L'ECONOMIA SERBA A PEZZI
di Alexanrdra Schwartzbrod - ("Liberation", 5-6 giugno 1999)

Pubblicato in Italia da "Notizie Est" in collaborazione con la rivista "Guerre&Pace"
(
http://www.mercatiesplosivi.com/guerrepace/) e archiviata su web all'indirizzo: http://www.ecn.org/est/balcani

 

 

 

L'impatto dei bombardamenti sull'economia serba e' stato valutato di recente da un economista serbo, Pavle Petrovic, direttore del Centro di Studi Economici (Cesmecom) di Belgrado.

Distruzioni. Circa 50 ponti; tutti gli aeroporti civili; la principale stazione di terra per le telecomunicazioni spaziali, la maggior parte delle stazioni di ripetizione TV e svariate centrali telefoniche; centrali elettriche; depositi di petrolio e gas; circa 80 imprese, la maggior parte nel settore dell'industria pesante, con la messa in disoccupazione del 10% degli effettivi dell'industria.

Effetti macroeconomici. Diminuzione brutale dell'attivita' economica a causa delle penurie, dei problemi di trasporto e della caduta dei flussi commerciali. Durante i primi quattro mesi del 1999, vale a dire prima dei bombardamenti, l'attivita' economica era gia' drasticamente calata. Si stima che dopo due mesi di bombardamenti essa sia circa al 60% del livello del 1998.

Prima degli attacchi, il salario medio mensile era di 100 dollari, il reddito medio di una famiglia di 3,3 persone era di 250 dollari. Dopo di essi, i salari sono diminuiti del 20-30%. I consumi sono diminuiti dolo del 10-15%, perche' la popolazione ha attinto ai suoi risparmi e non ha piu' pagato servizi come l'elettricita', il telefono ecc.. Ma nei mesi che verranno i consumi dovranno calare del 60%, con la conseguenza di un aumento della poverta': si stima che dal 45 al 50% della popolazione scendera' sotto la soglia della poverta' (20% prima della guerra).

Lasciata a se' stessa, l'economia del paese non potra' che ristagnare. [...] "La ricostruzione dell'infrastruttura economica jugoslava sara' un compito notevole e costera' decine di miliardi di dollari", ha ammonito la commissione economica delle Nazioni Unite per l'Europa, prevedendo che l'assistenza "ufficiale" (FMI, Banca Mondiale, UE) dovra' essere gigantesca. "Fino a quando la sicurezza non sara' reinstaurata nella regione, e' poco probabile che i capitali privati esteri affluiscano", secondo l'ONU. [...] Ma il dramma della Serbia e' che ancora prima dei bombardamenti della NATO la sua economia era considerata come "moribonda".

Un anno 1997 contraddistinto da una forte depressione; l'inflazione vicina al 50%; la disoccupazione ufficialmente al 27%, ma secondo dati non ufficiali al 50%, mentre i sindacati stimano che le distruzioni della NATO abbiano aggiunto 600.000 disoccupati al milione citato dalle autorita' prima della guerra. Con un salario medio compreso tra 750 e 950 dinari (1 marco tedesco valeva 6 dinari ufficialmente, 8 dinari al mercato nero l'estate scorsa e 10 dinari oggi), gli jugoslavi erano gli operai meno pagati d'Europa. "Nel marzo 1998 erano necessari due salari medi per coprire i bisogni piu' elementari di una famiglia di quattro persone", scrive Daniela Heimerl. Rispetto al 1989 l'industria serba aveva perduto gia' nel 1998 piu' del 70% delle sue capacita' e la ricchezza nazionale si era ridotta della meta'. Il deficit di bilancio non era noto, ma le spese pubbliche erano state stimate come pari al 54% del PIL.

Il debito estero arrivava a 11,5 miliardi di dollari. [...] "[I piani di] privatuzzazione avviati non erano motivati da altro che il bisogno del governo di procurarsi fondi e non dalla volonta' di trasferire imprese oberate da debiti a investitori capaci di apportare dei capitale freschi", nota Daniela Heimerl, spiegando che il sistema della nomenklatura costituisce un freno alle messa in atto delle riforme: "Svariate personalita' del Partito Socialista e dei suoi alleati, tra le quali il Primo ministro e il Presidente della Jugoslavia, sono alla testa di imprese pubbliche che beneficiano di un regime di quote e di tariffe torbido". Secondo l'esperto del Ceducee, si sarebbero "900 complessi industriali di Stato che rappresenterebbero l'1,3% della produzione industriale, ma darebbero lavoro al 52% dei salariati e sarebbero responsabili dell'82% del deficit annuale.