Per ogni episodio è riportata la ricostruzione in volgare del titulus che lo descriveva fatta da Padre Bonaventura Marinange-li, sono indicate le fonti letterarie in cui è narrato e l'indicazione del gruppo al quale l'affresco appartiene.
Quando un uomo semplice di Assisi stende le vesti per terra dinanzi al beato Francesco e rende onore al suo passaggio per giunta affermando, ispirato, come si crede, da Dio, essere Francesco degno di ogni riverenza, perché sarebbe per compie-re prossimamente cose grandiose, e perciò deve essere onorato da tutti..
LM 1,1.
Nell'affresco, come in molti altri del ciclo, la prospettiva mantiene tutte
le linee parallele sia frontalmente che lateralmen-te, rimanendo sempre alla
vista il lato destro (relativamente a chi guarda) delle case. San Francesco
e l'uomo semplice formano un triangolo rettangolo in cui un cateto è
Francesco stesso, l'altro cateto è la linea formata da un lato del
mantello e dall'orlo della veste dell'uomo semplice e l'ipotenusa, non segnata,
dalla linea ideale che unisce lo sguardo di Francesco allo sguardo dell'uomo
e prosegue fino ai piedi di lui.
Tutti i personaggi sono chiusi nella linea coloristica delle proprie
vesti e la composizione ha una struttura simmetrica rispetto la chiesa sullo
sfondo evidente rielaborazione del tempio romano di Minerva, allora carcere
e divenuto poi chiesa in Assisi. Manca la porta e Giotto diminuisce il diametro
delle colonne per lasciare intravedere il muro posteriore. Le quattro figure
ai lati tendono a formare un emiciclo, secondo uno schema che avrà
grande fortuna nel '400. È da notare che la parte più importante
della composizione è a mala pena contenuta in questo emiciclo.
La centralità di San Francesco ancora deve essere raggiunta quasi
che il Santo non fosse pronto a divenire il protagonista della propria missione;
l'uomo di Assisi lo invita al posto che gli compete: al centro; il Santo
lo interroga con lo sguardo o meglio cerca nel volto di quell'uomo una risposta
a domande ancora evidentemente non ben chiare; comunque, è evidente,
passa sul mantello e non rifiuta l'invito. Alla semplicità dell'uomo
(nella Legenda Maior "uomo, certo molto semplice") fa poi riscontro il
discutere e il ragionare dei dotti e ricchi cittadini che fanno da cornice
alla scena. I quattro personaggi sono disposti su rette convergenti verso
il centro della composizione, San Francesco e l'uomo semplice sono collocati
tra di loro un poco avanti, mentre lo sfondo è costruito con una vista
(non si può dire prospettica) a sé.
Certo tale modo di dipingere, anche se "ingenuo", viene sfruttato assai
bene da Giotto per distinguere i vari momenti della Legenda Maior: la città,
il Santo e l'uomo semplice, gli uomini "non semplici", dando a ciascuno di
questi momenti una propria esatta collocazione logica.
È indicativa la sottolineatura di "uomo semplice" contrappo-sta
a "uomini dotti" nelle fonti letterarie (cultura e classi sociali si identificavano)
che in Giotto significa evidentemente "uomo immediato" nel seguire il comando
di Cristo come anche Francesco viene invitato a fare.
I gesti stessi dei quattro testimoni, quattro come per un atto legale
od un matrimonio (e la scena si svolge dinanzi ad un luogo dove si teneva
giustizia), non mostrano certo nessun segno di intendere alcun che di divino
nell'avvenimento, dato che i due a sinistra sembrano totalmente indifferenti
mentre dei due a destra uno indica interrogativamente il fatto e si rivolge
al compagno che alza moderatamente la mano quasi a dire "lascia perdere".
L'invito che l'uomo semplice fa a Francesco, per contro, è estremamente
chiaro, deciso, come lo sguardo che rivolge al giovane: troppo per essere
incosciente.
Dio in lui non solo suscita il gesto materialmente ma fa na-scere anche
la coscienza della "giustizia", o meglio, della "giustezza" del proprio atto.
L'inconsuetudine del gesto non è "strana" ma solo "estranea" agli
altri ed alla città che non possono essere spontanei perché
chiusi nel cuore ai messaggi divini. Non è così evidentemente
in Francesco che, per ciò, accetta di passare sul mantello anche
se ancora non sa perché: ma bisogna ricordare che sia il Nuovo che
l'Antico Testamento sono pieni di inviti a seguire le vie del Signore senza
chiedere.
Il gesto ha un riscontro in Luca 19,36 quando Cristo entra in Gerusalemme,
ma più interessante è notare che "Francesco non conosceva ancora
i piani del Signore sopra di lui" (Giobbe), ciò che spiega la sua
aria interrogativa, ma non spiega tutto quanto è stato detto a proposito
dell'atteggiamento dei quattro testimoni.
Dal numero delle persone si può arguire che la loro presenza serva
a documentare il fatto come vero, dato che viene riportato solo in San Bonaventura,
forse per rendere Francesco simile ad un Alter Christus anche in questo annuncio.
Chi ne volesse dedurre che per seguire le vie del Signore ci si debba fare
"semplici" può certamente farlo senza andare lontano dalla verità.
Attualmente l'episodio è spesso indicato come "omaggio della città
al Santo", quasi per attenuare il ricordo dell'incomprensione verso questi
da parte della città.
Volendo gli si potrebbe dare un senso ancora più forte: il valore
dello sfondo, con il tempio senza porta, potrebbe anche indicare che si era
persa la via vera del Signore per una Chiesa fatta di apparenze. È
vero che l'attuale chiesa di Santa Maria sopra Minerva ai tempi del Santo
era il carcere del comune, ma è anche vero che Giotto, riprendendo
le forme di quell'antico tempio romano vi inserisce un rosone sorretto da
due angeli proprio per ricordare una chiesa, ma sempre senza porte, anzi
con una colonna proprio al centro, dove nessuno l'avrebbe collocata, né
nell'antichità né a quei tempi, per non nascondere la porta
retrostante ed ostruire il passaggio. D'altronde è difficile dire
se le colonne che in Santa Maria Sopra Minerva sono sei quì siano cinque
per qualche altro motivo, magari teorico, o semplicemente per noncuranza.
Quando il beato Francesco si incontrò con un cavaliere nobile e malvestito e mosso a compassione, rispettoso per la sua povertà, toltosi immediatamente l'abito lo rivestì.
LM 1,2 - 2c 5 - 3cp 6.
Questo episodio, pur non essendo in alcun modo miracoloso, viene rappresentato
come un vero e proprio miracolo perché rappresenta il momento in cui
San Francesco si converte. Nella Leggenda dei Tre Compagni prima viene la
chiamata e poi la conversione. Nella prima vita di Tommaso da Celano e di
San Bonaventura il sogno, primo annuncio della chiamata di Dio, viene dopo
che Francesco ha mostrato il suo cuore operando con questo gesto una scelta.
Nella Leggenda dei Tre Compagni la "chiamata miracolosa" viene accentuata
con il parallelo a San Paolo che cade da cavallo ed ode una voce misteriosa,
ricordo assente nelle vite più antiche (del resto l'episodio in questione
è ridotto proprio al minimo).
Giotto è evidentemente cosciente che l'affresco rappresenta un
momento, anzi, "il momento" cruciale della vita di San Francesco e pone da
una parte la vecchia vita, la città, e dall'altra la nuova, la Chiesa,
entrambe su due monti perché un abisso le separa. L'episodio viene
visto da Tommaso da Celano come l'omologo inverso del dono di San Martino
al povero: questi, infatti, non inizia una vita di perfezione ma la termina,
ed è implicito che la via intrapresa da Francesco porterà molto
più lontano di quanto fosse arrivata quella di San Martino, con la
rinuncia al superfluo. In Giotto non vi è traccia di questo parallelo
che può essere fatto indirettamente con i posteriori affreschi di
Simone Martini nella Basilica Inferiore.
In entrambi i casi il Santo lascia la città, ma nel caso del San
Martino di Simone questo serve solo ad ambientare l'episodio, dato che un
mantello si porta solo in viaggio; in Giotto invece, come si è già
notato, la città è una città lontana ed indeterminata,
non dei ricchi ma certamente opulenta nel suo notevole sviluppo. Tutta materiale,
questa città è "il mondo" che i frati abban-donano per vivere,
idealmente, nella chiesa di Dio e quindi in povertà, e dalla parte
del povero si trova il monte (la direzione da seguire) su cui è collocata
la Chiesa.
San Francesco rimane al centro, proprio al bivio, nell'attimo in cui
cambia la propria strada con un gesto che implica una scelta, quando si
avvicina a trovare una risposta alla domanda che da tempo si poneva (si
ricordi l'espressione interrogativa rivolta all'uomo semplice che stendeva
il mantello ai suoi piedi).
La linea che unisce lo sguardo di Francesco e del cavaliere povero forma
di queste due figure una massa quadrangolare compatta, più alta però
di quella pure quadrangolare del cavallo da cui San Francesco è sceso:
con la nuova vita umiliandoci e scendendo si è innalzati.
A questo mantello, capo di abbigliamento essenziale e costoso dell'epoca
(per la quantità della lana e la fittezza dell'ordito) tanto da essere
privilegio dei soli benestanti, si può rinunciare: non una rinuncia
a quanto sopravanza (San Martino lo aveva diviso in due) ma a tutto; e tutto,
ci racconta Giotto, era vera-mente se guardiamo al cavallo lasciato sulla
vecchia strada, ex simbolo di condizione agiata e di potere.
Una lettura di questo episodio in chiave di "cambiamento di strada" può
essere avvalorata dal fatto che San Francesco desiderava andare da chi poteva
alzarlo ulteriormente nella scala dei valori umani nominandolo cavaliere
(Gualtiero di Brienne). San Martino non rinunciò ad essere cavaliere,
ma San France-sco, proprio per questa rinuncia, fonderà un Ordine
che sarà spesso paragonato alla cavalleria. Si noti che, facendo San
Francesco diritto in piedi ed il cavaliere povero un poco curvo, Giotto riesce
a collocare il Santo al centro ed in una posizione superiore ormai da protagonista.
Anche in questo riquadro i vari momenti sono collocati cia-scuno in una
sua veduta separata. Si tratta quindi di un maggiore interesse che Giotto
mostra verso le cose e la natura, interesse del resto già pieno di
significato in San Francesco. Il cavallo ripete col collo la stessa curvatura
della schiena del cavaliere povero mentre riceve il mantello in dono da San
Francesco che non si fa più povero del povero ma coscientemente si
spoglia di ciò che gli sopravvanza.
Una linea ideale è tesa con gli sguardi tra il povero e San Francesco
e questa volta è questi che fa un gesto d'invito e intraprende l'azione
verso il povero. La conversione non è tanto pentimento quanto azione,
iniziativa: e chi più del poverello d'Assisi fu pieno di iniziative?
Il colore quì è più teso: il Santo su toni freddi, come
il cielo che fa vertice sul suo capo, dietro l'aureola, mentre il cavaliere
povero e il cavallo sono su toni caldi; in toni neutri, con il colore a
tratti più addensato, sono i monti e le costruzioni rappresentanti
la città e la chiesa.
Questi sono diversi tra loro: roccioso e frastagliato, variamen-te costruito
quello della città come varia è quest'ultima; più dolce
e semplice quello su cui è costruita la massa meglio definita e compatta
della chiesa.
Da notare che vi è l'inizio non di una prospettiva ma di un nodo
centrale da cui si dipartono le linee (due diagonali) lungo le quali è
costruita l'immagine, quasi un punto di fuga.
Il braccio ed il bordo superiore del mantello di San Francesco proseguono
la costa del monte della città, indicando una di queste diagonali;
l'altra è tracciata con la costa del monte della chiesa e la linea
d'ombra che segna la parte non illuminata del monte della città.
Giotto tende sempre a far vedere il lato destro delle cose, ma si tenga
conto che è la parte dalla quale vengono i visitatori ed i pellegrini
nella chiesa. Dunque San Francesco parte per perfezionarsi da dove gli altri
si erano fermati. La sua conver-sione, iniziando da tale punto, giustifica
l'affermazione prece-dente fatta da Tommaso da Celano che nessuno fu più
perfetto di lui tra i fondatori di ordini. L'episodio non è semplicemente
iniziale ma anche essenziale all'iter spirituale di San Francesco.
L'immagine nella sua struttura è più unitaria di quella
prece-dente dove il fatto e l'ambiente sono nettamente separati con due viste
indipendenti. Tra i monti ed i protagonisti non ci sono elementi intermendi
di raccordo perché logicamente inutili. Tra questi va annoverato anche
il cavallo, inteso nel significato sopra detto; ancora circa trecanto anni
dovranno passare perché un cavallo divenga protagonista (pittoricamente
parlando) di un quadro alla pari del proprio cavaliere, come farà Michelangelo
Merisi da Caravaggio nella Conversione di San Paolo in Santa Maria del Popolo
a Roma.
Va notato infine come anche quì ogni figura sia chiusa nella propria
massa, tanto che i piedi, che evidentemente Giotto non vi vedeva inseriti,
sono storti e quasi autonomi.Per quanto riguarda il cavallo il volume da
considerare non è solo quello delineato dal colore (il corpo) ma tutto
quello racchiuso tra le linee del collo, delle gambe e della coda. Non è
il solo colore ma la linea che racchiude anche il colore a delineare una
massa per Giotto.
Il beato Francesco, essendosi assopito nella seguente notte vide un palazzo splendido e sontuoso con armi cavalleresche fregiate del segno della Croce di Cristo, e a lui che chiedeva di chi fossero, fu risposto dall'alto che sarebbero state tutte sue e dei suoi cavalieri.
LM 1,3 - 1c 6 - 2c 6 - 3Cp 5 - AP 5.
Quando San Francesco sogna il palazzo ha già compiuto il passo
decisivo della propria conversione. In questo sogno nel racconto di Tommaso
da Celano, nella vita seconda, si parla oltre che di armi e di armature,
di una bellissima sposa, eviden-temente la povertà. Giotto, come
di consueto seguendo la vita “ufficiale” di San Bonaventura, non mette nel
suo quadro questo elemento. Ciò gli permette di essere più
coerente col suo modo di dipingere in questo periodo, schivo nell’eccedere
nel numero dei personaggi per semplificare al massimo l’azione con pochi
e distinti spazi facilmente identificabili, dato che per ognuno di essi
il pittore usa una “veduta” diversa.
Il sogno accentua e continua il paragone tra l’Ordine France-scano ed
un ordine cavalleresco. In San Bonaventura l’accenno alla sposa bellissima
scompare, le armi vengono indicate come contrassegnate con la Croce e manca
qualsiasi rapporto tra la voce che San Francesco ode ed il Cristo, che in
Tommaso da Celano si manifesta al Santo, come a San Martino, per lodarlo.
San Bonaventura trovava troppo mondani i rapporti tra l’Ordine e la Cavalleria
ritenendo inutili i rapporti con il Santo cavaliere Martino, ormai offuscato
da San Francesco anche nel culto popolare.
In San Bonaventura le parole della voce che guida San Fran-cesco citano,
oltre il padrone ed il servo, anche il ricco e il povero (naturalmente di
ricchezze spirituali) per indicare la vera ricchezza dell’Ordine. Nell’Anonimo
Perugino, poi, non si parla di Cristo e neppure di una voce ma di un accompagnatore
non meglio determinato. In Giotto, benché manchi la bellissima sposa,
le armi non sono crociate e accanto a San Francesco appare Cristo stesso
con una evidente sintesi tra i vari racconti a dimostrazione che il maestro
era evidentemente a conoscenza di più testi. Egli dà al palazzo
un duplice punto di vista e lo divide in due parti: una, inferiore, più
massiccia, con un portico a pian terreno e un loggiato sovrastante; e una
superiore, più ristretta, quasi un torrione, terminante con un terrazzo
e due piani con le finestre accostate tanto da formare trifore. Anche in
questo caso del palazzo si vedono la fronte e il lato destro; la differenza
è che la parte inferiore è vista dall’alto e la superiore dal
basso. Una vista (non dico un punto di vista per non creare confusioni con
i concetti ed i termini usuali della scienza prospettica completamente differente
hanno i due personaggi, Cristo e San Francesco che dorme, in primo piano.
Il sogno e la realtà sono riferiti con stacco adeguato. Il letto
ripete la forma del loggiato al primo piano del palazzo, con due avancorpi
laterali e una rientranza centrale. Anche il baldacchi-no, come il letto,
viene visto dal lato destro ma i piedi e le sommità delle aste che
lo sorreggono sembrano posti su due rette convergenti verso un punto retrostante,
quasi un accenno di prospettiva vera. Giotto servendosi del baldacchino
costruisce nello spazio (o lo spazio con..) un parallelepipedo in cui i
due personaggi principali devono necessariamente essere visti frontalmente
e compongono una figura autonoma.
L’asse strutturale principale, lungo il quale si stende il corpo di San
Francesco, Giotto lo indica facendo intravedere la coscia e la gamba del
dormiente servendosi di una profonda piega della coperta. Si forma così
un triangolo con il braccio di Cristo, sottolineato dalla toga che ne taglia
a metà il petto e il cui terzo lato è uno dei sostegni del
baldacchino. San Francesco non poggia il capo sul cuscino ma sulla propria
mano, come se più che di un sogno si tratti di un dormiveglia, come
dice la Leggenda dei Tre Compagni. La tenda anteriore è raccolta attorno
al piedritto del baldacchino (quello stesso che forma un triangolo apparente
con Cristo e San Francesco), col compito di riempire un vuoto compositivo.
Il Santo è visto un poco dall’alto, quasi certamente proprio per
far risaltare meglio la curvatura della coscia sotto la coperta: il Cristo
è visto decisamente di fronte. Anche il letto di San Francesco è
visto dall’alto, come il loggiato di cui riprende la forma (o l’inverso)
mentre la porta del baldacchino che lo copre superiormente è vista
dal basso, ripetendo la stessa struttura del palazzo che è a lato.
Questo spiega come Giotto, che ignora totalmente il problema di accordare
in un’unica visione prospettica il palazzo, Cristo, San Francesco e il baldacchino,
dia una notevole omogeneità alla composizione con viste che approssimativamente
sono dall’alto nella parte inferiore del riquadro e dal basso in quella superiore.
Il Cristo è visto esattamente di fronte ed acquista così
una sua centralità anche senza essere sulla linea che taglia verticalmente
il riquadro in due e separa il baldacchino-spazio-parallelepipedo dal palazzo,
ma il suo braccio fa cadere lo sguardo sul vertice del gruppo in San Francesco.
All’interno di questo parallelepi-pedo, come già detto, Cristo e San
Francesco formano un triangolo, da sempre simbolo di perfezione.
In questo caso il triangolo è perfettamente inserito nella composizione
e non a mala pena contenuto come nell’episodio dell’uomo semplice, dove però
si sottolinea l’estraneità tra l’episodio e la città in cui
avviene. In fondo anche la riquadratu-ra dell’episodio del mantello, fatta
da Giotto su diagonali che tracciano una croce per il centro del quadro come
quì, è formata da quattro triangoli. Si tenga presente che
all’epoca si faceva assai caso a queste combinazioni e che su di esse veniva
basata in genere la costruzione dei grandi edifici e delle cattedrali in
particolare.
Si noti infine come Giotto ancora collochi il personaggio più importante
(generalmente il Santo ma quì Cristo) in una posizione che rifletta
una superiorità gerarchica ma senza ricorrere più all’espediente
di farne uno più grande ed uno più piccolo ma con altri mezzi:
quì Cristo è in piedi e San Francesco sdraiato, ad esempio.
Pregando il beato Francesco dinanzi ad una immagine del Crocifisso dalla Croce discese una voce che disse tre volte:"Francesco va e ripara la mia casa che tutta si dissolve in rovina", significando con ciò la Chiesa Romana..
LM 2,1 - 2c 10 - 3Cp 13 - 3c 2.
Nella Legenda Maior l'episodio viene riportato facendo notare che San Francesco
ode per tre volte una voce "con le orecchie del corpo", per sottolineare come
il miracolo sia avvenuto realmente. Viene anche detto che egli in un primo
momento credeva di dover riparare materialmente una Chiesa di mura piuttosto
che quella che Cristo acquistò col suo sangue secondo l'espressione
degli Atti degli Apostoli (20,28).
Il racconto è derivato da Tommaso da Celano, Vita Seconda, e San
Bonaventura tende a rendere più graduale la conversione di quanto
fosse in Tommaso. In questi San Francesco intende perfettamente le intenzioni
di Cristo, anche se ode la voce una sola volta, ma "non vuole" (intenzionalmente
dunque) giungere di colpo alla perfezione dell'opera ma "passare grado a
grado dalla carne allo spirito".
Del resto abbiamo già visto come Tommaso da Celano pon-ga, come
punto interiore di partenza per San Francesco, il punto di arrivo dei Santi
precedenti (San Martino). Sia in Tommaso da Celano che nella Leggenda dei
Tre Compagni l'episodio viene visto come la ricezione da parte di San Francesco
della passione di Cristo nel proprio animo, primo gradino ad esternare questa
passione attraverso le Sacre Stimmate.
In Giotto viene rappresentato il momento in cui il Santo ode le parole
e ne rimane attonito; gli elementi che il pittore deve rappresentare sono,
quindi: San Francesco, il Crocifisso, la Chiesa crollante di San Damiano.
Per fare questo ricorre ancora ad una divisione del riquadro affrescato in
quattro parti con una croce ideale e dà ad ogni elemento una collocazione
in questa suddivisione.
A sinistra è collocato il Santo ed a destra il Crocifisso; il
terzo elemento necessario per l'individuazione del miracolo, la Chiesa,
costituisce lo spazio stesso in cui si collocano i primi due. Giotto non
rinuncia ad indicarli separatamente e, per poter situare il Santo ed il Crocifisso
in due spazi autonomi, spezza lo spazio della chiesa in più parti.
Ciò è necessario perché non può, dimensionalmente,
realizzare con una proporzione verisimile il Crocifisso, il Santo e la chiesa
stessa.
Prima gli edifici avevano sempre potuto essere messi sullo sfondo, nelle
dimensioni volute, ora no. San Francesco ci appare troppo grande rispetto
alle navate della Chiesa, alto quasi quanto una delle colonne pur essendo
in ginocchio. Per contro il Crocifisso è, almeno in una dimensione,
proporzionato all'altezza di tutto l'edificio.
Il pittore non poté fare il Santo troppo piccolo, egli è
sempre il protagonista dell'episodio e la Chiesa costituisce solo un elemento
indicativo. L'artificio cui ricorre Giotto è estremamen-te elaborato:
San Francesco si vede come se mancasse il muro esterno o, meglio, come se
la parte inferiore di questo, sino all'altezza dell'architrave, fosse trasparente.
La parte superiore, sempre a sinistra, è chiusa dal muro esterno
e dal tetto della Chiesa.
Egli occupa una delle quattro parti in cui è divisa l'immagine:
quella inferiore sinistra e si trova tra quattro colonne disposte a coppie,
due dietro di lui a sinistra e due a destra davanti; in ognuna di queste
coppie una è più vicina a chi guerda ed una più lontana,
dato che della chiesa si vede il fianco.
Le due colonne più lontane sono entrambe verso l'interno, collocate
quasi secondo gli schemi di una prospettiva con punto di fuga centrale relativamente
al solo spazio in cui è collocato San Francesco, hanno però
la stessa altezza e lo stesso diametro di quelle più vicine.
Sembra un primo accenno a rompere, all'interno di una unità spaziale
la regola secondo la quale le cose vengono viste sempre dallo stesso lato
e le linee lungo le quali è costruita l'immagine sono sempre parallele
tra loro.
Ma, ancora, un solo episodio è diviso in maniera che vi siano
più spazi distinti, anche se non separati, tanti quanti sono gli
elementi da rappresentare: solo il tetto della navata più vicina è
fatto da cassettoni costruiti su linee sempre parallele tra loro e inclinate
da destra a sinistra, riproponendo così lo schema usuale dei riquadri
precedenti. La metà destra dell'affresco è invece costruita
in maniera che lo spazio in cui è inserito il Crocifisso sia tutto
unito.
La croce con cui Giotto ha tagliato in quattro il riquadro (uso questo
termine perché esatto nel suo significato compositivo) è appena
accennata dalle sporgenze dell'architrave della chiesa interrotto dal crollo
del muro.
All'estrema destra si vede una colonna per indicare che la parte inferiore
di questa metà si può vedere immaginando inesistente il muro;
come per la metà in cui è San Francesco, solo che quì,
superiormente, il muro manca del tutto perché è crollato al
di sopra dell'architrave che a sinistra era proprio l'elemento che tagliava
in due lo spazio. Così dal basso in alto lo sguardo può salire
liberamente dall'altare al Crocifisso e di quì al catino dell'abside
sino al cielo, dato che anche il tetto è sfondato.
Il Santo è molto grande rispetto all'architettura della Chiesa
e Giotto per non fare il Cristo ancora più grande, lo colloca in uno
spazio doppio in altezza ottenendo il duplice scopo di lasciare al Santo
una dimensione da protagonista nel corpo e al Crocifisso una dimensione gerarchicamente
maggiore nello spazio; questo va dall'altare, dove Cristo si incarna, alla
immagine di Questi al simbolo della volta celeste (il catino absidale),
dove Egli risiede, al Cielo vero e proprio. Nulla sembra casuale in Giotto
e di tali simboli ed allegorie la cultura del tempo è farcita.
Due parole anche riguardo gli atteggiamenti di San Francesco e del Cristo:
per intendere l'episodio bisogna considerare come il momento della conversione
non sia quello in cui San France-sco ode la voce a San Damiano, essa non
è generata da un fatto esclusivamente miracolistico, ma è già
avvenuta quando il Santo ha donato il mantello al povero.
Tutte le fonti parlano di un San Francesco già convertito interiormente
e quì si rappresenta un secondo e importante momento di modifica dell'uomo
San Francesco. Non la conver-sione a Cristo ma il momento in cui egli intraprende
il suo nuovo modo di vivere e di agire, come povero di Dio o come pazzo
nel mondo secondo le varie interpretazioni, ma comunque sempre con un'azione
imperniata sulla rinuncia ai beni terreni e l'amore per la povertà.
A questo episodio, immediatamente prima o immediatamente dopo, viene
connesso quello della vendita dei beni a Foligno (anzi i due episodi ne
costituiscono in effetti uno solo) e il cui ricavato San Francesco vuole
dare per restaurare questa Chiesa di San Damiano.
In alcune fonti, soprattutto nelle più antiche, e soprattutto
nella più antica in assoluto, la Vita Prima di Tommaso da Celano,
non si parla di una voce che dica materialmente qualcosa a San Francesco,
tanto è vero che anche nella Vita Seconda Tommaso non dà per
certo che il Crocifisso abbia parlato.
San Bonaventura parla di un San Francesco che udì una voce e le
altre fonti sono divise fra queste due versioni. In questo caso le mani
allargate, ma poco, come se prima fossero state giunte in preghiera, di
San Francesco inginocchiato, la sua espressione di meraviglia e il modo
in cui il Crocifisso sembra lievemente tendere in avanti, col corpo curvato
ed inclinato, per rivolgersi a San Francesco, fanno credere che Giotto mostri
proprio il Crocifisso mentre parla al Santo.
Tra l'altro per far cadere lo spazio del Crocifisso verso quello del
Santo questo (lo spazio) ruota intorno ad un asse immagina-rio sullo spigolo
destro dell'abside, che per ciò è visto quasi frontalmente
e non nasconde alcuna sua parte allo spettatore.
Ancora: l'altare ha i lati corti non paralleli (e in Giotto le linee
parallele rimangono sempre tali) e sembra che siano costruiti su raggi uscenti
della colonna anteriore che divide lo spazio di San Francesco. Si introduce
così un ulteriore senso di rotazione sempre in senso antiorario che
sposta anche questo elemento verso sinistra, cioè verso il Santo.
A ciò si aggiunga che il gradino dell'altare è disegnato con
un senso di resa prospettica tale da accordarlo con i rimanenti elementi
dello spazio in cui si trova e che lo torce in maniera abbastanza strana.
Quando ad un unico oggetto in una immagine vengono dati contemporaneamente
due o più diverse inclinazioni (come farà in seguito di proposito
Guido Reni nei suoi crocifissi) si ha un movimento di rotazione apparente.
Dato che tutto il Crocifisso, l'altare, il catino dell'abside non escono
dal piano anteriore, delimitato dal muro superiore della chiesa e dell'architrave,
è evidente che il Crocifisso stesso sembra in movimento verso il Santo,
anche se Giotto non lo rappresenta come corpo tridimensionale ma dipinto
su di una tavola, secondo i moduli consueti della sua epoca, tanto che ai
lati del braccio lungo della croce sono rappresentate le pie donne. In questo
movimento si risolve e si spiega tutta la rotazione apparente sopra descritta.
Una curiosità: dei piedi di San Francesco Giotto ne fa vedere
uno solo (probabilmente gli interessano poco) anche se l'immagine non è
perfettamente di profilo. Giotto tiene presente che è Cristo a parlare
e vuole determinare che la voce proviene proprio dal Crocifisso: guardando
il Cristo si va automaticamen-te verso San Francesco e viceversa seguendo
lo sguardo di San Francesco si arriva al Cristo.
Sebbene l'immagine del Cristo sia molto rovinata, si può affermare,
a questo punto che la "comunicazione" tra i perso-naggi in Giotto è
effettuata non con gesti o pose particolari ma dal fare intrecciare, unendoli
con linee ideali, gli sguardi. Un parlare con l'anima, insomma.
Ovviamente San Francesco non ha la chierica ma un coprica-po e non porta
il saio francescano, ma il suo atteggiamento è estremamente devoto,
anche se sembra che sia in una fase più passiva che attiva. È
San Francesco che si converte ed accetta Cristo, ma è la Volontà
Divina che agisce in questo terreno fertile.
Si dovrebbe verificare se il fatto che l'iconografia si precisi nel corso
del ciclo, per noi ovvio, lo fosse anche a quei tempi; in genere l'aspetto
esteriore dei vari santi, attraverso il quale i fedeli potevano riconoscerli,
era immutabile per evitare probabi-li confusioni.
Quando restituì al Padre ogni cosa, e, spogliatosi, rinunziò ai beni paterni e terreni, dicendo al padre: "d'ora in poi con tutta sicurezza, possa dire: Padre Nostro che sei nei cieli, poiché Pietro di Bernadone mi ha ripudiato".
LM 2,4 - 1c 15 - 2c 12 - 3Cp 19 - AP 8.
Questo episodio, negli anni, fu spogliato del suo carattere drammatico
ed interpretato sempre più in senso simbolico e giuridico. Nella Vita
Prima di Tommaso da Celano la rinuncia ai beni è fusa con la restituzione
della borsa ed il padre è un poco placato. Nella Vita Seconda l'episodio
è già sdrammatizzato: San Francesco non viene portato dal
padre innanzi al Vescovo ma è questi a suggerirgli la restituzione
del denaro; San France-sco fa di più, restituendo le vesti e mostrando
così di portare il cilicio.
In San Bonaventura si riprende lo schema della Vita Prima di Tommaso
da Celano ma con l'aggiunta del cilicio, particolare che sposta l'attenzione
su di un piano più strettamente religioso. Nella Leggenda dei tre
compagni è trattata anche la questione giurisdizionale dei consoli,
con l'evidente intento di legittimare le scelta di San Francesco al di là
di ogni preventiva approvazio-ne paterna; l'atto non è più impulsivo
come nella Vita Prima di Tommaso da Celano ma meditato (va in una stanza)
ed è quì che Pietro Bernadone si infuria.
Quella della rinuncia ai beni paterni è una delle tappe fonda-mentali
della conversione di San Francesco e della fondazione dell'Ordine. Nei precedenti
quattro riquadri abbiamo seguito il Santo in un itinerario di perfezione
che va dal presagio di ciò che lo attende e l'invito a convertirsi
(l'episodio dell'uomo semplice), alla conversione interiore esternata con
un atto (il dono del mantello), ad un secondo presagio più direttamente
comunicato da Cristo (il sogno del palazzo) e termina con l'invito esplicito
ad intraprendere una nuova via (San Damiano).
Questi episodi possono essere suddivisi in due gruppi: il primo relativo
al raggiungimento di una perfezione più antica (San Francesco raggiunge
San Martino); il secondo prepara il Santo a superare tale perfezione per
opera diretta di Cristo che parla in un primo momento oscuramente e poi esplicitamente.
È lecito ora attendersi degli episodi che avviino concretamen-te
tale nuova impresa e di questi il primo è proprio questo, che con
quelli successivi del sogno del Laterano e dell'approvazione della Regola
forma una trilogia relativa alla nascita dell'Ordine.
Anche questo riquadro è diviso in zone o spazi nettamente separati
che corrispondono a due distinti gruppi: a sinistra i cittadini, tra i quali
il padre di San Francesco, Pietro Bernadone e a destra il Vescovo con due
chierici e San Francesco.
Nella donazione del mantello era una separazione tra la città
di Dio, la Chiesa, e la città degli uomini e anche quì le
costru-zioni retrostanti che fanno da sfondo, pur essendo genericamente
costruzioni cittadine, si interrompono al centro dando luogo ad un vuoto
che non sembra possibile poter configurare come piazza. Esse, secondo l'uso
di Giotto sono allungate esternamen-te verso l'alto e occupano tutta la
parte superiore corrispondente al cielo, mentre tutta la parte inferiore
corrisponde alla massa delle figure in movimento.
Stavolta, sia a destra che a sinistra, le costruzioni non hanno la fronte
rivolta verso lo spettatore ma uno degli spigoli e i lati che si vedono sono
due e non uno; benché le linee che sono parallele rimangano sempre
tali si ha quasi una prospettiva divergente invece che convergente, ciò
si vede soprattutto nella costruzione retrostante il gruppo di San Francesco
col Vescovo e i chierici.
Il racconto ripete la genericità di tutti gli altri riguardo le
fonti cui Giotto può essersi ispirato: San Francesco dà gli
abiti al padre e il Vescovo lo ricopre col suo stesso manto, i chierici
rimangono, ovviamente, dietro il Vescovo.
Una linea parte dalle braccia di San Francesco, con le mani giunte, e
porta sino a una mano con l'indice teso in forma di comando come nei Cristi
Pantocrati bizantini. Questo gesto va direttamente verso San Francesco e
tutta la parte destra del quadro, nella quale sono compresi il Vescovo coi
chierici, anche se la mano si trova sulla perpendicolare di Pietro Bernadone.
Questa mano che spunta dal cielo rappresenta ovviamente la Volontà
Divina La contrapposizione tra chierici e laici in questo caso è
nettissima e San Francesco è già messo tra i chierici dal comando
della mano e non chiamato dalla Gerarchia della Chiesa, senza che questo
implichi, tuttavia, alcuna contraddizio-ne con questa.
Il Vescovo lo accoglie con il mantello e lo ricovera ufficial-mente sotto
la propria protezione tanto è vero che la reazione altrimenti legittima
del Pater Familias viene frenata da un signore vestito da magistrato, come
dimostrano la cappa e la veste togata. Va ricordato che è nella Leggenda
dei Tre Compa-gni che viene citato il particolare in cui San Francesco è
invitato dai consoli ad andare dal Vescovo perché, quando gli inviano
i messi con un mandato di comparizione, come voleva la legge, egli risponde
loro di essersi già votato a Dio.
Ora, noi sappiamo dal diritto ecclesiastico che l'ingresso tra i religiosi,
con tutti i conseguenti spostamenti di giurisdizione dai tribunali civili
a quelli ecclesiastici, non avveniva, e non avviene, mai per esclusiva dichiarazione
del singolo ma sempre a seguito di particolari atti formali che sancivano
anche l'indispensabile approvazione della Gerarchia alle decisioni individuali.
A questo punto è evidente che nella Leggenda dei tre Com-pagni
si sottolinea non tanto come San Francesco appartenga agli ecclesiastici,
cosa che sarà poi ovvia dopo l'approvazione della regola da parte
del Papa, quanto che San Francesco si trovi già tra gli ecclesiastici
soprattutto per elezione divina, della quale egli, dopo la rivelazione diretta
di San Damiano è ormai pienamente cosciente, ma senza che questo diminuisca
l'importanza del riconoscimento del Vescovo.
Quì sembra proprio che si voglia avvalorare questa tesi: San Francesco
è sottratto alla giurisdizione del padre benché ancora non
appartenga ad alcun ordine religioso monacale o al clero regolare per effetto
essenzialmente della sola Volontà Divina.
Il Vescovo di Assisi, nell'accoglierlo e coprirlo con il suo manto, non
fa altro che seguire questa stessa volontà, mentre pudicamente volta
lo sguardo dalle nudità di San Francesco. La Chiesa ratifica un atto
che parte da Dio stesso, anche se forse San Francesco aveva già, sin
da allora, un qualche minimo status religioso.
Da notare che il padre regge tra le mani oltre le vesti anche le brache,
di cui si fa menzione esplicita nella Legenda Maior, per indicare che si
era tolto proprio tutti i vestiti: però, a differenza della Legenda
Maior, non si vede assolutamente il cilicio di cui parla anche la Vita Seconda
di Tommaso da Celano, forse per non dare un esempio di eccessiva mortificazione
della carne e perché San Francesco, in seguito, proibì ai suoi
frati di portarlo. Quello che conta è la presenza delle brache, che
allora era usuale portare sotto le vesti.
Intanto a destra si svolge un dialogo tra il Vescovo e uno dei chierici;
la Legenda Maior di San Bonaventura da Bagnoregio riferisce che il Vescovo,
copertolo con il suo stesso manto, ordinò ai suoi di dare a San Francesco
qualcosa perché si coprisse ma è la Vita Seconda di Tommaso
da Celano che accenna al fatto che il Vescovo intuì di trovarsi dinanzi
a qualche fatto generato da Dio.
In San Bonaventura il Vescovo agisce più che altro per mise-ricordia
mentre in Tommaso da Celano l'intervento divino è più evidente.
La presenza contemporanea della mano divina e di questo particolare di conversazione
attestano la molteplicità delle fonti utilizzate.
Ancora: lo sguardo di San Francesco, parallelo alle braccia, è
rivolto verso la mano di Dio; una diagonale ideale taglia ed occupa tutto
il grande vuoto azzurro che domina la scena e che così da un punto
di vista strutturale, vuoto non è.
In questo caso uno squarcio di cielo freddo, sia pure compen-sato dal
colore caldo delle case, non ha la funzione di generare profondità
alla scena, come invece accade nel Dono del Mantel-lo, in cui, proprio per
questo, nessuna linea reale o ideale lo attraversa.
Una piccola osservazione va fatte anche riguardo l'assenza di donne in
una scena in cui appare un uomo nudo, benché tra la folla, per indicare
la presenza di tutta la popolazione e quindi della pubblicità dell'atto,
ci siano anche dei bambini.
Le donne non sono escluse solo perché allora non erano soggetti
giuridici pieni, se il motivo fosse questo non dovrebbero essere presenti
neppure i bambini, ma per evitare che il racconto fosse di esempio indiretto
a comportamenti scandalosi.
Come il Papa vedesse la Basilica Lateranense ormai vicina a rovina, e un poverello, ossia il beato Francesco, messala sotto il suo dorso, la sostenesse per impedirne la caduta.
LM 3,10 - 2c 17 - 3Cp 51.
Anche in questa scena Giotto divide il riquadro in due parti, tante quanti
sono gli elementi del racconto, il Papa che dorme e il Poverello d'Assisi
che regge la Basilica del Laterano. A differenza delle fonti letterarie,
San Francesco non ha l'aspetto spregevole che queste gli attribuiscono e,
anzi, non è neppure piccolo e di sembiante troppo povero.
Il racconto non compare nella Vita Prima di Tommaso da Celano, ma in
tutte le altre fonti sì. Lo scopo è di sottolineare come l'apparenza
umile del Santo e dei frati e il loro abito, che corrispondeva (e corrisponde)
ad un reale modus vivendi, costituissero non solo la loro forza ma anche
quella dell'intera Chiesa. Quì, l'originaria sottolineatura della povertà,
anche esteriore, cui tanto teneva il Santo di Assisi, è stata probabilmen-te
sacrificata alla necessità di farlo apparire in una veste che corrisponda
a quella ormai codificata (per ovvie necessità) e regolare in uso
tra i frati all'epoca in cui l'artista operava e che, ancora oggi, vige come
simbolo della continuità dell'Ordine stesso, pur non essendo più
un vestito da poveri in senso stretto. Come sia, in questo affresco San Francesco
non è né piccolo né spregevole, anzi, di aspetto piuttosto
prestante rispetto anche ad altri riquadri.
Si deve anche comprendere che il Santo doveva apparire sempre grande
abbastanza da assurgere al ruolo di protagonista; Giotto, come abbiamo visto
fino ad ora, non sottolinea tanto una piccolezza fisica di San Francesco
quanto, se è il caso, un suo atteggiarsi umile e un volere farsi piccolo.
Questo, inoltre, è il primo affresco del ciclo in cui il Santo
appaia in veste di frate, con la chierica e la barba. Nell'affresco precedente
lo avevamo già visto tra i chierici, in contrapposizio-ne ai laici,
ed era quindi lecito aspettarsi di trovarlo presto in abito di religioso.
Si noti che il Papa, per essere meglio identifi-cabile, è stato dipinto
con tanto di manto e tiarae come sotto il ricco baldacchino, chiuso da tende
di tessuto orientale, stiano due camerieri pronti, come voleva il rango e
la dignità del personaggio.
In questo caso interessa la maggiore cura di Giotto nella resa prospettica
dell'interno del baldacchino e dell'interno del portico della Basilica, specie
se si fa un confronto col Sogno del Palazzo Pieno d'Armi.
Una incongruenza nella composizione dell'affresco viene dal fatto che
il Santo poggia i piedi, (sempre poco curati) sullo stesso portico, inclinato,
della Basilica che egli stesso sorregge, tralasciando naturalmente ogni considerazione
sulla relatività delle dimensioni. Il suo sforzo ben graduato e il
suo atteggia-mento sicuro sono resi da Giotto con uno studio magistrale,
per la sua epoca, dei panneggi e delle ombreggiature della tonaca che mettono
in risalto la tensione della gamba sinistra e con una cura particolare nell'intensità
dello sguardo.
Molto curati sono anche i due camerieri (in senso proprio) alla base
del letto papale, certamente molto più che il Papa stesso, malamente
appoggiato sul letto per farlo vedere frontal-mente. Il suo atteggiamento
è quello di un uomo supino e non corrisponde alla posizione di chi
dorme sul fianco.
In poche parole le figure di San Francesco e dei due servi mostrano chiaramente
come Giotto cominci a curare sempre di più ciascun personaggio e a
chiuderlo, in una sorta di perfezione formale, nei contorni delineati dal
disegno.
I due, con la nobiltà dei loro volti barbuti (forse per far vedere
che non sono chierici) e una certa naturalezza negli atteggiamen-ti, mostrano
come l'artista si stia maggiormente dedicando ai personaggi secondari: molto
belli sono il contrasto tonale del servo di sinistra col manto scuro e la
veste chiara e l'ombreggiatura e i chiaroscuri di quello di destra.
Essi potrebbero essere quelli che furono poi mandati dal Papa, al suo
risveglio, a prendere San Francesco per farlo portare al proprio cospetto,
secondo un'aggiunta posteriore alla Legenda Maior voluta dal Padre Generale
Gerolamo d'Ascoli e basata su testimonianze precise; in tal modo essi sarebbero
anche i primi testimoni del sogno miracoloso.
Lo spazio entro il quale sta San Francesco che sorregge la Basilica entra
a contatto (quasi sembra voglia cadere) col baldacchino papale. Le due colonne
che lo dividono anterior-mente non sono un limite netto; anche se è
vero che San Francesco è tangente ma non oltrepassa la prima, Giotto
deve dare la sensazione che aveva il Papa dormendo: che la Basilica quasi
gli cadesse addosso e San Francesco la fermasse sorreg-gendola.
Per questo la suddivisione in quattro parti di tutto l'affresco con una
croce non è più tanto netta. Nella parte centrale non è
possibile distinguere quale delle due colonne possa essere il braccio verticale
di questa croce o quale delle due barre che reggono le tende possa essere
quello orizzontale e, soprattutto, il tetto della Basilica è storto
rispetto a tutto il resto.
In somma, la composizione è molto meno precisa di quella degli
affreschi precedenti e la parte superiore, che prima tendeva a vuotarsi,
quì è vuota di personaggi, ma riempita da architetture complesse.
Anche se esistono uno spazio per San Francesco e la Basilica e uno per il
Papa che dorme con i suoi servi, essi non sono tra loro costruiti simmetricamente
né separati nettamente. Ciò non è un regresso, dato che
prelude alla volontà di una costruzione unitaria della scena.
Quando il Papa approvò la Regola e diede la missione di predicare la penitenza, e ai frati che avevano accompagnato il Santo permise di fare la tonsura chiericale affinché predicassero la parola divina.
LM 3,10 - 1c 33 - 2c 17 - 3Cp 51 - AP 36.
Questo è uno dei momenti di maggiore importanza nella storia del
Francescanesimo: la legalizzazione del movimento da parte del papato. Tutto
l'Ordine è rappresentato, sia nella Vita Prima di Tommaso da Celano
che nella Leggenda dei Tre Compagni e nell'Anonimo Perugino, in cui si fa
accenno al numero dei frati e se ne nominano dodici compreso San Francesco:
quanti ne ha dipinto Giotto e quanti dovevano essere i nuovi apostoli di
Cristo. La prima cosa che si nota è il Papa, con la mano destra benedice
San Francesco e i suoi e con la sinistra gli dà materialmente una
pergamena che, evidentemente, contiene la Regola approvata dell'Ordine stesso.
Ora, è chiaro che da un punto di vista formale un'autorità dà
e concede anche quando, in effetti, si limita solamente a prendere atto o
a lasciar fare. In questo caso si trattò, secondo le fonti, di un
permesso orale, quasi una prova, come dimostra il fatto stesso che solo successivamente
San Francesco scrisse una vera e propria regola, con tutte le discussioni
che la precedettero e la seguirono.
Nelle due vite di Tommaso da Celano non si parla affatto di regole, mentre
in San Bonaventura il Papa "approvò" la Regola dato che San Francesco
"scrisse per sé e per i suoi frati, con parole semplici una formula
di vita…". È da dedurne, quindi, che Giotto abbia seguito qui San
Bonaventura, anche nel particolare delle "piccole chieriche" dei frati che
li sottraevano alla giurisdizione civile. In tale modo si afferma esplicitamente
che, sin dai primi contatti con la Gerarchia, l'Ordine Francesca-no ebbe
una forma costituzionale assai simile a quella definitiva, in disaccordo
con chi invocava una maggiore fedeltà alla Regola primitiva: nella
sede prima e principale dell'Ordine non poteva essere altrimenti! La composizione
mostra dei caratteri di novità rispetto le precedenti da un punto
di vista prospettico: lo spazio nel quale sono inseriti i protagonisti è
unitario.
Dei riquadri precedenti rimane la netta divisione tra i gruppi di personaggi
del racconto, ma lo spazio che li racchiude è unitario e ben delimitato
dalle pareti del fondo, dei lati e dalle arcate che sorreggono il soffitto
e che vengono a formare una serie di volte a botte reggenti una ipotetica
copertura a cassettoni. La prospettiva adottata in questo caso è tale
che le pareti laterali si vedono convergere proprio verso parete di fondo.
Le tre arcatelle mostrano la parte interna più lontana e aderente
a questa, parte minore di quella più vicina e sporgente; così
si vede tutta la piccola volta. Se le linee orizzontali delle due pareti
laterali non fossero tra loro parallele si sarebbe quasi ad una prospettiva
centrale rinascimentale. Ma queste linee rimangono sempre parallele e le due
pareti hanno un unico punto di vista con due direttrici diverse e divergenti
di un angolo piuttosto ampio. Il soffitto che, teoricamente si potrebbe vedere,
manca e con lui l'unico elemento in cui le linee avrebbero dovuto essere
convergenti rispetto una linea centrale, perpendicolare al fondo nella prospettiva
e verticale nell'esecuzione del disegno, forse era ancora troppo presto per
una concezione così ardita.
Lo spazio, comunque, è realmente unitario. È interessante
anche notare come la decorazione delle arcatelle superiori sia di carattere
musivo e, a copertura delle pareti, siano posti pesanti tendaggi orientali,
allora in uso nelle dimore dei potenti anche per le loro qualità
di coibenti termici.
Gli elementi del racconto, pur non avendo ciascuno una vista particolare,
sono tra loro nettamente separati: a sinistra San Francesco e i frati,
a destra il Papa e i rappresentanti della gerarchia ecclesiastica. Fra questi
i due camerieri già visti nell'episodio del sogno e che quì
confermano come fu seguita la versione dell'episodio in cui San Francesco
fu riportato dinanzi al Papa, dopo il sogno premonitore, dai suoi uomini
dato che, in un primo momento, era stato cacciato. Materialmente i due camerieri
rappresentano solamente due testimoni del sogno o due esecutori della volontà
papale, ma l'intervento divino nella fondazione dell'Ordine viene ulteriormente
accentuato.
Dato che in nessuna fonte il Concistoro è indicato come segreto
si deve dedurre che fosse pubblico. Si può perciò supporre
che il personaggio seduto a fianco del Papa sia il Cardinale di Santa Sabina
(porta il manto rosso) e che quindi il personaggio in piedi, a destra del
Pontefice, sia il Vescovo di Assisi. Questi due prelati presentarono San
Francesco al Papa e, anche se nei vari racconti hanno un ruolo autonomo, quì
vengono mostrati come compresi nella gerarchia della corte papale e non come
intermediari.
La separazione fra il nascente Ordine (ma già tale anche di diritto
data la concessione di una vera e propria regola) e la Gerarchia ecclesiastica
è netta e subordinata solamente al Papa; sono noti i successivi conflitti
locali tra l'Ordine, i Vescovi e il clero secolare. La struttura dell'affresco
lo mostra chiaramente: il Papa è più alto di San Francesco
ma questi è in una posizione centrale, un poco isolato, e su di lui
convergono una serie di linee più o meno rettilinee, che lo rendono
il vero centro focale e dell'attenzione per chi guarda: si sarebbe tentati
di dire il protagonista.
Le teste dei frati, le teste del Papa e del Vescovo Guido, la mano del
Papa, tutti gli sguardi dei curiali indicano il Santo. Notevole anche il
concordare degli sguardi dei frati e del Santo verso il Papa: a fascio, ciò
indica una "dipendenza" da questi, ma mostra anche la sostanziale unità
dell'Ordine sin dal suo nascere e l'inscindibilità di San Francesco
dall'Ordine stesso.
Pregando il Beato Francesco in un tugurio (presso il Vescovado di Assisi) ed essendo corporalmente lontano dai suoi frati presenti nel tugurio fuori dalla città (a Rivotorto) ecco costoro videro il Beato Francesco su un carro di fuoco e rilucentissimo vagare, circa la mezzanotte, per la casa, mentre il tugurio si illuminò a giorno per cui si stupirono coloro che erano svegli e si destarono e si spaventarono coloro che dormivano.
LM 4,4 - 1c 47.
Questo prodigio in Tommaso da Celano è un premio, in San Bonaventura
è indice della Volontà Divina che ha eletto San Francesco nuovo
Elia, ad essere "cocchio e d auriga" degli uomini spirituali.
Questa stretta correlazione tra il Santo e il profeta, ha portato Giotto
a descrivere l'episodio in maniera diversa da come viene raccontato.
La modifica principale è che il carro di fuoco non si aggira per
la casa dei frati ma vola in cielo, innalzandosi, tirato da due cavalli,
anch'essi evidentemente di fuoco, e porta dentro di sé San Francesco,
sia pure particolarmente luminoso, e non un globo igneo. Sotto, i frati guardano,
dormono, si chiamano l'un l'altro.
Resta poco del racconto originario, che San Bonaventura ampliava sottolineando
come ognuno potesse vedere chiaramente nella coscienza dell'altro per effetto
della luce spirituale proveniente dall'anima di San Francesco: era per la
piccola comunità un'anticipazione del Paradiso e un invito alla confidenza
e alla fiducia reciproche per i frati.
Il pittore dovette necessariamente raffigurare nel carro il Santo per
rendere l'immagine comprensibile ai pellegrini, ma non è solo per
questo che l'episodio ha fondamentalmente perso il proprio significato, trasformandosi
in un miracolo che evidenzia la particolarissima protezione divina sul Santo
e in cui i frati da coprotagonisti sono divenuti testimoni.
Anche la casa è stata dipinta in maniera diversa da come le fonti
la descrivono: un'ambiente unico ma chiuso. Per far vedere il carro di San
Francesco che si innalza verso il cielo Giotto ha fatto, invece, un ambiente
aperto verso l'esterno: è un piccolo portico all'interno del quale
i frati dormono, chiamati da uno di loro che, di fuori, ha visto il carro
di fuoco.
Nel riquadro dell'Approvazione della Regola il pittore aveva dimostrato
di aver portato la sua ricerca ad un punto tale da essere capace di vedere
un ambiente in maniera quasi prospettica, se ne deve concludere che non
è per evitare di descrivere un ambiente chiuso che ricorra all'espediente
di rappresentarlo aperto verso l'esterno.
Diverso è proprio il significato da dare all'episodio: San Francesco
è quì un nuovo profeta e la sua ascesa al cielo sarà
gloriosa. Giotto non vuole più ricorrere a soluzioni simili a quelle
per l'episodio di San Damiano nel quale si vede attraver-so una spaccatura
del muro.
Anche la suddivisione dell'immagine in quattro non è più
rispettata; precedentemente si sarebbe potuto pensare che ognuna delle parti
in cui erano divisi gli affreschi corrispondesse ad un cartone utilizzato
per lo spolvero, ammesso che questa tecnica fosse già in uso a quel
tempo.
Ora la capacità di far coincidere le diverse sinopie aumenta,
permettendo progressivamente di accostare sempre più gruppi di figure
in composizioni analoghe; se poi, come è più probabile, simili
tecniche fossero state sconosciute a Giotto, l'abilità necessaria
a far coincidere tante parti affrescate in tempi diversi è veramente
notevole, pur tenendo conto dell'uso intensivo di ritocchi a secco successivi
per correzione ed integrazione.
Il carro di fuoco poi non è neppure simmetrico rispetto ai frati
in piedi a destra e a quelli dormienti a sinistra, mostrando una precisa
volontà in tal senso e a dimostrazione di una maggiore capacità
nell'organizzare il lavoro da parte di Giotto e dei suoi.
Il collocamento di ogni elemento del racconto in un suo proprio spazio
non dipende dalla incapacità di far combaciare il lavoro di diverse
giornate, dato che all'interno di questi spazi le costruzioni sono spesso
complesse e troppo amie per poter essere colorate in una sola volta e con
un solo cartone, per la rapidità con cui si secca l'ultimo strato
di intonaco quando si dipinge a fresco.
Anche quì gli sguardi sono affisi l'uno nell'altro, uniti da linee
ideali che entrano a far parte della composizione: come tra il frate centrale
dei tre che dormono accovacciati e quello voltato verso di lui che, col braccio
sinistro, lo invita ad uscire.
Questo gesto si accorda a quello del frate che dietro di lui indica il
carro. Anche il braccio destro di questo frate è accorda-to, nella
direzione, al braccio sinistro di quello che, di spalle, sta guardando il
carro di fuoco ed entrambi sono paralleli alla linea tra i due sguardi di
cui sopra.
Si noti, per comprendere meglio quanto detto, che la direzio-ne di uno
sguardo è indicata sempre anche con una corrispon-dente inclinazione
del capo.
Lo spettatore è così sempre portato, seguendo sguardi e
gesti, ad appuntare la propria attenzione verso San Francesco.
La capacità di resa dello spazio di Giotto è ormai tale
da permettergli di dare una forma a V alla parte anteriore del carro di fuoco
che risulta così leggermente inclinato verso l'esterno mentre la
figura del Santo è ancora dipinta totalmente di profilo.
Quando una visione dall'alto mostrò ad un frate molti seggi in cielo ed uno più degno che gli altri rifulgente di ogni gloria, ed egli udì una voce dirgli: "Questo seggio appartenne ad uno degli angeli che caddero, ed ora è serbato all'umile Francsco".
LM 6,6 - 2c 122,3 - LP 23 - sp 60.
L'episodio riportato da Giotto è collocato nel momento in cui un
frate, non osando disturbare San Francesco in preghiera si trattiene dietro
di lui ed ha la visione dei troni di gloria. Un angelo, rivolto al frate,
indica con la sinistra il trono più bello al centro, e con la destra
San Francesco.
In tutte le fonti letterarie non si fa alcun cenno a questo angelo ma
solamente ad una voce; in due di queste, anzi, il carattere spirituale della
visione viene accentuato aggiungendo la citazione da San Paolo "se nel corpo
o fuori del corpo solo Dio lo sa" (Legenda Perusina e Speculum Perfectionis).
Giotto materializza la voce, come nell'episodio del Sogno del Palazzo,
e la concretizza in un angelo, mentre nell'altro caso era stata concretizzata
in Cristo stesso, seguendo la versione di Tommaso da Celano. Così
chi guardava capiva che il rapporto tra San Francesco e il trono era stato
deciso dal Cielo e non una illazione del pittore o dei frati.
Ricordiamo che questi affreschi venivano letti (o visti, che è
lo stesso) anche dall'indotto che, seguendo i gesti e gli sguardi con attenzione,
scopriva le relazioni e il racconto dallo studio di queste linee strutturali.
In questo caso il pittore non riporta un elemento quale lo riportano le fonti:
la Chiesa.
Il Santo ed il frate che ha la visione sono collocati contro uno sfondo
uniforme e azzurrino nel quale galleggiano anche i cinque troni dei quali,
ovviamente, il centrale è quello di San Francesco.
Di tutta la Chiesa rimane solo un altare, sovrastato da una sorta di
baldacchino a forma di piccola abside, e poggiante su di un paio di gradini,
sul più basso dei quali è umilmente inginoc-chiato il Santo
di Assisi. Ciò è che sufficiente a indicare il luogo della
visione; la semplificazione strutturale e il risparmio di lavoro conseguiti
sono davvero notevoli.
La parte superiore di questo altare, che noi vediamo dal basso, è
costruita su linee parallele che vanno da sinistra a destra, esattamente
all'incontrario di come sono costruiti i troni che, per tale ragione, sono
totalmente separati dall'immagine sottostante. L'altare vero e proprio, invece,
che si vede da sopra, ha i lati convergenti in avanti e con lui anche i gradini
e la predella in legno.
Di tutti questi elementi è in vista ovviamente il lato destro
mentre dei troni sovrastanti quello sinistro. In tutto il riquadro, in somma,
è una serie di scarti visivi e prospettici che sembra avere, ad un
primo esame, una vera e propria ragione di essere.
Le tre figure sono, invece, assai più curate: mosse e ben drappeggiate
le figure del frate e del Santo, con i volti non del tutto di profilo e di
dimensioni appropriate (il Santo è, come nelle descrizioni, assai
minuto). Egli è collocato, come abbiamo detto, su di un gradino più
alto, al centro della composizione.
L'Angelo, che iconologicamente non può essere meno impor-tante
del Santo, si isola e si colloca al centro del fondo azzurro, contro il quale
si staglia e col quale si fonde al tempo stesso tramite il passaggio ottico
e splendente delle ali bianche ed azzurre. La mancanza delle murature della
Chiesa citata dai testi letterari accentua, così, il carattere meraviglioso
della visione e tutta la composizione si addensa nel triangolo formato dalle
figure.
I troni sono lassù, separati in uno spazio senza distanze nel
quale galleggiano; l'altare non viene nemmeno notato dal pellegrino: la
sua funzione, col suo candore, è quella di sottoli-neare e alzare
il valore dell'azzurro che domina la scena. Interessanti sarebbero per uno
specialista la costruzione lignea dei troni di gloria e il particolare tipo
di imbottitura dei sedili.
Il baldacchino dell'altare e i suoi gradini si allargano dal fondo verso
lo spettatore e generano un'apertura spaziale che in un certo senso comprende
i tre personaggi in primo piano. Di questi il frate e San Francesco (ma il
frate in particolare) sono costruiti con molta eleganza e le linee nelle
quali è contenuta la loro figura ricordano quelle di un codice miniato,
a riprova della interazione, se ci fosse bisogno di dimostrarlo ancora, dei
rapporti tra pittura e miniatura in quest'epoca.
Anche questo secondo episodio riguarda una profezia come il precedente
ma indirizzata a San Francesco in special modo e non verso tutto l'Ordine.
La vita dell'Ordine è vita del Santo e ponendo questi in una posizione
particolare si genera per lui e da lui un principio di autorità. L'Ordine
è formato e dalla particola-re posizione del suo fondatore nella
storia della salvezza si deduce il futuro che avrà. Mentre, per quanto
riguarda l'approvazione della regola viene messa in risalto la collettività
dei frati, ora si fa notare la gloria del Santo in Cielo (la stessa già
promessa nel palazzo pieno di armi). I pellegrini che dal Nord scendevano
a Roma nell'anno del Giubileo (1300) avrebbero avuto ben chiaro il concetto
che San Francesco era stato il più grande Santo mai vissuto, degno
di prendere il posto di Lucife-ro! (Gli angeli, esseri perfetti e spirituali,
sono sempre superiori alle anime umane e di essi Lucifero era il più
vicino alla perfezione assoluta).
I principi della nuova iconografia vengono affermati in queste visioni
alle quali, comunque, partecipano sempre i frati, elemento e corpo dell'Ordine
di cui San Francesco è il capo: la gloria di San Francesco è
anche, e soprattutto, la gloria dell'Ordine.
Quando il Beato Francesco vide sulla città di Arezzo molti demoni esultanti e disse al suo seguace (Silvestro che era sacerdote) "va, e in nome di Dio caccia i demoni.gridando presso la porta"; e come quegli obbedendo gridò, i demoni fuggirono e all'istante tornò la pace.
LM 6,9 - 2c 108 - LP 81.
Esaminando subito la Legenda Maior si nota che Frate Silve-stro è
chiamato "semplice come una colomba" e poi "vero obbediente " quando va a
"compiere i comandi". San Bonaven-tura sottolinea l'obbedienza di Frate Silvestro
e tutto l'episodio è visto come un'esaltazione di questa nel rapporto
comando-obbedienza-esecuzione. Anche nella Legenda Perusina Frate Silvestro
è "uomo di grande Fede, di stupenda semplicità e purità"
e anche quì egli caccia i demoni con le parole: "Da parte di Dio
onnipotente ed in virtù della Santa Obbedienza di Francesco, io comando…".
San Bonaventura aveva scritto: "Da parte di Dio Onnipotente, per comando
del servo Suo Francesco.."; e Tommaso da Celano: "Da parte di Dio e per ordine
del nostro padre Francesco…".
Dei tre modi di esprimersi certo quello della Legenda Perusi-na esalta
maggiormente l'Obbedienza come virtù originata e dovuta a San Francesco,
ma San Bonaventura, come dimostra tutto l'episodio, sottolinea il fatto
che l'obbedienza è dovuta senza discutere. Solo Tommaso da Celano
si preoccupa di mostrare l'efficacia di San Francesco anche attraverso
i suoi seguaci, forse perché l'Ordine era ancora molto giovane, ma
San Bonaventura e l'autore della Legenda Perusina tirano, ciascuno, l'acqua
al proprio mulino riguardo la spinosa faccenda dell'obbedienza. Che San
Francesco la volesse assoluta è certo, essendo questa forse la maggiore
prova di umiltà, ma nel caso dell'autore della Legenda Perusina il
concetto di obbedienza è più simile a quello di fedeltà
che al significato gerarchico che San Bonaventura attribuisce alla parola.
Nel racconto interpretato da Giotto si nota che anche in que-sta scena,
benché Francesco sia molto distante dal centro, anzi, ad uno degli
angoli, la struttura dell'immagine è tale da realizzare comunque una
sorta di centralità della figura del Santo.
Apparentemente si ripete uno schema già visto: il quadro è
diviso in due parti verticalmente da una fetta di cielo che arriva sino a
terra (la Rinuncia dei Beni Paterni) e una seconda linea in orizzontale forma
una specie di croce segnata dalle mura della città e dalla parte
superiore del primo ordine della chiesa.
L'altezza del personaggio in piedi corrisponde a questa linea; come,
nella rinuncia ai beni paterni, la mano del frate fa intuire, indirizzandosi
verso il cielo, un collegamento con il soprannatu-rale. Questa croce risulta
in secondo piano, anche figuratamente, perché è formata da
elementi "dietro" il Santo ed il frate mentre lo sguardo si fissa su una
diagonale che parte dal Santo, con la linea della schiena e della testa
allineate, e va nella direzione indicata dalle mani, prosegue con le linee
del braccio e dello sguardo (portatore di comunicazione) e termina, aprendosi,
sui diavoli, indirizzata nell'ultimo tratto dai tetti sempre più
alti delle case. Questi, nella loro disposizione, non hanno certo una funzione
prospettica, come potrebbe sembrare, lasciata piuttosto all'incurvarsi delle
mura e certo meglio realizzata nella chiesa a sinistra.
Si nota chiaramente, nella costruzione strutturale della città,
come le case che la compongono siano viste strette fra loro e quasi ammonticchiate
(come erano nella realtà le città medioeva-li) e in tutte la
vista "fronte-uno_dei_lati" si riduca a due lati senza una fronte (con lo
spigolo che li separa più vicino a chi guarda).
Sino ad ora i lati tra loro paralleli, nelle costruzioni, rimane-vano
sempre tali; in questo caso il divergere delle linee dagli spigoli accentua
la loro dimensione spaziale favorita dal fatto che l'illusione di profondità
risente beneficamente della mancanza della parte inferiore delle costruzioni.
Solo i tetti, con le loro file di tegole, mostrano ancora evidente il mantenersi
forzatamente parallelo delle linee.
In alcuni particolari si notano ricordi e reviviscenze di modi più
antichi, che fanno supporre l'intervento di qualche aiuto che applichi, in
mancanza di direttive precise, per completare alcune parti, moduli e schemi
già superati dal maestro. In particolare i demoni, nella forma dei
corpi, e il modo in cui sono costruite e disegnate le mura e le persone che
si affacciano alle porte, testimoni necessari del fatto miracoloso.
Quanto ai demoni, il pelo (o piume) che riveste i loro corpi mostruosi
ricorda la maniera di origine bizantineggiante di fare le pieghe delle vesti
che si può trovare in tutto il medioevo sino a Cimabue stesso, ma
le loro ali e le loro zampe sono riprese con notevole naturalismo da quelle
rispetivamente dei pipistrelli e delle galline, e, negli atteggiamenti e
nelle espressioni dei volti, mostrano, ciascuno, un diverso "sentire" di
quanto accade. Giotto stesso (se per Giotto si intende, come certamente era,
il direttore dei lavori) curava l'immagine in questi particolari, apparentemente
secondari ma destinati a fare impressione sulla gente.
Quanto alle mura, il problema della resa spaziale di superfici curve
non era stato ancora affrontato da Giotto che, per la sua difficile soluzione,
vi rinunciò. In questo caso non si hanno indicazioni sufficienti per
poter determinare se egli abbia considerato altri testi, oltre la Legenda
Maior, né da un esame strutturale né da uno iconologico.
Quando il beato Francesco per testimoniare la fede di Cristo volle entrare in un grande fuoco con i sacerdoti del Sultano di Babilonia, però nessuno di essi volle entrare con lui ma tutti fuggirono subito dalla presenza del Santo e del Sultano.
LM 9,8 - 1c 57 - Fior 24.
L'episodio è ripreso essenzialmente da San Bonaventura come dimostra
la presenza, a sinistra, dei sacerdoti che fuggono al gesto del Sultano che
li invita alla prova del fuoco.
Anche quì la struttura dell'immagine è costruita con sguardi
e gesti che collegano tra loro i vari momenti. Quelli dei sacerdoti va in
linea retta al Sultano e forma con la mano di questi (aperta dato che si
tratta di un invito e non di un ordine) e il fuoco una sorta di triangolo.
Al centro, San Francesco, intercettando il gesto del Sultano, indica contemporaneamente
se stesso e il fuoco mentre il frate, con la sua espressione, riporta ai
sacerdoti islamici che fuggono e chiude, così, i rapporti tra i vari
protago-nisti da qualunque punto si sia iniziata ad osservare la scena. La
composizione di queste linee ideali di sguardi e gesti si colloca quasi su
di un unico piano, in uno spazio assai poco profondo e diviso in zone dai
tre gruppi di personaggi: i sacerdoti a sinistra, i frati al centro (ovviamente)
e il Sultano con i suoi cortigiani a destra.
Lo spazio retrostante non segue la tripartizione; si ha, è vero,
la coincidenza dei due frati con un pilastro d'angolo della tribuna posteriore
e quella dei sacerdoti con i pilastri dell'altro lato e si ha anche che la
posizione del Sultano coincida col baldacchino, ma, fondamentalmente, ai
tre gruppi di persone corrispondono due architetture, la cui cesura, vuota,
non è al centro e i cui spazi sono orientati diversamente, come dimostra-no
i soffitti a cassettoncini della tribuna e del baldacchino.
Della tribuna si vede il lato sinistro (rispetto a chi guarda) e la sua
copertura, ampia, profonda e non chiusa sul fondo, arriva a proiettarsi sul
Santo. Il baldacchino mostra il lato destro e aggetta sopra il Sultano, ma
determina uno spazio più piccolo e angusto ed è più
inclinato e decentrato. Ai due personaggi corrisponde un ben diverso trattamento
e il Sultano ne risulta decisamente sminuito. La sorte peggiore, in questo
senso, tocca ai sacerdoti, collocati in corrispondenza del lato sinistro della
tribuna; il loro fuggire è accentuato oltre che dall'inclinazione dei
corpi anche dal fatto che questa parte suggerisce quasi una "fuga" prospettica.
Il racconto è uno dei due episodi che mettono in risalto la "potenza"
della parola del Santo e dimostra che una cattiva volontà, o meglio,
un rifiuto ad aprirsi fa sì che questa parola non operi. È
significativo che si sia riferito questo relativo insuccesso di San Francesco
senza alcun timore che ciò potesse sembrare negativo. I fatti miracolosi
e "meravigliosi" non sono essenziali al Francescanesimo e la sua forza è
nella parola, che è poi la parola di Cristo, tanto che molti degli
episodi raccontati non hanno nulla, obiettivamente, di straordinario.
L'esempio, per i frati e tutti i seguaci di San Francesco, è il
coraggio con cui si deve proclamare la verità anche in situazioni
scomode. In seguito, nei Fioretti, si cercherà di dimostrare che San
Francesco poteva comunque entrare nel fuoco con la precedente scena dell'incontro
con la prostituta e che il Sultano si convertì segretamente. A quest'ultimo
è attribuita una dignità adeguata al suo grado, (con i cortigiani
e la figura voltata verso di lui costruita secondo un tipo iconografico
che si affermerà definitivamente nel '400) anche se il fatto di essere
seduto più in alto non può essere considerato come indizio
di una speciale considerazione essendo, in fondo, inevitabile.
Non sembra, comunque, che essere un regnante non cristiano provochi una
diminuzione della dignità regia; ma già nelle novelle del Sacchetti
il Saladino appare come un re e un cavaliere simile a quelli delle leggende
franche e, in genere, nella letteratura di svago dell'epoca il mondo mussulmano
è messo alla pari di quello cristiano, tanto più in Italia,
così aperta ai traffici con l'oriente! Rileviamo anche che Giotto
è incapace di concepire un'architettura orientale diversa da quella
gotica europea, ma va aggiunto che la cosa era del tutto irrilevante per
la mentalità dell'epoca.
Le architetture sono ancora, fondamentalmente, rappresenta-zioni simboliche
dello spazio che dovevano indicare, ottenute desumendo alcuni elementi ambientali
e formandone arredi quasi per una scena; solamente quando esiste la possibilità
di un riscontro diretto il pittore "copia" dal vero, perché più
diretta e vera sia l'impressione su chi guarda, ma non perché sia
logica-mente necessario. In seguito, lentamente, ciò divenne una necessità:
è interessante notare come in un affresco dipinto probabilmente dopo,
anche se è il primo della serie, e cioè quello raffigurante
la Profezia dell'Uomo Semplice, la rappresentazio-ne della piazza di Assisi
raggiunga una precisione mai vista prima: le deduzioni stilistiche circa
la successione degli affreschi di Assisi non possono che confermare queste
considerazioni.
Il beato Francesco mentre un giorno era in fervida preghie-ra, fu visto dai frati sollevato da terra con tutto il corpo, le braccia protese in alto, e una nuvoletta fulgentissima lo avvolse.
LM 10,4 - 2c 95.
La figura di San Francesco, alzato da terra e avvolto da una nuvoletta
luminosissima, con le braccia in forma di croce, la si ritrova nella Legenda
Maior in cui viene anche citata la presenza dei frati che lo videro e in
cui si afferma che "gli venivano svelati i tesori nascosti della sapienza
divina".
Questo brano si riferisce a un episodio che, stando al racconto di San
Bonaventura, sarebbe avvenuto tra i boschi, in un luogo solitario; non si
può comprendere, perciò, la presenza della porta di una città
se non in senso negativo, a indicare che il Santo era fuori da un centro
abitato, tra gli alberi che molto schematica-mente sono indicati a destra.
Sembra strano che dei due "luoghi deputati" uno debba inten-dersi in
senso "di fuori" e uno "di dentro", tanto più che nella Cacciata
dei Demoni da Arezzo, l'esterno della porta della città indica che
il fatto avviene proprio davanti alla porta stessa. È possibile anche
che si sia mischiato l'episodio in cui San Francesco attraversò estatico
tutto Borgo San Sepolcro senza accorgersene.
La composizione è divisa in quattro parti dalla figura del Santo
sollevato da terra con le braccia a croce; questa suddivi-sione è
accentuata dalla linea che divide due zone del cielo che nell'affresco si
sono scolorite in maniera differente e corrispon-de a quella che unisce le
mani del Santo, tangente al suo capo e che prosegue a sinistra col cornicione
sottostante i merli e le torri della città.
In senso verticale è la figura stessa del Santo a dividere l'immagine
in modo che a sinistra, in alto, siano collocate le torri e gli edifici della
città e, in basso, i quattro frati che assistono alla scena, mentre
a destra, in alto, si colloca il Cristo benedicente e in basso un monte
con alberi. I frati sono quattro, il doppio dei testimoni richiesti per
un atto legale, fatto già notato a proposito dell'episodio dell'Uomo
Semplice.
San Francesco ha le braccia aperte non solo "a croce" ma come fosse "in
croce", a ribadire il concetto dell'Alter Christus ed è sorretto da
una nuvola bianca (fulgentissima, dice San Bonaventura) con quattro pennacchi
volti verso l'alto; sul significato di questi è difficile avanzare
ipotesi, forse potrebbero essere i Vangeli che spinsero il Santo d'Assisi
alla vera imita-zione di Cristo, ma è un'ipotesi solo accennabile,
di certo la loro disposizione è tale da dare un senso di corposità
e volume notevoli alla nuvola.
La diagonale formata dagli sguardi del Cristo e di San Fran-cesco che
si intrecciano prosegue nella linea ideale di quelli dei frati più
vicini al Santo che lo guardavano. Il significato è evidente: attraverso
l'esempio di San Francesco l'Ordine arriverà al Cristo, che quì
è parzialmente nascosto da una specie di fulgido scudo e che si svela,
evidentemente, solo al Santo che, solo, può guardare dall'altra parte
di questo schermo a differenza dello spettatore.
Questi così entra a partecipare spazialmente e psicologica-mente
della scena, e non è un'innovazione da poco! Questo effetto, unito
a quello della nuvola, la resa delle torri e delle cose (le cui linee tendono
a non essere più parallele ma a convergere), la plasticità
ancora un poco "dura" nell'ombreggiatura delle vesti dei frati, sono tutti
elementi che inducono a pensare che sia stato assai curato lo studio della
profondità, anche se tutti gli elementi citati non sono stati affatto
fusi in una visione unitaria dello spazio ma rimangono limitati ai singoli
elementi del racconto, collocati ciascuno in un suo "spazio" separato dagli
altri.
In altri affreschi del ciclo la concezione dello spazio raggiun-ge un
valore unitario assai più certo e, se si può dire, compatto,
come ad esempio in quello dell'Approvazione della Regola. Si deve sempre tenere
conto della tecnica propria della pittura a fresco e di come Giotto e collaboratori
cercassero di far coinci-dere ogni parte dell'affresco realizzata in una
sola operazione con un'altra, unendo il tutto con fondi uniformi: in questo
caso l'azzurro del cielo e il giallo della porta della città. Questa,
per quanto se ne vede dietro le teste dei frati, perde dettagli e diviene
di colore assai poco variato mentre poco sopra si vedono delle costruzioni
a rilievo assai interessanti.
Si tratta quindi di un episodio che sottolinea il continuo eleversi a
Cristo di San Francesco che già, nell'episodio di San Damiano, aveva
ricevuto nell'animo la Passione di Cristo: il Presepe di Greccio e le Stimmate
saranno le altre due tappe fondamentali di questo percorso.
Come il beato Francesco, in ricordo del Natale di Cristo, chiese che si apprestasse un Presepio, che si apportasse del fieno, e che si conducessero un bue e un asino; quindi predicò su la Natività del Re povero, e mentre il Santo uomo era in orazione, un cavaliere vide il bambino Gesù in luogo di quello che il Santo aveva apportato.
LM 10,7 - 1c 84,87.
La prima differenza che si può rilevare tra la descrizione che del
presepe di Greccio danno sia San Bonaventura che Tommaso da Celano è
che mentre le fonti letterarie situano il fatto in una stalla dentro un bosco,
quì l'ambiente è una chiesa. Questa diversa collocazione della
scena modifica e stravolge buona parte del senso originario del racconto.
Già nella versione di San Bonaventura si indica che San Francesco
aveva chiesto un permesso al Papa (non al vescovo) per la celebrazione della
Santa Messa fuori di un luogo consacrato e viene sottolineato che solo il
Papa è al di sopra dell'Ordine; ma la cosa, allora, non era troppo
frequente, e si capisce come in questa versione dell'episodio si preferisse
essere piu` tradizionalisti.
È difficile poter collocare questo fatto in una chiesa precisa
e determinata, dal momento che le caratteristiche dell'ambiente non sono
affatto denotate. La scena si svolge non al centro della chiesa ma accanto
al lato sinistro di un altare sormontato da un alto ciborio e quindi non
dalla parte dove stavano normalmente i fedeli ma al di qua` dell'iconostasi.
Infatti, sino all'apertura di questa, si possono intravedere parecchie donne
mentre, al di quà, sono solo uomini: laici, frati e chierici tra i
quali anche San Francesco in paramenti diaconali, mentre sulla destra il
Sacerdote concelebrante lo guarda piamente.
Poiché praticamente tutte le iconostasi, specialmente dopo l'unificazione
dei vari riti avvenuta dopo il Concilio di Trento, sono scomparse dalle chiese
italiane, non è possibile identifica-re, come fanno alcuni, quest'ambiente
con la chiesa stessa della Basilica di San Francesco ad Assisi. Tuttavia
questa ipotesi rimane estremamente suggestiva specialmente se si tiene conto
del fatto che certamente la Chiesa inferiore, allora, doveva essere estremamente
somigliante quella quì rappresentata.
Per la stessa ragione le caratteristiche del Crocifisso posto sopra l'iconostasi
e del quale si vede il retro non permettono di identificarlo con certezza
assoluta con alcun Crocifisso partico-lare, ma certamente permettono di ritrovare
tutti quelli che potrebbero somigliargli come appartenenti a quest'area cultura-le.
Inoltre si deve notare il gran numero di candele accese, sull'altare, sul
codice aperto, sul leggio e quelle più lunghe poste sull'ambone visibile
a sinistra e che ricordano la festosa atmosfera e i riti di quella notte.
Il momento del racconto dovrebbe essere quello in cui il gentiluomo che,
probabilmente, aveva organizzato tutto il Presepe secondo le indicazioni
del Santo, lo vide tenere in braccio il Bambino, il "Puer valde formosus"
del racconto di Tommaso da Celano.
Gran parte dei presenti non guarda verso ciò che accade a San
Francesco e, a parte i frati che cantano con le bocche spalancate, sembra
che tutti siano in un momento di grande compuzione; probabilmente l'elevazione,
dato che il Sacerdote sembra tenere un calice. Un solo personaggio, sulla
sinistra, alza la mano in segno non si sa se di meraviglia o di compartecipazione
a quanto accade e solo questi potrebbe essere il cavaliere citato.
Che la Greppia sia stata trasformata in un semplice cassettone istoriato
e che il bue e l'asinello siano rappresentati in propor-zioni minori a quelle
che dovrebbero avere nella realtà ( appunto, quasi fossero delle statue
di presepio) non può meravigliare, data la diversa collocazione della
scena rispetto al racconto letterario di cui parlano i biografi.
Il perché di questo passaggio di luoghi, cioè dalla vera
stalla in un bosco, come narra la leggenda, all'interno di una chiesa, deve
essere ancora appurato con certezza. La ragione è da ricercare proprio
nel fatto di non voler scandalizzare eccessiva-mente la gente col far vedere
la crudezza con la quale San Francesco rappresentò la nascita di Cristo,
come era nelle sue intenzioni per rendere il più possibile realistica
la scena. Si voleva riportare il tutto all'interno dell'autorità
morale della Chiesa stessa e si era più vicini a quello che ormai
era il modo abituale di fare i presepi.
Un particolare interessante è quello del foglio attaccato alla
base del supporto sul quale si trova il codice aperto, illuminato tutto intorno
da candele: questo foglio reca in alto due sigilli mediante i quali è
fermato al legno. Si tratta certo di qualcosa di particolarmente importante:
la scritta presenta una serie di righe su due colonne inizianti tutte con
una lettera maiuscola (la Regola o la dispensa papale?) purtroppo lo stato
di conservazio-ne degli affreschi rende impossibile una lettura più
precisa.
Anche se questo è un particolare secondario, anzi, proprio per
questo, indica la volontà di rendere il più possibile realistica
la scena per chi guarda. In questo episodio la concezione in senso quasi
teatrale dei "luoghi deputati", quale appare ad esempio nella predica dinanzi
al Sultano, viene abbandonata quasi totalmente per creare un ambiente il
più possibile simile al vero.
Alcuni particolari sono poi di un realismo che noi diremmo quasi eccessivo:
per esempio la serie di incastri e perni che reggono il supporto del codice
e che ne permettono l'orientamento in varie direzioni o la parchettatura
posteriore alla tavola del Crocefisso. Soprattutto si vede uno studio maggiore
delle regole prospettiche proprio in questi particolari: ad esempio l'accuratezza
con cui è stata rappresentata la pendenza del Crocefisso, o la cornice
superiore dell'Iconostasi in cui i piccoli supporti che reggono la parte
superiore della cornice stessa sono visti a sinistra vedendosene il lato destro
ed a destra vedendosene il lato sinistro. È interessante notare che
quello che di questi piccoli supporti che si vede frontalmente, collocato
in maniera che non si possa scorgere alcuno dei due lati, non è esattamente
al centro ma è in corrispondenza, circa, dei due frati di sinistra,
più elevati degli altri, che cantano a voce spiegata e, in particolare,
dell'angolo superiore sinistro del riquadro sull'iconostasi posto dietro il
frate di destra.
Questa collocazione permette di spostare il punto di vista dal centro
della scena, portandolo in corrispondenza del gruppo di persone a sinistra
e lasciando vedere l'asta che regge il crocifisso non al centro ma a destra
del crocifisso stesso. Da ciò si può rilevare come la resa
prospettica dei vari oggetti non sia determinata assolutamente da alcunché
di casuale e sia stata realizzata cercando di identificare, forse per la
prima volta in una rappresentazione pittorica, un punto di fuga determinato.
Questo è collocato in corrispondenza del rigonfiamento posterio-re
della parete, piuttosto in alto, proprio in coincidenza di quello anzidetto,
o forse un po' più giù, nello spazio che sta tra le teste dei
frati e sopra la testa del personaggio col copricapo azzurro.
Infatti, delle donne, non si vede la parte superiore dei veli che hanno
in testa, mentre si vede la parte inferiore del supporto del codice da un
lato e la parte superiore dello snodo orizzontale che sta sopra di esso.
Ciò fa collocare la retta, lungo la quale si deve cercare questo punto
di fuga, sul piano orizzontale, proprio all'altezza della linea che passa
sopra i capelli degli uomini a sinistra e immediatamente sotto i veli delle
donne che stanno al centro, al di là dell'iconostasi; mentre verticalmente,
come abbiamo detto, corrisponde al rigonfiamento materiale della parete.
Tutta la rappresentazione non può in alcun modo ricordare quel senso
di povertà e di possesso di nulla che San Francesco volle dare probabilmente
in origine alla "sua" rappresentazione del Presepe. Basti guardare il ricco
tappeto al di quà dell'altare, i paramenti del sacerdote e quelli
diaconali, altrettanto ricchi di ornamenti di quelli di cui è vestito
il Poverello.
Seri gli abiti delle altre persone presenti, tutte vestite nei modi dell'alta
borghesia dell'epoca. In questa occasione sono relativamente frammisti chierici
regolari e religiosi dato che a sinistra, anche se più in alto degli
altri per poterne far vedere le bocche aperte, si trovano due frati. Proprio
da questo lato si vedono gli spigoli di un rialzo non ben determinato nella
sua funzione ma sul quale potrebbero essere questi due frati: probabilmente
si tratta degli scranni di un coro sui quali potrebbero stare in piedi anche
i due frati a destra. Sempre a destra sono anche altri due personaggi in
abito laico.
La compostezza di tutti costoro non permette di identificarli con certezza,
però a questo punto è evidente che non interessa tanto a Giotto
la ricostruzione della scena quale viene raccontata da San Bonaventura o
anche da Tommaso da Celano ma, principalmente, il ricordare come l'iniziatore
della tradizione del Presepe sia stato San Francesco.
È evidente quindi che, in quest'epoca, l'usanza è ormai
for-temente radicata presso la popolazione, almeno certamente dell'Italia
e quindi il pellegrino, venendo ad Assisi, poteva ricevere questo messaggio:
il Presepe era una tradizione francescana. Se si pensa che anche al tempo
di San Bonaventura quest'uso si era già rapidamente diffuso, si spiega
perché questi si preoccupi, in tutte le maniere, di citare un permesso
papale quando, come sappiamo, in molti casi l'origine delle azioni di San
Francesco veniva trovata direttamente in Dio. Si voleva ribadire che la tradizione
della rappresentazione del Presepe era accettata e ben vista anche dalla
Gerarchia Ecclesiastica, cosa che ne rafforzava anche il valore iconografico.
Molti dei nuovi modi rappresentativi francescani avevano trovato forti
resistenze in Italia e in Europa, e anche se l'attenzione degli studiosi
si è sempre puntata principalmente sul problema delle Stimmate, si
deve sempre tenere presente che il movimento francescano doveva creare un'iconografia
vasta quanto le sue nuove istanze.
Riassumendo, siamo di fronte a un dipinto in cui si abbando-na una struttura
in cui ogni elemento del racconto abbia un suo spazio o in cui, anche se
la concezione spaziale è unitaria, i protagonisti si suddividono in
gruppi quasi contrapposti. Un'unica concezione prospettica corrisponde a una
concezione della comunità cristiana unitaria, totalmente consonante,
anche nei modi e negli atteggiamenti umili e composti, alla più genuina
sostanza del francescanesimo e in cui la struttura compositiva riesce a inserirsi
in quella architettonica senza fratture fastidiose per chi guarda, proiettando
la scena, spinta in avanti dall'iconostasi retrostante, con un notevole impatto
psicologico. L'episodio, come il precedente con cui fa coppia, mette in
evidenza particolare la possibilità che aveva San Francesco di colloquiare
direttamente con Cristo in ogni momento.
Il beato Francesco ascendendo un monte in groppa all'asino di un povero uomo, poiché era infermo, per quest'uomo che si sentiva morire dalla sete, pregando, fece scaturire, da una pietra, dell'acqua che né prima vi era stata né poi fu più vista.
LM 7,12 - 2c 46 - 3c 15.
Il significato primo di questo affresco è abbastanza chiaro ed è
evidenziato dall'accostamento che si può fare con l'immagine evangelica
(Gv. 4,1 : 7,38) dell'acqua viva. San Francesco, quasi Alter Christus e come
Mosè, è colui che, intercedendo presso Dio, poté salvare
il contadino che lo accompagnava; proprio sulle capacità di intercessione
presso Dio del poverello d'Assisi, infatti, insiste San Bonaventura nella
Legenda Maior. Il messaggio che riceve chi guarda l'affresco è evidente:
seguendo San Francesco si potrà ricevere di quell'acqua viva e avere
salva la vita dell'anima, come ebbe salva la vita terrena il povero contadino
che lo accompagnava.
Nei due quadri precedenti si era visto quanto particolare fosse il favore
che il Santo godesse presso Dio, quì si sottolinea quanto potesse
la sua preghiera; anche più della sua parola, che aveva potuto scacciare
i demoni da Arezzo ma non era riuscita a penetrare a sufficienza nel cuore
del Sultano.
In questo caso San Francesco "chiede" a Dio una Grazia, sia pure non
per se, immediatamente concessa e il Santo viene presentato per la prima
volta, non solo come colui che è in grado, col suo esempio, di dare
la vita eterna a chi lo segue, ma anche come dispensatore a sua volta di
Grazie, per la possibilità che ha di farsi ascoltare da Dio, o meglio,
per il favore che Dio gli concede nell'ascoltarlo.
L'immagine di un Santo che, invocato, "fa" le Grazie, come dice la voce
popolare, è assai comune ed è raffigurata spesso, specie negli
Ex Voto; non ci si deve quindi meravigliare se anche San Francesco viene
presentato in una veste simile. Questa capacità gli è riconosciuta
mentre ancora era vivo, e non dopo morto, a riprova dell'avvenuta beatificazione;
in fondo al ciclo sono comunque presenti i tre miracoli post mortem necessari
per la causa relativa.
Ciò conferma che San Francesco viene rappresentato come il più
grande di tutti i Santi, che godeva di un particolare favore presso Nostro
Signore e che, ancora vivo, aveva già raggiunto e superato il punto
cui erano arrivati gli altri; riguardo questo specifico episodio, poi, è
evidente anche il possibile parallelo con Mosè che fa sgorgare l'acqua
dalla roccia per il suo popolo.
Nelle fonti letterarie l'acqua sgorgata dalla roccia scompare subito
dopo avere dissetato il contadino per accentuare il senso del miracoloso;
tutti gli autori sono concordi nel riportarlo con enfasi, quasi in esso
consista la cosa più meravigliosa: chiaro indice della mentalità
dell'epoca e riprova che il messaggio francescano, sia nelle fonti letterarie
come in quelle iconografi-che, non è basato su racconti di miracoli
ma sul tipo stesso di vita che San Francesco predicava e che nell'Ordine
e nella sua Regola aveva il massimo esempio.
Naturalmente, nel racconto di Giotto è considerato solamente il
punto centrale dell'episodio, mentre San Francesco prega e il contadino
si disseta; anche quì sono due frati, a testimoniare la veridicità
dell'accaduto e la presenza inscindibile dell'Ordine.
La struttura della composizione è simile a quella già vista
nel Dono del Mantello. Due monti, uno a destra e uno a sinistra, dividono
la parte superiore in due zone tra le quali una larga fetta di cielo si restringe
a V terminando con il suo vertice quasi in corrispondenza della figura del
Santo; in questo caso la sua figura non supera e non si colloca al centro
tra le due cime, né queste sono nettamente separate dalle figure
in primo piano.
Il monte di destra piega i suoi fianchi con due curve che accentuano
il passaggio dalla verticalità all'orizzontalità: la superiore
contribuisce a formare uno dei lati della V del cielo, passa sopra San Francesco
che ne copre solo un piccolo tratto con la testa e, divenendo sempre più
orizzontale, quasi congiun-ge il monte di destra a quello di sinistra: l'inferiore,
partendo dal lato destro del monte, passa sotto il Santo e dietro i due
frati a sinistra e, assieme all'altra, dà l'idea di un sentiero in
salita, con il passaggio graduale già notato dall'orizzontale al verticale.
Gli altri personaggi si trovano su piani distinti, un alto grado-ne separa
questa specie di sentiero da una striscia rocciosa orizzontale su cui si
trovano i due frati, striscia che, in avanti, si presenta anch'essa in verticale,
per indicare che la montagna, sotto, continua. Il contadino assetato beve
in una specie di triangolo che, compositivamente, occupa lo spazio tra il
sentiero, chiamiamolo così, dove si trova il Santo e la striscia rocciosa
dei frati con l'asino; triangolo ovviamente di roccia, più basso
del sentiero di San Francesco e un poco più alto del luogo dei frati.
Che la scena avvenga in montagna, tra dirupi e burroni, è sottolineato
dal fatto che le rocce terminano tutte con bordi taglienti e spigolosi in
cui le parti verticali sono ombreggiate assai più scure di quelle
orizzontali, come se su di esse non battesse il sole. Al centro si trova il
Santo, in ginocchio, tutto proteso verso il cielo nella sua preghiera: verso
l'alto, del resto, portano le sue braccia che seguono e ripetono, nel gesto,
l'andamento del monte in cui si trova.
Il fatto che la testa del Santo non si trovi nel vertice della V del
cielo (che per tale ragione non è situata al centro della composizione)
è voluto per evitare la sensazione di immobilità che ne sarebbe
derivata e per accentuare la tendenza all'alto della figura, con un evidente
accenno al cammino di perfezione che il Santo compiva. Anche l'alto gradone
che lo separa dai suoi frati e dal contadino trova evidente giustificazione
nella necessità di dare un luogo al Santo più elevato degli
altri benché sia in ginocchio.
In questo affresco prevale ancora la concezione secondo cui a ogni elemento
del racconto (il Santo, i frati, il contadino) va dato un luogo particolare:
non si tratta più di dare uno spazio separato ad ognuno, anche come
punto di vista, ma la composizione non è lo stesso del tutto unitaria.
Questo fatto, unitamente alle indispensabili analisi stilistiche, potrà
forse essere di qualche aiuto per una datazione precisa dell'ordine di esecuzione
del ciclo, anche se il piano generale dell'opera era stato determinato
sin dall'inizio anche nei dettagli.
Andando il beato Francesco a Bevagna, predicò a molti uccelli, i quali, agitandosi con gioia, stendevano i colli, battevano le ali, aprivano i becchi e toccavano la sua tonaca; e tutte queste cose vedevano i suoi seguaci che aspettavano sulla via.
LM 12,3 - 1c 58 - 3c 20 - Fior 16.
Se si vogliono considerare i quattordici affreschi centrali come sette
gruppi di due, l'episodio della predica agli uccelli deve essere abbinato
a quello dell'Acqua che Sgorga dal Monte per Dissetare il Contadino: tra
l'altro, entrambi sono posti all'interno della facciata, ai lati del portale,
esattamente a metà di tutto il ciclo. In entrambi San Francesco opera
meravigliosa-mente non tanto sugli uomini quanto su esseri o cose della Natura.
Non si può fare a meno di notare il singolare interesse per questa
che mostra il francescanesimo, specie confrontandolo con i secoli precedenti.
È evidente perciò che la Natura, in questo ciclo di affreschi,
non è introdotta solamente per l'attenzione che verso di essa mostrano
Giotto e i suoi, ma anche e soprattutto perché in tale direzione guardava
la nuova spiritua-lità francescana, e già da alcuni decenni!
La struttura è tale che la testa del Santo è situata quasi al
centro, mentre il corpo è spostato a sinistra, in maniera da staccarsi
dalle fronde dell'albero retrostante a lui e dal frate che lo accompagna,
all'interno di una curva formata dalla schiena di San Francesco che parte
da terra e si conclude nell'aureola; così il Santo, anche senza essere
al centro, ha il posto dovutogli dal proprio ruolo di protagonista.
Il Santo e l'albero all'estrema sinistra formano una grande arcata, quasi
una delle finestre della Basilica, e questo effetto viene rafforzato dal
fatto che tra le due figure si apre un vasto spazio aperto in lontananza.
In primo piano, sempre tra il Santo e l'albero, sono gli uccelli ai quali
predica San Francesco, negli atti e nei modi descritti dalle fonti letterarie.
Egli si china su di loro, protendendosi, ed essi si raccolgono verso
di lui in un gruppo che sembra più compatto di quanto sia per il
fatto che anche l'albero, chiudendosi su di loro, li "spinge" verso il Santo;
contrasta il frate a sinistra, con la sua verticalità, sottolineata
dagli alberi dietro. Una scena che accentua forte-mente la presenza e l'addensarsi
degli uccelli che vanno sotto la protezione del Santo.
Anche in questo affresco la composizione si snoda assai poco in profondità:
lo sfondo è lontanissimo e completamente separato, anche cromaticamente,
col suo azzurro dominante, dal primo piano tutto su colori di terra. Inoltre,
benché il frate partecipi alla scena, per sottolineare che si tratta
di un semplice spettatore, risulta in effetti estraneo alla struttura dell'immagine.
Quello che conta, insomma, è proprio San Francesco che predica agli
uccelli, e solo lui.
Per capire meglio questo episodio e perché uno degli elementi
del racconto, il frate, sia lasciato in disparte, bisogna considerare due
fatti: per prima cosa in tutte le fonti letterarie l'episodio è collocato
subito dopo che il Santo d'Assisi, interrogato lo Spirito Santo, decide di
darsi definitivamente alla predicazione, e quì, anche se si tratta
di esseri della natura, San Francesco sta effettivamente predicando; in secondo
luogo gli uccelli assumo-no un significato allegorico per il quale essi
rappresentano tutti i seguaci di San Francesco; tale collegamento è
evidente soprat-tutto nel racconto di San Bonaventura.
Una tale lettura dell'episodio può essere assunta come valida
solamente per le fonti letterarie e principali, dato che nel contesto degli
affreschi di Giotto non vi è accenno ai dubbi di San Francesco precedenti
questo episodio, che và, per tale ragione, letto in sé, come
tutti gli altri.
Non è necessario identificare questi seguaci con i soli frati,
la predicazione del Santo era rivolta a tutti e a tutti poteva applicar-si
l'invito di Gesù ad essere come gli uccelli del cielo.
Ciò che unisce questo affresco al precedente è un particolare
rilievo dato alla natura e alla sua obbedienza alla parola del Santo.
Non si può non andare col pensiero al suggestivo racconto dei
Fioretti, la cui prima fonte in latino, gli Acta, è opera di un trentennio
e più successiva a quella di Giotto, ma non si può affermare
in senso stretto che in questi si sia ripresa la scena giottesca come da alcuni
critici è stato detto.
Essi sono l'indice di un culto ormai diffuso e popolare già nel
'300 inoltrato, nel quale la Predica agli Uccelli aveva un posto particolare
tra le storie del Santo, come l'episodio precedente si prestava a suscitare
l'immagine del Santo che concedeva "grazie" a chi lo pregava devotamente.
Per inciso, il Fioretto XVI, quello che quì ci interessa, termi-na
facendo un esplicito parallelo tra i frati Francescani e gli uccelli dell'aria,
che, non possedendo niente, confidano in tutto nella Provvidenza e ciò
può confortare, in qualche modo, l'ipotesi di lettura che vedeva negli
uccelli i seguaci del Santo di Assisi.
Infine si può anche dare un certo rilievo al fatto che nell'episodio
precedente San Francesco ascolta chi, nel mondo, momentaneamente lo guidava,
mentre in questo è lui ad essere ascoltato da chi lo segue nel mondo
per essere guidato alla vita eterna; un gioco di contrapposizioni parallele
tutto medioevale, come si vede.
Anche se, da un punto di vista storico, questa osservazione esce dai
limiti cronologici di questa opera, si deve tenere presente l'influenza
che questo episodio ebbe nella creazione di un'iconografia popolare del
Santo d'Assisi.
Quando il beato Francesco impetrò la salute dell'anima a un cavaliere di Celano, che devotamente l'aveva invitato a pranzo, il quale, dopo la confessione e dopo aver regolato le cose di casa sua, mentre gli altri si mettevano a tavola, spirò improvvisamente e si addormentò nel Signore.
LM 11,4 - 3c 41.
Nel trattato dei Miracoli questo racconto è messo dopo un altro
riguardante un morto resuscitato perché possa confessarsi, e, in entrambi
i casi, Tommaso da Celano, oltre l'importanza della confessione e il particolare
merito di San Francesco presso Dio, ha l'intenzione di far vedere quale
merito acquistino coloro che accolgono i frati francescani e quanta grazia
ne possano ricevere. Invece, nel contesto della Legenda Maior, l'episodio
è collocato dopo un fatto in cui San Bonaventura si sforza di mostrare
lo Spirito di Profezia del Santo di Assisi "in occasione del suo viaggio
in Terra Santa" e le conseguenze disastrose per chi lo disprezzi; in entrambi
i casi San Francesco prevede il futuro, ma anche San Bonaventura sottolinea
il merito che ci si acquista accogliendo in casa i francescani; prova ne
sia che l'episodio successivo racconta della punizione in cui incorse un
canonico ingrato.
Si tratta di episodi tutti riguardanti, nella sostanza, il conte-gno
di benevolenza e fiducia che si doveva tenere verso il Santo di Assisi e
l'Ordine da lui fondato e volti a educare e istruire in proposito i pellegrini.
In questa raffigurazione Giotto ha diviso il riquadro a sua disposizione
in due parti: a sinistra si trovano San Francesco e il frate sacerdote che
era con lui: a destra il morto, circondato dagli amici e dalle donne di casa.
Le due parti sono divise dalla metà inferiore di uno dei due pilastri
che sorreggono un balcone, aggettante sulla tavola imbandita, dietro la quale
sono collocati il Santo e il frate che lo accompagnava.
I pilastri terminano incurvandosi in avanti con una mensola ad arco lobato
per sorreggere meglio il balcone e va notato che, sotto di questi, il soffitto
assume, all'interno, la stessa forma ad arco lobato delle mensole pur conservando
una decorazione a cassettoncini.
La cosa più curiosa è che il pilastro a sinistra non è
collocato all'estremità corrispondente del balcone ma un poco in dentro
rendendolo aggettante da questa parte, ma senza avere la sagoma lobata del
soffitto compreso tra i due pilastri. Il muro a sinistra, poi, prosegue con
le stesse decorazioni che troviamo sul pilastro, in alto e a metà,
ed è ornato da un motivo floreale. Questa disposizione sembrerebbe
strana se non fosse che lo spazio privilegiato formato dai due pilastri
e dal balcone, con la tavola imbandita, il Santo e il frate che lo accompagna,
non riesce esattamente a contenere la tavola stessa e la pedana su cui si
trova, tanto che il frate è tangente, otticamente, al pilastro di
sinistra.
In altre parole non si capisce perché il pilastro di sinistra
non si trovi all'estremità del balcone, chiudendo completamente la
metà del riquadro in cui si trovano il Santo e il frate.
Tutte le altre caratteristiche compositive rientrano in uno schema già
visto: sulla sinistra sta San Francesco, in piedi, per avere più rilievo
e al centro dello spazio compreso tra il bordo sinistro di tutto il riquadro
e una semicolonna che sporge dalla parete della Basilica; questa, coperta
dallo stesso colore azzurro uniforme del fondo e praticamente inesistente
da un punto di vista pittorico, assume così egualmente una funzione
strutturale.
Lo spazio privilegiato in mezzo al quale si trova il Santo non è
più quello delimitato dal balcone ma quello determinato dalla cornice
del riquadro e da questa semicolonna, entrambi elementi che non fanno parte
del dipinto.
A destra si trova il morto, circondato da donne coi capelli disciolti
in segno di lutto e da amici costernati. Tra questo gruppo e i frati funge
da elemento di collegamento un personag-gio che, indicando contemporaneamente
il Santo e il morto, attesta il miracolo e permette a chi guarda di connetter
i due momenti della scena.
Le mani del Santo e di questo personaggio, vicine e simili anche nel
gesto, sembrano dire e ribadire: ecco, guardate! Ma a proposito di costui
va notato anche che non si trova sotto la semicolonna, ma un poco spostato
a sinistra, quasi in corrispon-denza del pilastro del balcone, collocato
secondo la suddivisione solamente pittorica che vedeva lo spazio del Santo
limitato, sia lateralmente che sopra, da quest'ultimo; tanto è vero
che alcuni personaggi capitano anche sotto la semicolonna.
È come se il pittore non fosse riuscito a risolvere a pieno il
proprio problema e il risultato sia stato un compromesso non del tutto perfetto.
Il balcone, infatti, si trova tangente, prospettica-mente, alla semicolonna,
ma lo spazio che così delimita sotto di sé è forse troppo
spostato a sinistra. Per ridurre questo sposta-mento a sinistra e poter
collocare il Santo al centro tra la semicolonna e la cornice, il pilastro
di sinistra è stato messo all'interno, dato che evidentemente la semicolonna,
con la sua tridimensionalità, era sempre troppo evidente anche se
dipinta di azzurro come il fondo. Malgrado ciò, per non creare fratture,
il gruppo di personaggi a destra è stato egualmente portato sino al
pilastro del balcone.
Se ciò sia stato opera di correzioni effettuate durante le varie
fasi della realizzazione o di un'incetezza che sin dall'inizio abbia tormentato
il pittore non credo si possa sapere, ma certo questo è uno degli
affreschi meno chiari, dal punto di vista strutturale, dell'intero ciclo.
Un'ultima considerazione va fatta a proposito della compri-marietà
tra il Santo di Assisi e il morto: quest'ultimo, benché nel complesso
risulti "non centrale" per lo spettatore, gode di una serie di sguardi affisi
su di se che creano una struttura di linee ideali tese su di lui; in particolare,
con una drammaticità da collocare certamente ai più alti livelli
poetici, una linea unisce gli occhi della donna che lo sorregge con gli occhi
del morto, secondo lo schema caro a Giotto, ma questi sono chiusi: la linea,
il dialogo è a senso unico!.
Quando il beato Francesco dinanzi al Signor Papa e ai Cardinali predicò così devotamente ed efficacemente da apparir chiaramente che egli parlava non con dotte parole di umana sapienza ma per divina ispirazione.
LM 12,7 - 1c 73 - 2c 25.
Anche in questo episodio San Francesco mostra il suo spirito profetico,
e ciò non indica solamente la capacità di prevedere il futuro,
ma quella di parlare per impulso dello Spirito Santo.
Il fatto è riportato sia da Tommaso da Celano, in entrambe le
vite, sia da San Bonaventura, ma in quest'ultimo mescolato a una serie di
altri fatti miracolosi e presentato quasi come un miracolo anch'esso, dato
che, nella brevità del racconto, si sottolinea soprattutto che non
fu San Francesco, troppo intimidi-to, a parlare, ma lo Spirito Santo per
bocca sua.
In Tommaso da Celano il senso del racconto è la profezia e come
lo Spirito Santo aleggiasse sempre su di lui. Proprio lo Spirito Santo ispira
San Francesco a chiedere, e il Papa a dare, il Cardinale Ugolino come protettore
per l'Ordine. Il racconto ha così anche lo scopo di sottolineare la
fedeltà a Roma dell'Ordine Francescano e, al tempo stesso, ricordare
come tutto ciò che riguardasse la sua nascita e la sua costituzione
fosse stato già predisposto da Dio.
In Giotto l'episodio è rappresentato con molta precisione prendendo
un ipotetico momento durante la predica. Per valutare bene la scelta operata
dai frati e dai pittori nel voler rappresenta-re proprio questa scena, si
deve considerare che, all'epoca, era un grande onore predicare dinanzi al
Papa (c'era anche una carica di corte apposita) ed era il riconoscimento
di particolari virtù oratorie e di dottrina.
Il fatto che San Francesco, stando ai suoi biografi, abbia perso in un
primo momento la parola per timidezza e solo invocando l'Aiuto Divino l'abbia
recuperata non è neppure accennato e tutto l'episodio, quale viene
riportato da Giotto, non ha in sé nulla di miracoloso. Il San Francesco
che ne viene fuori, però, è quasi un dottore della Chiesa,
qualcuno che poteva insegnare al Papa stesso.
Forse un sottile invito a considerare relativamente autonomo l'Ordine
anche nel campo della dottrina? Proprio per questa ragione viene completamente
tralasciato l'accenno che fa Tommaso da Celano al modo di predicare del Santo
di Assisi, che si agitava e infervorava moltissimo, "quasi saltellando", mentre
è ben messa in risalto l'attenzione che il Papa e i Cardinali prestano
al Santo, anche se nessuno di essi piange come dice il racconto.
Due cose sono invece da notare: la prima è che tra i perso-naggi
si trova un frate, di cui nei testi letterari non si fa menzio-ne, perché
San Francesco non può più essere scisso dalla presenza dell'Ordine
da lui stesso fondato; la seconda è che il Santo indica se stesso,
apparentemente per sottolineare che l'argomento della predica dovesse essere
inerente alla propria persona o al proprio operato, in realtà per
indicare a chi guarda-va l'affresco che l'attenzione del Papa e dei Cardinali
era per lui.
Anche la struttura generale del riquadro contribuisce a questo effetto,
essendo formata da elementi palesi e bene identificabili: le colonne che
dividono lo spazio e le linee non tracciate, ma esistenti, che uniscono gli
sguardi del Papa e dei Cardinali agli occhi del Santo.
A parte alcune incertezze nel piedistallo del Papa questo è uno
degli affreschi in cui più coerente è la costruzione spaziale
e, se si vuole, prospettica. I personaggi sono all'interno di uno spazio
chiuso da un pesante drappeggio (usuale all'epoca con funzione di coibente
termico) tranne che anteriormente dove, comunque, due colonne lo limitano
dichiaratamente e assolvono contemporaneamente la funzione di assegnare al
Santo una sua "zona" distinta da quella del Papa. Questi, più centrale,
ricondu-ce con il suo sguardo, fisso negli occhi di San Francesco, al vero
protagonista.
I personaggi che non possono essere volti verso il Santo non guardano
neppure il Papa, ma sono raffigurati assorti in medita-zioni generate dalla
predica. Il Santo, infatti, non è al centro del semicerchio formato
dai Cardinali, ma alquanto spostato verso una delle estremità di questo,
quasi di lato ai due personaggi a lui più vicini. Forse per la loro
importanza, non era conveniente dipingere qualche curiale come nascosto e
poco visibile.
Il gesto di San Francesco che indica se stesso potrebbe avere anche un'altra
interpretazione: il Santo, cioè, starebbe quasi a dire, all'invito
di parlare:"Io?", mentre il Papa già si è messo attento per
ascoltarlo, ma questo contrasta con l'aria meditabon-da del frate e degli
altri due personaggi.
Una cosa ancora va notata, strana se si considera che la scena rappresenta
un concistoro: che una sola persona abbia la berretta cardinalizia, all'estrema
destra, e che, perciò il Cardinal Ugolino, che aveva portato San Francesco
al Papa ed era divenuto protettore dell'Ordine proprio per richiesta esplicita
di San Francesco, non può essere che questi. Si spiegha, così,
il suo posto, più basso di San Francesco e del Papa, ma collocato
comunque in una particolare delle tre "zone" in cui le due colonne dividono
il riquadro, del resto non si vede perché proprio in questa occasione
si sarebbe dovuto omettere uno dei personaggi essenziali al racconto.
Lo spazio è quì ormai fondamentalmente unitario e queste
tre zone non sono, come in altri affreschi di questo ciclo, probabil-mente
anteriori, tre "spazi" distinti ma solo una spacie di "effetto trittico"
dato dalle due colonne anteriori.
Predicando il beato Antonio (di Padova) nel Capitolo di Arles sul titolo della Croce, il beato Francesco, assente corporalmente, apparve e, stese le mani, benedisse i frati, come vide certo Monaldo: e gli altri frati ne gioirono immensamente.
LM 4,10 - 1c 48 - 3c 3.
Nella Vita Prima di Tommaso da Celano l'accento è sulla Croce: San
Francesco è descritto sulla porta, come se entrasse, sollevato in
alto e con le braccia aperte in forma di croce, in atto di benedire. Nel Trattato
dei Miracoli il frate che lo vede apparire, Monaldo, lo vede con le braccia
aperte, come crocifis-so e, sempre nel Trattato dei Miracoli, l'episodio
è collocato tra una serie di altri fatti tutti attestanti come San
Francesco portasse in se il segno della croce: è evidente il collegamento
col miracolo delle Stimmate. Nella Legenda Maior si pone l'accento sul fatto
che egli attestasse, con la sua presenza, la verità delle parole
di Sant'Antonio: una evidente esemplificazione che, spiritualmente, San Francesco
garantisce e certifica della predicazione di tutti i suoi frati.
In questo episodio, come nel seguente, il percorso che San Francesco
segue nella via della perfezione si completa e, poiché egli ha sempre
seguito Cristo imitandolo nei suoi limiti umani, è logico che quì
il Santo di Assisi sia ormai giunto a essere quasi un "Alter Christus" come
si conveniva a chi era destinato a sostenere e risollevare, con l'Ordine da
lui fondato, la Chiesa di Roma. Due sono, quindi, le possibili interpretazioni,
ma entrambe tra loro interdipendenti, poiché, sempre, San Francesco
è presentato quale Alter Christus, e come tale egli appare ai suoi
frati, quasi come Gesù apparve dopo la resurrezione ai discepoli riuniti
in suo nome.
La prima si rifà al racconto della Legenda Maior: San Bona-ventura
sottolinea il fatto che il Santo di Assisi sia garanzia delle parole di
tutti i supi frati quando questi predicano, e da questo punto di vista l'Episodio
potrebbe riallacciarsi al precedente, in cui San Francesco dà prova
delle proprie capacità predicatorie e del proprio spirito profetico
dinanzi al Papa.
In Tommaso da Celano, invece, specialmente nel Trattato dei Miracoli,
viene sottolineata la somiglianza anche morfologica con Cristo, e in questo
senso l'episodio è certamente visto come una anticipazione, quasi
un preannuncio del seguente, che è quello famosissimo delle Stimmate.
Si mostra che San France-sco progredì in un iter di imitazione e di
avvicinamento a Cristo, tanto da riceverne un premio mai concesso prima di
allora a nessun altro. È in questo secondo significato che va letto
l'affresco; del resto l'aspetto stesso di San Francesco, esattamen-te quale
lo descrive il Trattato dei Miracoli lo conferma, come conferma la suddivisione
degli affreschi centrali del ciclo in gruppi di due.
La Struttura è scandita dalle aperture delle due finestre e della
porta posta tra di loro, al centro. Sul vano della porta sta San Francesco
con le braccia aperte in forma di croce; la sua posizione tuttavia non è
all'estrema sinistra e corrisponde al muro laterale davanti al quale Sant'Antonio,
un poco più in basso, predica.
La presenza contemporanea dei due Santi, entrambi già famo-sissimi,
portò Giotto a cercare una soluzione di compromesso, che, senza
mettere in discussione la posizione centrale (in tutti i sensi) di San Francesco
per il suo Ordine, riservasse un posto particolare anche al Santo di Padova.
Tutti gli altri frati, seduti o accucciati a terra, sono collocati al
di sotto della linea di davanzale delle finestre, in vari atteggia-menti
di meditazione o attenti alle parole del predicatore. Il frate che ebbe la
visione alza il viso e, con gli occhi, ci porta diretta-mente a San Francesco,
gli sguardi di quasi tutti gli altri sono volti verso Sant'Antonio, tranne
quelli che, non trovandosi di fronte, dovrebbero essere figurati in una posizione
troppo storta e tranne il particolare realistico del frate, completamente
di spalle, che parla al compagno. In tal modo quasi di tutti si vede almeno
un po' di profilo del volto.
Fatto curioso: dove il tetto taglia il piano ideale del quadro la sezione
di questo è stata ornata come una cornice con un evidente scopo di
abbellimento; non si tratta di una tettoia esterna, che, anzi, è rappresentata
al di là delle finestre: di questa si vedono anche i pali che la
sorreggono ed è disegnata con le travi quasi verticali, per indicarne
la forte inclinazione.
In questo interno l'ambiente, verso destra, non ha un confine preciso,
ma lo spazio in cui si svolge la scena è limitato dal piano verticale
che idealmente poggia sulla rigida struttura geometrica della panca dei frati.
Sembra che Giotto non sia stato in grado (o non fosse ancora in grado) di
creare uno spazio chiuso unitario come nella predica dinanzi al Papa.
Rispetto ad altri affreschi va notato che le linee orizzontali della
parte alta (le travi del soffitto) e quelle della parte bassa (la panca,
il piedistallo di Sant'Antonio) convergono al centro, verso una linea di
orizzonte che dovrebbe essere collocata grosso modo in conicidenza con i
davanzali delle finestre. San Francesco si trova con il cordone poco al
di sopra di questa linea, Sant'Antonio poco al di sotto con la parte orizzontale
delle braccia, cosa perfettamente adeguata alla rispettiva importanza "gerarchica"
come santi.
Pregando il beato Francesco sulla costa del monte della Verna, vide Cristo sotto forma di Serafino crocifisso, che gli impresse nelle mani e nei piedi e anche sul costato destro le stimmate della Croce e dello stesso Signor nostro Gesù Cristo.
LM 13,3 - 1c 94/95 - 3c 4 - 3Cp 69 - AP 46 - LEE 5 - Cons.4.
Il riferimento per mettere a punto la struttura di questo episo-dio sembra
quasi siano state le Considerazioni sulle Sacre Stimmate, collocate alla
fine dei "Fioretti" di San Francesco. Tutte le altre fonti più antiche
non si soffermano in un racconto particolareggiato delle condizioni dei luoghi
e della successione di spostamenti materiali che il Santo di Assisi e i suoi
compagni effettuarono sul monte della Verna; anzi, pochissimi sono gli accenni
al come e al quando il miracolo sia effettivamente avvenuto.
Data la ritrosia di San Francesco a parlare e a mostrare quei sacri segni
si poteva riferire ben poco in proposito, perciò deve essere esaminato
attentamente il fatto che nei Fioretti, benché più tardi di
questi affreschi, ci si dilunghi tanto nel racconto del miracolo. Le due
casupole per il Santo e per frate Leone e la profonda spaccatura nel monte
che le divide sono elementi che noi possiamo ritrovare solamente nelle Considerazioni.
Supporre una discendenza di queste dall'affresco giottesco non è
possibile: non si vede perché si sarebbero dovuti inventare alcuni
particolari del racconto quali le casupole, frate Leone, la spaccatura, senza
alcuna necessità effetiva (soprattutto le due capanne) e senza un
"prima" e un "dopo" nel racconto stesso. Questo era integrato, come sempre,
dal titulus e dalle spiegazio-ni orali che si davano ai pellegrini raccontando
tutta la storia di cui la scena rappresenta il momento culminante. Sarebbe
bastato rappresentare San Francesco che riceve le Stimmate, senza aggiunte,
come più semplicemente narrano le fonti più antiche.
L'unica spiegazione è che Giotto e i frati di Assisi avessero
a disposizione altre fonti (una leggenda o un racconto orale?) da cui in
seguito furono tratti i Fioretti. Del resto, se si fosse voluto puntare
sull'effetto meraviglioso del miracolo, certi particolari sarebbero stati
inutili, e in tutto il ciclo niente sembra mai lasciato al caso! Il raffronto
con la tavola di analogo soggetto conservata al Louvre mostra come, anche
in questa, siano presenti le due casupole suddette anche se, forse per
ragioni di spazio, non è presente frate Leone; a riprova che, indipendente-mente
dal fatto che vi abbia messo mano Giotto in persona, si faceva riferimento
a una Legenda ben precisa.
Se fosse stato altrimenti, durante l'evidente procedimento di semplificazione,
necessario passando dall'affresco di Assisi alla tavola del Louvre, le due
casupole sarebbero state eliminate come elementi superflui.
Rimane comunque sempre da considerare la necessità di inserire
un testimone "durante" l'apparizione del Serafino crocifisso che rappresenta
il Cristo, sia per convalidare l'episodio narrato (come è anche in
quasi tutti gli altri episodi, anche prima della conversione), sia per attestare
la presenza dell'Ordine in un momento tanto importante della vita del Santo.
Il fatto che nell'affresco il frate legga e non guardi verso il miracolo
rende più probabile questa seconda ipotesi. Inoltre la tradizione
che vedeva sempre vicini a San Francesco i primi compagni ne viene certamente
rafforzata, il racconto delle Considerazioni parla, a proposito, specificamente
di Frate Leone. In nessuna fonte si fa riferimento a testimoni dell'accaduto
e in effetti il frate dell'affresco non è un vero teste, dato che
non sta guardando cosa accada.
Va notato, piuttosto, come le casupole cui si fa riferimento nel racconto
delle Considerazioni quì abbiano forma e struttura di piccole chiese;
in quella di sinistra si vede anche quello che sembra un paliotto d'altare.
Le due piccole chiese sono comun-que attribuite, palesemente, una per ognuno
dei due protagonisti, escludendo naturalmente il Serafino che, nell'affresco,
si identifica decisamente con Cristo. Si ricorderà che già
nell'episodio del Sogno del Palazzo Pieno d'Armi la voce misteriosa che esprimeva
la Volontà Divina era stata personifi-cata da Giotto in Cristo.
Riassumendo, il racconto delle Considerazioni è quello che maggiormente
si avvicina a questa scena e, se non si vuole ammettere l'esistenza di una
tradizione anteriore, dovremmo ipotizzare l'invenzione delle Considerazioni
derivata dal dipinto.
Si deve convenire che per poter giustificare la presenza di un altro
frate fosse abbastanza inutile mettere nell'affresco le due casupole, anche
se considerati luoghi sacri, e lasciare in disparte il compagno di San Francesco
tanto da non rappresentarlo neppure in maniera che guardi il miracolo. Si
tenga inoltre presente che le due casupole, agli occhi dei pellegrini, dovevano
sembrare, appunto, due luoghi sacri.
L'affresco non ha struttura simmetrica, ma le masse appaiono egualmente
ben bilanciate anche da un punto di vista tonale. Una linea verticale parte
dalla cima del monte e prosegue passando tra San Francesco e la casupola
alle sue spalle sottolineata, all'inizio, dall'andamento parallelo degli
alberi e finendo con una incavatura sull'orlo del precipizio che delimita,
dalla parte dello spettatore, lo spiazzo su cui sta il Santo. A sinistra
e a destra di questa linea appena percettibile si allarga il monte, a pan
di zucchero, semplificato al massimo. Il Santo è costruito seguendo
queste linee del paesaggio: verticale come la parete della casupola la schiena,
inclinato anteriormente, a destra per chi guarda, come il profilo del monte.
L'orlo della veste segue quello del precipizio, che va in dentro, curvando
con una serie di pieghe spezzate e tormentate come le rocce che si vedono
sull'iniziare del precipizio stesso. A destra, in basso, separato dalla spaccatura,
l'altro frate legge e medita dinanzi alla sua casupola.
In alto, nettamente stagliato contro l'azzurro intenso del cielo,il Serafino
crocifisso del racconto che quì ha decisamente il volto di Cristo.
Tanto più risalta questa immagine in quanto è tutta dipinta
in toni rossi e luminosi, richiamati dalla casupola dietro San Francesco
e da questa bilanciati, tonalmente nell'immagine. Del resto anche il colore
della tonaca del Santo viene bilanciato tonalmente dal Frate a destra, che
viene, così, a trovarsi inserito nel campo visivo di chi guarda senza
altro particolare accorgimento.
La cosa più evidente sono le serie di linee finissime che partendo
dalle piaghe delle mani, dei piedi e del costato di Cristo vanno a toccare
le corrispondenti mani, piedi e parte del costato di San Francesco. Poiché
il Serafino-Cristo e San Francesco sono l'uno di fronte all'altro, anche
se il Serafino è più alto, è logico che queste linee
si incrocino; anzi, quella che raggiunge il piede sinistro del Santo, non
in vista, passa dietro il Santo stesso.
Anche in quasi tutti gli altri riquadri linee ideali, non tracciate e
spesso indicate e originate dallo sguardo dei personaggi, fanno parte della
struttura del quadro, ma questo è l'unico caso in cui, pur senza essere
raggi luminosi, siano indicate.
Per capire questa struttura così poco naturale si deve tener presente
che il miracolo delle Stimmate era considerato ancora, al tempo di Giotto,
del tutto singolare ed eccezionale; sappiamo che vi furono grosse difficoltà
per farlo accettare anche da un punto di vista iconografico dopo la canonizzazione
del Santo.
Il miracolo era visto come la prova che San Francesco era un "Alter Christus"
con posto superiore e speciale rispetto a quello di tutti gli altri Santi.
È il momento culminante di tutto il ciclo, quando San Francesco raggiunge
il massimo di somiglianza al Signore possibile per un essere umano e ne riceve
l'attestazione esterna con le Stimmate; è la dimostrazione che l'Ordine
Francescano ha comunque una collocazione particolare nella storia della
salvezza essendo, nel mondo, il custode di una vera e autentica via di perfezione
e di imitazione di Cristo.
Il miracolo doveva essere espresso, anche pittoricamente, con la massima
chiarezza possibile, senza alcuna possibilità di equivoci: le Stimmate
di San Francesco erano l'immagine fedele e precisa, anzi, speculare, di quelle
di Cristo. L'Ordine è sempre e comunque presente ad attestare il
concetto di continuità tra il fondatore e i suoi frati, come in tutti
gli episodi seguenti quello dell'Approvazione della Regola. Tutto quello
che riguarda San Francesco e l'Ordine è santo, anche le casupole costruite
come riparo sul monte della Verna e che assumono quì forma di piccole
cappelle. Ormai il Santo ha raggiunto il suo vertice di perfezione terrena:
nel mondo spetterà all'Ordine di continuarne l'opera.
Come nell'ora del transito del beato Francesco un frate vide l'anima di lui ascendere al cielo sotto forma di stella fulgentissima.
LM 14,6 - 1c 110 - 2c 217 - 3Cp 68.
L'episodio, quale viene interpretato da Giotto, è differente dal
racconto delle fonti letterarie: è chiaramente diviso in tre zone
e rappresenta il momento esatto del trapasso dell'anima del Santo al Cielo,
quale viene descritto a cominciare dalla Vita Prima di Tommaso da Celano,
secondo le parole di un frate che raccontò di aver visto l'anima di
San Francesco salire "come una stella, grande come la luna, splendente come
il sole e trasportata da una candida nuvoletta".
Tutta la parte superiore della scena corrisponde a questa descrizione,
con l'aggiunta di dieci angeli di cui sei disposti simmetricamente, tre
per lato, da una parte e dall'altra dell'anima del Santo e gli altri quattro
che sorreggono un disco simile alla luns e splendente, con sotto una nuvola.
All'interno di questo disco si vede il Santo di Assisi, a mezzo busto,
che mostra le piaghe delle mani e del costato. In tale maniera più
che rappresentare l'anima di San Francesco Giotto ha ottenuto quasi l'effetto
di un medaglione dipinto, mostrato dagli angeli al popolo dei fedeli.
Nella fascia più bassa è collocato il corpo materiale del
Santo, circondato da undici frati in atteggiamenti diversi di dolore e di
compunzione, tra di loro uno bacia il piede sinistro di San Francesco e un
altro ne stringe la mano, sempre in pieno accordo al racconto della Vita
Prima di Tommaso da Celano. Perfetta-mente visibili sono anche le Stimmate
impresse nella mano destra e nei piedi; anche la ferita sul costato è
visibile attraverso un taglio oblungo nella tonaca.
La fascia centrale del dipinto è, tra le tre, la più densa,
riempi-ta da una folla di frati tra i quali uno con i paramenti sacerdotali.
Il perché di questa netta distinzione zonale va cercato nella preoccupazione
di chiarire che non vi furono eredi particolari di San Francesco ma tutti
i frati, presenti e assenti, dovevano considerarsi tali. Tommaso da Celano
è molto esplicito in proposito quando parla del destinatario della
benedizione che il Santo diede, ormai cieco, prima di morire e che qualcuno
aveva interpretato come diretta personalmente al solo frate Elia.
È evidente che se San Francesco aveva benedetto in frate Elia
tutti i suoi frati, neppure i suoi primi compagni potessero sostenere di
essere i soli e veri eredi di lui, o meglio, neppure chi di questi primi
compagni voleva farsi a sua volta erede; lo stesso discorso vale anche se
si considera il racconto della benedizione che San Francesco avrebbe dato
a Bernardo da Chiaravalle.
Questa precisazione, relativa alla benedizione, è importante perché
dopo la scomunica di frate Elia questo episodio scompare dalle leggende successive
alla Vita Prima di Tommaso da Celano, da cui viene sempre ripreso, però,
il resto della scena.
Ecco, dunque, che nella parte inferiore del riquadro sono stati rappresentati,
attorno al cadavere, undici frati, tanti quanti erano con San Francesco quando
la Regola ebbe la prima approvazio-ne papale, ma ecco anche che sopra di
loro è tutto l'Ordine, compunto e triste sì, ma anche numeroso
e vivo.
La struttura della composizione è quella di una chiesa e le tre
fasce in cui è divisa sono tra di loro assai meglio connesse di quanto
sembri in un primo momento. In alto è il Santo, come in un rosone
gotico; al centro, disposti a semicerchio, i frati e l'Ordine tutto, come
a formare un abside; sotto, il corpo del Santo e il primo nucleo dei fondatori,
come nelle cattedrali, in cui i corpi dei martiri e dei santi contenuti nelle
cripte sono i pilastri su cui trovano sostegno e fondazione non solo il Clero
e la Gerarchia ma la fede stessa del popolo.
Come nelle cattedrali in alto è la luce che simboleggia la Grazia
Divina e costituisce il riferimento della speranza di tutti. Anche se dipingendo
né Giotto né i frati di Assisi avessero pensato ad accennare
la struttura di una chiesa in questo episodio, i significati da cercare nelle
tre zone sovrapposte in cui è diviso il dipinto sono comunque gli
stessi.
Per entrambe le tre fasce ai lati si addensa un maggior nume-ro di personaggi
(gli angeli a tre a tre sopra, i frati a semicerchio in mezzo, i frati attorno
ai piedi e al capo del corpo) in modo che in corrispondenza della figura
di San Francesco, benché questa sia in orizzontale e piuttosto in basso,
si viene a creare un vuoto in profondità proprio al centro del riquadro,
anche e soprattutto perché si tratta del punto più cavo nel
semicerchio dei frati.
Così, la figura del Santo è proiettata in avanti acquistando
quella centralità nell'attenzione di chi guarda che gli compete.
Solamente un frate limita l'effetto e chiude l'immagine anche dalla parte
del riguardante, coprendo in parte le gambe del Santo, rendendo chiuso in
sé lo spazio della scena e impedendo che si apra verso gli spettatori:
in questa prima immagine di San Francesco morto debbono essere presenti solamente
frati, primi figli spirituali del Santo e suoi eredi.
Da notare infine come la scena divenga sempre più luminosa man
mano che si va dal basso verso l'alto passando dai colori bruni e caldi degli
abiti e del terreno all'alternarsi di tonache bianche e brune dei frati, officianti
e non, per terminare con l'azzurro freddo e profondo del fondo e i bianchi
brillanti degli angeli: dal colore della terra e della morte si passa così
al colore più vivo del cielo e della vita.
Ministro in Terra di Lavoro (Frate Agostino), infermo e prossimo alla fine e avendo già da tempo perso la favella, gridò e disse: "Aspettami, Padre vengo con te" e subito morto seguì il Padre Santo.
Il Vescovo di Assisi inoltre, essendo sul monte di San Miche-le Arcangelo, vide il beato Francesco che gli disse: "ecco vado in cielo".
M 14,6 - 2c 218/220.
Questo riquadro è unito a quello precedente formando l'ultima coppia
di episodi della serie centrale e, a sua volta, contiene due diversi fatti
miracolosi contemporanei alla morte di San Francesco a alla sua salita al
Cielo. In entrambi i casi si tratta di due visioni che ripetono, a distanza,
la visione del frate che ad Assisi vedeva l'anima del fondatore ascendere.
Il racconto di questi episodi è eguale in tutti i testi letterari
ed è sempre unito a quello della visione di questo frate; sia in questi
testi che in Giotto l'episodio della morte di San Francesco è completato
dalla citazione di coloro che videro miracolosamente e attestarono come
l'amima del Santo andasse in Cielo.
Sinora nella parte centrale di questo ciclo gli affreschi erano disposti
a coppie inerenti ciascuna un determinato aspetto della vita del Santo, ma
sempre narranti episodi staccati nello spazio e nel tempo; in questo caso
l'episodio è unico (la visione dell'anima che va in Cielo) in tre
luoghi distinti. Ciò spiega perché sia stato possibile inserire
due di questi luoghi in un unico riquadro. In poche parole il tempo è
unitario e lo spazio differenziato.
Si tratta anche del primo quadro in cui il Santo non compare più
col suo corpo materiale, anche se una così stretta unione logica
a quello precedente rende meno avvertibile per lo spettatore questo fatto.
Evidentemente era previsto con certezza che i pellegrini avrebbero seguito
il percorso stabilito.
Il Santo è stato già rappresentato morto corporalmente
mentre la sua anima va in Cielo e, in terra, l'Ordine da lui fondato rimane
a continuarne l'opera, a cominciare dai primi compagni per arrivare ai tempi
di oggi perché il fruitore, o meglio, lo spettatore di questi affreschi
fu considerato guardando al futuro a tempo indeterminato.
Dei due episodi rappresentati, simili ma distinti, uno, quello che occupa
lo spazio maggiore (e che per primo incontra lo spettatore se segue il ciclo
dall'inizio) è dedicato all'Ordine, il secondo alla Gerarchia del
clero secolare. L'ascesa in cielo di San Francesco fu così attestata,
al momento della morte, in tre luoghi distinti (e tre è il numero perfetto)
di cui due che testimoniano come "tutto" l'Ordine, sia chi fosse vicino al
Santo che chi ne fosse lontano, abbia partecipato al fatto e fosse erede
di San Francesco. Il terzo attesta come anche la Gerarchia Ecclesiastica fosse
stata chiamata a constatare, sempre miracolo-samente, la beatitudine di San
Francesco che ad Assisi visse e morì.
Fu proprio il Vescovo di Assisi che per primo accolse nelle braccia della
Chiesa come religioso, anche se in modo informa-le, San Francesco in occcasione
della rinuncia ai beni paterni; ora è solo, in una camera di cui si
vede un angolo, parte del soffito e, ma solo dall'esterno, un abbaino; ricchi
i drappi alle pareti, ricco il tappeto orientale che fa da scendiletto, ma
solo. La posizione ricorda quella del Papa nel sesto episodio, anche quì
il Vescovo che dorme veste in maniera da essere pienamente riconoscibile.
Per contro frate Agostino è circondato da molti confratelli che
lo assistono e si preoccupano per lui: l'Ordine è presente con tutti
i suoi frati sino al momento della morte, riaffermando così la sua
natura essenzialmente comunitaria. Del resto anche precedentemente, avuta
la prima approvazione papale, San Francesco è stato sempre rappresentato
assieme ai suoi frati.
Le differenze tra i due episodi si accentuano se si esamina la struttura
dell'affresco. Anzitutto bisogna notare come l'architettura dell'ambiente
in cui sono collocati i frati è, oltre che più grande, soprattutto
meglio descritta di quella in cui dorme il Vescovo di Assisi. La prima infatti
presenta agli spettatori due lati interni e uno esterno risultandone così
definita in tutti i suoi valori spaziali di larghezza e di profondità,
mentre il Vescovo è collocato in un angolo tra due pareti la cui
esten-sione laterale, a sinistra e verso lo spettatore (manca ovviamente
il lato che si dovrebbe trovare dalla parte di questi) non è precisata:ma
ciò che rende più "importante" (se così si può
dire) la parte dedicata all'episodio di Frate Agostino è il fatto
che questi non si trovi in una stanza o nella cella di un convento, ma in
un ambiente esplicitamente assimilato a quello di una chiesa, quella "forma"
di chiesa che nella scena della morte di San Francesco era data dai frati.
Anche in questo affresco viene affermata l'intenzione del pittore e del
committente di dare un insegnamento non solo ai pellegrini esterni all'Ordine
ma anche, e soprattutto, ai frati stessi. La loro testimonianza viene sempre
evidenziata e considerata, esplicitamente, più importante anche di
quella di un Vescovo. Conoscendo il rispetto che l'Ordine, per volontà
e a partire dal suo fondatore, ebbe sempre per la Gerarchia ecclesia-stica,
se l'affresco fosse stato pensato per degli estranei, la testimonianza di
un Vescovo sarebbe certamente stata considera-ta superiore o almeno pari
a quella dei frati stessi, da parte dei quali, in fondo, poteva essere data
per scontata.
Da un punto di vista strettamente tecnico va notato come le costruzioni
spaziali dei due luoghi citati siano divergenti tra loro, cosa che ne accentua
la separazione (spaziale, appunto, ma non temporale). Nel fare gli affreschi
si avevano ben chiari i concetti stessi di spazio e di tempo, basi indispensabili
per lo sviluppo dell'arte e del pensiero occidentali.
La parte più interessante di queste architetture è certamente
la superiore, risolta, decorativamente, con una serie di elementi tra cui
spiccano le statue di marmo in cima ai pilastri (tre, una quarta si suppone
occultata dal tetto) e le due scale con ringhiera che dalla copertura delle
due navate laterali portano a quella centrale di questa costruzione. Il campanile
sullo sfondo e le volte a crociera contribuiscono a loro volta a identificare
l'ambiente con una vera e propria chiesa.
Tutta l'immagine è verticalizzata dai pilastri della costruzio-ne,
stretti e sottili, per lasciar vedere meglio l'interno; anche i frati che
assistono frate Agostino sono tutti in piedi: quattro per lato, compresi
tra i pilastri e i muri laterali, e due al centro con frate Agostino. Da ciascuna
parte due dei frati sono "al di fuori" dell'ambiente architettonico, dalla
parte degli spettatori, contribuendo a fondere lo spazio di questa scena
con quello reale della Basilica.
È la prima volta, forse, che viene effettuato un simile tentati-vo
nella pittura italiana e mondiale.
La cosa è resa evidente perché lo "spazio" del convento
(o della chiesa) è chiaramente delimitato dalla sua facciata esterna,
come viene definita dagli elementi architettonici superiori. Anche se manca
la parete, artificio più volte usato da Giotto per far vedere l'interno,
tutti i personaggi dovrebbero essere al di là di questi due pilastri!
Ciò, tra l'altro, avvalora l'ipotesi già fatta che nell'episodio
precedente si fossero voluti lasciare "fuori" gli spettatori deliberatamente.
Si guardi ora ai piedi dei due frati citati; come si ricorderà
in altri affreschi (il Dono del Mantello ad esempio) i piedi non avevano
una direzione e una fruizione nella struttura; quì invece, specie
nel frate di destra, i due piedi che si vedono sono disegnati in maniera tale
da dare l'idea di arrivare quasi all'orlo di un gradino che dia nella Basilica,
contribuendo (non si dimentichi che lo spettatore è in basso) a proiettare
l'immagine da questo ipotetico orlo all'interno.
Infine, la fascia orizzontale del letto delimita una zona com-presa tra
detta fascia e le teste dei frati che è composta essen-zialmente di
movimenti non verticali ma orizzontali o inclinati, quasi tutti accennati
dalla posizione di frate Agostino stesso che viene così a trovarsi
in contrasto con l'accentuato verticalismo di tutta la scena.
Le braccia dei due frati sopra citati riprendono in parte questi movimenti
orizzontali, anzi, il frate di sinistra sembra invitare lo spettatore a guardare
l'avvenimento, aumentando così il senso di profondità che
dava questo "entrare" visivo all'interno dell'ambiente.
Si noti anche come la figura di frate Agostino risulti com-pressa nell'angusto
spazio rimasto disponibile tra le due colonne. La parte riservata al Vescovo
di Assisi non è portata in maniera così evidente verso lo spettatore,
mancando un elemen-to anteriore di riferimento come i pilastri, dato che
il cornicione superiore sembra partire addirittura da dietro il campanile
che è già assai arretrato.
Ciò riduce l'importanza di questo episodio assieme alla minore
imponenza di questo affresco determinata dal vuoto decorativo della scena
in alto, riempita da un semplice abbaino contro le statue, i gigli (quello
in cima alla cuspide), gli archetti sotto al tetto, l'architettura complessa
del convento dei frati. Viene così confermata l'intenzione di rispettare
sì la Gerarchia Ecclesiastica, ma di lasciarla in una posizione marginale
in quella che viene considerata, evidentemente, una cosa in gran parte "interna"
all'Ordine.
Giacendo alla Porziuncola il beato Francesco morto, messer Geronimo, celebre dottore e letterato, moveva i chiodi, e con le proprie mani frugava le mani e i piedi e il costato del Santo.
LM 15,4.
Il titulus stesso dell'episodio è, in questo caso, sufficiente-mente
esplicativo.
Il racconto, tra le fonti letterarie, si trova solamente nella Legenda
Maior di San Bonaventura e nelle più tarde Considera-zioni sulle
Sacre Stimmate che chiudono i Fioretti.
L'unica cosa che si possa rilevare in queste Legendae è il paragone
tra questo Dottor Gerolamo e San Tommaso, ovvio se si considera il fatto
che entrambi mettono le proprie mani in delle piaghe, ma che non fa che rinforzare
l'immagine di San Francesco come Alter Christus.
Viene testimoniato quello che è il primo e il più grande
tra i miracoli del Santo, o meglio, che riguardano il Santo; è così
chiarito come le Stimmate non furono accertate solamente sulla base di testimonianze,
ma da quello che finisce per essere un vero e proprio referto medico.
Il Dottor Gerolamo del racconto viene presentato in maniera assai positiva
sia come uomo di scienza che come uomo di fede (e cosa di più che
essere paragonato a un apostolo?) , ma agisce, in ultima analisi, per rendere
testimonianza sia per sé che per gli altri.
Non si deve dimenticare che il miracolo delle Stimmate, se da un lato
pone San Francesco, simile a Cristo, al di sopra di qualunque altro santo
precedente, d'altro canto era difficilmente accettato da molti proprio per
questa sua singolarità, quasi fosse un onore veramente eccessivo per
un uomo.
In qualche caso subentrava anche una sorta di "invidia" che il culto
di altri santi, ora nettamente declassati nella mentalità popolare
dell'epoca, poteva suscitare.
È ovvio che il primo dei sette affreschi della terza e ultima
parte di questo ciclo, tutto dedicato alla sepoltura e alla canoniz-zazione
di San Francesco, fosse destinato a testimoniare proprio le Sacre Stimmate.
Sembra eccessivo che a degli episodi accaduti dopo la morte fisica di
San Francesco si sia deciso di dedicare una parte così lunga di tutto
il ciclo, ma si tenga conto che l'Ordine prosegue l'opera e l'azione del suo
fondatore e parzialmente, in un certo senso, con lui si identifica.
All'epoca, si dava grande importanza sia ai fatti miracolosi sia alle
cerimonie formali e quest'ultima parte della vita formalizza la Santità
di Francesco d'Assisi e al tempo stesso definisce, per i secoli a venire,
la Santità dell'Ordine.
Lo schema compositivo ricorda quello di altri affreschi già esaminati:
in particolare si nota la somiglianza con l'episodio del Presepe di Greccio
per la presenza, nella parte superiore dell'affresco di una trave dalla quale
si sporgono in avanti un Crocifisso, al centro, e due tavole con immagini
sacre ai lati: una Vergine con Bambino a sinistra e San Michele a destra.
La differenza con la scena rappresentata nel "Presepe" è che in
questo caso le immagini non sono viste da dietro ma dal davanti.
Se, come si può supporre, si tratta della trave che sorregge l'iconostasi
è ovvio che il corpo del Santo sia collocato al di fuori di questa;
cosa anche liturgicamente plausibile dato che ancora oggi sono stabilite
precise distanze minime al di sotto delle quali la presenza di un cadavere
profana l'altare (come accostare un morto all'Eucarestia che è vita
eterna?).
Nell'episodio di Greccio la scena si svolgeva durante la consacrazione
e perciò al di là dell'iconostasi stessa.
In questo caso l'iconostasi non è costituita da pannelli di legno
ma, come accadeva più spesso, da una tenda evidentemen-te rimossa
per permettere al sacerdote di benedire la salma.
La trave taglia orizzontalmente in due il quadro e l'azione si svolge
completamente nella parte inferiore.
Benché la scena si svolga in una chiesa e siano presenti vari
laici, non ci sono donne, al contrario di quanto rappresentato nella scena
del Presepe.
Come nell'episodio della morte del Santo e della visione di frate Agostino,
l'orizzontalità del corpo rispetto i personaggi che stanno in piedi
lo separa e lo rende al centro dell'attenzione per lo spettatore.
Solamente il Dottor Gerolamo si distingue un poco dalla verticalità
degli altri sia perché è inginocchiato, sia perché
interrompe a mezzo la linea del corpo di San Francesco forman-do, con questo,
un unico gruppo.
Il suo sguardo non è diretto al viso ma, come è ovvio,
al costato del Santo nel quale mette letteralmente una mano mentre con l'altra
apre la veste.
Data la sua posizione isolata, lo spettatore è subito portato
a guardare con lui verso quella piaga messa così bene in vista.
Questo isolamento è accentuato dal fatto che tutti gli altri personaggi
sembrano più intenti a portare a termine la cerimonia funebre che
ad osservare la scena; infatti Giotto (o il suo gruppo) questa volta ha ideato
una folla concepita come tale, con una serie di atteggiamenti, di sguardi,
di posizioni diverse che nel complesso non si distinguono tra di loro.
Interessante la posizione del cavaliere sulla sinistra che assai elegantemente
inclina il corpo con scioltezza in direzione opposta a quella delle rigide
aste sorrette dai chierici dinanzi a lui: lo studio del panneggio svolazzante
visto da dietro e la posizione dei piedi messi in prospettiva farebbero pensare
quasi a un personaggio dipinto (o meglio ridipinto) almeno un centinaio di
anni dopo, come del resto le tracce di volto visibili dietro l'immagine dell'Arcangelo
Michele.
Le turbe che si erano adunate, trasportando alla città di Assisi, con rami secchi e gran numero di ceri accesi, il sacro corpo fregiato delle celesti gemme, lo presentarono a vedere alla beata Chiara e alle altre sacre vergini.
LM 15,5 - 1c 116/117.
Questo episodio è descritto solamente nella Vita Prima di Tommaso
da Celano e in quella di San Bonaventura.
Collocato da Tommaso all'interno di una chiesa è stato spo-stato
da Giotto all'esterno, probabilmente per fondere assieme il racconto del
trasporto della salma con quello del pianto delle clarisse: è questo
d'altronde l'unico episodio in cui compaiono delle suore. Gli onori che la
città di Assisi tributa al concittadino sono paragonati a un trionfo,
anzi, all'ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme.
Anche se avviene dopo la morte del Santo e non prima, era doveroso che
nel ciclo apparisse almeno una volta il secondo degli ordini francescani,
tanto più che il fatto, pur non avendo in sé nulla di miracoloso,
come molti altri di questo ciclo, riveste sempre un carattere di eccezionalità
dato che la rigida clausura fu rotta, come sottolinea Tommaso da Celano,
questa sola e unica volta e si richiuse poi per sempre.
La scena è situata davanti a una chiesa gotica assai simile a
un'architettura arnolfiana ed è strutturalmente divisa in due dallo
spigolo sinistro (per chi guarda) della chiesa stessa. Le suore (il termine
sorella è usato già da Santa Chiara) piangenti sono collocate
a destra, la folla che trasportava il Santo a sinistra; esse escono dalle
porte della chiesa quasi tutte col capo inclinato verso il Santo e con gli
sguardi volti verso il viso di lui.
Si forma così una fitta rete invisibile di linee tese tra gli
occhi delle suore e gli occhi chiusi del morto; non è certo la prima
volta che vediamo Giotto unire con linee ideali i visi dei vari personaggi
inserendole nella struttura dei suoi affreschi.
Questo mezzo serve a indicare, anche agli analfabeti, i dialo-ghi che
si svolgono e a indirizzare i loro sguardi ai punti focali del quadro, ma
quì il dialogo è muto: il Santo non risponde, i sui occhi sono
chiusi. Il senso della morte e con esso il sentimento del dolore non potevano
essere espressi più intensamente. Un simile espediente era già
stato usato nella Morte del Cavaliere di Celano.
Santa Chiara più delle altre si china verso San Francesco e quasi
lo abbraccia o lo scuote come fosse vivo, il suo sguardo è il più
intenso, ma anche esso senza risposta. Questa intensità viene sottolineata
da Giotto con la vicinanza dei volti e con il loro parallelismo, con il ripetersi
quasi speculare della forma dei cappucci sulle teste e sul collo; anche
il profilo della tonaca del Santo corrisponde al profilo inferiore del cappuccio
della Santa.
Il loro dialogo, anche se muto, è privilegiato: si forma quasi
un triangolo all'interno del quale si esprime il rapporto particola-re che
legava i due. Si tratta di uno spazio riservato, sottolineato dalla sua struttura
autonoma rispetto a quella generale.
Più lontane, le altre suore hanno nel capo e nel volto la stessa
inclinazione e la stessa direzione dello sguardo di Santa Chiara, estendendo
a tutto il loro Ordine il dolore e i sentimenti di questa.
Una di loro, piegata sul corpo, ne bacia le Sacre Stimmate proseguendo,
strutturalmente, verso destra la Santa stessa con eguale inclinazione ed
evitando che rimanga un vuoto composi-tivo dietro di lei; a raccordare il
profilo inclinato di questa suora con la verticalità delle linee superiori
servono le pieghe e i panneggi di quella retrostante.
Decisamente orizzontale, il corpo di San Francesco è irrigidi-to
nella morte con un effetto accentuato dalla barella su cui è trasportato
e dal drappo che la ricopre e ne pende; il tutto viene ad essere una massa
estremamente pesante e compatta all'occhio. Anche alcuni degli sguardi della
folla a sinistra convergono verso il Santo ma gli atteggiamenti sono assai
più vari anche se sempre composti.
Lo spettatore è portato ad accrescere la sua attenzione verso
San Francesco più che altro dalla posizione china dei tre personaggi
attorno alla sua testa: di questi, quello volto verso di lui non solo si
mostra completamente di spalle, ma è anche occupato a chiamare qualcuno
più addietro.
Si tratta certamente di un Magistrato come dimostrano le code di ermellino
che pendono sulle sue spalle; altri magistrati si notano tra la folla. Giotto
ha voluto rappresentare, come fu nella realtà, i maggiori della città
a capo del popolo. I frati, in questa occasione, occupano uno spazio minore
e si notano per i lunghi ceri che portano proseguendo, dalla loro parte,
il verticalismo delle guglie.
Questo atteggiamento così poco "disperato", specie se con-frontato
con quello delle suore a destra, è facilmente spiegabile in un'ottica
cristiana: la morte del Santo corrisponde alla sua gloria in cielo ed è
per questo che alcuni portano delle palme con sé. Ispirandosi alla
forma di queste palme Giotto risolve anche il problema di dover riempire
la parte di cielo che rimaneva vuota sopra la folla, tanto più vuota
se viene paragonata alla ricca decorazione della chiesa.
A destra, un grande albero si apre a ventaglio e su di esso, ripetendo
un antico "topos" classico, si arrampica un fanciullo. Questa scena e quella
delle palme ricordano da vicino il racconto dell'ingresso di Gesù
a Gerusalemme assimilando a questo la gloria che la città riconosce
al suo grande Santo.
Si può notare infine come anche in questo affresco l'immagine
sia divisibile con una croce: orizzontalmente la linea "superiore" delle
teste della folla corrisponde, circa, all'architrave della porta centrale,
mentre quella "inferiore" corrisponda a quelli delle porte laterali; un
criterio di simmetria prevale sempre.
Quando il Signor Papa (Gregorio IX) venendo di persona alla città di Assisi, esaminati diligentemente i miracoli, dietro testimonianza dei suoi frati, canonizzò il beato Francesco e lo iscrisse nell'albo dei santi.
LM 15,7 - 1c 123/126 - 3Cp 71 - AP 46/47.
Questo episodio racconta la solenne canonizzazione di San Francesco avvenuta
ad Assisi il 16 luglio 1228.
Nel titulus stesso viene ricordata l'importanza delle testimo-nianze
dei frati durante il processo ed è quasi superfluo ricordare che
in tutti gli episodi della prima e della seconda parte del ciclo sono presenti
sempre dei testimoni oculari; in particolare, nella seconda parte questi
testimoni sono sempre dei frati.
Le fonti letterarie non si dilungano molto nella descrizione della cerimonia
eccetto la più antica, la Vita Prima di Tommaso da Celano in cui all'avvenimento
è dedicata un'intera sezione del racconto, dato che fu scritta proprio
su mandato di Gregario IX.
I particolari storici e i riferimenti a fatti contemporanei, cer-tamente
assai ben noti a tutti (i tumulti a Roma suscitati quell'anno da Federico
II di Svevia), sembrano quasi voler collocare questa canonizzazione in un
discorso più ampio.
Viene ricordato come il Papa andasse e venisse più volte da Perugia,
preso da problemi assai più gravi di altra natura, quasi che Tommaso
da Celano abbia voluto rilevare la volontà di Gregorio IX nell'affermare,
con questa canonizzazione, che l'Ordine Francescano fosse realmente il più
saldo appoggio per la Chiesa in quei tempi difficili.
L'affresco di Giotto non ha ricordo di quegli avvenimenti che portarono
il Papa a Perugia e ad Assisi e la cosa in sé è com-prensibile:
dopo circa settantacinque anni le passioni di allora si erano certamente
sopite; altre e nuove agitavano gli animi.
Già nella Legenda Maior di San Bonaventura la canonizza-zione
del Santo è trattata quasi di sfuggita, come fatto ovvio.
Questo affresco ha la struttura impostata su di un grande baldacchino
rialzato e coperto sul quale non si trova nessuno; la funzione di questa
costruzione è separare tra loro i vari gruppi di partecipanti alla
cerimonia. Lo spigolo destro di questo baldac-chino (quello più lontano
dallo spettatore) divide a metà il quadro quasi per tutta la sua altezza.
Sotto, tra i due pali che lo reggono, sono rappresentati i frati, dinanzi
ai quali è un alta-re.Dalla parte destra si trovano il Papa, un cardinale,
un vescovo e un frate; sotto di loro molte donne, strette e con molti bambini
piccoli, dietro di loro una folla di notabili. Le donne come abbiamo già
notato, in quest'epoca erano usualmente separate dagli uomini nelle cerimonie
religiose.
Dal racconto di Tommaso da Celano è anche ripresa la dispo-sizione
dei personaggi più importanti: si vedono infatti il Papa e alla
sua sinistra un Cardinale, un Vescovo e un Abate, nello stesso ordine in
cui, gerarchicamente, Tommaso da Celano li nomina accanto al Pontefice.
Certamente è presente un ricordo del primo racconto di Tommaso da
Celano, così vivo e dettaglia-to, ma i personaggi sembrano essere
stati inseriti nello spazio del quadro con una sorta di "horror vacui" che
è estraneo altri affreschi. La linea mediana, corrispondente al pavimento
del baldacchino, è segnata all'esterno di questo con un tratto nero,
ed è sulla stessa linea delle teste dei personaggi seduti accanto
al Papa, ma il gruppo dei notabili che si trova dietro rompe questa sensazione
e si espande senza riferimenti a qualsiasi struttura.
Il quadro "taglia" fuori le folle, quasi che il pittore volesse far entrare
nel campo visivo più di quello che potesse effettivamen-te. Manca,
sostanzialmente, il rispetto di quell'ordine strutturale che il grosso e
geometrico baldacchino voleva probabilmente dare a tutta l'immagine, come
se il quadro fosse stato impostato in una maniera e finito in un'altra da
qualcuno che non fosse in grado di comprendere le primitive intenzioni. Potrebbe
essere questo il punto in cui Giotto cominciò ad abbandonare i lavori.
Dubitando alquanto il Signor Papa Gregorio della Piaga del Costato, il beato Francesco gli disse in sogno: "dammi una fiala vuota" e, avendogliela data, fu vista riempirsi del sangue del costato.
LM 1M,2.
La funzione di questo episodio è evidentemente quella di chiudere,
con un esempio miracoloso e indiscutibile, la serie degli affreschi che mostrano
la morte e la canonizzazione di San Francesco. L'attestazione autorevole
della verità delle Sacre Stimmate che venne dallo stesso Gregorio IX
conferma anche, automaticamente, la grandezza del Santo e la giustezza sia
degli onori a lui attribuiti che della sua canonizzazione. Al tempo stesso
le stimmate, già in se un miracolo, fanno di San Francesco il più
grande dei Santi e rendono lecita l'iconografia della sua immagine che l'Ordine
andava diffondendo nella propria espansione. Per tale ragione non è
evidentemente necessario che in questi ultimi riquadri compaiano altri frati.
Ormai San Francesco è morto e costituisce un punto di rife-rimento
per chi è dopo di lui, ma non c'è più bisogno di dimostrare
che il compito principale della sua esistenza e, assieme, la sua più
grande opera sia stata la fondazione dell'Ordine Francescano, da cui sinora
è stato presentato inscindibile. Contemporaneamente questo è
il primo di una serie di miracoli che mostrano la grandezza del Santo e,
soprattutto nei tre seguenti, come la sua potenza continui a operare nel tempo
indipendentemente dalla morte fisica. Sotto questo punto di vista il riquadro
funge da collegamento tra i tre che lo precedono e i tre successivi.
Non meraviglia, inoltre, che l'unica fonte letteraria che riporti questo
miracolo sia la Legenda Maior di San Bonaventura; la preoccupazione di questi
di mostrare il pieno accordo tra l'Ordine e la Gerarchia Ecclesiastica viene
certamente soddisfat-ta dal far vedere che le Sacre Stimmate, il miracolo
più grande e la dimostrazione di San Francesco come Alter Christus,
furono proclamate proprio da questa.
Al tempo stesso, ancora una volta, è un intervento celeste a spingere
la Gerarchia a prendere la decisione giusta o ad assicurarsi in essa, e si
ribadisce così il concetto che l'Ordine francescano nasce anzitutto
da una Volontà Divina più che umana. Tra l'altro anche tra
i Miracoli che sono elencati alla fine della Legenda Maior questo episodio
ha una posizione particola-re, essendo il primo di una serie e venendo subito
dopo la fine della prima parte dedicata all'esaltazione delle Sacre Stimmate,
fungendo così da raccordo tra questa e gli altri miracoli della narrazione.
Da un punto di vista strutturale la scena si svolge entro uno spazio
ben definito da tutti i lati, compreso il soffitto a cassettoni per la profondità
e la larghezza con le sue linee precise e regolari: se i cassettoni sono
stati immaginati come quadrati (ed è difficile che non sia così)
il rapporto tra larghezza e profondità di questo spazio pittorico è
di 8 a 2, assai meno largo che alto. Quanto sia questa altezza è difficile
determinarlo ma, ad occhio, guardando all'altezza del Santo, circa due volte
la statura di un uomo. Apparentemente, perciò, lo spazio è
stato dipinto come troppo poco profondo; nel riquadro in cui il Papa riconosce
la prima regola dell'Ordine, ad esempio, le proporzioni erano assai più
verisimili, e questo benché la critica quasi tutta riconosca questo
affresco più tardo ma sempre dovuto, nel disegno e nell'ideazione
almeno, ancora a Giotto medesimo.
Tuttavia bisogna notare come la compressione che ne deriva in profondità
"spinge" tutti i personaggi verso lo spettatore aumentando l'impatto della
scena verso di lui.
Per il resto tutto è costruito su due linee essenziali: una oriz-zontale
e una verticale. Quella orizzontale è indicata dal bordo del letto
e dalle teste dei quattro personaggi accoccolati a terra; quella verticale
dal Santo e dal secondo da destra di questi personaggi: ovviamente questa
linea verticale è centrale. Altre linee orizzontali e verticali si
sviluppano parallele a queste (interessante quella determinata dal contrasto
tra il cassettone azzurro e il letto rosa).
Il letto con il Papa che dorme è tutto spostato sulla destra,
anche se bene in evidenza, essendo questi decisamente più alto di
tutti gli altri personaggi a esclusione di San Francesco; ne è causa
la necessità di mettere il Santo al centro e contemporane-amente evidenziare
la realtà della "comunicazione" che avvenne nel sogno tra il Santo
e il Papa con il gesto delle mani che quasi si toccano. Questo gesto, data
la posizione reciproca dei due personaggi, non può che esprimersi in
diagonale, lasciando per forza il braccio del Papa più a destra di
quello di San Francesco, tanto è vero che per annullare il conseguente
effetto di vuoto sulla sinistra Giotto concentra tutta l'attenzione di chi
guarda a destra servendosi di un baldacchino sospeso.
Molto bello, a proposito di questo, il sistema di corde tese che lo sostengono
e che formano, a sinistra, una elegante struttura aerea: ancora da notare
è la stoffa, vista, per la prima volta, da entrambi i lati, e una
simile soluzione tecnica è certamente ardita quanto la creazione di
un nuovo artificio prospettico. Interessan-ti, infine, sono i disegni, tutti
tra loro assai simili, che riempiono il pavimento di mattonelle, il cassettone
dipinto (non ha nulla che indichi la morbidezza di un tessuto), il letto,
i drappi che coprono le pareti e, in alto, le pareti stesse.
Manca quì, del tutto, qualsiasi spazio libero da ornamenti e uniforme
(in genere tali spazi sono il cielo o azzurri come il cielo) e questo aumenta
la sensazione di strettezza che dà l'ambiente rendendolo contemporaneamente
omogeneo anche da un punto di vista stilistico.
Il beato Francesco, sciogliendo con le sue mani e toccando soavemente le ferite, all'istante risanò perfettissimamente Giovanni da Ylerda colpito a morte e spacciato dai medici ma che lo aveva devotamente invocato all'ora del ferimento.
LM 1M,5 - 3c 11/13.
È questo il primo dei tre miracoli che chiudono il ciclo e che
servono a testimoniare la potenza e la grandezza del Santo di Assisi anche
dopo la morte. Almeno tre sono anche i miracoli chiesti, normalmente, durante
un processo di canonizzazione perché si potssa proclamare un Santo.
Un cavaliere, colpito a morte per errore in un agguato, viene risanato
da San Francesco: si vuole evidentemente indicare che, invocandolo, si potevano
ottenere guarigioni e miracoli prodi-giosi e se ne porta un esempio preciso.
Il fatto è riportato solo nella Legenda Maior, tra i miracoli che
attestano la potenza delle Stimmate: è infatti il contatto con le piaghe
delle mani che guarisce il cavaliere catalano. La costruzione spaziale è
forte-mente unitaria e relativamente originale rispetto agli altri interni
dello stesso ciclo. È questo uno dei motivi per cui la critica attribuisce
quest'ultimi tre affreschi a un maestro diverso da Giotto. A parte, infatti,
la maniera di definire le figure, quì molto più eleganti ma
anche meno solide, si può notare come la ripartizione dello spazio
in più parti non corrisponda all'andamento descrittivo della scena.
La stanza dove giace il malato è divisa simmetricamente da due
esili colonnine in tre parti, una centrale di base quadrata e due laterali,
molto meno larghe e altrettanto profonde; quella centrale, inoltre, si alza
al di sopra delle due laterali. Nella parte sopraelevata si aprono delle finestre.
Una delle spranghe dalle quali pendono le cortine del letto sottolinea questo
rialzo, mentre due parapetti riempiono parzialmente il vuoto del cielo ai
lati.
Ora, in tutti gli altri affreschi del ciclo Giotto ha sempre collocato
ogni elemento del racconto in una zona a sé, costruen-do spesso,
per ognuna di queste zone, lo spazio in maniera differente: quì invece,
benché la scena sia tripartita, il racconto evviene in due fasi sole:
da una parte un medico, la moglie e un familiare, dall'altra il malato e
San Francesco assistito da due angeli.
Le due colonnine tagliano entrambi questi due gruppi, anzi, quella di
destra copre parzialmente proprio il Santo, in modo che i personaggi che
più spiccano, pur senza essere protagonisti in alcun modo (mancano
nel racconto letterario), sono proprio i due elegantissimi angeli. Anche
a sinistra le due figure maschili sono parzialmente coperti dal raffinato
e studiato drappeggio di una tenda.
È così confermata quella più minuta capacità
narrativa che il differente autore (o i differenti autori) di questi ultimi
riquadri manifestano, e che già la critica aveva evidenziato come
una delle sue caratteristiche stilistiche. Questi mostra di non aver compreso
a pieno né il significato delle costruzioni strutturali e spaziali
del maestro né il valore della sua massiccia maniera di formare i
personaggi, che impongono, insieme, la realtà della propria figura
e il senso storico della propria esistenza.
Ciò nonostante è evidente che anche questo affresco si
inseri-sce organicamente nel disegno originario di tutto questo ciclo: il
soggetto certamente, anche se l'ideazione della struttura non può
essere fatta ascendere alla mente di Giotto come negli altri ne, tanto meno,
l'esecuzione. Le Stimmate, il più singolare dei miracoli riguardanti
San Francesco, sono così confermate e assumono un valore che va oltre
la vita di questi, permanendo nel tempo come fonte di grazia.
Il beato Francesco risuscitò questa signora morta, la quale dopo aver fatta alla presenza di chierici e di altri la confessione di un peccato che non aveva ancora confessato, di nuovo morta, si addormentò nel Signore e il diavolo fuggì confuso.
LM 2M,1 - 3C 40.
Questo episodio è riportato sia nel Trattato dei miracoli di Tommaso
da Celano che nella Legenda Maior in maniera pressoché identica; in
entrambi i casi si tratta del primo di una serie di miracoli in cui San Francesco,
intercedendo presso Dio, fa resuscitare dei morti.
Nel riquadro dipinto si nota subito che il confessore è un frate
francescano, particolare che non è specificato nei racconti letterari
ma che quì ad Assisi sembra essere quasi ovvio.
Del resto la presenza di un frate nella casa di una donna molto devota
di San Francesco è abbastanza logica.
Quello che invece non è assolutamente accennato né in Tom-maso
da Celano né in San Bonaventura è l'episodio dell'Angelo che
scaccia il demonio, né potrebbe essere altrimenti, dato che la rappresentazione
della lotta tra l'Angelo e il demonio che si contendono l'anima dei defunti
era il mezzo normale di raffigurare le due possibilità che seguono
la morte: l'inferno o il paradiso.
Naturalmente erano credenze popolari, ma talmente diffuse figurativamente
da essere ben utilizzabili per tutti.
Anche in questo caso l'immagine è tagliata da un pilastro, ma
uno solo, non centrale, e le due parti che ne derivano non sono perciò
né uguali né simmetriche.
Un principio di simmetria (utile anche per creare una sensa-zione di
profondità) è riscontrabile solo nei due gruppi di persone
che sono ai lati del letto dove la donna resuscitata si confessa: a sinistra
il diavolo che fugge e a destra la confessione e l'angelo che lo scaccia.
La vena, in questo episodio come nel precedente, è certamente
più narrativa e popolaresca e quasi certamente l'esecutore è
lo stesso, ma non per questo non va inserito nel contesto di una originaria
pianificazione che comprenda tutto il ciclo.
Il beato Francesco liberò questo prigioniero accusato
di eresia, e per mandato del Signor Papa affidato, sotto pena di episcopato,
al Vescovo di Tivoli; ciò accadde nella festa dello stesso beato Francesco,
la cui vigilia lo stesso prigioniero aveva digiunato secondo il costume
della Chiesa
.
LM 5M,4 - 3c 93.
I due racconti letterari di questo episodio sono abbastanza differenti
tra di loro: il secondo in ordine di tempo, quello di San Bonaventura, è
molto meno ricco di particolari rispetto al più antico, quello di
Tommaso da Celano.
San Bonaventura elimina ogni accenno ai problemi del Ve-scovo di Tivoli
e ai suoi rapporti con i nobili della città, non riporta l'episodio
della prima fuga del prigioniero e, soprattutto, tace sul particolare che
questi fosse innocente dell'eresia di cui lo si accusava; anzi, sostiene
implicitamente il contrario dicendo che era tornato alla giusta fede durante
la prigionia.
Evidentemente in San Bonaventura c'è l'intento, o forse il pudore,
di non far vedere un innocente messo in prigione e trattato così duramente
da parte della Chiesa ufficiale; per la stessa ragione vengono taciuti altri
particolari, come quello realtivo ai nemici del Vescovo di Tivoli e alla
sua caduta per lo spavento quando gli viene annunciata la liberazione del
prigio-niero. Anche Tommaso da Celano mette comunque in mostra la benevolenza
del Vescovo verso il prigioniero, almeno sino al primo tentativo di fuga,
quando lo riconosce come innocente.
La scena rappresentata nel riquadro è invece comune ai due racconti:
le guardie indicano al Vescovo il prigioniero con in mano i ceppi e le catene
spezzate e il Vescovo ringrazia il Signore mentre il suo seguito mostra segni
di meraviglia.
Lo spazio è diviso in due parti, segnate a destra e a sinistra
da due edifici: poiché quello a destra è la prigione in cui
era chiuso l'eretico, forse quello a sinistra è il Palazzo del Vescovo,
ma nulla ci conforta in questa ipotesi. La tipologia dei due edifici, per
altro, è completamente di fantasia, anche se in quello di sinistra
sono evidenti i ricordi delle architetture pisane. Entrambi hanno una parte
inferiore più largha e una superiore che si innalza nel cielo come
una torre. Entrambe le torri "ingranano" la volta celeste: una delle due
ci si avvita letteralmente con la sua forma di colonna tortile.
La scelta di questa forma quasi a vite ha permesso di ottenere egualmente
lo stesso effetto che nell'altro edificio (quello, cioè di ingranare
nel cielo) senza sacrificare la sensazione di pesantezza e di solidità
che deve dare un carcere. Portato così verso l'alto da queste due
torri che vanno al cielo lo sguardo può incontrare San Francesco che
prega il Signore o meglio, se si vuole stare ai racconti letterari, che vi
ritorna dopo avere liberato personalmente il prigioniero.
Lo schema in fondo ricorda vagamente quello della rinuncia ai beni paterni,
ma la struttura generale è meno precisa: il gesto del prigioniero
liberato che mostra i ceppi miracolosamente aperti al Vescovo, ad esempio,
non è correlato in alcuna maniera a quello del Vescovo stesso che,
inginocchiato, alza le mani e gli occhi al cielo per ringraziare il Signore.
In compenso i perso-naggi hanno movenze estremamente eleganti e si può
ritrovare la stessa vena narrativa degli ultimi due episodi.
Gli ultimi tre riquadri, in sostanza, somigliano assai a degli ex voto
di cui costituiscono un modello, e sono volti a sottoline-are l'importanza
della devozione a San Francesco tra i fedeli.
In questo ultimo episodio entrambi gli autori letterari sottoli-neano
bene che il prigioniero ottiene la sua grazia dal Santo proprio pregando
il giorno della sua festa.
Questi episodi sono da collocare anche essi nell'economia generale di
tutto il ciclo e questa particolare vena narrativa più popolaresca
è probabilmente proprio quello che in essi si voleva per i motivi
ora specificati.