ciascuno una vista particolare, sono tra loro nettamente separati: a sinistra San Francesco e i frati, a destra il Papa e i rappresentanti della gerarchia ecclesiastica. Fra questi i due camerieri già visti nell'episodio del sogno e che quì confermano come fu seguita la versione dell'episodio in cui San Francesco fu riportato dinanzi al Papa, dopo il sogno premonitore, dai suoi uomini dato che, in un primo momento, era stato cacciato. Materialmente i due camerieri rappresentano solamente due testimoni del sogno o due esecutori della volontà papale, ma l'intervento divino nella fondazione dell'Ordine viene ulteriormente accentuato.
Dato che in nessuna fonte il Concistoro è indicato come segreto si deve dedurre che fosse pubblico. Si può perciò supporre che il personaggio seduto a fianco del Papa sia il Cardinale di Santa Sabina (porta il manto rosso) e che quindi il personaggio in piedi, a destra del Pontefice, sia il Vescovo di Assisi. Questi due prelati presentarono San Francesco al Papa e, anche se nei vari racconti hanno un ruolo autonomo, quì vengono mostrati come compresi nella gerarchia della corte papale e non come intermediari.
La separazione fra il nascente Ordine (ma già tale anche di diritto data la concessione di una vera e propria regola) e la Gerarchia ecclesiastica è netta e subordinata solamente al Papa; sono noti i successivi conflitti locali tra l'Ordine, i Vescovi e il clero secolare. La struttura dell'affresco lo mostra chiaramente: il Papa è più alto di San Francesco ma questi è in una posizione centrale, un poco isolato, e su di lui convergono una serie di linee più o meno rettilinee, che lo rendono il vero centro focale e dell'attenzione per chi guarda: si sarebbe tentati di dire il protagonista.
Le teste dei frati, le teste del Papa e del Vescovo Guido, la mano del Papa, tutti gli sguardi dei curiali indicano il Santo. Notevole anche il concordare degli sguardi dei frati e del Santo verso il Papa: a fascio, ciò indica una "dipendenza" da questi, ma mostra anche la sostanziale unità dell'Ordine sin dal suo nascere e l'inscindibilità di San Francesco dall'Ordine stesso.



OTTAVO EPISODIO
(Primo della Prima Coppia della Seconda Serie)

Pregando il Beato Francesco in un tugurio (presso il Vescovado di Assisi) ed essendo corporalmente lontano dai suoi frati presenti nel tugurio fuori dalla città (a Rivotorto) ecco costoro videro il Beato Francesco su un carro di fuoco e rilucentissimo vagare, circa la mezzanotte, per la casa, mentre il tugurio si illuminò a giorno per cui si stupirono coloro che erano svegli e si destarono e si spaventarono coloro che dormivano.

LM 4,4 - 1c 47.

Questo prodigio in Tommaso da Celano è un premio, in San Bonaventura è indice della Volontà Divina che ha eletto San Francesco nuovo Elia, ad essere "cocchio e d auriga" degli uomini spirituali.
Questa stretta correlazione tra il Santo e il profeta, ha portato Giotto a descrivere l'episodio in maniera diversa da come viene raccontato.
La modifica principale è che il carro di fuoco non si aggira per la casa dei frati ma vola in cielo, innalzandosi, tirato da due cavalli, anch'essi evidentemente di fuoco, e porta dentro di sé San Francesco, sia pure particolarmente luminoso, e non un globo igneo. Sotto, i frati guardano, dormono, si chiamano l'un l'altro.
Resta poco del racconto originario, che San Bonaventura ampliava sottolineando come ognuno potesse vedere chiaramente nella coscienza dell'altro per effetto della luce spirituale proveniente dall'anima di San Francesco: era per la piccola comunità un'anticipazione del Paradiso e un invito alla confidenza e alla fiducia reciproche per i frati.
Il pittore dovette necessariamente raffigurare nel carro il Santo per rendere l'immagine comprensibile ai pellegrini, ma non è solo per questo che l'episodio ha fondamentalmente perso il proprio significato, trasformandosi in un miracolo che evidenzia la particolarissima protezione divina sul Santo e in cui i frati da coprotagonisti sono divenuti testimoni.
Anche la casa è stata dipinta in maniera diversa da come le fonti la descrivono: un'ambiente unico ma chiuso. Per far vedere il carro di San Francesco che si innalza verso il cielo Giotto ha fatto, invece, un ambiente aperto verso l'esterno: è un piccolo portico all'interno del quale i frati dormono, chiamati da uno di loro che, di fuori, ha visto il carro di fuoco.
Nel riquadro dell'Approvazione della Regola il pittore aveva dimostrato di aver portato la sua ricerca ad un punto tale da essere capace di vedere un ambiente in maniera quasi prospettica, se ne deve concludere che non è per evitare di descrivere un ambiente chiuso che ricorra all'espediente di rappresentarlo aperto verso l'esterno.
Diverso è proprio il significato da dare all'episodio: San Francesco è quì un nuovo profeta e la sua ascesa al cielo sarà gloriosa. Giotto non vuole più ricorrere a soluzioni simili a quelle per l'episodio di San Damiano nel quale si vede attraver-so una spaccatura del muro.
Anche la suddivisione dell'immagine in quattro non è più rispettata; precedentemente si sarebbe potuto pensare che ognuna delle parti in cui erano divisi gli affreschi corrispondesse ad un cartone utilizzato per lo spolvero, ammesso che questa tecnica fosse già in uso a quel tempo.
Ora la capacità di far coincidere le diverse sinopie aumenta, permettendo progressivamente di accostare sempre più gruppi di figure in composizioni analoghe; se poi, come è più probabile, simili tecniche fossero state sconosciute a Giotto, l'abilità necessaria a far coincidere tante parti affrescate in tempi diversi è veramente notevole, pur tenendo conto dell'uso intensivo di ritocchi a secco successivi per correzione ed integrazione.
Il carro di fuoco poi non è neppure simmetrico rispetto ai frati in piedi a destra e a quelli dormienti a sinistra, mostrando una precisa volontà in tal senso e a dimostrazione di una maggiore capacità nell'organizzare il lavoro da parte di Giotto e dei suoi.
Il collocamento di ogni elemento del racconto in un suo proprio spazio non dipende dalla incapacità di far combaciare il lavoro di diverse giornate, dato che all'interno di questi spazi le costruzioni sono spesso complesse e troppo amie per poter essere colorate in una sola volta e con un solo cartone, per la rapidità con cui si secca l'ultimo strato di intonaco quando si dipinge a fresco.
Anche quì gli sguardi sono affisi l'uno nell'altro, uniti da linee ideali che entrano a far parte della composizione: come tra il frate centrale dei tre che dormono accovacciati e quello voltato verso di lui che, col braccio sinistro, lo invita ad uscire.
Questo gesto si accorda a quello del frate che dietro di lui indica il carro. Anche il braccio destro di questo frate è accorda-to, nella direzione, al braccio sinistro di quello che, di spalle, sta guardando il carro di fuoco ed entrambi sono paralleli alla linea tra i due sguardi di cui sopra.
Si noti, per comprendere meglio quanto detto, che la direzio-ne di uno sguardo è indicata sempre anche con una corrispon-dente inclinazione del capo.
Lo spettatore è così sempre portato, seguendo sguardi e gesti, ad appuntare la propria attenzione verso San Francesco.
La capacità di resa dello spazio di Giotto è ormai tale da permettergli di dare una forma a V alla parte anteriore del carro di fuoco che risulta così leggermente inclinato verso l'esterno mentre la figura del Santo è ancora dipinta totalmente di profilo.



NONO EPISODIO
(Secondo della Prima Coppia della Seconda Serie)

Quando una visione dall'alto mostrò ad un frate molti seggi in cielo ed uno più degno che gli altri rifulgente di ogni gloria, ed egli udì una voce dirgli: "Questo seggio appartenne ad uno degli angeli che caddero, ed ora è serbato all'umile Francsco".

LM 6,6 - 2c 122,3 - LP 23 - sp 60.

L'episodio riportato da Giotto è collocato nel momento in cui un frate, non osando disturbare San Francesco in preghiera si trattiene dietro di lui ed ha la visione dei troni di gloria. Un angelo, rivolto al frate, indica con la sinistra il trono più bello al centro, e con la destra San Francesco.
In tutte le fonti letterarie non si fa alcun cenno a questo angelo ma solamente ad una voce; in due di queste, anzi, il carattere spirituale della visione viene accentuato aggiungendo la citazione da San Paolo "se nel corpo o fuori del corpo solo Dio lo sa" (Legenda Perusina e Speculum Perfectionis).
Giotto materializza la voce, come nell'episodio del Sogno del Palazzo, e la concretizza in un angelo, mentre nell'altro caso era stata concretizzata in Cristo stesso, seguendo la versione di Tommaso da Celano. Così chi guardava capiva che il rapporto tra San Francesco e il trono era stato deciso dal Cielo e non una illazione del pittore o dei frati.
Ricordiamo che questi affreschi venivano letti (o visti, che è lo stesso) anche dall'indotto che, seguendo i gesti e gli sguardi con attenzione, scopriva le relazioni e il racconto dallo studio di queste linee strutturali. In questo caso il pittore non riporta un elemento quale lo riportano le fonti: la Chiesa.
Il Santo ed il frate che ha la visione sono collocati contro uno sfondo uniforme e azzurrino nel quale galleggiano anche i cinque troni dei quali, ovviamente, il centrale è quello di San Francesco.
Di tutta la Chiesa rimane solo un altare, sovrastato da una sorta di baldacchino a forma di piccola abside, e poggiante su di un paio di gradini, sul più basso dei quali è umilmente inginoc-chiato il Santo di Assisi. Ciò è che sufficiente a indicare il luogo della visione; la semplificazione strutturale e il risparmio di lavoro conseguiti sono davvero notevoli.
La parte superiore di questo altare, che noi vediamo dal basso, è costruita su linee parallele che vanno da sinistra a destra, esattamente all'incontrario di come sono costruiti i troni che, per tale ragione, sono totalmente separati dall'immagine sottostante. L'altare vero e proprio, invece, che si vede da sopra, ha i lati convergenti in avanti e con lui anche i gradini e la predella in legno.
Di tutti questi elementi è in vista ovviamente il lato destro mentre dei troni sovrastanti quello sinistro. In tutto il riquadro, in somma, è una serie di scarti visivi e prospettici che sembra avere, ad un primo esame, una vera e propria ragione di essere.
Le tre figure sono, invece, assai più curate: mosse e ben drappeggiate le figure del frate e del Santo, con i volti non del tutto di profilo e di dimensioni appropriate (il Santo è, come nelle descrizioni, assai minuto). Egli è collocato, come abbiamo detto, su di un gradino più alto, al centro della composizione.
L'Angelo, che iconologicamente non può essere meno impor-tante del Santo, si isola e si colloca al centro del fondo azzurro, contro il quale si staglia e col quale si fonde al tempo stesso tramite il passaggio ottico e splendente delle ali bianche ed azzurre. La mancanza delle murature della Chiesa citata dai testi letterari accentua, così, il carattere meraviglioso della visione e tutta la composizione si addensa nel triangolo formato dalle figure.
I troni sono lassù, separati in uno spazio senza distanze nel quale galleggiano; l'altare non viene nemmeno notato dal pellegrino: la sua funzione, col suo candore, è quella di sottoli-neare e alzare il valore dell'azzurro che domina la scena. Interessanti sarebbero per uno specialista la costruzione lignea dei troni di gloria e il particolare tipo di imbottitura dei sedili.
Il baldacchino dell'altare e i suoi gradini si allargano dal fondo verso lo spettatore e generano un'apertura spaziale che in un certo senso comprende i tre personaggi in primo piano. Di questi il frate e San Francesco (ma il frate in particolare) sono costruiti con molta eleganza e le linee nelle quali è contenuta la loro figura ricordano quelle di un codice miniato, a riprova della interazione, se ci fosse bisogno di dimostrarlo ancora, dei rapporti tra pittura e miniatura in quest'epoca.
Anche questo secondo episodio riguarda una profezia come il precedente ma indirizzata a San Francesco in special modo e non verso tutto l'Ordine. La vita dell'Ordine è vita del Santo e ponendo questi in una posizione particolare si genera per lui e da lui un principio di autorità. L'Ordine è formato e dalla particola-re posizione del suo fondatore nella storia della salvezza si deduce il futuro che avrà. Mentre, per quanto riguarda l'approvazione della regola viene messa in risalto la collettività dei frati, ora si fa notare la gloria del Santo in Cielo (la stessa già promessa nel palazzo pieno di armi). I pellegrini che dal Nord scendevano a Roma nell'anno del Giubileo (1300) avrebbero avuto ben chiaro il concetto che San Francesco era stato il più grande Santo mai vissuto, degno di prendere il posto di Lucife-ro! (Gli angeli, esseri perfetti e spirituali, sono sempre superiori alle anime umane e di essi Lucifero era il più vicino alla perfezione assoluta).
I principi della nuova iconografia vengono affermati in queste visioni alle quali, comunque, partecipano sempre i frati, elemento e corpo dell'Ordine di cui San Francesco è il capo: la gloria di San Francesco è anche, e soprattutto, la gloria dell'Ordine.



DECIMO EPISODIO
(Primo della Seconda Coppia della Seconda Serie)

Quando il Beato Francesco vide sulla città di Arezzo molti demoni esultanti e disse al suo seguace (Silvestro che era sacerdote) "va, e in nome di Dio caccia i demoni.gridando presso la porta"; e come quegli obbedendo gridò, i demoni fuggirono e all'istante tornò la pace.

LM 6,9 - 2c 108 - LP 81.

Esaminando subito la Legenda Maior si nota che Frate Silve-stro è chiamato "semplice come una colomba" e poi "vero obbediente " quando va a "compiere i comandi". San Bonaven-tura sottolinea l'obbedienza di Frate Silvestro e tutto l'episodio è visto come un'esaltazione di questa nel rapporto comando-obbedienza-esecuzione. Anche nella Legenda Perusina Frate Silvestro è "uomo di grande Fede, di stupenda semplicità e purità" e anche quì egli caccia i demoni con le parole: "Da parte di Dio onnipotente ed in virtù della Santa Obbedienza di Francesco, io comando…". San Bonaventura aveva scritto: "Da parte di Dio Onnipotente, per comando del servo Suo Francesco.."; e Tommaso da Celano: "Da parte di Dio e per ordine del nostro padre Francesco…".
Dei tre modi di esprimersi certo quello della Legenda Perusi-na esalta maggiormente l'Obbedienza come virtù originata e dovuta a San Francesco, ma San Bonaventura, come dimostra tutto l'episodio, sottolinea il fatto che l'obbedienza è dovuta senza discutere. Solo Tommaso da Celano si preoccupa di mostrare l'efficacia di San Francesco anche attraverso i suoi seguaci, forse perché l'Ordine era ancora molto giovane, ma San Bonaventura e l'autore della Legenda Perusina tirano, ciascuno, l'acqua al proprio mulino riguardo la spinosa faccenda dell'obbedienza. Che San Francesco la volesse assoluta è certo, essendo questa forse la maggiore prova di umiltà, ma nel caso dell'autore della Legenda Perusina il concetto di obbedienza è più simile a quello di fedeltà che al significato gerarchico che San Bonaventura attribuisce alla parola.
Nel racconto interpretato da Giotto si nota che anche in que-sta scena, benché Francesco sia molto distante dal centro, anzi, ad uno degli angoli, la struttura dell'immagine è tale da realizzare comunque una sorta di centralità della figura del Santo.
Apparentemente si ripete uno schema già visto: il quadro è diviso in due parti verticalmente da una fetta di cielo che arriva sino a terra (la Rinuncia dei Beni Paterni) e una seconda linea in orizzontale forma una specie di croce segnata dalle mura della città e dalla parte superiore del primo ordine della chiesa.
L'altezza del personaggio in piedi corrisponde a questa linea; come, nella rinuncia ai beni paterni, la mano del frate fa intuire, indirizzandosi verso il cielo, un collegamento con il soprannatu-rale. Questa croce risulta in secondo piano, anche figuratamente, perché è formata da elementi "dietro" il Santo ed il frate mentre lo sguardo si fissa su una diagonale che parte dal Santo, con la linea della schiena e della testa allineate, e va nella direzione indicata dalle mani, prosegue con le linee del braccio e dello sguardo (portatore di comunicazione) e termina, aprendosi, sui diavoli, indirizzata nell'ultimo tratto dai tetti sempre più alti delle case. Questi, nella loro disposizione, non hanno certo una funzione prospettica, come potrebbe sembrare, lasciata piuttosto all'incurvarsi delle mura e certo meglio realizzata nella chiesa a sinistra.
Si nota chiaramente, nella costruzione strutturale della città, come le case che la compongono siano viste strette fra loro e quasi ammonticchiate (come erano nella realtà le città medioeva-li) e in tutte la vista "fronte-uno_dei_lati" si riduca a due lati senza una fronte (con lo spigolo che li separa più vicino a chi guarda).
Sino ad ora i lati tra loro paralleli, nelle costruzioni, rimane-vano sempre tali; in questo caso il divergere delle linee dagli spigoli accentua la loro dimensione spaziale favorita dal fatto che l'illusione di profondità risente beneficamente della mancanza della parte inferiore delle costruzioni. Solo i tetti, con le loro file di tegole, mostrano ancora evidente il mantenersi forzatamente parallelo delle linee.
In alcuni particolari si notano ricordi e reviviscenze di modi più antichi, che fanno supporre l'intervento di qualche aiuto che applichi, in mancanza di direttive precise, per completare alcune parti, moduli e schemi già superati dal maestro. In particolare i demoni, nella forma dei corpi, e il modo in cui sono costruite e disegnate le mura e le persone che si affacciano alle porte, testimoni necessari del fatto miracoloso.
Quanto ai demoni, il pelo (o piume) che riveste i loro corpi mostruosi ricorda la maniera di origine bizantineggiante di fare le pieghe delle vesti che si può trovare in tutto il medioevo sino a Cimabue stesso, ma le loro ali e le loro zampe sono riprese con notevole naturalismo da quelle rispetivamente dei pipistrelli e delle galline, e, negli atteggiamenti e nelle espressioni dei volti, mostrano, ciascuno, un diverso "sentire" di quanto accade. Giotto stesso (se per Giotto si intende, come certamente era, il direttore dei lavori) curava l'immagine in questi particolari, apparentemente secondari ma destinati a fare impressione sulla gente.
Quanto alle mura, il problema della resa spaziale di superfici curve non era stato ancora affrontato da Giotto che, per la sua difficile soluzione, vi rinunciò. In questo caso non si hanno indicazioni sufficienti per poter determinare se egli abbia considerato altri testi, oltre la Legenda Maior, né da un esame strutturale né da uno iconologico.



UNDICESIMO EPISODIO
(Secondo della Seconda Coppia della Seconda Serie)

 

Quando il beato Francesco per testimoniare la fede di Cristo volle entrare in un grande fuoco con i sacerdoti del Sultano di Babilonia, però nessuno di essi volle entrare con lui ma tutti fuggirono subito dalla presenza del Santo e del Sultano.

LM 9,8 - 1c 57 - Fior 24.

L'episodio è ripreso essenzialmente da San Bonaventura come dimostra la presenza, a sinistra, dei sacerdoti che fuggono al gesto del Sultano che li invita alla prova del fuoco.
Anche quì la struttura dell'immagine è costruita con sguardi e gesti che collegano tra loro i vari momenti. Quelli dei sacerdoti va in linea retta al Sultano e forma con la mano di questi (aperta dato che si tratta di un invito e non di un ordine) e il fuoco una sorta di triangolo. Al centro, San Francesco, intercettando il gesto del Sultano, indica contemporaneamente se stesso e il fuoco mentre il frate, con la sua espressione, riporta ai sacerdoti islamici che fuggono e chiude, così, i rapporti tra i vari protago-nisti da qualunque punto si sia iniziata ad osservare la scena. La composizione di queste linee ideali di sguardi e gesti si colloca quasi su di un unico piano, in uno spazio assai poco profondo e diviso in zone dai tre gruppi di personaggi: i sacerdoti a sinistra, i frati al centro (ovviamente) e il Sultano con i suoi cortigiani a destra.
Lo spazio retrostante non segue la tripartizione; si ha, è vero, la coincidenza dei due frati con un pilastro d'angolo della tribuna posteriore e quella dei sacerdoti con i pilastri dell'altro lato e si ha anche che la posizione del Sultano coincida col baldacchino, ma, fondamentalmente, ai tre gruppi di persone corrispondono due architetture, la cui cesura, vuota, non è al centro e i cui spazi sono orientati diversamente, come dimostra-no i soffitti a cassettoncini della tribuna e del baldacchino.
Della tribuna si vede il lato sinistro (rispetto a chi guarda) e la sua copertura, ampia, profonda e non chiusa sul fondo, arriva a proiettarsi sul Santo. Il baldacchino mostra il lato destro e aggetta sopra il Sultano, ma determina uno spazio più piccolo e angusto ed è più inclinato e decentrato. Ai due personaggi corrisponde un ben diverso trattamento e il Sultano ne risulta decisamente sminuito. La sorte peggiore, in questo senso, tocca ai sacerdoti, collocati in corrispondenza del lato sinistro della tribuna; il loro fuggire è accentuato oltre che dall'inclinazione dei corpi anche dal fatto che questa parte suggerisce quasi una "fuga" prospettica.
Il racconto è uno dei due episodi che mettono in risalto la "potenza" della parola del Santo e dimostra che una cattiva volontà, o meglio, un rifiuto ad aprirsi fa sì che questa parola non operi. È significativo che si sia riferito questo relativo insuccesso di San Francesco senza alcun timore che ciò potesse sembrare negativo. I fatti miracolosi e "meravigliosi" non sono essenziali al Francescanesimo e la sua forza è nella parola, che è poi la parola di Cristo, tanto che molti degli episodi raccontati non hanno nulla, obiettivamente, di straordinario.
L'esempio, per i frati e tutti i seguaci di San Francesco, è il coraggio con cui si deve proclamare la verità anche in situazioni scomode. In seguito, nei Fioretti, si cercherà di dimostrare che San Francesco poteva comunque entrare nel fuoco con la precedente scena dell'incontro con la prostituta e che il Sultano si convertì segretamente. A quest'ultimo è attribuita una dignità adeguata al suo grado, (con i cortigiani e la figura voltata verso di lui costruita secondo un tipo iconografico che si affermerà definitivamente nel '400) anche se il fatto di essere seduto più in alto non può essere considerato come indizio di una speciale considerazione essendo, in fondo, inevitabile.
Non sembra, comunque, che essere un regnante non cristiano provochi una diminuzione della dignità regia; ma già nelle novelle del Sacchetti il Saladino appare come un re e un cavaliere simile a quelli delle leggende franche e, in genere, nella letteratura di svago dell'epoca il mondo mussulmano è messo alla pari di quello cristiano, tanto più in Italia, così aperta ai traffici con l'oriente! Rileviamo anche che Giotto è incapace di concepire un'architettura orientale diversa da quella gotica europea, ma va aggiunto che la cosa era del tutto irrilevante per la mentalità dell'epoca.
Le architetture sono ancora, fondamentalmente, rappresenta-zioni simboliche dello spazio che dovevano indicare, ottenute desumendo alcuni elementi ambientali e formandone arredi quasi per una scena; solamente quando esiste la possibilità di un riscontro diretto il pittore "copia" dal vero, perché più diretta e vera sia l'impressione su chi guarda, ma non perché sia logica-mente necessario. In seguito, lentamente, ciò divenne una necessità: è interessante notare come in un affresco dipinto probabilmente dopo, anche se è il primo della serie, e cioè quello raffigurante la Profezia dell'Uomo Semplice, la rappresentazio-ne della piazza di Assisi raggiunga una precisione mai vista prima: le deduzioni stilistiche circa la successione degli affreschi di Assisi non possono che confermare queste considerazioni.



DODICESIMO EPISODIO
(Primo della Terza Coppia della Seconda Serie)

Il beato Francesco mentre un giorno era in fervida preghie-ra, fu visto dai frati sollevato da terra con tutto il corpo, le braccia protese in alto, e una nuvoletta fulgentissima lo avvolse.

LM 10,4 - 2c 95.

La figura di San Francesco, alzato da terra e avvolto da una nuvoletta luminosissima, con le braccia in forma di croce, la si ritrova nella Legenda Maior in cui viene anche citata la presenza dei frati che lo videro e in cui si afferma che "gli venivano svelati i tesori nascosti della sapienza divina".
Questo brano si riferisce a un episodio che, stando al racconto di San Bonaventura, sarebbe avvenuto tra i boschi, in un luogo solitario; non si può comprendere, perciò, la presenza della porta di una città se non in senso negativo, a indicare che il Santo era fuori da un centro abitato, tra gli alberi che molto schematica-mente sono indicati a destra.
Sembra strano che dei due "luoghi deputati" uno debba inten-dersi in senso "di fuori" e uno "di dentro", tanto più che nella Cacciata dei Demoni da Arezzo, l'esterno della porta della città indica che il fatto avviene proprio davanti alla porta stessa. È possibile anche che si sia mischiato l'episodio in cui San Francesco attraversò estatico tutto Borgo San Sepolcro senza accorgersene.
La composizione è divisa in quattro parti dalla figura del Santo sollevato da terra con le braccia a croce; questa suddivi-sione è accentuata dalla linea che divide due zone del cielo che nell'affresco si sono scolorite in maniera differente e corrispon-de a quella che unisce le mani del Santo, tangente al suo capo e che prosegue a sinistra col cornicione sottostante i merli e le torri della città.
In senso verticale è la figura stessa del Santo a dividere l'immagine in modo che a sinistra, in alto, siano collocate le torri e gli edifici della città e, in basso, i quattro frati che assistono alla scena, mentre a destra, in alto, si colloca il Cristo benedicente e in basso un monte con alberi. I frati sono quattro, il doppio dei testimoni richiesti per un atto legale, fatto già notato a proposito dell'episodio dell'Uomo Semplice.
San Francesco ha le braccia aperte non solo "a croce" ma come fosse "in croce", a ribadire il concetto dell'Alter Christus ed è sorretto da una nuvola bianca (fulgentissima, dice San Bonaventura) con quattro pennacchi volti verso l'alto; sul significato di questi è difficile avanzare ipotesi, forse potrebbero essere i Vangeli che spinsero il Santo d'Assisi alla vera imita-zione di Cristo, ma è un'ipotesi solo accennabile, di certo la loro disposizione è tale da dare un senso di corposità e volume notevoli alla nuvola.
La diagonale formata dagli sguardi del Cristo e di San Fran-cesco che si intrecciano prosegue nella linea ideale di quelli dei frati più vicini al Santo che lo guardavano. Il significato è evidente: attraverso l'esempio di San Francesco l'Ordine arriverà al Cristo, che quì è parzialmente nascosto da una specie di fulgido scudo e che si svela, evidentemente, solo al Santo che, solo, può guardare dall'altra parte di questo schermo a differenza dello spettatore.
Questi così entra a partecipare spazialmente e psicologica-mente della scena, e non è un'innovazione da poco! Questo effetto, unito a quello della nuvola, la resa delle torri e delle cose (le cui linee tendono a non essere più parallele ma a convergere), la plasticità ancora un poco "dura" nell'ombreggiatura delle vesti dei frati, sono tutti elementi che inducono a pensare che sia stato assai curato lo studio della profondità, anche se tutti gli elementi citati non sono stati affatto fusi in una visione unitaria dello spazio ma rimangono limitati ai singoli elementi del racconto, collocati ciascuno in un suo "spazio" separato dagli altri.
In altri affreschi del ciclo la concezione dello spazio raggiun-ge un valore unitario assai più certo e, se si può dire, compatto, come ad esempio in quello dell'Approvazione della Regola. Si deve sempre tenere conto della tecnica propria della pittura a fresco e di come Giotto e collaboratori cercassero di far coinci-dere ogni parte dell'affresco realizzata in una sola operazione con un'altra, unendo il tutto con fondi uniformi: in questo caso l'azzurro del cielo e il giallo della porta della città. Questa, per quanto se ne vede dietro le teste dei frati, perde dettagli e diviene di colore assai poco variato mentre poco sopra si vedono delle costruzioni a rilievo assai interessanti.
Si tratta quindi di un episodio che sottolinea il continuo eleversi a Cristo di San Francesco che già, nell'episodio di San Damiano, aveva ricevuto nell'animo la Passione di Cristo: il Presepe di Greccio e le Stimmate saranno le altre due tappe fondamentali di questo percorso.


TREDICESIMO EPISODIO
(Secondo della Terza Coppia della Seconda Serie)

 

Come il beato Francesco, in ricordo del Natale di Cristo, chiese che si apprestasse un Presepio, che si apportasse del fieno, e che si conducessero un bue e un asino; quindi predicò su la Natività del Re povero, e mentre il Santo uomo era in orazione, un cavaliere vide il bambino Gesù in luogo di quello che il Santo aveva apportato.

LM 10,7 - 1c 84,87.

La prima differenza che si può rilevare tra la descrizione che del presepe di Greccio danno sia San Bonaventura che Tommaso da Celano è che mentre le fonti letterarie situano il fatto in una stalla dentro un bosco, quì l'ambiente è una chiesa. Questa diversa collocazione della scena modifica e stravolge buona parte del senso originario del racconto.
Già nella versione di San Bonaventura si indica che San Francesco aveva chiesto un permesso al Papa (non al vescovo) per la celebrazione della Santa Messa fuori di un luogo consacrato e viene sottolineato che solo il Papa è al di sopra dell'Ordine; ma la cosa, allora, non era troppo frequente, e si capisce come in questa versione dell'episodio si preferisse essere piu` tradizionalisti.
È difficile poter collocare questo fatto in una chiesa precisa e determinata, dal momento che le caratteristiche dell'ambiente non sono affatto denotate. La scena si svolge non al centro della chiesa ma accanto al lato sinistro di un altare sormontato da un alto ciborio e quindi non dalla parte dove stavano normalmente i fedeli ma al di qua` dell'iconostasi. Infatti, sino all'apertura di questa, si possono intravedere parecchie donne mentre, al di quà, sono solo uomini: laici, frati e chierici tra i quali anche San Francesco in paramenti diaconali, mentre sulla destra il Sacerdote concelebrante lo guarda piamente.
Poiché praticamente tutte le iconostasi, specialmente dopo l'unificazione dei vari riti avvenuta dopo il Concilio di Trento, sono scomparse dalle chiese italiane, non è possibile identifica-re, come fanno alcuni, quest'ambiente con la chiesa stessa della Basilica di San Francesco ad Assisi. Tuttavia questa ipotesi rimane estremamente suggestiva specialmente se si tiene conto del fatto che certamente la Chiesa inferiore, allora, doveva essere estremamente somigliante quella quì rappresentata.
Per la stessa ragione le caratteristiche del Crocifisso posto sopra l'iconostasi e del quale si vede il retro non permettono di identificarlo con certezza assoluta con alcun Crocifisso partico-lare, ma certamente permettono di ritrovare tutti quelli che potrebbero somigliargli come appartenenti a quest'area cultura-le. Inoltre si deve notare il gran numero di candele accese, sull'altare, sul codice aperto, sul leggio e quelle più lunghe poste sull'ambone visibile a sinistra e che ricordano la festosa atmosfera e i riti di quella notte.
Il momento del racconto dovrebbe essere quello in cui il gentiluomo che, probabilmente, aveva organizzato tutto il Presepe secondo le indicazioni del Santo, lo vide tenere in braccio il Bambino, il "Puer valde formosus" del racconto di Tommaso da Celano.
Gran parte dei presenti non guarda verso ciò che accade a San Francesco e, a parte i frati che cantano con le bocche spalancate, sembra che tutti siano in un momento di grande compuzione; probabilmente l'elevazione, dato che il Sacerdote sembra tenere un calice. Un solo personaggio, sulla sinistra, alza la mano in segno non si sa se di meraviglia o di compartecipazione a quanto accade e solo questi potrebbe essere il cavaliere citato.
Che la Greppia sia stata trasformata in un semplice cassettone istoriato e che il bue e l'asinello siano rappresentati in propor-zioni minori a quelle che dovrebbero avere nella realtà ( appunto, quasi fossero delle statue di presepio) non può meravigliare, data la diversa collocazione della scena rispetto al racconto letterario di cui parlano i biografi.
Il perché di questo passaggio di luoghi, cioè dalla vera stalla in un bosco, come narra la leggenda, all'interno di una chiesa, deve essere ancora appurato con certezza. La ragione è da ricercare proprio nel fatto di non voler scandalizzare eccessiva-mente la gente col far vedere la crudezza con la quale San Francesco rappresentò la nascita di Cristo, come era nelle sue intenzioni per rendere il più possibile realistica la scena. Si voleva riportare il tutto all'interno dell'autorità morale della Chiesa stessa e si era più vicini a quello che ormai era il modo abituale di fare i presepi.
Un particolare interessante è quello del foglio attaccato alla base del supporto sul quale si trova il codice aperto, illuminato tutto intorno da candele: questo foglio reca in alto due sigilli mediante i quali è fermato al legno. Si tratta certo di qualcosa di particolarmente importante: la scritta presenta una serie di righe su due colonne inizianti tutte con una lettera maiuscola (la Regola o la dispensa papale?) purtroppo lo stato di conservazio-ne degli affreschi rende impossibile una lettura più precisa.
Anche se questo è un particolare secondario, anzi, proprio per questo, indica la volontà di rendere il più possibile realistica la scena per chi guarda. In questo episodio la concezione in senso quasi teatrale dei "luoghi deputati", quale appare ad esempio nella predica dinanzi al Sultano, viene abbandonata quasi totalmente per creare un ambiente il più possibile simile al vero.
Alcuni particolari sono poi di un realismo che noi diremmo quasi eccessivo: per esempio la serie di incastri e perni che reggono il supporto del codice e che ne permettono l'orientamento in varie direzioni o la parchettatura posteriore alla tavola del Crocefisso. Soprattutto si vede uno studio maggiore delle regole prospettiche proprio in questi particolari: ad esempio l'accuratezza con cui è stata rappresentata la pendenza del Crocefisso, o la cornice superiore dell'Iconostasi in cui i piccoli supporti che reggono la parte superiore della cornice stessa sono visti a sinistra vedendosene il lato destro ed a destra vedendosene il lato sinistro. È interessante notare che quello che di questi piccoli supporti che si vede frontalmente, collocato in maniera che non si possa scorgere alcuno dei due lati, non è esattamente al centro ma è in corrispondenza, circa, dei due frati di sinistra, più elevati degli altri, che cantano a voce spiegata e, in particolare, dell'angolo superiore sinistro del riquadro sull'iconostasi posto dietro il frate di destra.
Questa collocazione permette di spostare il punto di vista dal centro della scena, portandolo in corrispondenza del gruppo di persone a sinistra e lasciando vedere l'asta che regge il crocifisso non al centro ma a destra del crocifisso stesso. Da ciò si può rilevare come la resa prospettica dei vari oggetti non sia determinata assolutamente da alcunché di casuale e sia stata realizzata cercando di identificare, forse per la prima volta in una rappresentazione pittorica, un punto di fuga determinato. Questo è collocato in corrispondenza del rigonfiamento posterio-re della parete, piuttosto in alto, proprio in coincidenza di quello anzidetto, o forse un po' più giù, nello spazio che sta tra le teste dei frati e sopra la testa del personaggio col copricapo azzurro.
Infatti, delle donne, non si vede la parte superiore dei veli che hanno in testa, mentre si vede la parte inferiore del supporto del codice da un lato e la parte superiore dello snodo orizzontale che sta sopra di esso. Ciò fa collocare la retta, lungo la quale si deve cercare questo punto di fuga, sul piano orizzontale, proprio all'altezza della linea che passa sopra i capelli degli uomini a sinistra e immediatamente sotto i veli delle donne che stanno al centro, al di là dell'iconostasi; mentre verticalmente, come abbiamo detto, corrisponde al rigonfiamento materiale della parete. Tutta la rappresentazione non può in alcun modo ricordare quel senso di povertà e di possesso di nulla che San Francesco volle dare probabilmente in origine alla "sua" rappresentazione del Presepe. Basti guardare il ricco tappeto al di quà dell'altare, i paramenti del sacerdote e quelli diaconali, altrettanto ricchi di ornamenti di quelli di cui è vestito il Poverello.
Seri gli abiti delle altre persone presenti, tutte vestite nei modi dell'alta borghesia dell'epoca. In questa occasione sono relativamente frammisti chierici regolari e religiosi dato che a sinistra, anche se più in alto degli altri per poterne far vedere le bocche aperte, si trovano due frati. Proprio da questo lato si vedono gli spigoli di un rialzo non ben determinato nella sua funzione ma sul quale potrebbero essere questi due frati: probabilmente si tratta degli scranni di un coro sui quali potrebbero stare in piedi anche i due frati a destra. Sempre a destra sono anche altri due personaggi in abito laico.
La compostezza di tutti costoro non permette di identificarli con certezza, però a questo punto è evidente che non interessa tanto a Giotto la ricostruzione della scena quale viene raccontata da San Bonaventura o anche da Tommaso da Celano ma, principalmente, il ricordare come l'iniziatore della tradizione del Presepe sia stato San Francesco.
È evidente quindi che, in quest'epoca, l'usanza è ormai for-temente radicata presso la popolazione, almeno certamente dell'Italia e quindi il pellegrino, venendo ad Assisi, poteva ricevere questo messaggio: il Presepe era una tradizione francescana. Se si pensa che anche al tempo di San Bonaventura quest'uso si era già rapidamente diffuso, si spiega perché questi si preoccupi, in tutte le maniere, di citare un permesso papale quando, come sappiamo, in molti casi l'origine delle azioni di San Francesco veniva trovata direttamente in Dio. Si voleva ribadire che la tradizione della rappresentazione del Presepe era accettata e ben vista anche dalla Gerarchia Ecclesiastica, cosa che ne rafforzava anche il valore iconografico.
Molti dei nuovi modi rappresentativi francescani avevano trovato forti resistenze in Italia e in Europa, e anche se l'attenzione degli studiosi si è sempre puntata principalmente sul problema delle Stimmate, si deve sempre tenere presente che il movimento francescano doveva creare un'iconografia vasta quanto le sue nuove istanze.
Riassumendo, siamo di fronte a un dipinto in cui si abbando-na una struttura in cui ogni elemento del racconto abbia un suo spazio o in cui, anche se la concezione spaziale è unitaria, i protagonisti si suddividono in gruppi quasi contrapposti. Un'unica concezione prospettica corrisponde a una concezione della comunità cristiana unitaria, totalmente consonante, anche nei modi e negli atteggiamenti umili e composti, alla più genuina sostanza del francescanesimo e in cui la struttura compositiva riesce a inserirsi in quella architettonica senza fratture fastidiose per chi guarda, proiettando la scena, spinta in avanti dall'iconostasi retrostante, con un notevole impatto psicologico. L'episodio, come il precedente con cui fa coppia, mette in evidenza particolare la possibilità che aveva San Francesco di colloquiare direttamente con Cristo in ogni momento.

QUATTORDICESIMO EPISODIO
(Primo della Quarta Coppia della Seconda Serie)

Il beato Francesco ascendendo un monte in groppa all'asino di un povero uomo, poiché era infermo, per quest'uomo che si sentiva morire dalla sete, pregando, fece scaturire, da una pietra, dell'acqua che né prima vi era stata né poi fu più vista.

LM 7,12 - 2c 46 - 3c 15.

Il significato primo di questo affresco è abbastanza chiaro ed è evidenziato dall'accostamento che si può fare con l'immagine evangelica (Gv. 4,1 : 7,38) dell'acqua viva. San Francesco, quasi Alter Christus e come Mosè, è colui che, intercedendo presso Dio, poté salvare il contadino che lo accompagnava; proprio sulle capacità di intercessione presso Dio del poverello d'Assisi, infatti, insiste San Bonaventura nella Legenda Maior. Il messaggio che riceve chi guarda l'affresco è evidente: seguendo San Francesco si potrà ricevere di quell'acqua viva e avere salva la vita dell'anima, come ebbe salva la vita terrena il povero contadino che lo accompagnava.
Nei due quadri precedenti si era visto quanto particolare fosse il favore che il Santo godesse presso Dio, quì si sottolinea quanto potesse la sua preghiera; anche più della sua parola, che aveva potuto scacciare i demoni da Arezzo ma non era riuscita a penetrare a sufficienza nel cuore del Sultano.
In questo caso San Francesco "chiede" a Dio una Grazia, sia pure non per se, immediatamente concessa e il Santo viene presentato per la prima volta, non solo come colui che è in grado, col suo esempio, di dare la vita eterna a chi lo segue, ma anche come dispensatore a sua volta di Grazie, per la possibilità che ha di farsi ascoltare da Dio, o meglio, per il favore che Dio gli concede nell'ascoltarlo.
L'immagine di un Santo che, invocato, "fa" le Grazie, come dice la voce popolare, è assai comune ed è raffigurata spesso, specie negli Ex Voto; non ci si deve quindi meravigliare se anche San Francesco viene presentato in una veste simile. Questa capacità gli è riconosciuta mentre ancora era vivo, e non dopo morto, a riprova dell'avvenuta beatificazione; in fondo al ciclo sono comunque presenti i tre miracoli post mortem necessari per la causa relativa.
Ciò conferma che San Francesco viene rappresentato come il più grande di tutti i Santi, che godeva di un particolare favore presso Nostro Signore e che, ancora vivo, aveva già raggiunto e superato il punto cui erano arrivati gli altri; riguardo questo specifico episodio, poi, è evidente anche il possibile parallelo con Mosè che fa sgorgare l'acqua dalla roccia per il suo popolo.
Nelle fonti letterarie l'acqua sgorgata dalla roccia scompare subito dopo avere dissetato il contadino per accentuare il senso del miracoloso; tutti gli autori sono concordi nel riportarlo con enfasi, quasi in esso consista la cosa più meravigliosa: chiaro indice della mentalità dell'epoca e riprova che il messaggio francescano, sia nelle fonti letterarie come in quelle iconografi-che, non è basato su racconti di miracoli ma sul tipo stesso di vita che San Francesco predicava e che nell'Ordine e nella sua Regola aveva il massimo esempio.
Naturalmente, nel racconto di Giotto è considerato solamente il punto centrale dell'episodio, mentre San Francesco prega e il contadino si disseta; anche quì sono due frati, a testimoniare la veridicità dell'accaduto e la presenza inscindibile dell'Ordine.
La struttura della composizione è simile a quella già vista nel Dono del Mantello. Due monti, uno a destra e uno a sinistra, dividono la parte superiore in due zone tra le quali una larga fetta di cielo si restringe a V terminando con il suo vertice quasi in corrispondenza della figura del Santo; in questo caso la sua figura non supera e non si colloca al centro tra le due cime, né queste sono nettamente separate dalle figure in primo piano.
Il monte di destra piega i suoi fianchi con due curve che accentuano il passaggio dalla verticalità all'orizzontalità: la superiore contribuisce a formare uno dei lati della V del cielo, passa sopra San Francesco che ne copre solo un piccolo tratto con la testa e, divenendo sempre più orizzontale, quasi congiun-ge il monte di destra a quello di sinistra: l'inferiore, partendo dal lato destro del monte, passa sotto il Santo e dietro i due frati a sinistra e, assieme all'altra, dà l'idea di un sentiero in salita, con il passaggio graduale già notato dall'orizzontale al verticale.
Gli altri personaggi si trovano su piani distinti, un alto grado-ne separa questa specie di sentiero da una striscia rocciosa orizzontale su cui si trovano i due frati, striscia che, in avanti, si presenta anch'essa in verticale, per indicare che la montagna, sotto, continua. Il contadino assetato beve in una specie di triangolo che, compositivamente, occupa lo spazio tra il sentiero, chiamiamolo così, dove si trova il Santo e la striscia rocciosa dei frati con l'asino; triangolo ovviamente di roccia, più basso del sentiero di San Francesco e un poco più alto del luogo dei frati.
Che la scena avvenga in montagna, tra dirupi e burroni, è sottolineato dal fatto che le rocce terminano tutte con bordi taglienti e spigolosi in cui le parti verticali sono ombreggiate assai più scure di quelle orizzontali, come se su di esse non battesse il sole. Al centro si trova il Santo, in ginocchio, tutto proteso verso il cielo nella sua preghiera: verso l'alto, del resto, portano le sue braccia che seguono e ripetono, nel gesto, l'andamento del monte in cui si trova.
Il fatto che la testa del Santo non si trovi nel vertice della V del cielo (che per tale ragione non è situata al centro della composizione) è voluto per evitare la sensazione di immobilità che ne sarebbe derivata e per accentuare la tendenza all'alto della figura, con un evidente accenno al cammino di perfezione che il Santo compiva. Anche l'alto gradone che lo separa dai suoi frati e dal contadino trova evidente giustificazione nella necessità di dare un luogo al Santo più elevato degli altri benché sia in ginocchio.
In questo affresco prevale ancora la concezione secondo cui a ogni elemento del racconto (il Santo, i frati, il contadino) va dato un luogo particolare: non si tratta più di dare uno spazio separato ad ognuno, anche come punto di vista, ma la composizione non è lo stesso del tutto unitaria. Questo fatto, unitamente alle indispensabili analisi stilistiche, potrà forse essere di qualche aiuto per una datazione precisa dell'ordine di esecuzione del ciclo, anche se il piano generale dell'opera era stato determinato sin dall'inizio anche nei dettagli.

QUINDICESIMO EPISODIO
(Secondo della Quarta Coppia della Seconda Serie)

Andando il beato Francesco a Bevagna, predicò a molti uccelli, i quali, agitandosi con gioia, stendevano i colli, battevano le ali, aprivano i becchi e toccavano la sua tonaca; e tutte queste cose vedevano i suoi seguaci che aspettavano sulla via.

LM 12,3 - 1c 58 - 3c 20 - Fior 16.

Se si vogliono considerare i quattordici affreschi centrali come sette gruppi di due, l'episodio della predica agli uccelli deve essere abbinato a quello dell'Acqua che Sgorga dal Monte per Dissetare il Contadino: tra l'altro, entrambi sono posti all'interno della facciata, ai lati del portale, esattamente a metà di tutto il ciclo. In entrambi San Francesco opera meravigliosa-mente non tanto sugli uomini quanto su esseri o cose della Natura. Non si può fare a meno di notare il singolare interesse per questa che mostra il francescanesimo, specie confrontandolo con i secoli precedenti. È evidente perciò che la Natura, in questo ciclo di affreschi, non è introdotta solamente per l'attenzione che verso di essa mostrano Giotto e i suoi, ma anche e soprattutto perché in tale direzione guardava la nuova spiritua-lità francescana, e già da alcuni decenni! La struttura è tale che la testa del Santo è situata quasi al centro, mentre il corpo è spostato a sinistra, in maniera da staccarsi dalle fronde dell'albero retrostante a lui e dal frate che lo accompagna, all'interno di una curva formata dalla schiena di San Francesco che parte da terra e si conclude nell'aureola; così il Santo, anche senza essere al centro, ha il posto dovutogli dal proprio ruolo di protagonista.
Il Santo e l'albero all'estrema sinistra formano una grande arcata, quasi una delle finestre della Basilica, e questo effetto viene rafforzato dal fatto che tra le due figure si apre un vasto spazio aperto in lontananza. In primo piano, sempre tra il Santo e l'albero, sono gli uccelli ai quali predica San Francesco, negli atti e nei modi descritti dalle fonti letterarie.
Egli si china su di loro, protendendosi, ed essi si raccolgono verso di lui in un gruppo che sembra più compatto di quanto sia per il fatto che anche l'albero, chiudendosi su di loro, li "spinge" verso il Santo; contrasta il frate a sinistra, con la sua verticalità, sottolineata dagli alberi dietro. Una scena che accentua forte-mente la presenza e l'addensarsi degli uccelli che vanno sotto la protezione del Santo.
Anche in questo affresco la composizione si snoda assai poco in profondità: lo sfondo è lontanissimo e completamente separato, anche cromaticamente, col suo azzurro dominante, dal primo piano tutto su colori di terra. Inoltre, benché il frate partecipi alla scena, per sottolineare che si tratta di un semplice spettatore, risulta in effetti estraneo alla struttura dell'immagine. Quello che conta, insomma, è proprio San Francesco che predica agli uccelli, e solo lui.
Per capire meglio questo episodio e perché uno degli elementi del racconto, il frate, sia lasciato in disparte, bisogna considerare due fatti: per prima cosa in tutte le fonti letterarie l'episodio è collocato subito dopo che il Santo d'Assisi, interrogato lo Spirito Santo, decide di darsi definitivamente alla predicazione, e quì, anche se si tratta di esseri della natura, San Francesco sta effettivamente predicando; in secondo luogo gli uccelli assumo-no un significato allegorico per il quale essi rappresentano tutti i seguaci di San Francesco; tale collegamento è evidente soprat-tutto nel racconto di San Bonaventura.
Una tale lettura dell'episodio può essere assunta come valida solamente per le fonti letterarie e principali, dato che nel contesto degli affreschi di Giotto non vi è accenno ai dubbi di San Francesco precedenti questo episodio, che và, per tale ragione, letto in sé, come tutti gli altri.
Non è necessario identificare questi seguaci con i soli frati, la predicazione del Santo era rivolta a tutti e a tutti poteva applicar-si l'invito di Gesù ad essere come gli uccelli del cielo.
Ciò che unisce questo affresco al precedente è un particolare rilievo dato alla natura e alla sua obbedienza alla parola del Santo.
Non si può non andare col pensiero al suggestivo racconto dei Fioretti, la cui prima fonte in latino, gli Acta, è opera di un trentennio e più successiva a quella di Giotto, ma non si può affermare in senso stretto che in questi si sia ripresa la scena giottesca come da alcuni critici è stato detto.
Essi sono l'indice di un culto ormai diffuso e popolare già nel '300 inoltrato, nel quale la Predica agli Uccelli aveva un posto particolare tra le storie del Santo, come l'episodio precedente si prestava a suscitare l'immagine del Santo che concedeva "grazie" a chi lo pregava devotamente.
Per inciso, il Fioretto XVI, quello che quì ci interessa, termi-na facendo un esplicito parallelo tra i frati Francescani e gli uccelli dell'aria, che, non possedendo niente, confidano in tutto nella Provvidenza e ciò può confortare, in qualche modo, l'ipotesi di lettura che vedeva negli uccelli i seguaci del Santo di Assisi.
Infine si può anche dare un certo rilievo al fatto che nell'episodio precedente San Francesco ascolta chi, nel mondo, momentaneamente lo guidava, mentre in questo è lui ad essere ascoltato da chi lo segue nel mondo per essere guidato alla vita eterna; un gioco di contrapposizioni parallele tutto medioevale, come si vede.
Anche se, da un punto di vista storico, questa osservazione esce dai limiti cronologici di questa opera, si deve tenere presente l'influenza che questo episodio ebbe nella creazione di un'iconografia popolare del Santo d'Assisi.

SEDICESIMO EPISODIO
(Primo della Quinta Coppia della Seconda Serie)

 

Quando il beato Francesco impetrò la salute dell'anima a un cavaliere di Celano, che devotamente l'aveva invitato a pranzo, il quale, dopo la confessione e dopo aver regolato le cose di casa sua, mentre gli altri si mettevano a tavola, spirò improvvisamente e si addormentò nel Signore.

LM 11,4 - 3c 41.

Nel trattato dei Miracoli questo racconto è messo dopo un altro riguardante un morto resuscitato perché possa confessarsi, e, in entrambi i casi, Tommaso da Celano, oltre l'importanza della confessione e il particolare merito di San Francesco presso Dio, ha l'intenzione di far vedere quale merito acquistino coloro che accolgono i frati francescani e quanta grazia ne possano ricevere. Invece, nel contesto della Legenda Maior, l'episodio è collocato dopo un fatto in cui San Bonaventura si sforza di mostrare lo Spirito di Profezia del Santo di Assisi "in occasione del suo viaggio in Terra Santa" e le conseguenze disastrose per chi lo disprezzi; in entrambi i casi San Francesco prevede il futuro, ma anche San Bonaventura sottolinea il merito che ci si acquista accogliendo in casa i francescani; prova ne sia che l'episodio successivo racconta della punizione in cui incorse un canonico ingrato.
Si tratta di episodi tutti riguardanti, nella sostanza, il conte-gno di benevolenza e fiducia che si doveva tenere verso il Santo di Assisi e l'Ordine da lui fondato e volti a educare e istruire in proposito i pellegrini. In questa raffigurazione Giotto ha diviso il riquadro a sua disposizione in due parti: a sinistra si trovano San Francesco e il frate sacerdote che era con lui: a destra il morto, circondato dagli amici e dalle donne di casa. Le due parti sono divise dalla metà inferiore di uno dei due pilastri che sorreggono un balcone, aggettante sulla tavola imbandita, dietro la quale sono collocati il Santo e il frate che lo accompagnava.
I pilastri terminano incurvandosi in avanti con una mensola ad arco lobato per sorreggere meglio il balcone e va notato che, sotto di questi, il soffitto assume, all'interno, la stessa forma ad arco lobato delle mensole pur conservando una decorazione a cassettoncini.
La cosa più curiosa è che il pilastro a sinistra non è collocato all'estremità corrispondente del balcone ma un poco in dentro rendendolo aggettante da questa parte, ma senza avere la sagoma lobata del soffitto compreso tra i due pilastri. Il muro a sinistra, poi, prosegue con le stesse decorazioni che troviamo sul pilastro, in alto e a metà, ed è ornato da un motivo floreale. Questa disposizione sembrerebbe strana se non fosse che lo spazio privilegiato formato dai due pilastri e dal balcone, con la tavola imbandita, il Santo e il frate che lo accompagna, non riesce esattamente a contenere la tavola stessa e la pedana su cui si trova, tanto che il frate è tangente, otticamente, al pilastro di sinistra.
In altre parole non si capisce perché il pilastro di sinistra non si trovi all'estremità del balcone, chiudendo completamente la metà del riquadro in cui si trovano il Santo e il frate.
Tutte le altre caratteristiche compositive rientrano in uno schema già visto: sulla sinistra sta San Francesco, in piedi, per avere più rilievo e al centro dello spazio compreso tra il bordo sinistro di tutto il riquadro e una semicolonna che sporge dalla parete della Basilica; questa, coperta dallo stesso colore azzurro uniforme del fondo e praticamente inesistente da un punto di vista pittorico, assume così egualmente una funzione strutturale.
Lo spazio privilegiato in mezzo al quale si trova il Santo non è più quello delimitato dal balcone ma quello determinato dalla cornice del riquadro e da questa semicolonna, entrambi elementi che non fanno parte del dipinto.
A destra si trova il morto, circondato da donne coi capelli disciolti in segno di lutto e da amici costernati. Tra questo gruppo e i frati funge da elemento di collegamento un personag-gio che, indicando contemporaneamente il Santo e il morto, attesta il miracolo e permette a chi guarda di connetter i due momenti della scena.
Le mani del Santo e di questo personaggio, vicine e simili anche nel gesto, sembrano dire e ribadire: ecco, guardate! Ma a proposito di costui va notato anche che non si trova sotto la semicolonna, ma un poco spostato a sinistra, quasi in corrispon-denza del pilastro del balcone, collocato secondo la suddivisione solamente pittorica che vedeva lo spazio del Santo limitato, sia lateralmente che sopra, da quest'ultimo; tanto è vero che alcuni personaggi capitano anche sotto la semicolonna.
È come se il pittore non fosse riuscito a risolvere a pieno il proprio problema e il risultato sia stato un compromesso non del tutto perfetto. Il balcone, infatti, si trova tangente, prospettica-mente, alla semicolonna, ma lo spazio che così delimita sotto di sé è forse troppo spostato a sinistra. Per ridurre questo sposta-mento a sinistra e poter collocare il Santo al centro tra la semicolonna e la cornice, il pilastro di sinistra è stato messo all'interno, dato che evidentemente la semicolonna, con la sua tridimensionalità, era sempre troppo evidente anche se dipinta di azzurro come il fondo. Malgrado ciò, per non creare fratture, il gruppo di personaggi a destra è stato egualmente portato sino al pilastro del balcone.
Se ciò sia stato opera di correzioni effettuate durante le varie fasi della realizzazione o di un'incetezza che sin dall'inizio abbia tormentato il pittore non credo si possa sapere, ma certo questo è uno degli affreschi meno chiari, dal punto di vista strutturale, dell'intero ciclo.
Un'ultima considerazione va fatta a proposito della compri-marietà tra il Santo di Assisi e il morto: quest'ultimo, benché nel complesso risulti "non centrale" per lo spettatore, gode di una serie di sguardi affisi su di se che creano una struttura di linee ideali tese su di lui; in particolare, con una drammaticità da collocare certamente ai più alti livelli poetici, una linea unisce gli occhi della donna che lo sorregge con gli occhi del morto, secondo lo schema caro a Giotto, ma questi sono chiusi: la linea, il dialogo è a senso unico!.

DICIASSETTESIMO EPISODIO
(Secondo della Quinta Coppia della Seconda Serie)

 

Quando il beato Francesco dinanzi al Signor Papa e ai Cardinali predicò così devotamente ed efficacemente da apparir chiaramente che egli parlava non con dotte parole di umana sapienza ma per divina ispirazione.

LM 12,7 - 1c 73 - 2c 25.

Anche in questo episodio San Francesco mostra il suo spirito profetico, e ciò non indica solamente la capacità di prevedere il futuro, ma quella di parlare per impulso dello Spirito Santo.
Il fatto è riportato sia da Tommaso da Celano, in entrambe le vite, sia da San Bonaventura, ma in quest'ultimo mescolato a una serie di altri fatti miracolosi e presentato quasi come un miracolo anch'esso, dato che, nella brevità del racconto, si sottolinea soprattutto che non fu San Francesco, troppo intimidi-to, a parlare, ma lo Spirito Santo per bocca sua.
In Tommaso da Celano il senso del racconto è la profezia e come lo Spirito Santo aleggiasse sempre su di lui. Proprio lo Spirito Santo ispira San Francesco a chiedere, e il Papa a dare, il Cardinale Ugolino come protettore per l'Ordine. Il racconto ha così anche lo scopo di sottolineare la fedeltà a Roma dell'Ordine Francescano e, al tempo stesso, ricordare come tutto ciò che riguardasse la sua nascita e la sua costituzione fosse stato già predisposto da Dio.
In Giotto l'episodio è rappresentato con molta precisione prendendo un ipotetico momento durante la predica. Per valutare bene la scelta operata dai frati e dai pittori nel voler rappresenta-re proprio questa scena, si deve considerare che, all'epoca, era un grande onore predicare dinanzi al Papa (c'era anche una carica di corte apposita) ed era il riconoscimento di particolari virtù oratorie e di dottrina.
Il fatto che San Francesco, stando ai suoi biografi, abbia perso in un primo momento la parola per timidezza e solo invocando l'Aiuto Divino l'abbia recuperata non è neppure accennato e tutto l'episodio, quale viene riportato da Giotto, non ha in sé nulla di miracoloso. Il San Francesco che ne viene fuori, però, è quasi un dottore della Chiesa, qualcuno che poteva insegnare al Papa stesso.
Forse un sottile invito a considerare relativamente autonomo l'Ordine anche nel campo della dottrina? Proprio per questa ragione viene completamente tralasciato l'accenno che fa Tommaso da Celano al modo di predicare del Santo di Assisi, che si agitava e infervorava moltissimo, "quasi saltellando", mentre è ben messa in risalto l'attenzione che il Papa e i Cardinali prestano al Santo, anche se nessuno di essi piange come dice il racconto.
Due cose sono invece da notare: la prima è che tra i perso-naggi si trova un frate, di cui nei testi letterari non si fa menzio-ne, perché San Francesco non può più essere scisso dalla presenza dell'Ordine da lui stesso fondato; la seconda è che il Santo indica se stesso, apparentemente per sottolineare che l'argomento della predica dovesse essere inerente alla propria persona o al proprio operato, in realtà per indicare a chi guarda-va l'affresco che l'attenzione del Papa e dei Cardinali era per lui.
Anche la struttura generale del riquadro contribuisce a questo effetto, essendo formata da elementi palesi e bene identificabili: le colonne che dividono lo spazio e le linee non tracciate, ma esistenti, che uniscono gli sguardi del Papa e dei Cardinali agli occhi del Santo.
A parte alcune incertezze nel piedistallo del Papa questo è uno degli affreschi in cui più coerente è la costruzione spaziale e, se si vuole, prospettica. I personaggi sono all'interno di uno spazio chiuso da un pesante drappeggio (usuale all'epoca con funzione di coibente termico) tranne che anteriormente dove, comunque, due colonne lo limitano dichiaratamente e assolvono contemporaneamente la funzione di assegnare al Santo una sua "zona" distinta da quella del Papa. Questi, più centrale, ricondu-ce con il suo sguardo, fisso negli occhi di San Francesco, al vero protagonista.
I personaggi che non possono essere volti verso il Santo non guardano neppure il Papa, ma sono raffigurati assorti in medita-zioni generate dalla predica. Il Santo, infatti, non è al centro del semicerchio formato dai Cardinali, ma alquanto spostato verso una delle estremità di questo, quasi di lato ai due personaggi a lui più vicini. Forse per la loro importanza, non era conveniente dipingere qualche curiale come nascosto e poco visibile.
Il gesto di San Francesco che indica se stesso potrebbe avere anche un'altra interpretazione: il Santo, cioè, starebbe quasi a dire, all'invito di parlare:"Io?", mentre il Papa già si è messo attento per ascoltarlo, ma questo contrasta con l'aria meditabon-da del frate e degli altri due personaggi.
Una cosa ancora va notata, strana se si considera che la scena rappresenta un concistoro: che una sola persona abbia la berretta cardinalizia, all'estrema destra, e che, perciò il Cardinal Ugolino, che aveva portato San Francesco al Papa ed era divenuto protettore dell'Ordine proprio per richiesta esplicita di San Francesco, non può essere che questi. Si spiegha, così, il suo posto, più basso di San Francesco e del Papa, ma collocato comunque in una particolare delle tre "zone" in cui le due colonne dividono il riquadro, del resto non si vede perché proprio in questa occasione si sarebbe dovuto omettere uno dei personaggi essenziali al racconto.
Lo spazio è quì ormai fondamentalmente unitario e queste tre zone non sono, come in altri affreschi di questo ciclo, probabil-mente anteriori, tre "spazi" distinti ma solo una spacie di "effetto trittico" dato dalle due colonne anteriori.

DICIOTTESIMO EPISODIO
(Primo della Sesta Coppia della Seconda Serie)

 

Predicando il beato Antonio (di Padova) nel Capitolo di Arles sul titolo della Croce, il beato Francesco, assente corporalmente, apparve e, stese le mani, benedisse i frati, come vide certo Monaldo: e gli altri frati ne gioirono immensamente.

LM 4,10 - 1c 48 - 3c 3.

Nella Vita Prima di Tommaso da Celano l'accento è sulla Croce: San Francesco è descritto sulla porta, come se entrasse, sollevato in alto e con le braccia aperte in forma di croce, in atto di benedire. Nel Trattato dei Miracoli il frate che lo vede apparire, Monaldo, lo vede con le braccia aperte, come crocifis-so e, sempre nel Trattato dei Miracoli, l'episodio è collocato tra una serie di altri fatti tutti attestanti come San Francesco portasse in se il segno della croce: è evidente il collegamento col miracolo delle Stimmate. Nella Legenda Maior si pone l'accento sul fatto che egli attestasse, con la sua presenza, la verità delle parole di Sant'Antonio: una evidente esemplificazione che, spiritualmente, San Francesco garantisce e certifica della predicazione di tutti i suoi frati.
In questo episodio, come nel seguente, il percorso che San Francesco segue nella via della perfezione si completa e, poiché egli ha sempre seguito Cristo imitandolo nei suoi limiti umani, è logico che quì il Santo di Assisi sia ormai giunto a essere quasi un "Alter Christus" come si conveniva a chi era destinato a sostenere e risollevare, con l'Ordine da lui fondato, la Chiesa di Roma. Due sono, quindi, le possibili interpretazioni, ma entrambe tra loro interdipendenti, poiché, sempre, San Francesco è presentato quale Alter Christus, e come tale egli appare ai suoi frati, quasi come Gesù apparve dopo la resurrezione ai discepoli riuniti in suo nome.
La prima si rifà al racconto della Legenda Maior: San Bona-ventura sottolinea il fatto che il Santo di Assisi sia garanzia delle parole di tutti i supi frati quando questi predicano, e da questo punto di vista l'Episodio potrebbe riallacciarsi al precedente, in cui San Francesco dà prova delle proprie capacità predicatorie e del proprio spirito profetico dinanzi al Papa.
In Tommaso da Celano, invece, specialmente nel Trattato dei Miracoli, viene sottolineata la somiglianza anche morfologica con Cristo, e in questo senso l'episodio è certamente visto come una anticipazione, quasi un preannuncio del seguente, che è quello famosissimo delle Stimmate. Si mostra che San France-sco progredì in un iter di imitazione e di avvicinamento a Cristo, tanto da riceverne un premio mai concesso prima di allora a nessun altro. È in questo secondo significato che va letto l'affresco; del resto l'aspetto stesso di San Francesco, esattamen-te quale lo descrive il Trattato dei Miracoli lo conferma, come conferma la suddivisione degli affreschi centrali del ciclo in gruppi di due.
La Struttura è scandita dalle aperture delle due finestre e della porta posta tra di loro, al centro. Sul vano della porta sta San Francesco con le braccia aperte in forma di croce; la sua posizione tuttavia non è all'estrema sinistra e corrisponde al muro laterale davanti al quale Sant'Antonio, un poco più in basso, predica.
La presenza contemporanea dei due Santi, entrambi già famo-sissimi, portò Giotto a cercare una soluzione di compromesso, che, senza mettere in discussione la posizione centrale (in tutti i sensi) di San Francesco per il suo Ordine, riservasse un posto particolare anche al Santo di Padova.
Tutti gli altri frati, seduti o accucciati a terra, sono collocati al di sotto della linea di davanzale delle finestre, in vari atteggia-menti di meditazione o attenti alle parole del predicatore. Il frate che ebbe la visione alza il viso e, con gli occhi, ci porta diretta-mente a San Francesco, gli sguardi di quasi tutti gli altri sono volti verso Sant'Antonio, tranne quelli che, non trovandosi di fronte, dovrebbero essere figurati in una posizione troppo storta e tranne il particolare realistico del frate, completamente di spalle, che parla al compagno. In tal modo quasi di tutti si vede almeno un po' di profilo del volto.
Fatto curioso: dove il tetto taglia il piano ideale del quadro la sezione di questo è stata ornata come una cornice con un evidente scopo di abbellimento; non si tratta di una tettoia esterna, che, anzi, è rappresentata al di là delle finestre: di questa si vedono anche i pali che la sorreggono ed è disegnata con le travi quasi verticali, per indicarne la forte inclinazione.
In questo interno l'ambiente, verso destra, non ha un confine preciso, ma lo spazio in cui si svolge la scena è limitato dal piano verticale che idealmente poggia sulla rigida struttura geometrica della panca dei frati. Sembra che Giotto non sia stato in grado (o non fosse ancora in grado) di creare uno spazio chiuso unitario come nella predica dinanzi al Papa.
Rispetto ad altri affreschi va notato che le linee orizzontali della parte alta (le travi del soffitto) e quelle della parte bassa (la panca, il piedistallo di Sant'Antonio) convergono al centro, verso una linea di orizzonte che dovrebbe essere collocata grosso modo in conicidenza con i davanzali delle finestre. San Francesco si trova con il cordone poco al di sopra di questa linea, Sant'Antonio poco al di sotto con la parte orizzontale delle braccia, cosa perfettamente adeguata alla rispettiva importanza "gerarchica" come santi.

DICIANNOVESIMO EPISODIO
(Secondo della Sesta Coppia della Seconda Serie)

 

Pregando il beato Francesco sulla costa del monte della Verna, vide Cristo sotto forma di Serafino crocifisso, che gli impresse nelle mani e nei piedi e anche sul costato destro le stimmate della Croce e dello stesso Signor nostro Gesù Cristo.

LM 13,3 - 1c 94/95 - 3c 4 - 3Cp 69 - AP 46 - LEE 5 - Cons.4.

Il riferimento per mettere a punto la struttura di questo episo-dio sembra quasi siano state le Considerazioni sulle Sacre Stimmate, collocate alla fine dei "Fioretti" di San Francesco. Tutte le altre fonti più antiche non si soffermano in un racconto particolareggiato delle condizioni dei luoghi e della successione di spostamenti materiali che il Santo di Assisi e i suoi compagni effettuarono sul monte della Verna; anzi, pochissimi sono gli accenni al come e al quando il miracolo sia effettivamente avvenuto.
Data la ritrosia di San Francesco a parlare e a mostrare quei sacri segni si poteva riferire ben poco in proposito, perciò deve essere esaminato attentamente il fatto che nei Fioretti, benché più tardi di questi affreschi, ci si dilunghi tanto nel racconto del miracolo. Le due casupole per il Santo e per frate Leone e la profonda spaccatura nel monte che le divide sono elementi che noi possiamo ritrovare solamente nelle Considerazioni.
Supporre una discendenza di queste dall'affresco giottesco non è possibile: non si vede perché si sarebbero dovuti inventare alcuni particolari del racconto quali le casupole, frate Leone, la spaccatura, senza alcuna necessità effetiva (soprattutto le due capanne) e senza un "prima" e un "dopo" nel racconto stesso. Questo era integrato, come sempre, dal titulus e dalle spiegazio-ni orali che si davano ai pellegrini raccontando tutta la storia di cui la scena rappresenta il momento culminante. Sarebbe bastato rappresentare San Francesco che riceve le Stimmate, senza aggiunte, come più semplicemente narrano le fonti più antiche.
L'unica spiegazione è che Giotto e i frati di Assisi avessero a disposizione altre fonti (una leggenda o un racconto orale?) da cui in seguito furono tratti i Fioretti. Del resto, se si fosse voluto puntare sull'effetto meraviglioso del miracolo, certi particolari sarebbero stati inutili, e in tutto il ciclo niente sembra mai lasciato al caso! Il raffronto con la tavola di analogo soggetto conservata al Louvre mostra come, anche in questa, siano presenti le due casupole suddette anche se, forse per ragioni di spazio, non è presente frate Leone; a riprova che, indipendente-mente dal fatto che vi abbia messo mano Giotto in persona, si faceva riferimento a una Legenda ben precisa.
Se fosse stato altrimenti, durante l'evidente procedimento di semplificazione, necessario passando dall'affresco di Assisi alla tavola del Louvre, le due casupole sarebbero state eliminate come elementi superflui.
Rimane comunque sempre da considerare la necessità di inserire un testimone "durante" l'apparizione del Serafino crocifisso che rappresenta il Cristo, sia per convalidare l'episodio narrato (come è anche in quasi tutti gli altri episodi, anche prima della conversione), sia per attestare la presenza dell'Ordine in un momento tanto importante della vita del Santo. Il fatto che nell'affresco il frate legga e non guardi verso il miracolo rende più probabile questa seconda ipotesi. Inoltre la tradizione che vedeva sempre vicini a San Francesco i primi compagni ne viene certamente rafforzata, il racconto delle Considerazioni parla, a proposito, specificamente di Frate Leone. In nessuna fonte si fa riferimento a testimoni dell'accaduto e in effetti il frate dell'affresco non è un vero teste, dato che non sta guardando cosa accada.
Va notato, piuttosto, come le casupole cui si fa riferimento nel racconto delle Considerazioni quì abbiano forma e struttura di piccole chiese; in quella di sinistra si vede anche quello che sembra un paliotto d'altare. Le due piccole chiese sono comun-que attribuite, palesemente, una per ognuno dei due protagonisti, escludendo naturalmente il Serafino che, nell'affresco, si identifica decisamente con Cristo. Si ricorderà che già nell'episodio del Sogno del Palazzo Pieno d'Armi la voce misteriosa che esprimeva la Volontà Divina era stata personifi-cata da Giotto in Cristo.
Riassumendo, il racconto delle Considerazioni è quello che maggiormente si avvicina a questa scena e, se non si vuole ammettere l'esistenza di una tradizione anteriore, dovremmo ipotizzare l'invenzione delle Considerazioni derivata dal dipinto.
Si deve convenire che per poter giustificare la presenza di un altro frate fosse abbastanza inutile mettere nell'affresco le due casupole, anche se considerati luoghi sacri, e lasciare in disparte il compagno di San Francesco tanto da non rappresentarlo neppure in maniera che guardi il miracolo. Si tenga inoltre presente che le due casupole, agli occhi dei pellegrini, dovevano sembrare, appunto, due luoghi sacri.
L'affresco non ha struttura simmetrica, ma le masse appaiono egualmente ben bilanciate anche da un punto di vista tonale. Una linea verticale parte dalla cima del monte e prosegue passando tra San Francesco e la casupola alle sue spalle sottolineata, all'inizio, dall'andamento parallelo degli alberi e finendo con una incavatura sull'orlo del precipizio che delimita, dalla parte dello spettatore, lo spiazzo su cui sta il Santo. A sinistra e a destra di questa linea appena percettibile si allarga il monte, a pan di zucchero, semplificato al massimo. Il Santo è costruito seguendo queste linee del paesaggio: verticale come la parete della casupola la schiena, inclinato anteriormente, a destra per chi guarda, come il profilo del monte. L'orlo della veste segue quello del precipizio, che va in dentro, curvando con una serie di pieghe spezzate e tormentate come le rocce che si vedono sull'iniziare del precipizio stesso. A destra, in basso, separato dalla spaccatura, l'altro frate legge e medita dinanzi alla sua casupola.
In alto, nettamente stagliato contro l'azzurro intenso del cielo,il Serafino crocifisso del racconto che quì ha decisamente il volto di Cristo. Tanto più risalta questa immagine in quanto è tutta dipinta in toni rossi e luminosi, richiamati dalla casupola dietro San Francesco e da questa bilanciati, tonalmente nell'immagine. Del resto anche il colore della tonaca del Santo viene bilanciato tonalmente dal Frate a destra, che viene, così, a trovarsi inserito nel campo visivo di chi guarda senza altro particolare accorgimento.
La cosa più evidente sono le serie di linee finissime che partendo dalle piaghe delle mani, dei piedi e del costato di Cristo vanno a toccare le corrispondenti mani, piedi e parte del costato di San Francesco. Poiché il Serafino-Cristo e San Francesco sono l'uno di fronte all'altro, anche se il Serafino è più alto, è logico che queste linee si incrocino; anzi, quella che raggiunge il piede sinistro del Santo, non in vista, passa dietro il Santo stesso.
Anche in quasi tutti gli altri riquadri linee ideali, non tracciate e spesso indicate e originate dallo sguardo dei personaggi, fanno parte della struttura del quadro, ma questo è l'unico caso in cui, pur senza essere raggi luminosi, siano indicate.
Per capire questa struttura così poco naturale si deve tener presente che il miracolo delle Stimmate era considerato ancora, al tempo di Giotto, del tutto singolare ed eccezionale; sappiamo che vi furono grosse difficoltà per farlo accettare anche da un punto di vista iconografico dopo la canonizzazione del Santo.
Il miracolo era visto come la prova che San Francesco era un "Alter Christus" con posto superiore e speciale rispetto a quello di tutti gli altri Santi. È il momento culminante di tutto il ciclo, quando San Francesco raggiunge il massimo di somiglianza al Signore possibile per un essere umano e ne riceve l'attestazione esterna con le Stimmate; è la dimostrazione che l'Ordine Francescano ha comunque una collocazione particolare nella storia della salvezza essendo, nel mondo, il custode di una vera e autentica via di perfezione e di imitazione di Cristo.
Il miracolo doveva essere espresso, anche pittoricamente, con la massima chiarezza possibile, senza alcuna possibilità di equivoci: le Stimmate di San Francesco erano l'immagine fedele e precisa, anzi, speculare, di quelle di Cristo. L'Ordine è sempre e comunque presente ad attestare il concetto di continuità tra il fondatore e i suoi frati, come in tutti gli episodi seguenti quello dell'Approvazione della Regola. Tutto quello che riguarda San Francesco e l'Ordine è santo, anche le casupole costruite come riparo sul monte della Verna e che assumono quì forma di piccole cappelle. Ormai il Santo ha raggiunto il suo vertice di perfezione terrena: nel mondo spetterà all'Ordine di continuarne l'opera.

VENTESIMO EPISODIO
(Primo della Settima Coppia della Seconda Serie)

 

Come nell'ora del transito del beato Francesco un frate vide l'anima di lui ascendere al cielo sotto forma di stella fulgentissima.

LM 14,6 - 1c 110 - 2c 217 - 3Cp 68.

L'episodio, quale viene interpretato da Giotto, è differente dal racconto delle fonti letterarie: è chiaramente diviso in tre zone e rappresenta il momento esatto del trapasso dell'anima del Santo al Cielo, quale viene descritto a cominciare dalla Vita Prima di Tommaso da Celano, secondo le parole di un frate che raccontò di aver visto l'anima di San Francesco salire "come una stella, grande come la luna, splendente come il sole e trasportata da una candida nuvoletta".
Tutta la parte superiore della scena corrisponde a questa descrizione, con l'aggiunta di dieci angeli di cui sei disposti simmetricamente, tre per lato, da una parte e dall'altra dell'anima del Santo e gli altri quattro che sorreggono un disco simile alla luns e splendente, con sotto una nuvola.
All'interno di questo disco si vede il Santo di Assisi, a mezzo busto, che mostra le piaghe delle mani e del costato. In tale maniera più che rappresentare l'anima di San Francesco Giotto ha ottenuto quasi l'effetto di un medaglione dipinto, mostrato dagli angeli al popolo dei fedeli.
Nella fascia più bassa è collocato il corpo materiale del Santo, circondato da undici frati in atteggiamenti diversi di dolore e di compunzione, tra di loro uno bacia il piede sinistro di San Francesco e un altro ne stringe la mano, sempre in pieno accordo al racconto della Vita Prima di Tommaso da Celano. Perfetta-mente visibili sono anche le Stimmate impresse nella mano destra e nei piedi; anche la ferita sul costato è visibile attraverso un taglio oblungo nella tonaca.
La fascia centrale del dipinto è, tra le tre, la più densa, riempi-ta da una folla di frati tra i quali uno con i paramenti sacerdotali. Il perché di questa netta distinzione zonale va cercato nella preoccupazione di chiarire che non vi furono eredi particolari di San Francesco ma tutti i frati, presenti e assenti, dovevano considerarsi tali. Tommaso da Celano è molto esplicito in proposito quando parla del destinatario della benedizione che il Santo diede, ormai cieco, prima di morire e che qualcuno aveva interpretato come diretta personalmente al solo frate Elia.
È evidente che se San Francesco aveva benedetto in frate Elia tutti i suoi frati, neppure i suoi primi compagni potessero sostenere di essere i soli e veri eredi di lui, o meglio, neppure chi di questi primi compagni voleva farsi a sua volta erede; lo stesso discorso vale anche se si considera il racconto della benedizione che San Francesco avrebbe dato a Bernardo da Chiaravalle.
Questa precisazione, relativa alla benedizione, è importante perché dopo la scomunica di frate Elia questo episodio scompare dalle leggende successive alla Vita Prima di Tommaso da Celano, da cui viene sempre ripreso, però, il resto della scena.
Ecco, dunque, che nella parte inferiore del riquadro sono stati rappresentati, attorno al cadavere, undici frati, tanti quanti erano con San Francesco quando la Regola ebbe la prima approvazio-ne papale, ma ecco anche che sopra di loro è tutto l'Ordine, compunto e triste sì, ma anche numeroso e vivo.
La struttura della composizione è quella di una chiesa e le tre fasce in cui è divisa sono tra di loro assai meglio connesse di quanto sembri in un primo momento. In alto è il Santo, come in un rosone gotico; al centro, disposti a semicerchio, i frati e l'Ordine tutto, come a formare un abside; sotto, il corpo del Santo e il primo nucleo dei fondatori, come nelle cattedrali, in cui i corpi dei martiri e dei santi contenuti nelle cripte sono i pilastri su cui trovano sostegno e fondazione non solo il Clero e la Gerarchia ma la fede stessa del popolo.
Come nelle cattedrali in alto è la luce che simboleggia la Grazia Divina e costituisce il riferimento della speranza di tutti. Anche se dipingendo né Giotto né i frati di Assisi avessero pensato ad accennare la struttura di una chiesa in questo episodio, i significati da cercare nelle tre zone sovrapposte in cui è diviso il dipinto sono comunque gli stessi.
Per entrambe le tre fasce ai lati si addensa un maggior nume-ro di personaggi (gli angeli a tre a tre sopra, i frati a semicerchio in mezzo, i frati attorno ai piedi e al capo del corpo) in modo che in corrispondenza della figura di San Francesco, benché questa sia in orizzontale e piuttosto in basso, si viene a creare un vuoto in profondità proprio al centro del riquadro, anche e soprattutto perché si tratta del punto più cavo nel semicerchio dei frati.
Così, la figura del Santo è proiettata in avanti acquistando quella centralità nell'attenzione di chi guarda che gli compete.
Solamente un frate limita l'effetto e chiude l'immagine anche dalla parte del riguardante, coprendo in parte le gambe del Santo, rendendo chiuso in sé lo spazio della scena e impedendo che si apra verso gli spettatori: in questa prima immagine di San Francesco morto debbono essere presenti solamente frati, primi figli spirituali del Santo e suoi eredi.
Da notare infine come la scena divenga sempre più luminosa man mano che si va dal basso verso l'alto passando dai colori bruni e caldi degli abiti e del terreno all'alternarsi di tonache bianche e brune dei frati, officianti e non, per terminare con l'azzurro freddo e profondo del fondo e i bianchi brillanti degli angeli: dal colore della terra e della morte si passa così al colore più vivo del cielo e della vita.

VENTUNESIMO EPISODIO
(Secondo della Settima Coppia della Seconda Serie)

 
 

Ministro in Terra di Lavoro (Frate Agostino), infermo e prossimo alla fine e avendo già da tempo perso la favella, gridò e disse: "Aspettami, Padre vengo con te" e subito morto seguì il Padre Santo.

Il Vescovo di Assisi inoltre, essendo sul monte di San Miche-le Arcangelo, vide il beato Francesco che gli disse: "ecco vado in cielo".

M 14,6 - 2c 218/220.

Questo riquadro è unito a quello precedente formando l'ultima coppia di episodi della serie centrale e, a sua volta, contiene due diversi fatti miracolosi contemporanei alla morte di San Francesco a alla sua salita al Cielo. In entrambi i casi si tratta di due visioni che ripetono, a distanza, la visione del frate che ad Assisi vedeva l'anima del fondatore ascendere.
Il racconto di questi episodi è eguale in tutti i testi letterari ed è sempre unito a quello della visione di questo frate; sia in questi testi che in Giotto l'episodio della morte di San Francesco è completato dalla citazione di coloro che videro miracolosamente e attestarono come l'amima del Santo andasse in Cielo.
Sinora nella parte centrale di questo ciclo gli affreschi erano disposti a coppie inerenti ciascuna un determinato aspetto della vita del Santo, ma sempre narranti episodi staccati nello spazio e nel tempo; in questo caso l'episodio è unico (la visione dell'anima che va in Cielo) in tre luoghi distinti. Ciò spiega perché sia stato possibile inserire due di questi luoghi in un unico riquadro. In poche parole il tempo è unitario e lo spazio differenziato.
Si tratta anche del primo quadro in cui il Santo non compare più col suo corpo materiale, anche se una così stretta unione logica a quello precedente rende meno avvertibile per lo spettatore questo fatto. Evidentemente era previsto con certezza che i pellegrini avrebbero seguito il percorso stabilito.
Il Santo è stato già rappresentato morto corporalmente mentre la sua anima va in Cielo e, in terra, l'Ordine da lui fondato rimane a continuarne l'opera, a cominciare dai primi compagni per arrivare ai tempi di oggi perché il fruitore, o meglio, lo spettatore di questi affreschi fu considerato guardando al futuro a tempo indeterminato.
Dei due episodi rappresentati, simili ma distinti, uno, quello che occupa lo spazio maggiore (e che per primo incontra lo spettatore se segue il ciclo dall'inizio) è dedicato all'Ordine, il secondo alla Gerarchia del clero secolare. L'ascesa in cielo di San Francesco fu così attestata, al momento della morte, in tre luoghi distinti (e tre è il numero perfetto) di cui due che testimoniano come "tutto" l'Ordine, sia chi fosse vicino al Santo che chi ne fosse lontano, abbia partecipato al fatto e fosse erede di San Francesco. Il terzo attesta come anche la Gerarchia Ecclesiastica fosse stata chiamata a constatare, sempre miracolo-samente, la beatitudine di San Francesco che ad Assisi visse e morì.
Fu proprio il Vescovo di Assisi che per primo accolse nelle braccia della Chiesa come religioso, anche se in modo informa-le, San Francesco in occcasione della rinuncia ai beni paterni; ora è solo, in una camera di cui si vede un angolo, parte del soffito e, ma solo dall'esterno, un abbaino; ricchi i drappi alle pareti, ricco il tappeto orientale che fa da scendiletto, ma solo. La posizione ricorda quella del Papa nel sesto episodio, anche quì il Vescovo che dorme veste in maniera da essere pienamente riconoscibile.
Per contro frate Agostino è circondato da molti confratelli che lo assistono e si preoccupano per lui: l'Ordine è presente con tutti i suoi frati sino al momento della morte, riaffermando così la sua natura essenzialmente comunitaria. Del resto anche precedentemente, avuta la prima approvazione papale, San Francesco è stato sempre rappresentato assieme ai suoi frati.
Le differenze tra i due episodi si accentuano se si esamina la struttura dell'affresco. Anzitutto bisogna notare come l'architettura dell'ambiente in cui sono collocati i frati è, oltre che più grande, soprattutto meglio descritta di quella in cui dorme il Vescovo di Assisi. La prima infatti presenta agli spettatori due lati interni e uno esterno risultandone così definita in tutti i suoi valori spaziali di larghezza e di profondità, mentre il Vescovo è collocato in un angolo tra due pareti la cui esten-sione laterale, a sinistra e verso lo spettatore (manca ovviamente il lato che si dovrebbe trovare dalla parte di questi) non è precisata:ma ciò che rende più "importante" (se così si può dire) la parte dedicata all'episodio di Frate Agostino è il fatto che questi non si trovi in una stanza o nella cella di un convento, ma in un ambiente esplicitamente assimilato a quello di una chiesa, quella "forma" di chiesa che nella scena della morte di San Francesco era data dai frati.
Anche in questo affresco viene affermata l'intenzione del pittore e del committente di dare un insegnamento non solo ai pellegrini esterni all'Ordine ma anche, e soprattutto, ai frati stessi. La loro testimonianza viene sempre evidenziata e considerata, esplicitamente, più importante anche di quella di un Vescovo. Conoscendo il rispetto che l'Ordine, per volontà e a partire dal suo fondatore, ebbe sempre per la Gerarchia ecclesia-stica, se l'affresco fosse stato pensato per degli estranei, la testimonianza di un Vescovo sarebbe certamente stata considera-ta superiore o almeno pari a quella dei frati stessi, da parte dei quali, in fondo, poteva essere data per scontata.
Da un punto di vista strettamente tecnico va notato come le costruzioni spaziali dei due luoghi citati siano divergenti tra loro, cosa che ne accentua la separazione (spaziale, appunto, ma non temporale). Nel fare gli affreschi si avevano ben chiari i concetti stessi di spazio e di tempo, basi indispensabili per lo sviluppo dell'arte e del pensiero occidentali.
La parte più interessante di queste architetture è certamente la superiore, risolta, decorativamente, con una serie di elementi tra cui spiccano le statue di marmo in cima ai pilastri (tre, una quarta si suppone occultata dal tetto) e le due scale con ringhiera che dalla copertura delle due navate laterali portano a quella centrale di questa costruzione. Il campanile sullo sfondo e le volte a crociera contribuiscono a loro volta a identificare l'ambiente con una vera e propria chiesa.
Tutta l'immagine è verticalizzata dai pilastri della costruzio-ne, stretti e sottili, per lasciar vedere meglio l'interno; anche i frati che assistono frate Agostino sono tutti in piedi: quattro per lato, compresi tra i pilastri e i muri laterali, e due al centro con frate Agostino. Da ciascuna parte due dei frati sono "al di fuori" dell'ambiente architettonico, dalla parte degli spettatori, contribuendo a fondere lo spazio di questa scena con quello reale della Basilica.
È la prima volta, forse, che viene effettuato un simile tentati-vo nella pittura italiana e mondiale.
La cosa è resa evidente perché lo "spazio" del convento (o della chiesa) è chiaramente delimitato dalla sua facciata esterna, come viene definita dagli elementi architettonici superiori. Anche se manca la parete, artificio più volte usato da Giotto per far vedere l'interno, tutti i personaggi dovrebbero essere al di là di questi due pilastri! Ciò, tra l'altro, avvalora l'ipotesi già fatta che nell'episodio precedente si fossero voluti lasciare "fuori" gli spettatori deliberatamente.
Si guardi ora ai piedi dei due frati citati; come si ricorderà in altri affreschi (il Dono del Mantello ad esempio) i piedi non avevano una direzione e una fruizione nella struttura; quì invece, specie nel frate di destra, i due piedi che si vedono sono disegnati in maniera tale da dare l'idea di arrivare quasi all'orlo di un gradino che dia nella Basilica, contribuendo (non si dimentichi che lo spettatore è in basso) a proiettare l'immagine da questo ipotetico orlo all'interno.
Infine, la fascia orizzontale del letto delimita una zona com-presa tra detta fascia e le teste dei frati che è composta essen-zialmente di movimenti non verticali ma orizzontali o inclinati, quasi tutti accennati dalla posizione di frate Agostino stesso che viene così a trovarsi in contrasto con l'accentuato verticalismo di tutta la scena.
Le braccia dei due frati sopra citati riprendono in parte questi movimenti orizzontali, anzi, il frate di sinistra sembra invitare lo spettatore a guardare l'avvenimento, aumentando così il senso di profondità che dava questo "entrare" visivo all'interno dell'ambiente.
Si noti anche come la figura di frate Agostino risulti com-pressa nell'angusto spazio rimasto disponibile tra le due colonne. La parte riservata al Vescovo di Assisi non è portata in maniera così evidente verso lo spettatore, mancando un elemen-to anteriore di riferimento come i pilastri, dato che il cornicione superiore sembra partire addirittura da dietro il campanile che è già assai arretrato.
Ciò riduce l'importanza di questo episodio assieme alla minore imponenza di questo affresco determinata dal vuoto decorativo della scena in alto, riempita da un semplice abbaino contro le statue, i gigli (quello in cima alla cuspide), gli archetti sotto al tetto, l'architettura complessa del convento dei frati. Viene così confermata l'intenzione di rispettare sì la Gerarchia Ecclesiastica, ma di lasciarla in una posizione marginale in quella che viene considerata, evidentemente, una cosa in gran parte "interna" all'Ordine.

VENTIDUESIMO EPISODIO
(Primo della Terza Serie)

 

Giacendo alla Porziuncola il beato Francesco morto, messer Geronimo, celebre dottore e letterato, moveva i chiodi, e con le proprie mani frugava le mani e i piedi e il costato del Santo.

LM 15,4.

Il titulus stesso dell'episodio è, in questo caso, sufficiente-mente esplicativo.
Il racconto, tra le fonti letterarie, si trova solamente nella Legenda Maior di San Bonaventura e nelle più tarde Considera-zioni sulle Sacre Stimmate che chiudono i Fioretti.
L'unica cosa che si possa rilevare in queste Legendae è il paragone tra questo Dottor Gerolamo e San Tommaso, ovvio se si considera il fatto che entrambi mettono le proprie mani in delle piaghe, ma che non fa che rinforzare l'immagine di San Francesco come Alter Christus.
Viene testimoniato quello che è il primo e il più grande tra i miracoli del Santo, o meglio, che riguardano il Santo; è così chiarito come le Stimmate non furono accertate solamente sulla base di testimonianze, ma da quello che finisce per essere un vero e proprio referto medico.
Il Dottor Gerolamo del racconto viene presentato in maniera assai positiva sia come uomo di scienza che come uomo di fede (e cosa di più che essere paragonato a un apostolo?) , ma agisce, in ultima analisi, per rendere testimonianza sia per sé che per gli altri.
Non si deve dimenticare che il miracolo delle Stimmate, se da un lato pone San Francesco, simile a Cristo, al di sopra di qualunque altro santo precedente, d'altro canto era difficilmente accettato da molti proprio per questa sua singolarità, quasi fosse un onore veramente eccessivo per un uomo.
In qualche caso subentrava anche una sorta di "invidia" che il culto di altri santi, ora nettamente declassati nella mentalità popolare dell'epoca, poteva suscitare.
È ovvio che il primo dei sette affreschi della terza e ultima parte di questo ciclo, tutto dedicato alla sepoltura e alla canoniz-zazione di San Francesco, fosse destinato a testimoniare proprio le Sacre Stimmate.
Sembra eccessivo che a degli episodi accaduti dopo la morte fisica di San Francesco si sia deciso di dedicare una parte così lunga di tutto il ciclo, ma si tenga conto che l'Ordine prosegue l'opera e l'azione del suo fondatore e parzialmente, in un certo senso, con lui si identifica.
All'epoca, si dava grande importanza sia ai fatti miracolosi sia alle cerimonie formali e quest'ultima parte della vita formalizza la Santità di Francesco d'Assisi e al tempo stesso definisce, per i secoli a venire, la Santità dell'Ordine.
Lo schema compositivo ricorda quello di altri affreschi già esaminati: in particolare si nota la somiglianza con l'episodio del Presepe di Greccio per la presenza, nella parte superiore dell'affresco di una trave dalla quale si sporgono in avanti un Crocifisso, al centro, e due tavole con immagini sacre ai lati: una Vergine con Bambino a sinistra e San Michele a destra.
La differenza con la scena rappresentata nel "Presepe" è che in questo caso le immagini non sono viste da dietro ma dal davanti.
Se, come si può supporre, si tratta della trave che sorregge l'iconostasi è ovvio che il corpo del Santo sia collocato al di fuori di questa; cosa anche liturgicamente plausibile dato che ancora oggi sono stabilite precise distanze minime al di sotto delle quali la presenza di un cadavere profana l'altare (come accostare un morto all'Eucarestia che è vita eterna?).
Nell'episodio di Greccio la scena si svolgeva durante la consacrazione e perciò al di là dell'iconostasi stessa.
In questo caso l'iconostasi non è costituita da pannelli di legno ma, come accadeva più spesso, da una tenda evidentemen-te rimossa per permettere al sacerdote di benedire la salma.
La trave taglia orizzontalmente in due il quadro e l'azione si svolge completamente nella parte inferiore.
Benché la scena si svolga in una chiesa e siano presenti vari laici, non ci sono donne, al contrario di quanto rappresentato nella scena del Presepe.
Come nell'episodio della morte del Santo e della visione di frate Agostino, l'orizzontalità del corpo rispetto i personaggi che stanno in piedi lo separa e lo rende al centro dell'attenzione per lo spettatore.
Solamente il Dottor Gerolamo si distingue un poco dalla verticalità degli altri sia perché è inginocchiato, sia perché interrompe a mezzo la linea del corpo di San Francesco forman-do, con questo, un unico gruppo.
Il suo sguardo non è diretto al viso ma, come è ovvio, al costato del Santo nel quale mette letteralmente una mano mentre con l'altra apre la veste.
Data la sua posizione isolata, lo spettatore è subito portato a guardare con lui verso quella piaga messa così bene in vista.
Questo isolamento è accentuato dal fatto che tutti gli altri personaggi sembrano più intenti a portare a termine la cerimonia funebre che ad osservare la scena; infatti Giotto (o il suo gruppo) questa volta ha ideato una folla concepita come tale, con una serie di atteggiamenti, di sguardi, di posizioni diverse che nel complesso non si distinguono tra di loro.
Interessante la posizione del cavaliere sulla sinistra che assai elegantemente inclina il corpo con scioltezza in direzione opposta a quella delle rigide aste sorrette dai chierici dinanzi a lui: lo studio del panneggio svolazzante visto da dietro e la posizione dei piedi messi in prospettiva farebbero pensare quasi a un personaggio dipinto (o meglio ridipinto) almeno un centinaio di anni dopo, come del resto le tracce di volto visibili dietro l'immagine dell'Arcangelo Michele.

VENTITREESIMO EPISODIO
(Secondo della Terza Serie)

 

Le turbe che si erano adunate, trasportando alla città di Assisi, con rami secchi e gran numero di ceri accesi, il sacro corpo fregiato delle celesti gemme, lo presentarono a vedere alla beata Chiara e alle altre sacre vergini.

LM 15,5 - 1c 116/117.

Questo episodio è descritto solamente nella Vita Prima di Tommaso da Celano e in quella di San Bonaventura.
Collocato da Tommaso all'interno di una chiesa è stato spo-stato da Giotto all'esterno, probabilmente per fondere assieme il racconto del trasporto della salma con quello del pianto delle clarisse: è questo d'altronde l'unico episodio in cui compaiono delle suore. Gli onori che la città di Assisi tributa al concittadino sono paragonati a un trionfo, anzi, all'ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme.
Anche se avviene dopo la morte del Santo e non prima, era doveroso che nel ciclo apparisse almeno una volta il secondo degli ordini francescani, tanto più che il fatto, pur non avendo in sé nulla di miracoloso, come molti altri di questo ciclo, riveste sempre un carattere di eccezionalità dato che la rigida clausura fu rotta, come sottolinea Tommaso da Celano, questa sola e unica volta e si richiuse poi per sempre.
La scena è situata davanti a una chiesa gotica assai simile a un'architettura arnolfiana ed è strutturalmente divisa in due dallo spigolo sinistro (per chi guarda) della chiesa stessa. Le suore (il termine sorella è usato già da Santa Chiara) piangenti sono collocate a destra, la folla che trasportava il Santo a sinistra; esse escono dalle porte della chiesa quasi tutte col capo inclinato verso il Santo e con gli sguardi volti verso il viso di lui.
Si forma così una fitta rete invisibile di linee tese tra gli occhi delle suore e gli occhi chiusi del morto; non è certo la prima volta che vediamo Giotto unire con linee ideali i visi dei vari personaggi inserendole nella struttura dei suoi affreschi.
Questo mezzo serve a indicare, anche agli analfabeti, i dialo-ghi che si svolgono e a indirizzare i loro sguardi ai punti focali del quadro, ma quì il dialogo è muto: il Santo non risponde, i sui occhi sono chiusi. Il senso della morte e con esso il sentimento del dolore non potevano essere espressi più intensamente. Un simile espediente era già stato usato nella Morte del Cavaliere di Celano.
Santa Chiara più delle altre si china verso San Francesco e quasi lo abbraccia o lo scuote come fosse vivo, il suo sguardo è il più intenso, ma anche esso senza risposta. Questa intensità viene sottolineata da Giotto con la vicinanza dei volti e con il loro parallelismo, con il ripetersi quasi speculare della forma dei cappucci sulle teste e sul collo; anche il profilo della tonaca del Santo corrisponde al profilo inferiore del cappuccio della Santa.
Il loro dialogo, anche se muto, è privilegiato: si forma quasi un triangolo all'interno del quale si esprime il rapporto particola-re che legava i due. Si tratta di uno spazio riservato, sottolineato dalla sua struttura autonoma rispetto a quella generale.
Più lontane, le altre suore hanno nel capo e nel volto la stessa inclinazione e la stessa direzione dello sguardo di Santa Chiara, estendendo a tutto il loro Ordine il dolore e i sentimenti di questa.
Una di loro, piegata sul corpo, ne bacia le Sacre Stimmate proseguendo, strutturalmente, verso destra la Santa stessa con eguale inclinazione ed evitando che rimanga un vuoto composi-tivo dietro di lei; a raccordare il profilo inclinato di questa suora con la verticalità delle linee superiori servono le pieghe e i panneggi di quella retrostante.
Decisamente orizzontale, il corpo di San Francesco è irrigidi-to nella morte con un effetto accentuato dalla barella su cui è trasportato e dal drappo che la ricopre e ne pende; il tutto viene ad essere una massa estremamente pesante e compatta all'occhio. Anche alcuni degli sguardi della folla a sinistra convergono verso il Santo ma gli atteggiamenti sono assai più vari anche se sempre composti.
Lo spettatore è portato ad accrescere la sua attenzione verso San Francesco più che altro dalla posizione china dei tre personaggi attorno alla sua testa: di questi, quello volto verso di lui non solo si mostra completamente di spalle, ma è anche occupato a chiamare qualcuno più addietro.
Si tratta certamente di un Magistrato come dimostrano le code di ermellino che pendono sulle sue spalle; altri magistrati si notano tra la folla. Giotto ha voluto rappresentare, come fu nella realtà, i maggiori della città a capo del popolo. I frati, in questa occasione, occupano uno spazio minore e si notano per i lunghi ceri che portano proseguendo, dalla loro parte, il verticalismo delle guglie.
Questo atteggiamento così poco "disperato", specie se con-frontato con quello delle suore a destra, è facilmente spiegabile in un'ottica cristiana: la morte del Santo corrisponde alla sua gloria in cielo ed è per questo che alcuni portano delle palme con sé. Ispirandosi alla forma di queste palme Giotto risolve anche il problema di dover riempire la parte di cielo che rimaneva vuota sopra la folla, tanto più vuota se viene paragonata alla ricca decorazione della chiesa.
A destra, un grande albero si apre a ventaglio e su di esso, ripetendo un antico "topos" classico, si arrampica un fanciullo. Questa scena e quella delle palme ricordano da vicino il racconto dell'ingresso di Gesù a Gerusalemme assimilando a questo la gloria che la città riconosce al suo grande Santo.
Si può notare infine come anche in questo affresco l'immagine sia divisibile con una croce: orizzontalmente la linea "superiore" delle teste della folla corrisponde, circa, all'architrave della porta centrale, mentre quella "inferiore" corrisponda a quelli delle porte laterali; un criterio di simmetria prevale sempre.

VENTIQUATTRESIMO EPISODIO
(Terzo della Terza Serie)

 

Quando il Signor Papa (Gregorio IX) venendo di persona alla città di Assisi, esaminati diligentemente i miracoli, dietro testimonianza dei suoi frati, canonizzò il beato Francesco e lo iscrisse nell'albo dei santi.

LM 15,7 - 1c 123/126 - 3Cp 71 - AP 46/47.

Questo episodio racconta la solenne canonizzazione di San Francesco avvenuta ad Assisi il 16 luglio 1228.
Nel titulus stesso viene ricordata l'importanza delle testimo-nianze dei frati durante il processo ed è quasi superfluo ricordare che in tutti gli episodi della prima e della seconda parte del ciclo sono presenti sempre dei testimoni oculari; in particolare, nella seconda parte questi testimoni sono sempre dei frati.
Le fonti letterarie non si dilungano molto nella descrizione della cerimonia eccetto la più antica, la Vita Prima di Tommaso da Celano in cui all'avvenimento è dedicata un'intera sezione del racconto, dato che fu scritta proprio su mandato di Gregario IX.
I particolari storici e i riferimenti a fatti contemporanei, cer-tamente assai ben noti a tutti (i tumulti a Roma suscitati quell'anno da Federico II di Svevia), sembrano quasi voler collocare questa canonizzazione in un discorso più ampio.
Viene ricordato come il Papa andasse e venisse più volte da Perugia, preso da problemi assai più gravi di altra natura, quasi che Tommaso da Celano abbia voluto rilevare la volontà di Gregorio IX nell'affermare, con questa canonizzazione, che l'Ordine Francescano fosse realmente il più saldo appoggio per la Chiesa in quei tempi difficili.
L'affresco di Giotto non ha ricordo di quegli avvenimenti che portarono il Papa a Perugia e ad Assisi e la cosa in sé è com-prensibile: dopo circa settantacinque anni le passioni di allora si erano certamente sopite; altre e nuove agitavano gli animi.
Già nella Legenda Maior di San Bonaventura la canonizza-zione del Santo è trattata quasi di sfuggita, come fatto ovvio.
Questo affresco ha la struttura impostata su di un grande baldacchino rialzato e coperto sul quale non si trova nessuno; la funzione di questa costruzione è separare tra loro i vari gruppi di partecipanti alla cerimonia. Lo spigolo destro di questo baldac-chino (quello più lontano dallo spettatore) divide a metà il quadro quasi per tutta la sua altezza. Sotto, tra i due pali che lo reggono, sono rappresentati i frati, dinanzi ai quali è un alta-re.Dalla parte destra si trovano il Papa, un cardinale, un vescovo e un frate; sotto di loro molte donne, strette e con molti bambini piccoli, dietro di loro una folla di notabili. Le donne come abbiamo già notato, in quest'epoca erano usualmente separate dagli uomini nelle cerimonie religiose.
Dal racconto di Tommaso da Celano è anche ripresa la dispo-sizione dei personaggi più importanti: si vedono infatti il Papa e alla sua sinistra un Cardinale, un Vescovo e un Abate, nello stesso ordine in cui, gerarchicamente, Tommaso da Celano li nomina accanto al Pontefice. Certamente è presente un ricordo del primo racconto di Tommaso da Celano, così vivo e dettaglia-to, ma i personaggi sembrano essere stati inseriti nello spazio del quadro con una sorta di "horror vacui" che è estraneo altri affreschi. La linea mediana, corrispondente al pavimento del baldacchino, è segnata all'esterno di questo con un tratto nero, ed è sulla stessa linea delle teste dei personaggi seduti accanto al Papa, ma il gruppo dei notabili che si trova dietro rompe questa sensazione e si espande senza riferimenti a qualsiasi struttura.
Il quadro "taglia" fuori le folle, quasi che il pittore volesse far entrare nel campo visivo più di quello che potesse effettivamen-te. Manca, sostanzialmente, il rispetto di quell'ordine strutturale che il grosso e geometrico baldacchino voleva probabilmente dare a tutta l'immagine, come se il quadro fosse stato impostato in una maniera e finito in un'altra da qualcuno che non fosse in grado di comprendere le primitive intenzioni. Potrebbe essere questo il punto in cui Giotto cominciò ad abbandonare i lavori.

VENTICINQUESIMO EPISODIO
(Quarto della Terza Serie)

 

Dubitando alquanto il Signor Papa Gregorio della Piaga del Costato, il beato Francesco gli disse in sogno: "dammi una fiala vuota" e, avendogliela data, fu vista riempirsi del sangue del costato.

LM 1M,2.

La funzione di questo episodio è evidentemente quella di chiudere, con un esempio miracoloso e indiscutibile, la serie degli affreschi che mostrano la morte e la canonizzazione di San Francesco. L'attestazione autorevole della verità delle Sacre Stimmate che venne dallo stesso Gregorio IX conferma anche, automaticamente, la grandezza del Santo e la giustezza sia degli onori a lui attribuiti che della sua canonizzazione. Al tempo stesso le stimmate, già in se un miracolo, fanno di San Francesco il più grande dei Santi e rendono lecita l'iconografia della sua immagine che l'Ordine andava diffondendo nella propria espansione. Per tale ragione non è evidentemente necessario che in questi ultimi riquadri compaiano altri frati.
Ormai San Francesco è morto e costituisce un punto di rife-rimento per chi è dopo di lui, ma non c'è più bisogno di dimostrare che il compito principale della sua esistenza e, assieme, la sua più grande opera sia stata la fondazione dell'Ordine Francescano, da cui sinora è stato presentato inscindibile. Contemporaneamente questo è il primo di una serie di miracoli che mostrano la grandezza del Santo e, soprattutto nei tre seguenti, come la sua potenza continui a operare nel tempo indipendentemente dalla morte fisica. Sotto questo punto di vista il riquadro funge da collegamento tra i tre che lo precedono e i tre successivi.
Non meraviglia, inoltre, che l'unica fonte letteraria che riporti questo miracolo sia la Legenda Maior di San Bonaventura; la preoccupazione di questi di mostrare il pieno accordo tra l'Ordine e la Gerarchia Ecclesiastica viene certamente soddisfat-ta dal far vedere che le Sacre Stimmate, il miracolo più grande e la dimostrazione di San Francesco come Alter Christus, furono proclamate proprio da questa.
Al tempo stesso, ancora una volta, è un intervento celeste a spingere la Gerarchia a prendere la decisione giusta o ad assicurarsi in essa, e si ribadisce così il concetto che l'Ordine francescano nasce anzitutto da una Volontà Divina più che umana. Tra l'altro anche tra i Miracoli che sono elencati alla fine della Legenda Maior questo episodio ha una posizione particola-re, essendo il primo di una serie e venendo subito dopo la fine della prima parte dedicata all'esaltazione delle Sacre Stimmate, fungendo così da raccordo tra questa e gli altri miracoli della narrazione.
Da un punto di vista strutturale la scena si svolge entro uno spazio ben definito da tutti i lati, compreso il soffitto a cassettoni per la profondità e la larghezza con le sue linee precise e regolari: se i cassettoni sono stati immaginati come quadrati (ed è difficile che non sia così) il rapporto tra larghezza e profondità di questo spazio pittorico è di 8 a 2, assai meno largo che alto. Quanto sia questa altezza è difficile determinarlo ma, ad occhio, guardando all'altezza del Santo, circa due volte la statura di un uomo. Apparentemente, perciò, lo spazio è stato dipinto come troppo poco profondo; nel riquadro in cui il Papa riconosce la prima regola dell'Ordine, ad esempio, le proporzioni erano assai più verisimili, e questo benché la critica quasi tutta riconosca questo affresco più tardo ma sempre dovuto, nel disegno e nell'ideazione almeno, ancora a Giotto medesimo.
Tuttavia bisogna notare come la compressione che ne deriva in profondità "spinge" tutti i personaggi verso lo spettatore aumentando l'impatto della scena verso di lui.
Per il resto tutto è costruito su due linee essenziali: una oriz-zontale e una verticale. Quella orizzontale è indicata dal bordo del letto e dalle teste dei quattro personaggi accoccolati a terra; quella verticale dal Santo e dal secondo da destra di questi personaggi: ovviamente questa linea verticale è centrale. Altre linee orizzontali e verticali si sviluppano parallele a queste (interessante quella determinata dal contrasto tra il cassettone azzurro e il letto rosa).
Il letto con il Papa che dorme è tutto spostato sulla destra, anche se bene in evidenza, essendo questi decisamente più alto di tutti gli altri personaggi a esclusione di San Francesco; ne è causa la necessità di mettere il Santo al centro e contemporane-amente evidenziare la realtà della "comunicazione" che avvenne nel sogno tra il Santo e il Papa con il gesto delle mani che quasi si toccano. Questo gesto, data la posizione reciproca dei due personaggi, non può che esprimersi in diagonale, lasciando per forza il braccio del Papa più a destra di quello di San Francesco, tanto è vero che per annullare il conseguente effetto di vuoto sulla sinistra Giotto concentra tutta l'attenzione di chi guarda a destra servendosi di un baldacchino sospeso.
Molto bello, a proposito di questo, il sistema di corde tese che lo sostengono e che formano, a sinistra, una elegante struttura aerea: ancora da notare è la stoffa, vista, per la prima volta, da entrambi i lati, e una simile soluzione tecnica è certamente ardita quanto la creazione di un nuovo artificio prospettico. Interessan-ti, infine, sono i disegni, tutti tra loro assai simili, che riempiono il pavimento di mattonelle, il cassettone dipinto (non ha nulla che indichi la morbidezza di un tessuto), il letto, i drappi che coprono le pareti e, in alto, le pareti stesse.
Manca quì, del tutto, qualsiasi spazio libero da ornamenti e uniforme (in genere tali spazi sono il cielo o azzurri come il cielo) e questo aumenta la sensazione di strettezza che dà l'ambiente rendendolo contemporaneamente omogeneo anche da un punto di vista stilistico.

VENTISEIESIMO EPISODIO
(Quinto della Terza Serie)

 

Il beato Francesco, sciogliendo con le sue mani e toccando soavemente le ferite, all'istante risanò perfettissimamente Giovanni da Ylerda colpito a morte e spacciato dai medici ma che lo aveva devotamente invocato all'ora del ferimento.

LM 1M,5 - 3c 11/13.
È questo il primo dei tre miracoli che chiudono il ciclo e che servono a testimoniare la potenza e la grandezza del Santo di Assisi anche dopo la morte. Almeno tre sono anche i miracoli chiesti, normalmente, durante un processo di canonizzazione perché si potssa proclamare un Santo.
Un cavaliere, colpito a morte per errore in un agguato, viene risanato da San Francesco: si vuole evidentemente indicare che, invocandolo, si potevano ottenere guarigioni e miracoli prodi-giosi e se ne porta un esempio preciso. Il fatto è riportato solo nella Legenda Maior, tra i miracoli che attestano la potenza delle Stimmate: è infatti il contatto con le piaghe delle mani che guarisce il cavaliere catalano. La costruzione spaziale è forte-mente unitaria e relativamente originale rispetto agli altri interni dello stesso ciclo. È questo uno dei motivi per cui la critica attribuisce quest'ultimi tre affreschi a un maestro diverso da Giotto. A parte, infatti, la maniera di definire le figure, quì molto più eleganti ma anche meno solide, si può notare come la ripartizione dello spazio in più parti non corrisponda all'andamento descrittivo della scena.
La stanza dove giace il malato è divisa simmetricamente da due esili colonnine in tre parti, una centrale di base quadrata e due laterali, molto meno larghe e altrettanto profonde; quella centrale, inoltre, si alza al di sopra delle due laterali. Nella parte sopraelevata si aprono delle finestre. Una delle spranghe dalle quali pendono le cortine del letto sottolinea questo rialzo, mentre due parapetti riempiono parzialmente il vuoto del cielo ai lati.
Ora, in tutti gli altri affreschi del ciclo Giotto ha sempre collocato ogni elemento del racconto in una zona a sé, costruen-do spesso, per ognuna di queste zone, lo spazio in maniera differente: quì invece, benché la scena sia tripartita, il racconto evviene in due fasi sole: da una parte un medico, la moglie e un familiare, dall'altra il malato e San Francesco assistito da due angeli.
Le due colonnine tagliano entrambi questi due gruppi, anzi, quella di destra copre parzialmente proprio il Santo, in modo che i personaggi che più spiccano, pur senza essere protagonisti in alcun modo (mancano nel racconto letterario), sono proprio i due elegantissimi angeli. Anche a sinistra le due figure maschili sono parzialmente coperti dal raffinato e studiato drappeggio di una tenda.
È così confermata quella più minuta capacità narrativa che il differente autore (o i differenti autori) di questi ultimi riquadri manifestano, e che già la critica aveva evidenziato come una delle sue caratteristiche stilistiche. Questi mostra di non aver compreso a pieno né il significato delle costruzioni strutturali e spaziali del maestro né il valore della sua massiccia maniera di formare i personaggi, che impongono, insieme, la realtà della propria figura e il senso storico della propria esistenza.
Ciò nonostante è evidente che anche questo affresco si inseri-sce organicamente nel disegno originario di tutto questo ciclo: il soggetto certamente, anche se l'ideazione della struttura non può essere fatta ascendere alla mente di Giotto come negli altri ne, tanto meno, l'esecuzione. Le Stimmate, il più singolare dei miracoli riguardanti San Francesco, sono così confermate e assumono un valore che va oltre la vita di questi, permanendo nel tempo come fonte di grazia.

VENTISETTESIMO EPISODIO
(Sesto della Terza Serie)

 

Il beato Francesco risuscitò questa signora morta, la quale dopo aver fatta alla presenza di chierici e di altri la confessione di un peccato che non aveva ancora confessato, di nuovo morta, si addormentò nel Signore e il diavolo fuggì confuso.

LM 2M,1 - 3C 40.

Questo episodio è riportato sia nel Trattato dei miracoli di Tommaso da Celano che nella Legenda Maior in maniera pressoché identica; in entrambi i casi si tratta del primo di una serie di miracoli in cui San Francesco, intercedendo presso Dio, fa resuscitare dei morti.
Nel riquadro dipinto si nota subito che il confessore è un frate francescano, particolare che non è specificato nei racconti letterari ma che quì ad Assisi sembra essere quasi ovvio.
Del resto la presenza di un frate nella casa di una donna molto devota di San Francesco è abbastanza logica.
Quello che invece non è assolutamente accennato né in Tom-maso da Celano né in San Bonaventura è l'episodio dell'Angelo che scaccia il demonio, né potrebbe essere altrimenti, dato che la rappresentazione della lotta tra l'Angelo e il demonio che si contendono l'anima dei defunti era il mezzo normale di raffigurare le due possibilità che seguono la morte: l'inferno o il paradiso.
Naturalmente erano credenze popolari, ma talmente diffuse figurativamente da essere ben utilizzabili per tutti.
Anche in questo caso l'immagine è tagliata da un pilastro, ma uno solo, non centrale, e le due parti che ne derivano non sono perciò né uguali né simmetriche.
Un principio di simmetria (utile anche per creare una sensa-zione di profondità) è riscontrabile solo nei due gruppi di persone che sono ai lati del letto dove la donna resuscitata si confessa: a sinistra il diavolo che fugge e a destra la confessione e l'angelo che lo scaccia.
La vena, in questo episodio come nel precedente, è certamente più narrativa e popolaresca e quasi certamente l'esecutore è lo stesso, ma non per questo non va inserito nel contesto di una originaria pianificazione che comprenda tutto il ciclo.

VENTOTTESIMO EPISODIO
(Settimo della Terza Serie)

 

Il beato Francesco liberò questo prigioniero accusato di eresia, e per mandato del Signor Papa affidato, sotto pena di episcopato, al Vescovo di Tivoli; ciò accadde nella festa dello stesso beato Francesco, la cui vigilia lo stesso prigioniero aveva digiunato secondo il costume della Chiesa
.

LM 5M,4 - 3c 93.

I due racconti letterari di questo episodio sono abbastanza differenti tra di loro: il secondo in ordine di tempo, quello di San Bonaventura, è molto meno ricco di particolari rispetto al più antico, quello di Tommaso da Celano.
San Bonaventura elimina ogni accenno ai problemi del Ve-scovo di Tivoli e ai suoi rapporti con i nobili della città, non riporta l'episodio della prima fuga del prigioniero e, soprattutto, tace sul particolare che questi fosse innocente dell'eresia di cui lo si accusava; anzi, sostiene implicitamente il contrario dicendo che era tornato alla giusta fede durante la prigionia.
Evidentemente in San Bonaventura c'è l'intento, o forse il pudore, di non far vedere un innocente messo in prigione e trattato così duramente da parte della Chiesa ufficiale; per la stessa ragione vengono taciuti altri particolari, come quello realtivo ai nemici del Vescovo di Tivoli e alla sua caduta per lo spavento quando gli viene annunciata la liberazione del prigio-niero. Anche Tommaso da Celano mette comunque in mostra la benevolenza del Vescovo verso il prigioniero, almeno sino al primo tentativo di fuga, quando lo riconosce come innocente.
La scena rappresentata nel riquadro è invece comune ai due racconti: le guardie indicano al Vescovo il prigioniero con in mano i ceppi e le catene spezzate e il Vescovo ringrazia il Signore mentre il suo seguito mostra segni di meraviglia.
Lo spazio è diviso in due parti, segnate a destra e a sinistra da due edifici: poiché quello a destra è la prigione in cui era chiuso l'eretico, forse quello a sinistra è il Palazzo del Vescovo, ma nulla ci conforta in questa ipotesi. La tipologia dei due edifici, per altro, è completamente di fantasia, anche se in quello di sinistra sono evidenti i ricordi delle architetture pisane. Entrambi hanno una parte inferiore più largha e una superiore che si innalza nel cielo come una torre. Entrambe le torri "ingranano" la volta celeste: una delle due ci si avvita letteralmente con la sua forma di colonna tortile.
La scelta di questa forma quasi a vite ha permesso di ottenere egualmente lo stesso effetto che nell'altro edificio (quello, cioè di ingranare nel cielo) senza sacrificare la sensazione di pesantezza e di solidità che deve dare un carcere. Portato così verso l'alto da queste due torri che vanno al cielo lo sguardo può incontrare San Francesco che prega il Signore o meglio, se si vuole stare ai racconti letterari, che vi ritorna dopo avere liberato personalmente il prigioniero.
Lo schema in fondo ricorda vagamente quello della rinuncia ai beni paterni, ma la struttura generale è meno precisa: il gesto del prigioniero liberato che mostra i ceppi miracolosamente aperti al Vescovo, ad esempio, non è correlato in alcuna maniera a quello del Vescovo stesso che, inginocchiato, alza le mani e gli occhi al cielo per ringraziare il Signore. In compenso i perso-naggi hanno movenze estremamente eleganti e si può ritrovare la stessa vena narrativa degli ultimi due episodi.
Gli ultimi tre riquadri, in sostanza, somigliano assai a degli ex voto di cui costituiscono un modello, e sono volti a sottoline-are l'importanza della devozione a San Francesco tra i fedeli.
In questo ultimo episodio entrambi gli autori letterari sottoli-neano bene che il prigioniero ottiene la sua grazia dal Santo proprio pregando il giorno della sua festa.
Questi episodi sono da collocare anche essi nell'economia generale di tutto il ciclo e questa particolare vena narrativa più popolaresca è probabilmente proprio quello che in essi si voleva per i motivi ora specificati.