Domenico Lo Surdo

Belgrado come Stalingrado

(Ringraziamo l'Editore Nicola Teti per aver consentito la pubblicazione di questo scritto)

 

La guerra di aggressione contro la Serbia è l'ultimo atto della strategia che il capitalismo transnazionale sta perseguendo da anni per spartirsi anche la Jugoslavia e assicurarsi migliori posizioni strategiche per risolvere con la forza le sue contraddizioni e dominare il mondo.

Venuto meno il blocco sovietico, e dopo che il governo di Belgrado aveva spezzato l'unità de lproletariato jugoslavo, americani ed europei hanno fatto leva sui diversi nazionalismi. fomentando e finanziando il separatismo, armando la guerra etnica per giungere alla frantumazione della Jugoslavia in tanti stati economicamente e politicamente asserviti agli interessi delle economie occidentali.

La sciocchezza propagandistica de gli "interventi umanitari " (fatti dove è convenuto all'imperialismo e che negli ultimi anni ha fatto oltre un milione di morti) non riesce più a mascherare questa politica di aggressione e di dominio, di bassi salari e di ' feroce sfruttamento delle popolazioni balcaniche.

Non è certo la demagogica copertura dell'ONU - ormai ridotto a fantoccio nelle mani di Clinton - che può legittimare o fermare i massacri. Né è dall'Europa di Maastricht, dell'unità monetaria, dei sacrifici e della disoccupazione, dall'Europa dei governi socialdemocratici aggressori che può venire la salvezza dei popoli della Jugoslavia.

Soltanto la lotta unitaria del proletariato jugoslavo contro le cricche nazionaliste serba, croata, albanese, ecc. può fermare la politica di guerra e di sfruttamento del capitalismo mondiale.

Soltanto la forza compatta del proletariato italiano può costringere il boia liberaldemocratico D'Alema e i suoi complici di ogni risma, schierati oggi in prima linea nell'aggressione alla Serbia, a rinunziare all'attuale politica di sterminio, di miseria e di disoccupazione di massa che il capitalismo morente genera sull'intero pianeta.

Il Coordinamento Comunìsta fa appello a tutte le forze comuniste e antimperialiste per organizzare unitariamente iniziative di lotta e di approfondimento contro la guerra di aggressione in Jugoslavia.

E una lotta dura, ancora più difficile, perché occorre combattere contro la straordinaria forza di convincimento che l'imperialismo aggressore mette in campo con l'uso cinico dei media - e, in particolare, della televisione - attraverso cui semina menzogne con cui copre e giustifica i propri crimini, crea una "realtà " a misura dei suoi interessi, distorce i fatti e deforma la percezione che ne hanno le masse.

Strumenti consapevoli di questa sporca guerra dell'informazione sono gli intellettuali, grandi e piccoli, al soldo dell'imperialismo.

Per tale motivo abbiamo deciso di diffondere questo scritto di Domenico Losurdo che -sia pure con i chiarimenti e gli approfondimenti che dovranno seguire - risulta essere una delle poche voci stonate (non l'unica, fortunatamente!) nel coro di una cultura per lo più omologata alle direttive del potere economico e accademico.

il Coordinamento Comunista Napoli, 8 aprile 1999

  1.  
  2. Potenza di fuoco e potenza di fuoco multimediale
  3. Al "genocidio" grida Clinton puntando il dito contro la Jugoslavia e intensificando i bombardamenti. 1 serbi (ma anche i russi) ritorcono l'accusa: è l'Alleanza occidentale a condurre una "guerra di sterminio" e a macchiarsi in realtà di genocidio. La verità è una delle prime vittime della guerra. Per orientarsi nel dedalo della propaganda e delle menzogne belliche è necessario uno sforzo particolare di vigilanza critica.

    La televisione non si stanca di trasmettere le immagini terribili della fiumana interminabile di gente in fuga dal Kosovo. Le loro sofferenze, la loro tragedia è sotto gli occhi di tutti: non è più che sufficiente per individuare il responsabile? Via libera dunque alla scalata dei bombardamenti aerei, che ora sono chiamati a distruggere i cosiddetti palazzi dei potere e le infrastrutture civili (ponti ecc.). Che fine faranno gli ospedali collocati a Belgrado nelle vicinanze di queste aree? Risponde il generale Clark: "Ci sono rischi per i piloti, rischi per la gente a terra" (Di Feo, 1999). Tanto peggio per chi si trova ad abitare nel posto sbagliato. Ma il bilancio della morte va ben al di là delle vittime dirette dei bombardamenti. Come vivranno gli operai espulsi dalle loro fabbriche sistematicamente distrutte e come vivrà la gente privata dei servizi essenziali del vivere civile? Come potrà sopravvivere un popolo giorno dopo giorno ricacciato verso l'età della pietra? Sommandosi all'embargo, le bombe "intelligenti" hanno già provocato un milione e mezzo di morti in Irak; sarà diverso in Jugoslavia?

    Ma su questo tace la televisione, che preferisce intramezzare alle immagini dei profughi le "notizie" sui "massacri" in Kosovo. Che importa se qualche giorno dopo esse vengono smentite e Rugova, già dato per ucciso e sterminato, si incontra col presidente jugoslavo? Intanto, è stato ottenuto l'effetto che si voleva. "La demonizzazione di Milosevic è necessaria per proseguire negli attacchi aerei" (Colien, 1999); è l'ammissione di un giornalista americano ma suona come una direttiva del Pentagono. La campagna di disinformazione deve procedere parallelamente all'intensificazione dei bombardamenti. No problem: i paesi che dispongono dei mezzi bellici più sofisticati sono anche quelli che hanno la possibilità di far ricorso ad una superiore potenza di fuoco multimediale. L'epoca della guerra totale è l'epoca anche della manipolazione totale.

    Provare ad organizzare una resistenza significa impegnarsi a collegare gli spezzoni di verità che, nonostante tutto, finiscono qua e là con l'emergere, grazie agli attimi di disattenzione della stessa stampa di informazione e disinformazione o grazie anche all'onestà di qualche isolato giornalista. Le immagini terribili della fiumana della gente in fuga dal Kosovo non ci devono far perdere di vista il fatto che in Serbia "la presenza di profughi è la più alta che si registri in Europa: più di 700 mila persone" (Zaccaria, 1999), espulse dalla loro terra, per lo più dalla Krajina, su iniziativa dei dirigenti croati appoggiati, coccolati e armati dall'Occidente. Ma, nella società dello spettacolo, è come se questa tragedia non si fosse mai verificata: schiacciante è la superiorità della potenza di fuoco multimediale della Nato. E questa schiacciante superiorità consente di cancellare totalmente un'altra tragedia, che ci rinvia direttamente al Kosovo: "Ci sono 70 mila profughi serbi da quell'area, di cui non si occupa nessuno" (Draskovic, 1999): hanno abbandonato la regione più devastata dalla guerra, ma ora, in Serbia, sono di nuovo sotto i bombardamenti.

    Sì, albanesi o serbi che siano, i kosovari non sono in fuga "soltanto dalle bande paramilitari, ma da una guerra che si combatte da terra e dal cielo, da campi minati, dagli scontri tra polizia speciale di Milosevic e guerriglieri separatisti, da missili e bombe che cadono nel centro abitato di Pristina, e che presto cadranno anche su scuole e ospedali, svuotati a forza dai "fantasmi" per nascondervi le truppe" (Nava, 1999 b). In realtà, si fugge anche dalla "regione serba di Sandzak": i musulmani riparano in Bosnia non perché deportati, ma perché "temono coscrizioni obbligatorie" (Sudar, 1999). In Kosovo c'è una sorta di duplice coscrizione obbligatoria: una è stata proclamata dall'Uck, che in quanto a brutalità nei confronti dei "renitenti" o "traditori" non è seconda a nessuno.

    A stimolare la fuga in massa è già la guerra. E come potrebbe essere diversamente? "Lo scenario di morte e di distruzione che è oggi il Kosovo sembra escludere anche le generazioni del prossimo secolo da una prospettiva accettabile" (Nava, 1999 a). C'è un ulteriore fatto sconvolgente: attendibili fonti cattoliche riferiscono che, come già a suo tempo in Irak, anche in Kosovo gli Usa fanno ricorso ad armi trattate con uranio impoverito che provocano gravissime conseguenze genetiche (Cecchetti, 1999). Il presidente americano si atteggia a salvatore dei kosovari, ma chi salverà quest'ultimi da un salvatore che rassomiglia piuttosto ad un angelo sterminatore?

    Sfuggendo all'inferno dei Kosovo, si apre la prospettiva di raggiungere il paradiso dell'Occidente da sempre agognato: "ai kosovari in fuga, l'Uck - secondo un giornale macedone - avrebbe promesso un visto per l'Europa" (Nava, 1999 c). Come stupirsi allora dell'enorme ampiezza dell'esodo? 1 dirigenti serbi affermano che a provocare l'esodo sono stati in primo luogo i bombardamenti terroristici e che, da parte loro, sono pronti a riaccogliere i profughi. In realtà, la fuga di una popolazione di dubbia lealtà non risulta certo sgradita a Belgrado, che deve averla a sua volta incoraggiata e, in certe zone, imposta al fine di evitare la guerra su due fronti e di rendere impermeabile la frontiera attraverso la quale a lungo sono passate le armi che l'Occidente ha fornito ai secessionisti. Da parte serba sarebbe un errore e un crimine trasformare questa logica militare in un'operazione di ingegneria etnica. Ma una cosa è certa: solo gli sciocchi possono prendere per oro colato la campagna di disinformazione e di "demonizzazione" di Milosevic messa in atto da Washington.

    Ma immaginiamo pure che la marea umana in fuga dal Kosovo sia il risultato esclusivo di una politica di deportazione. Gli ultimi a poter gridare allo scandalo sono gli Usa, che hanno fatto di fatto per imbarbarire lo scontro. Recentemente la televisione serba di Macedonia "Tv 96" ha trasmesso la testimonianza di un combattente dell'Uck: "Secondo l'uomo, nei mesi scorsi un ufficiale americano, un certo Lens Jonstons, gli avrebbe consegnato un apparato satellitare da utilizzare per segnalare gli spostamenti delle truppe serbe prima e durante i bombardamenti della Nato" (Monici, 1999). Dunque, prima ancora dello scoppio della crisi, Washington cercava di organizzare una quinta colonna che l'aiutasse a portasse avanti i piani, già da un pezzo elaborati, miranti a bombardare, schiacciare e smembrare la Jugoslavia.

    In ogni caso, Clinton non poteva ignorare le conseguenze dell'atto con cui ha dato fuoco alle polveri. Per mediocri che siano le sue conoscenze storiche, almeno i suoi consiglieri sanno benissimo come si comportò Franklin Delano Roosevelt subito dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale: fece deportare in campi di concentramento i cittadini americani di origine giapponese (comprese donne e bambini), razziandoli persino dall'America Latina e trattenendoli ancora per qualche tempo dopo la fine delle ostilità, in certi casi sino al 1948 (Losurdo, 1996, pp. 184-5). Eppure gli USA non erano bombardati giorno e notte, non erano esposti a reali rischi di sbarco da parte dei giapponesi e non vedevano in gioco l'integrità nazionale, anzi la stessa sopravvivenza come Stato e come nazione. E' questo invece il caso della Jugoslavia e del popolo serbo.

    La forza dell'Occidente consiste in ciò: con la sua potenza bellica può rendere impossibile o terribilmente penosa la vita alla stessa popolazione civile; con la sua potenza di fuoco multimediale può cancellare le devastazioni prodotte dinanzi agli occhi del mondo. Ora i profughi (e, s'intende solo i profughi kosovari di origine albanese) sono lì, al confine albanese o macedone, ammassati e esibiti. Ancora il 3 aprile, un'onesta corrispondenza da Skopje riconosceva: "Non esistono aiuti organizzati, quel potentissimo Occidente che conduce dall'alto la sua guerra non è in grado di assicurare un minimo di assistenza alle proprie vittime indirette" (Zaccaria, 1999). Nella guerra spietata contro la Jugoslavia, anche i profughi sono ostaggi e bombe a disposizione del quartiere generale della Nato. L'"intervento umanitario" può svilupparsi senza più alcun limite.

    A condizione, s'intende, che non venga mai persa di vista quella sorta di direttiva del Pentagono, che abbiamo visto trasparire dall'articolo del giornalista americano già citato: la "demonizzazione di Milosevic" come unico responsabile dell'orrore in Kosovo. Per meglio confutare questo mito, mi avvarrò qui in modo esclusivo di fonti e testimonianze nettamente ostili al presidente serbo.

  4. La tragedia della Iugoslavia, la tragedia del Kosovo
  5. Cominciamo da Ronchey: "Non si può certo sottostimare l'atrocità delle repressioni serbe, ma nemmeno è da ignorare il terrorismo dell'Uck Potenzialmente catastrofico, per tutta l'area dei Balcani, è il suo progetto di Grande Albania che dovrebbe incorporare "terre macedoni fino a Skopje" (Ronchey, 1999). Siamo in presenza di un'organizzazione di tipo mafioso: ha imposto il versamento di una tassa ad ogni albanese della diaspora; "ma anche il traffico della droga che dall'Afghanistan, attraverso la Turchia, finisce sui mercati europei è ancora una fonte di finanziamento" (Monici, 1999). E' persino un funzionario americano ad affermare che l'Uck è un "misto" di giovani "idealisti" e di "banditi"; "questa gente non è necessariamente rappresentativa del popolo del Kosovo" (Gellman, 1999).

    Tutta la tragedia è iniziata con la revoca dell'autonomia da parte di Milosevic? In realtà, "la rivolta dei kosovari, cominciata nell'81 dopo la scomparsa del maresciallo Tito", è stata "seguita nell'88 dalla revoca della loro autonomia per decreto di Milosevic" (Ronchey, 1999); "non molto tempo fa erano gli albanesi del Kosovo che reprimevano i serbi del Kosovo e conducevano un'orribile pulizia etnica" (Rosenfeld, 1999).

    E' un dato di fatto che la percentuale di popolazione serba è andata rapidamente diminuendo negli ultimi anni. Apriamo un'apprezzata enciclopedia tedesca (il Brockaus-Lexikon, dell'edizione del del 1982) e cerchiamo la voce "Kosovo": vì si afferma che i serbi costituiscono circa il 30% della popolazione. In poco più di dieci anni, essa si è ridotta ad un terzo. E' solo il risultato del superiore tasso d’incremento demografico della popolazione di origine albanese (e dell'immigrazione illegale n realtà, "negli ultimi dieci anni [ ... ] l'azione delle bande terroristiche albanesi prima e dell'Uck dopo ha portato alla fuga dal Kosovo della metà di quel 20% di popolazione serba che vi risiedeva nel 199 1, oggi ridotta al 9- 10%" (Scotti, 1999).

    Peraltro, la stessa natalità può essere brandita come un'arma. Illuminante è un'intervista al capo della Missione cattolica albanese in Croazia. Don Ndue Balabani - questo il suo nome - dichiara: "I serbi hanno paura dell'altissimo tasso della nostra natalità. Verso il 2030 sul territorio della Serbia ci saranno più albanesi che serbi". L'intervistatore si chiede: "gli albanesi sognano di conquistare non solo il Kosovo, ma l'intera Serbia?" (Scotti, 1999).

    Il progetto di Grande Albania ha una terribile storia alle spalle. In occasione del primo smembramento della Jugoslavia, quello messo in atto da Hitler e Mussolini, "il Kosovo fu incorporato nella Grande Albania, che a sua volta faceva parte dell'impero italiano"; anche in questa regione, "le persecuzioni scatenate contro i serbi [ ... ] causarono un'immensa ondata di profughi" (Pirjevec, 1993, p. 152). Al momento della ricostituzione della Jugoslavia, i serbi, che pure erano stati alla testa della lotta di liberazione nazionale e avevano pagato il più alto tributo di sangue, accettarono i sacrifici giustamente suggeriti da Tito in nome della pace etnica: Aa ristrutturazione dello Stato andava così soprattutto a svantaggio dei serbi, che tornarono ad essere divisi da frontiere amministrative, e si trovarono ad essere minoranza in Croazia, Macedonia" e altrove (Pidevec, 1993, p. 214).

    Se quasi alla fine i serbi hanno dato prova di moderazione e si sono preoccupati di salvare l'unità. Alla metà degli anni '80, essi, "pur rappresentando il 36% della popolazione jugoslava, erano costretti a dividere equamente il potere con le altre cinque repubbliche e le due province, ottenendo per lo più salari mediamente assai più bassi degli sloveni e dei croati" (Pirjevec, 1993, p. 502). Ma coloro che, all'interno o all'estemo, volevano farla finita con l'unità della Jugoslavia sapevano contro chi dovevano concentrare il fuoco. Già negli ultimi anni dell'era di Tito, la reazione croata scatena una campagna d'odio contro la minoranza serba. Kardelj commenta amaramente: "Manca poco che organizzino dei campi di concentramento" (Piijevec, 1993, p. 3 93). Con la nuova dissoluzione e il nuovo smembramento della Jugoslavia, ai serbi è parso di rivivere la tragedia vissuta circa mezzo secolo prima.

    In questo contesto va collocata la stessa vicenda del Kosovo. La progressiva crisi e poi il crollo del regime socialista in Albania mettono qui fine alla "temporanea sospensione del nazionalismo come motivazione ideologica pertinente" e danno nuovo fiato al progetto della Grande Albania (Glenny, 1993, pp. 68-70): il posto di re Zogu viene preso da Berisha, mentre a Hitler e Mussolini subentrano il presidente americano e gli alleati della Nato. Si spiega così l'irresistibile ascesa dell'Uck, i cui effettivi un "anno fa non erano più di 200"; "siamo di fronte al primo caso nella storia di un piccolo e sconosciuto gruppo di ribelli che in un solo anno di lotta è stato capace di sedere a un tavolo di trattative della comunità internazionale" (Monici, 1999).

    Milosevic non è riuscito ad essere all'altezza della situazione e della tragica sfida? E' stato anche lui contagiato dall'ondata di nazionalismo, alimentata dall'esterno? Non c'è dubbio: Milosevic non è Tito, né per quanto riguarda il carisma né per quanto riguarda l'orientamento politico. Decisa a partire dall'esigenza di mettere fine ad una tragedia già in atto, la revoca (parziale) dell'autonomia del Kosovo ha probabilmente accelerato la catastrofe.

    Ma bisogna pur chiedersi perché una civile e pacifica convivenza continua ad essere possibile con l'etnia ungherese fortemente presente nella Vojvodina, con le numerose nazionalità che ancora caratterizzano il volto della Jugoslavia, con le decine e decine di migliaia di albanesi che abitano a Belgrado. E continua ad essere possibile anche in quest'ultimo caso, nonostante che, come abbiamo visto, i seguaci della grande Albania brandiscano anche l'arma della natalità per pronosticare la dissoluzione finale della Serbia. Una cosa è certa: "La nazione assunta a simbolo di "pulizia etnica" e di aggressività era abitata, fino a ieri, soltanto al 66 per cento da serbi" (Nava, 1999 c).

    Demonizzare in modo esclusivo Milosevic significa da una lato chiudere gli occhi dinanzi alla complessità delle contraddizioni nazionali in Jugoslavia, dall'altro prestare orecchio attento alla campagna di disinformazione orchestrata da Washington.

  6. "La Serbia deve morire"

E' una campagna che conta precedenti illustri. Con lo scoppio della prima guerra mondiale, in Germania i circoli imperialisti lanciano uno slogan: "La Serbia deve morire". In tedesco suona: Serbien muß sterbien (l’ultima parola è ottenuta storpiando sterben, morire). E così lo slogan si trasforma in una sorte di verso funebre che non promette nulla di buono per un intero popolo. Esso ha il torto - spiega un teorico dell'imperialismo tedesco, Friedrich Naumann - di essere "un disturbatore di professione della pace"; più esattamente intralcia con la sua presenza autonoma e ingombrante Aa via di collegamento e commerciale" verso l'Oriente (Gudopp, 1993, pp. 18-20). Questo ostacolo dev'essere spazzato via, ad ogni costo. Il 20 novembre 1917 il segretario di Stato von Kúhlmann riferisce ad un giornalista della "Frankfurter Zeiturig" qualcosa di sconvolgente, attribuendone la responsabilità ai bulgari, allàti (orientali) della Germania: A serbi vengono "spazzati via" (erledigt) per via amministrativa: li si porta per ragioni di pulizia in centri di disinfestazione e li si elimina mediante il gas" (in Losurdo, 1996, p. 182).

Non sappiamo sino a che punto sia precisa questa testimonianza. Essa comunque documenta la carica di odio che investe il popolo serbo. Il progetto genocida si perfeziona ulteriormente col Terzo Reich e suoi complici. In Croazia, emulo di Hitler e teorico di una "rivoluzione razziale", Ante Pavelic procede all'eliminazione fisica di ebrei, zingari e, soprattutto, serbi. E' un "olocausto" serbo (Piijevec, 1993, p. 151).

Con la vittoria trionfale degli USA nel corso della guerra fredda, questa tragedia conosce l'inizio del terzo atto. Ad aprire il fuoco è ancora una volta la Germania. Una serie di articoli dell'autorevole "Frankfurter Allgemeine Zeitung" chiama a fornire armi alla Croazia, in violazione della risoluzione dell'ONU, e chiarisce chi sono i barbari: la Serbia "è un corpo statale del tutto non europeo [ ... ] con una concezione orientale del diritto, simile a quella dell'Irak" (in Gudopp, 1993, p. 56). E' importante notare che il bersaglio di questa campagna non è Milosevic, ma la Serbia, il popolo serbo in quanto tale.

In termini analoghi, e con maggiore precisione, si era espresso circa mezzo secolo prima, un ideologo dei Terzo Reich: "I serbi hanno più forte volontà politica di dirigere; ma dalla parte dei croati sta la superiorità di un popolo di antica civiltà che inserito bensì nell'Austria-Ungheria ha conservato per secoli nell'area sudorientale l'estremo spalto dell'occidente, mentre la Serbia tentò invano di superare lo stadio della barbarie" (in Collotti, 1974, p. 45).

L'odierno organo di stampa della Confindustria tedesca riprende il punto di vista dell'ideologo del Terzo Reich, ma quest'ultimo è più lucido e più preciso: i serbi vanno schiacciati non solo in quanto barbari orientali, ma anche in quanto dotati di una "forte volontà politica". E questo è il punto di vista anche di Pavelic, secondo il quale, rispetto ai serbi, sono ben più civili gli stessi mussulmani bosniaci: nelle loro vene scorre "purissimo sangue croato" (Pirjevec, 1993, p. 15 1). Sono i serbi a costituire il principale ostacolo al controllo dei Balcani ieri da parte della Germania oggi da parte degli Usa e dei suoi alleati e complici. Sono i serbi a dover essere demonizzati.

Nel leggere gli odierni proclami della Nato sembra di rileggere quelli della Germania nazista: "Non opponete resistenza! Perché dove opporrete resistenza potrete essere ripagati soltanto con la distruzione delle vostre città e dei vostri villaggi. Guardate Belgrado!". A parlare, anzi a tuonare in questo modo è Hitler o Clinton? Naturalmente, prima del presidente americano, già il Fúhrer si preoccupa di chiarire che esso era in lotta solo contro il governo serbo: "II popolo tedesco non ha alcun odio nei confronti del popolo serbo! [...] Ma esso farà adesso la resa dei conti con quella cricca di criminali serbi di Belgrado" (in Collotti, 1974, pp. 36-8).

Il terzo atto della tragedia del popolo serbo è in pieno svolgimento. Si comprende che lo scrittore austriaco Peter Handke abbia parlato a questo proposito di "olocausto" (e. n., 1999). Dunque, un nuovo "olocausto", dopo quello inflitto da Hitler e Mussolini. Forse lo storico futuro individuerà nei serbi il popolo martire per eccellenza del Novecento: il martirio degli ebrei si è concluso con la disfatta del Terzo Reich, mentre quello dei serbi, che inizia con la prima guerra mondiale, è ancora in pieno svolgimento, e ha luogo non nell'indifferenza ma tra gli applausi di molti tra i grandi intellettuali del nostro tempo. Auguriamo loro di vivere sufficientemente a lungo per potersene un giorno vergognare.

4. Da una guerra coloniale all’altra

Nella coscienza collettiva del popolo serbo il presente si confonde e si fonde col passato: è un'unica guerra di indipendenza, un'unica lotta per la vita o per la morte; a Belgrado e in altra città si scende in piazza agitando cartelli contro Adolf Clinton e Bill Hitler. In effetti, l'irresistibile ascesa dell'impero americano sembra riproporre, su scala più larga, l'irresistibile ascesa del Terzo Reich. Dopo l'inizio dello smembramento dell'Irak, amputato delle "zone di non volo" e bersaglio di un'incessante campagna di bombardamenti e destabilizzazione, è la volta della Jugoslavia: il suo primo smembramento, sempre nel 199 si consente agli Usa e alla Nato di stabilire una prima testa di ponte nei Balcani, una zona immediatamente a ridosso del Medio Oriente, di cui Washington si è ormai assicurato e intende mantenere ad ogni costo il controllo esclusivo. Mentre indebolisce ulteriormente l'Europa, la testa di ponte nei Balcani consente di ricacciare sempre più indietro la Russia e di estendere progressivamente l'impero americano ad Est. Lo spazio geopolitico lasciato vuoto dalla dissoluzione del "campo socialista" e dell'Urss viene da Washington sovranamente rimodellato.

Ora l'ammettono anche la stampa d'"informazione" e persino portavoce ufficiosi di questo o quel governo. 1 selvaggi bombardamenti in atto mirano a consolidare definitivamente il "protettorato" degli Usa e della Nato sui Balcani. Mentre rinvia alla tradizione coloniale, il termine esplicitamente usato fa venire alla memoria il "protettorato di Boemia e Moravia". Il tentativo in atto di ulteriore smembramento della Jugoslavia fa pensare allo smembramento della Cecoslovacchia imposto da Hitler all'immediata vigilia della seconda guerra mondiale. Anche nella Cecoslovacchia di Masaryk e Benes c'era il problema delle minoranze nazionali, i cui diritti non sempre erano rispettati ed erano talvolta gravemente violati: di qui l'agitazione degli ungheresi, dei ruteni, soprattutto dei tedeschi dei Sudeti. Il Kosovo di oggi come i Sudeti di 60 anni fa?

Dopo quella dei Golfo, assistiamo in questi giorni, nel mondo che ha fatto seguito alla dissoluzione del "campo socialista", alla seconda grande guerra coloniale. Se la prima ha fatto riferimento alla necessità di difendere la legalità internazionale, la seconda vede la Nato proclamare il suo diritto d'intervento oggi in Serbia domani in ogni angolo del mondo. Almeno su un punto i giudizi della stampa internazionale sono concordi. La guerra in atto contro la Serbia è un momento di svolta, scatenata com'è contro uno Stato sovrano da una formidabile coalizione militare in violazione del suo stesso statuto, che prevede solo azioni difensive. Del tutto tagliata fuori è l'ONU, e come avrebbe potuto essere diversamente? Fondata sull'onda della lotta contro il nazi-fascisino (e contro la sua pretesa di rinsaldare il dominio della razza dei signori sulle popolazioni coloniali e sui barbari estranei alla civiltà bianca e occidentale), l'Organizzazione delle Nazioni Unite proclama "l'uguaglianza di tutti i suoi membri", ognuno dei quali è tenuto a rispettare la sovranità, l'indipendenza, la dignità dell'altro. Naturalmente, tale principio è stato spesso, coi più vari pretesti, violato dalle grandi potenze, ma ora esso viene esplicitamente liquidato in quanto obsoleto. Ritorna invece d'attualità il principio classico di legittimazione delle guerre coloniali: sinonimo di civiltà, l'Occidente ha il diritto e il dovere di diffonderla in ogni angolo del mondo; un paese o un capo di Stato occidentale non può essere messo sullo stesso piano di un paese o un capo di Stato "barbaro".

E' chiaro: è la legge del più forte; chi sarà la prossima vittima della marcia irresistibile dell'impero americano? Il significato reale della svolta è sotto gli occhi di tutti. E, infatti, lo comprende anche Gorbaciov: "Chiamiamo le cose con il loro nome: è un'aggressione [ ... ] L'operazione militare della Nato è una violazione clamorosa del diritto internazionale. E' evidente il desiderio dell'alleanza occidentale, con a capo gli Usa, di affermare il diritto della forza, la propria posizione monopolista nel sistema mondiale" (Gorbaciov, 1999). Troppo tardi l'ex-dirigente sovietico prende consapevolezza di un disegno strategico alla cui realizzazione egli stesso, per criminale ingenuità, ha potentemente contribuito.

Questa svolta strategica degli Usa e della Nato viene subito rispecchiata dall'ideologia dominante. Chi ricorda più gli appelli al diritto internazionale (violato dall'invasione da parte dell'Irak di uno Stato sovrano come il Kuwait), che caratterizzarono la guerra del Golfo? Agli occidentali ancora troppo tiepidi nei confronti della nuova avventura bellica, l'editorialista della "Stampa" rimpr9vera di restare "abbarbicati ai loro luoghi comuni", ad esempio "al cliché dei diritto internazionale violato da una guerra contro uno Stato sovrano". Ed ecco la conclusione perentoria: "non esiste qualcosa che somigli a un diritto internazionale" (Spinelli, 1999). Sembra di riascoltare i generali di Guglielmo Il o di Hitler o lo stesso Fúhrer in persona!

Ancora più significativa è l'involuzione di Bobbio. Colui che si atteggiava a custode e sacerdote del diritto intemazionale e della morale ora dichiara che la questione essenziale non è la "legittimità" bensì l'"efficacia" di una determinata guerra. Contro Milosevic "l'unica cosa che conta è se la strategia di dissuasione avrà raggiunto l'effetto che si propone" (Bobbio 1999).

Enorme è la posta della guerra in gioco. La stampa riferisce che "i generali, di fatto, hanno ottenuto carta bianca: possono intraprendere qualunque iniziativa per costringere Belgrado alla resa" (Di Feo, 1999). Pur critico dell'operazione in corso, della cui ideologia umanitaria si fa beffe, Kissinger invita ad andare sino in fondo. "La Nato non può sopravvivere se smette i bombardamenti adesso" (Kissinger 1999). Se anche aggredita a torto o precipitosamente - come ammette anche l'ex-segretario di Stato - "la Serbia deve morire" perché la Nato viva, perché essa conservi intatta, anzi sviluppi ulteriormente la sua credibilità, la sua capacità di terrorizzare ogni paese e ogni popolo anche nel più sperduto angolo del pianeta.

E, ancora una volta, all'imbarbarimento della pratica corrisponde l'imbarbarimento anche della teoria. A dimostrazione del fatto che una guerra pur formalmente "illegittima" può essere giustificata dalla sua "efficacia", Bobbio fa un esempio assai inquietante: "La bomba atomica, avendo raggiunto lo scopo nientemeno che di porre fine alla seconda guerra mondiale, mi dispiace doverlo dire ma è stata accettata da gran parte dell'opinione pubblica mondiale. Se la guerra fosse continuata, i duecentomila morti di Hiroshima si sarebbero moltiplicati non si sa per quanto. Naturalmente si è sostenuto che la guerra avrebbe potuto finire egualmente, ma la storia non si fa con i se". Sembrerebbe di dover dedurre che non ci siano obiezioni di principio all'eventuale annientamento atomico di Belgrado, di Bagdad, e domani di chissà quale altra capitale!

Il tutto, in nome dell'ingerenza democratica o dell'"intervento umanitario". E' questa la nuova ideologia dell'imperialismo. Per la verità, essa è meno nuova di quello che appaia a prima vista. A partire dallo sviluppo del movimento democratico e socialista internazionale e della resistenza dei popoli coloniali, a partire soprattutto dalla rivoluzione d'ottobre, le grandi potenze imperiali si sono impegnate a cercare una nuova veste: ecco emergere 1'"interventismo democratico" e persino l'"imperialismo etico". Quest'ultimo slogan ci conduce alla Germania. Sul finire della prima guerra mondiale, si sviluppa un interessante dibattito, di cui è protagonista soprattutto Max von Baden (che diviene cancelliere del Reich nell'ultima fase dell'impero guglielmino): "Se vuoI resistere alle tempeste della democrazia e alla sua rivendicazione di un miglioramento del mondo, l'imperialismo tedesco deve darsi un fondamento etico [...] Ora possiamo tranquillamente inserire nel nostro programma i fini dell'umanità [ ... ], siamo nella felice situazione di poter scrivere il pensiero del diritto sulle nostre bandiere [ ... ] li diritto è con noi".

Nel frattempo, con Brest-Litovsk, il Secondo Reich ha conquistato un enorme spazio coloniale ad Est, ed ecco un generale chiarire gli obiettivi di questa espansione: "II fine della nostra politica orientale non è di far violenza agli Stati più piccoli, ma di garantire la libertà e l'ordine del loro Stato"; si tratta di perseguire "fini umani universali" (in Opitz, 1977, pp. 436-450; cfr. Gudopp, 193, pp. 50- 1).

Come non pensare all'odierna ingerenza "umanitaria"? Nulla di nuovo sotto il sole! D'altro canto, l'espansionismo coloniale ha sempre accampato la pretesa di diffondere la civiltà nel mondo e tra i barbari. Nello scatenare la sua guerra di sterminio contro l'Etiopia, lo stesso Mussolini, dopo aver bollato il negus Hailè Selassiè come carnefice e "negriero", si atteggia a campione della causa della liberazione degli infelici schiavi vittime dell'oppressione. E'da aggiungere che, in effetti, una qualche forma di schiavitù sussisteva in Etiopia, ma di gran lunga meno barbarica di quella introdotta dal Duce.

Una dialettica analoga si sviluppa ai giorni nostri. Vediamo l'argomento con cui Bobbio ha giustificato i massicci bombardamenti sull'Irak, ordinati da Clinton nel bel mezzo dell'affare Lewinsky: "Certamente Saddam è un tiranno. Da secoli scrittori e pensatori anche cattolici hanno giustificato moralmente il tirannicidio" (Bobbio, 1998). L'importante è che esso non provochi vittime collaterali. Ecco che vengono perdonati, anzi santificati, i tentativi di assassinare con bombe "intelligenti" il capo di Stato irakeno, e forse anche quello jugoslavo, nonché gli "sporchi trucchi" a suo tempo messi in atto dalla Cia per eliminare Fidel Castro. Ma attribuire al presidente americano il diritto di condannare a morte quello che di volta in volta egli sovranamente bolla come despota non significa teorizzare un dispotismo planetario più odioso di quello che si pretende di voler eliminare?

I giornali ci informano che il generale Clark, chiamato a dirigere la guerra contro la Jugoslavia, oltre ad aver fatto carriera in Vietnam e nella guerra del Golfo, è stato comandante anche delle truppe americane a Panama e nei Caraibi. Un qualche ruolo deve aver svolto nell'operazione "Giusta causa". Nel dicembre 1989, l'invasione di Panama è preceduta da intensi bombardamenti, scatenati senza dichiarazione di guerra e senza preavviso: quartieri densamente popolati vengono sorpresi nella notte dalle bombe e dalle fiamme. Elevato è il numero dei morti: le stime vanno da 202 a 4000. L'amministrazione Usa è reticente, non ha alcun interesse alla precisione, tanto più che a perdere la vita sono, in grandissima parte, "civili, poveri e di pelle scura". Almeno 15 mila sono i senza tetto: si tratta comunque dell'"episodio più sanguinoso" nella storia del piccolo paese (Buckley, 199 1, pp. 240 e 264). Quale ingerenza più "urnanitaria" di questa?

Ora è la volta della Jugoslavia. 1 suoi dirigenti avevano in pratica accettato la parte politica di Rambouillet e dunque erano disposti a concedere un'amplissima autonomia al Kosovo; solo non intendevano veder cancellata la sua sovranità e integrità territoriale e subire un protettorato Usa e Nato. Ma era proprio questo l'obiettivo di Washington! E dunque via all'intervento umanitario! In Kurdistan -riconosce Kissinger - "c'è stato un numero di morti infinitamente superiore" e gli Usa si sono guardati bene dall'intervenire (Kissinger, 1999). In realtà - possiamo aggiungere noi - sono intervenuti e intervengono, ma per sostenere politicamente e militarmente un regime responsabile di orribili crimini. E ora il regime turco viene persino chiamato ad appoggiare sul piano diplomatico e logistico, domani forse anche sul piano più direttamente militare, l'ingerenza "umanitaria" in Jugoslavia!

6. Hitler, Clinton e il "principio dell’autodeterminazione"

Ferma restando la necessità di respingere e denunciare la brutalità e l'ipocrisia dell'aggressione imperialista, quale atteggiamento la sinistra deve assumere sul Kosovo? E' chiaro che bisogna essere contrari ad ogni forma di oppressione nazionale, di discriminazione etnica e razziale, ma come pronunciarsi sul caso concreto? Ci sono gruppi comunisti, soprattutto trotskisti, che, richiamandosi a Lenin, agitano la bandiera dell'autodeterminazione per il Kosovo, la Macedonia, il Montenegro, insomma nei Balcani e in ogni angolo del mondo. Quando lanciava questa parola d'ordine, il grande dirigente rivoluzionario pensava soprattutto ai popoli coloniali oppressi dall'imperialismo, sia quello marittimo delle grandi potenze occidentali, sia quello continentale della Russia zarista. Ma oggi rivendicare in astratto l'autodeterminazione significa smembrare definitivamente la Jugoslavia, favorendo la secessione dei Kosovo, e poi la secessione dal Kosovo della regione abitata dai serbi. Un analogo processo si metterebbe in moto in Macedonia, in Vojvodina ecc. Sarebbe il trionfo dell'imperialismo, che, facendo leva sulla sua forza economica, multimediale e militare, avrebbe la possibilità di far saltare gli equilibri etnici in ogni paese del mondo, imporre l'ingerenza "umanitaria" e quindi dominare una miriade di staterelli, ulteriormente frantumabili a seconda del capriccio del sovrano di Washington. E' seguendo questa logica che l'Occidente ha fatto valere il principio dell'autodeterminazione per la Slovenia e la Croazia, ma non, all'interno della Croazia, per la Krajna serba; l'ha fatto valere per la Bosnia, ma non per la regione a maggioranza serba; è pronto a farlo valere per il Kosovo, ma non per le zone dove i serbi costituiscono la maggioranza.

Già Hitler ha saputo sapientemente utilizzare la questione nazionale. Abbiamo visto lo smembramento della Cecoslovacchia a partire dai Sudeti. La medesima tattica viene messa in atto nei confronti della Polonia dove esiste una minoranza tedesca, i cui diritti vengono spesso calpestati e che diviene oggetto di orribili pogrom nei giorni immediatamente successivi all'aggressione nazista (è "domenica di sangue" di Bromberg). Infine, il modo in cui Hitier e Mussolini riescono a smembrare la Jugoslavia fa pensare alla storia dei giorni nostri.

Oggi, la situazione è ben diversa che ai tempi di Lenin. Non è soltanto nei Balcani che le etnie tendono a distribuirsi a macchia di leopardo. Assolutizzare il principio dell'autodeterminazione significa caricare una bomba ad orologeria in ogni angolo del mondo. 1 flussi migratori, legali e "illegali", che investono ogni paese, mettono a contatto popoli e civiltà con gradi di sviluppo e tassi di incremento demografico tra loro assai diversi (è questo anche che spiega l'odierna netta maggioranza dell'etnia albanese nel Kosovo). Assolutizzare il principio dell'autodeterminazione significa stimolare i diversi paesi ad erigere una barriera contro i flussi migratori, in modo da conservare la propria identità etnica ed evitare una futura richiesta di referendum da parte dei nuovi arrivati. Per qualche tempo, l’Internazionale comunista ha accarezzato l'idea di uno Stato nazionale nel Sud degli USA, dove ancora erano in larga parte concentrati gli ex-schiavi. Oggi, un tale progetto sarebbe dei tutto irrealistico, anche se viene ancora accarezzato dalla "Nazione dell'Islam" di Farrakhan.

Certo, si pone più che mai il problema della creazione di uno Stato nazionale palestinese. Siamo in una regione dove la questione coloniale si presenta ancora nei suoi termini classicì (i contadini palestinesi vengono via via espropriati delle loro terre migliori, delle loro risorse idriche ecc.). Ma persino in questo caso, è difficile assolutizzare il principio dell'autodeterminazione: esso viene invocato anche dalle colonie ebraiche che si espandono sempre di più col consenso e l'aiuto delle autorità israeliane, proprio al fine di rendere impossibile la creazione di uno Stato nazionale palestinese con un minimo di contiguità territoriale e di credibilità.

Il problema dei termini nuovi della questione nazionale va ulteriormente approfondito (è qui solo accennato). Per quanto riguarda la crisi attuale non si tratta di criminalizzare nessuno. 1 legittimi diritti nazionali dei serbi e degli albanesi, che bene o male nella Jugoslavia di Tito avevano trovato un punto di equilibrio, sono entrati in tragico conflitto in primo luogo a causa dell'intervento dell'imperialismo. Sarà un processo lungo e faticoso ristabilire una convivenza pacifica e civile, e questo risultato potrà assumere forme politiche, istituzionali e territoriali, sulle quali sarà il futuro a decidere. Per quanto riguarda il presente, c'è solo una certezza. A strumentalizzare la questione, reale, dei diritti nazionali dei kosovari di origine albanese è l'imperialismo americano: esso cerca di affamare e condannare all'inedia ogni popolo poco rispettoso del diktat di Washington, pretende esplicitamente di dettar legge in ogni angolo del mondo, s'impegna con ogni mezzo a smembrare l'Irak e a completare lo smembramento dello Jugoslavia. La sconfitta dell'imperialismo, dello sciovinismo e della pratica dell'oppressione nazionale, la vittoria del principio dell'uguaglianza tra i popoli e le nazioni passa attraverso la sconfitta degli USA e la vittoria della Jugoslavia e del popolo serbo.

7. "Né con Clinton né con Milosevich"?

E' quello che hanno ben compreso i comunisti a Cuba, in Cina, in Vietnam. Particolarmente dura è la condanna espressa da questo paese: i suoi dirigenti richiamano l'attenzione sul fatto che gli USA utilizzano la Jugoslavia anche come poligono di tiro per la sperimentazione di armi nuove e più micidiali. In termini analoghi si sono espressi anche i comunisti russi.

Ma qual'è la reazione della sinistra e dei comunisti in Italia e in Europa? Lasciamo ovviamente da parte, con tutto il disprezzo che meritano, i vari Blair, Jospin, Schróder, D'Alema. Oggi si ripete su scala più larga la vergogna di una "sinistra" imperiale, che ha avallato le infamie della tradizione coloniale e contro cui sono insorti Lenin e il movimento comunista. Parliamo invece di coloro che, in un modo o nell'altro, fanno ancora riferimento alla tradizione comunista e alla sua migliore eredità, la lotta contro il colonialismo e l'imperialismo. Possiamo prendere lo spunto dall'intervista di un politico e intellettuale giustamente assai stimato, che ha avuto la dignità di dimettersi dal comitato direttivo dei Ds, in segno di protesta contro l'atteggiamento assunto da questo partito. Nello spiegare questo suo gesto, Aldo Tortorella parte da una premessa: "Milosevic è un macellaio, e su questo siamo tutti d'accordo" (Tortorella, 1999).

No, non siamo tutti d'accordo. Peter Handke ha parlato sì di "macellai", ma in riferimento agli Usa e alla Nato. Lo scrittore austriaco ha aggiunto che "dal 24 marzo la Serbia, il Montenegro e la Jugoslavia sono la patria di tutti coloro che non sono diventati macellai" (e. n., 1999). In effetti, perché dare del "macellaio" a Milosevic e non a Clinton? Eppure, col suo micidiale embargo, il presidente americano sta falcidiando la popolazione dell'Irak; non poche volte la stampa americana e internazionale ha formulato il sospetto che certi bombardamenti siano stati ordinati con un occhio alle elezioni e ai sondaggi demoscopici oppure agli sviluppi dell'affare Lewinsky. E che dire poi del quotidiano martellamento aereo che continua ad essere effettuato in nome del rispetto di una "no fly zone" imposta in spregio al diritto internazionale e allo statuto dell'ONU. E' da aggiungere che il "macellaio" di Washington esige la sua brava razione di vittime quotidiane non già nel corso di una drammatica lotta per l'esistenza nazionale e persino personale bensì negli intervalli tra una campagna elettorale e una scorribanda sessuale.

E ora una seconda domanda. C'è una guerra coloniale che non abbia bollato i dirigenti dei paesi e popoli aggrediti come "macellai", "aguzzini", "criminali", "cannibali", "barbari" capaci di ogni infamia? E' nel solco di questa tradizione che si colloca Bobbio, allorché emana il suo bando di scomunica ovvero la sua ' fatwa contro "Milosevic, il dittatore, il tiranno, il provocatore, il guerrafondaio"; "lo scopo attuale dell'azione della Nato è di abbattere" questo mostro. A subire bombardamenti devastanti è la Serbia, ma nel quadro qui tracciato alla Serbia "guerrafondaia" la Nato risponde con un'"azione". Bobbio rincara ulteriormente la dose: Milosevic è un "nazionalista ad oltranza" (Bobbio, 1999). Ma perché mai il presidente serbo, che cerca di bloccare l'ulteriore smembramento del suo paese dovrebbe essere più nazionalista di Clínton, il quale dichiara di ringraziare Dio di averlo fatto nascere americano, attribuisce agli USA la "missione" eterna, "senza tempo" di "guidare il mondo", proclama che quella americana è l'unica "nazione indispensabile" e si attribuisce comunque il diritto di intervenire, in spregio al diritto internazionale, in ogni angolo del mondo? Le definizioni e gli epiteti generosamente profusi da Bobbio non hanno alcun senso logico, ma, è noto, quando si ha a che fare coi barbari, come non si è tenuti al rispetto delle regole del diritto, così non si è tenuti al rispetto delle regole della logica.

Abbiamo visto Mussolini atteggiarsi a campione della causa dell'emancipazione degli schiavi. Più tardi, i comunisti italiani hanno salutato la rivoluzione etiopica che ha rovesciato il negus ma, al momento dell'aggressione fascista, ad essi non è mai venuto in mente di lanciare parole d'ordine del tipo: "Né con Mussolini né con Hailè Selassiè!". Procedendo a ritroso, neppure nel 1911, quando a scatenare la guerra contro la Libia era un governo "progressista", che per i maschi adulti introduceva il suffragio universale (o quasi), neppure in tale occasione il movimento operaio italiano ha assunto posizioni terzaforziste: "Né con Giolitti né con l'Impero ottomano!". E' evidente che i paesi imperialisti e colonialisti sono in genere più sviluppati, anche per quanto riguarda l'ordinamento giuridico e politico, dei paesi da loro presi di mira. Ma insistere sull'arretratezza e sulla barbarie di questi ultimi significa perdere di vista la contraddizione principale e indulgere di fatto all’ideologia coloniale.

Grave è perciò l'atteggiamento di quei comunisti che dichiarano di condannare al tempo stesso e allo stesso modo l'embargo e i bombardamenti contro l'Irak da un lato e la dittatura di Saddam Hussein dall'altro. Ci sono persino alcuni che condannano le diverse tempeste militari ordinate da Washington solo per il fatto che sono "inutili" e non riescono a rovesciare gli attuali dirigenti. Dovremmo dunque applaudire se gli USA riuscissero ad assassinare il presidente irakeno con un missile "intelligente" e senza danni "collaterali"? In realtà Saddam Hussein non è certo peggiore degli sceicchi graditi a Washington. A parte tutto, è privo di senso della realtà esigere la democrazia in un paese stremato dall'embargo e dalla guerra ancora in atto e, soprattutto, dagli incessanti, dichiarati tentativi di destabilizzazione e di smembramento nonché di eliminazione fisica della sua classe dirigente. Bisogna dirlo con chiarezza: la linea sintetizzabile nella parola d'ordine "Né con Clinton né con Saddam" è espressione indiretta dell'influenza dell'ideologia dell'imperialismo nelle stesse file comuniste.

Considerazioni analoghe possono essere fatte per quanto riguarda la guerra contro la Jugoslavia. Dobbiamo esprimere il nostro rammarico per il fatto che la posizione di Milosevic si è rafforzata e dare consigli a Clinton su come fare meglio il suo mestiere di boia? A parte tutto, sarebbe una fatica inutile: a dare consigli del genere ci pensa già, fra gli altri, il principe Alexander, "erede al trono di Jugoslavia". Dobbiamo esprimere simpatia all'attuale presidente del Montenegro, il "liberale" e "riformista" Djukanovic, che cerca di sabotare lo sforzo bellico della Jugoslavia? Significherebbe appoggiare di fatto gli sforzi della Nato per smembrare ulteriormente il paese, significherebbe appoggiare la sporca guerra di Clinton. Dobbiamo gridare allo scandalo perché il governo di Belgrado impone la chiusura di "Radio B 92", finanziata da "Radio Free Europe", notorio centro di sovversione e covo di spie degli USA? Dileguata è la memoria di un glorioso capitolo di storia: nei terribili anni '30 e '40, i comunisti invocavano il pugno di ferro contro la quinta colonna dell'imperialismo hitieriano. Ma è meno terribile il periodo che oggi attraversa la Jugoslavia?

E, tuttavia, non si possono chiudere gli occhi dinanzi all'orrore dell'esodo dal Kosovo. Anche a voler prendere per vere tutte le notizie provenienti da un sistema di informazioni ormai militarizzato, bisogna dire che questa obiezione non può essere avanzata da una sinistra che continua a considerare Bobbio come una sorta di praeceptor humanitatis e comunque come interlocutore privilegiato. Abbiamo visto il filosofo torinese procedere ad una giustificazione retrospettiva del ricorso alla bomba atomica a Hiroshima e Nagasaki. Ma, allora, se è lecito ad un paese già vittorioso cancellare dalla faccia della terra alcune centinaia di migliaia di persone perché, ad un paese impegnato in una lotta per la vita e la morte, dovrebbe non essere lecito deportarle?

8.Il sentimento di vergogna e la necessità di una lotta

L'andamento di questa seconda grande guerra coloniale può essere di enorme importanza per le sorti dell'umanità. Senza schiacciare la Jugoslavia - scrive una giornalista che si atteggia a ideologa dello stato maggiore della Nato e dell'Occidente - "la guerra trionfalmente vinta nell'89 sarebbe presto perduta" (Spinelli, 1999). Sì, la disfatta del "campo socialista" e la dissoluzione dell'URSS hanno ridato fiato all'imperialismo e al progetto USA di sancire una volta per sempre il trionfo del "secolo americano". Ora, la realizzazione di questo progetto incontra un ostacolo imprevisto e formidabile. Gli occhi del mondo sono concentrati su Belgrado. Belgrado come Stalingrado?

Il popolo che ha saputo sconfiggere la selvaggia spedizione punitiva di Francesco Giuseppe, il tentativo di genocidio perpetrato da Hitler e Mussolini, il popolo, la cui resistenza alle pressioni di Stalin è stata a suo tempo tanto esaltata dall'Occidente, è ora impegnato in una lotta eroica contro l'aggressione imperialista scatenata da Clinton e dai suoi alleati e complici.

E' una lotta che chiama in causa tutti. Non si tratta solo di esprimere lo sdegno contro i "macellai" della Nato, che siedano a Washington o a Roma. E' necessario impegnarsi concretamente in due direzioni: 1) far pervenire alla Jugoslavia e al popolo serbo tutto l'aiuto finanziario e materiale possibile; 2) contrastare efficacemente l'opera dei "macellai", ostacolando il dispiegamento della macchina di guerra e di morte. L'Italia ha un compito particolare. A suo tempo, ha partecipato assieme a Hitler alla campagna di sterminio contro la Jugoslavia; non possiamo non sentire la vergogna per il fatto che il nostro paese svolga un ruolo centrale anche nell'aggressione in corso. Non possiamo rimanere passivi!

Domenico Losurdo

Urbino 5 aprile 1999

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