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DOPO LA GUERRA, UN'ALTRA GUERRA
di Andrea Ferrario

Tratto da I Balcani" - http://www.ecn.org/est/balcani


Solo una settimana fa il sollievo per la cessazione dei bombardamenti della NATO sulla Jugoslavia e sul Kosovo era generale e condiviso non solo da chi vi si era opposto, ma anche dagli attori delle due guerre strettamente interconnesse, quella della Serbia contro la popolazione albanese del Kosovo e quella, aggiuntasi da fine marzo, della NATO contro la federazione jugoslava. Questo sollievo tuttavia e' durato ben poco. A soli dieci giorni dagli
accordi raggiunti a Belgrado sta diventando sempre piu' chiaro che l' "accordo di pace" e' stato in realta' una breve tregua, fissata con termini talmente ambigui e indefiniti da rendere chiaro che un'altra guerra dovra' essere combattuta nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, anche se per fortuna il capitolo delle pulizie etniche e dei bombardamenti sembra per il momento chiuso. Per capire quali saranno i probabili connotati di questa nuova guerra che si va delineando e' necessario individuare le radici di questo accordo "di pace".

 

 

 

 


LO STOP AI BOMBARDAMENTI, TRA USA, EUROPA E RUSSIA


Per l'intero mese si maggio si e' trascinato l'evidente imbarazzo della NATO di fronte a una situazione che sembrava senza via di uscita: i bombardamenti, che nelle intenzioni originarie avrebbero dovuto durare per breve tempo, restavano dopo piu' di un mese ben lontani dall'obiettivo di portare a un cedimento di Belgrado. Allo stesso tempo, l'alleanza atlantica si stava mostrando da una parte sempre meno capace di andare oltre un consenso su obiettivi minimi e dall'altra ampiamente divisa tra gli interessi particolari, mentre gli stati balcanici, tutti estremamente fragili, erano sempre piu' impazienti di vedere una rapida cessazione di una guerra dagli effetti per loro disastrosi sotto tutti gli aspetti. Nonostante questo, gli Stati Uniti hanno preparato accuratamente una scenografia per presentare gli accordi come una loro vittoria: alla Casa Bianca si e' addirittura tenuta il 2 giugno una riunione ai massimi livelli presieduta da Clinton, ufficialmente per studiare tutte le opzioni possibili e in particolare un eventuale intervento di terra con la partecipazione di decine di migliaia di soldati USA. In realta', un intervento di terra avrebbe comportato per la NATO problemi logistici e rischi di tale entita' che la sua effettuazione e' sempre stata da escludersi se non come un'ultima decisione disperata, da prendersi una volta esaurita ogni possibile altra alternativa, senza contare poi che una tale operazione avrebbe richiesto come minimo due mesi di preparativi (per maggiori dettagli sull'argomento, si veda Notizie Est #235, 29 maggio).

 

A fine maggio l'unico paese a dirsi, a parole, a favore di un intervento di terra era la Gran Bretagna, ma, visti gli enormi problemi e rischi di una tale opzione, e' chiaro che si trattava di un'operazione per mettere in imbarazzo gli USA e portarne alla luce l'incapacita' di risolvere la guerra con i semplici bombardamenti. Nei Balcani, e in particolare in Kosovo, la Gran Bretagna ha trovato il contesto nel quale svolgere un ruolo di punta tra i paesi europei, distinguendo piu' che altrove le proprie posizioni da quelle degli Stati Uniti. Questo suo ruolo "europeo", evidenziatosi lungo tutto il confitto in Kosovo, si e' reso particolarmente evidente nei mesi che hanno preceduto gli accordi di Rambouillet cosi' come durante lo svolgimento di questi ultimi, che non a caso sono stati organizzati da britannici e francesi senza alcuna partecipazione USA o NATO, se non l'arrivo all'ultimo momento di Madeleine Albright, che si e' vista passare la "patata bollente" del fallimento degli accordi e quella del difficile ottenimento della firma della delegazione albanese. Non solo, gia' dai primi piani messi a punto in vista di Rambouillet era previsto il ruolo di comando della Gran Bretagna nella forza di intervento KFOR, composta principalmente da paesi europei e con una presenza USA nettamente inferiore nei numeri e limitata alla zona in assoluto meno impegnativa di tutte dal punto di vista militare e della sicurezza, quella di Gnjilane, ancorche' di una certa rilevanza da un punto di vista strategico coprendo parte del confine con la Macedonia. Londra si e' assunta cosi' l'importante ruolo di "garante" di un maggiore ruolo militare e politico dell'Europa, come e' apparso evidente al summit di Washington per il cinquantenario della NATO, e come rivelava la stampa statunitense: "nel caso della Gran Bretagna, la situazione jugoslava ha consentito a Blair di sottolineare nuovamente la capacita' unica del suo paese di mantenere relazioni di particolare fiducia con gli Stati Uniti dall'interno di un contesto europeo [...] offrendo un messaggio interpretato come un volere affidarsi alla soluzione militare in misura maggiore rispetto a quanto lo voglia lo stesso governo degli Stati Uniti.

Allo stesso tempo, l'alto profilo del coinvolgimento della Gran Bretagna la aiuta a rimanere un elemento essenziale nelle discussioni sul futuro strategico dell'Europa e tende a cancellare l'impressione, all'interno dell'UE, che la Gran Bretagna sia meno che pienamente europea a causa della sua scelta di rimanere fuori dall'Unione Monetaria Europea" ("International Herald Tribune", 26 aprile). Londra ha avuto un ruolo di primo piano, a quanto pare, anche nella spinta verso un'incriminazione di Milosevic da parte del Tribunale dell'Aja ("Washington Post", 26 maggio), uno sviluppo che ha messo in malcelata difficolta' politica la Casa Bianca (come scrive il "New York Times" del 27 maggio: "in privato, funzionari dell'Amministrazione affermano che l'incriminazione con ogni probabilita' paralizzera' gli sforzi da essi messi in atto per trovare una soluzione diplomatica attraverso gli attuali canali" al fine di scongiurare un intervento di terra, mentre da parte loro, i "funzionari britannici hanno subito sottolineato che l'incriminazione rende improbabile che quello da loro definito come un accordo che tenta di salvare le apparenze possa essere firmato con Milosevic. 'Pensiamo che [l'incriminazione] possa essere utile a dare loro maggior polso', ha detto un funzionario britannico parlando dell'effetto dell'incriminazione sull'Amministrazione Clinton").

Queste differenti posizioni sono nuovamente emerse dopo la firma degli accordi con la Jugoslavia: l'arrivo dei russi a Pristina e l'occupazione da parte loro dell'aeroporto della citta', cioe' della prevista sede del comando britannico, sono stati per esempio sviluppi resi possibili dal vuoto venuto a crearsi in conseguenza di un non ancora chiarito ritardo di 24 ore nell'entrata delle truppe NATO in Kosovo, voluto dagli USA. Le successive trattative condotte dallo statunitense Talbott hanno visto ben presto quest'ultimo riconoscere la "legittimita' delle richieste russe di una zona sotto il loro controllo, che noi sosteniamo", provocando le immediate proteste del ministro degli esteri britannico Robin Cook, il quale ha immediatamente definito "inaccettabile la creazione di un settore russo" (AFP e UPI, 13 giugno).

La Francia, da parte sua, ha incassato un'importante vittoria politica sugli Stati Uniti con la crisi dell'ultimo secondo che ha vincolato gli accordi per la forza KFOR in Kosovo a un voto del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, mentre a livello militare Parigi ha mantenuto e conservato una presenza di primo piano in Macedonia, oltre a quella rilevante messa in atto in questi giorni nello stesso Kosovo. La Germania afferma per la prima volta un suo importante ruolo militare in una missione all'estero e con il suo comportamento ligio alla linea europea e atlantica mira a correggere l'immagine di fomentatrice di separatismi e destabilizzazioni che le era stata cucita addosso dai colleghi europei all'inizio di questo decennio, nel contesto delle tensioni intraeuropee causate dal riassetto del continente dopo la fine della Guerra Fredda. Il governo italiano, da parte sua, e' riuscito a superare senza drammatici sconvolgimenti il problematico ruolo di portaerei della NATO e a conservare il proprio potere contrattuale in vista della futura nuova spartizione della torta balcanica, riuscendo a conservare canali privilegiati con Belgrado e mettendo sotto propria tutela Rugova.

Nel complesso, quindi, l'Europa sembra avere vinto un'importante battaglia nei confronti dell'alleato statunitense. La guerra della NATO era partita, dopo l'ampiamente annunciato fallimento delle trattative di Parigi, secondo la ricetta di un interventismo al di fuori di ogni mandato ONU, con l'emarginazione della Russia e con la volonta' di asserire la sola validita' di una strategia di "guerra lampo" mediante l'esibizione della potenza militare e di una forza diplomatica basata essenzialmente su di essa. Gli esiti, fino a oggi, sono stati un insuccesso pressoche' su tutti i fronti, per gli Stati Uniti: l'ONU viene nuovamente coinvolta, con un diritto di veto reso potenzialmente piu' incisivo da un contesto che vede non solo la Russia, ma addirittura anche la lontana Cina acquisire, grazie all'"incidente" del bombardamento della sua ambasciata, maggior voce nelle decisioni della grande diplomazia mondiale. Gli europei sono riusciti a ottenere questo risultato, dando al contempo prova di disciplina e di fedelta' atlantica e dimostrando di essere politicamente in grado di gestire una difficilissima situazione di guerra.

Gli Stati Uniti invece si sono trovati in un vicolo cieco, dal quale sono usciti solo attraverso l'aiuto dei russi e l'assegnazione di un maggiore ruolo agli europei (per esempio con la bozza di accordo dei G-8, che e' stata la base per la successiva versione definitiva degli accordi). La strategia dei bombardamenti e dell'esibizione della forza si e' dimostrata ineffettiva, in assenza della capacita' di trovare con rapidita' soluzioni diplomatiche, che nell'attuale situazione balcanica gli USA non sono riusciti a trovare e per le quali l'Unione Europea, vista la sua massiccia presenza nell'area sia a livello economico che politico (e ora anche militare), sembra disporre di carte migliori. Dal punto di vista economico, non a caso, sembra prospettarsi un dopoguerra tutto europeo, con un piano in cui punti essenziali sono la supervisione europea sull'introduzione del "libero mercato" nei paesi balcanici (e quindi anche delle privatizzazioni, gia' ampiamente egemonizzate dall'UE, sia a livello di acquisizioni di imprese, che di controllo delle procedure tramite i propri consulenti), la rapida "euroizzazione" dell'intera area, anche attraverso lo strumento dei "consigli valutari", la creazione di un'Agenzia europea per il rinnovo e lo sviluppo dei Balcani, la creazione di un'Agenzia per lo sviluppo della democrazia nei Balcani (andando cosi' a invadere un'area nella quale gli USA erano molto attivi attraverso organizzazioni come la USAID), l'intensificazione della dottrina ESDI della NATO con una progressiva intensificazione del ruolo europeo nelle operazioni di "mantenimento della pace", il controllo diretto delle dogane e dei confini con la scusa della criminalita' e dei flussi migratori e nuove modalita' di integrazione dei paesi balcanici nelle strutture politiche dell'UE (sono queste le linee principali del "piano Prodi", si veda "Kapital", 15-21 maggio). Detto questo, va tuttavia sottolineato che per l'Europa vi e' il rischio di mettere in atto programmi troppo ambiziosi in un'area dove tutti i soggetti statali sono estremamente fragili e dove e' necessario un impegno di vasta portata su molteplici fronti: quello economico, quello politico e quello militare.

Quali siano stati i problemi in cui sono venuti a trovarsi gli Stati Uniti lo illustrano con chiarezza le parole di Ivo Daalder, ex-membro del Consiglio di sicurezza nazionale di Clinton, citate da Jane Perlez nel suo articolo per il "New York Times" del 7 giugno: "Alla fine, l'obiettivo primario di Clinton, quello di dimostrare la serieta' degli intenti della NATO, e' stato conseguito: nonostante le forti tensioni e le differenze di opinione, l'alleanza e' rimasta unita. Ma nei fatti, l'unita' della NATO e' stata raggiunta a spese di altri obiettivi. I costi sono stati straordinariamente alti" in termini di profughi, nonche' di destabilizzazione a lungo termine della Macedonia, dell'Albania e dell'intera regione. E' vero, prosegue il giornale, "l'obiettivo di mantenere la credibilita' della NATO e' stato raggiunto. L'alleanza ha dato seguito alle proprie minacce di bombardamenti, e' riuscita a fare accettare a Milosevic un accordo in base ai propri termini e non ha smesso di bombardare fino a quando non e' stato raggiunto un accordo finale. Ma l'obiettivo non e' stato conseguito senza alti costi. Mentre le notizie di un accordo con Milosevic cominciavano a giungere insistenti alla sede generale della NATO, racconta un alto ufficiale del Patto Atlantico, l'alleanza e' riuscita a stare insieme piu' andando avanti in maniera barcollante che con decisioni risolute. Si puo' dubitare che la NATO si avventurera' mai in un'altra campagna del tipo di quella per il Kosovo.

 

Dopo cinquant'anni di redazione di documenti, di analisi e di preparativi, la prima guerra della NATO potrebbe essere anche la sua ultima. 'Questa guerra ha dimostrato l'incredibile difficolta' di un'azione umanitaria-militare condotta da un'alleanza', ha detto l'ufficiale. 'Personalmente ritengo che si tratti di un'esperienza che non debba mai piu' ripetersi. Ha lasciato un amaro sapore di disaccordi all'interno dei vari governi, tra questi stessi governi e tra il quartiere generale della NATO a Bruxelles e la direzione militare a Mons. Si e' trattato di un'esperienza scottante'". E in effetti nei principali giornali statunitensi sono stati non pochi i commenti e le dichiarazioni secondo cui nei prossimi anni sara' difficile che vi sia una disponibilita' di Washington a effettuare interventi del genere. Anche i problemi di coordinamento dell'Alleanza atlantica sono stati rilevati da varie fonti, come "Le Monde" del 13 maggio, che riferiva della creazione di una specie di "Consiglio di sicurezza" della NATO formato da USA, Gran Bretagna, Francia e Germania, per snellire le procedure decisionali, ma lo stesso quotidiano definiva questa soluzione come piu' di facciata che reale, affermando che per tutto il periodo della guerra vi e' stata la necessita' di adottare un "minimo comun denominatore" negli obiettivi degli attacchi, cosa che avrebbe innervosito numerosi responsabili militari. Un altro elemento, a livello militare, e' stata la scarsissima incisivita' degli attacchi sulle forze militari jugoslave in Kosovo.

 Come doveva ammettere il "Washington Post" (2 giugno) in un articolo peraltro teso a lodare l'incisivita' degli interventi NATO, i tentativi messi in atto dall'UCK tra fine maggio e i primi di giugno di penetrare all'interno del Kosovo dalle proprie basi in Albania, hanno in realta' messo in luce l'alta mobilita' di cui ancora godeva il nutrito numero di carri armati, cannoni e altri mezzi pesanti dell'esercito jugoslavo. Un dato confermato di li' a breve nei giorni del ritiro delle forze jugoslave, che hanno visto partire dalla sola zona di Podujevo, una di quelle in cui l'esercito jugoslavo si era impegnato di meno negli ultimi due mesi, una colonna di piu' di quattrocento mezzi, tra cui piu' di cento tra carri armati, cannoni della contraerea e altri corazzati, oltre a radar mobili (AFP, 11 giugno), mentre dall'aeroporto di Pristina, uno dei piu' intensamente bombardati, sono partiti perfettamente integri ben 11 MIG-21 (qualcuno parla di un numero doppio di MIG, comprendente anche altri modelli meno recenti) ("New York Times", 12 giugno). A ulteriore conferma, il "Times" di Londra (16 giugno) raccontava che sotto gli occhi degli osservatori militari britannici appostati sulle colline intorno a Pristina, il 14 giugno erano passati 700 mezzi militari e il giorno successivo ben 1000, sottolineando che si trattava di mezzi non di poco conto: carri armati T-72, T-55, T-54 e S-1, batterie lanciamissili D-90 e corazzati MTLB. Il giornale concludeva scrivendo che: "la quantita' di mezzi corazzati di cui l'esercito jugoslavo ha fatto sfoggio in enorme quantita' sulla strada rende dubbie le affermazioni della NATO secondo cui la sua aviazione avrebbe danneggiato o distrutto dal 40 al 50 per cento dei carri armati e dell'artiglieria jugoslavi in Kosovo". Si tratta di una delle conseguenze della necessita' di proseguire a ogni costo gli attacchi aerei, con l'obiettivo, tra gli altri, di tenere unita l'alleanza, e che a sua volta si e' tradotta nel bombardamento, spesso ripetuto, di obiettivi civili molto piu' facili da colpire, con i conseguenti "errori", costosi per la NATO in termini di consenso pubblico interno.

Questa "sconfitta" degli Stati Uniti naturalmente non e' definitiva e la posizione estremamente impegnativa e delicata in cui si trovano ora gli europei, fa di questi ultimi anche un obiettivo estremamente vulnerabile, tanto piu' che in ambito europeo manca una stretta coesione di interessi (per essere precisi, anche l'amministrazione americana ha dato ampia prova di forti divisioni tra le varie lobby interne, che spesso si intrecciano in alleanze piu' o meno momentanee con gli europei - come dimostra, per fare un solo esempio, l'avvicendarsi in Kosovo dei mediatori statunitensi Gelbard, Holbrooke e Hill, o l'altalenarsi delle posizioni USA all'interno della missione di verifica OSCE). Anche se entrambe la parti sono interessate a conservare l'unita' dell'Alleanza atlantica (l'unico vero successo occidentale di questa guerra), il reciproco conflitto continuera' senz'altro in Kosovo e in tutta l'area, se si tiene presente l'importanza, per entrambe le parti, di conseguire i propri obiettivi particolari (per gli USA la conservazione dell'egemonia politico-militare con un minore impegno in termini di uomini e mezzi, per l'Europa il rafforzamento del proprio ruolo politico, economico e militare, e la consolidazione interna). In questo conflitto non dichiarato la Russia, gia' coinvolta per trovare un'uscita dal vicolo cieco dei bombardamenti, avra' sicuramente un suo importante ruolo di terzo incomodo, come hanno dimostrato le modalita' dell'insediamento dei soldati russi a Pristina.

Il ruolo di Mosca non va tuttavia esagerato e la sua difficolta' nel muoversi e' stata dimostrata, per fare solo un esempio, dagli sviluppi immediatamente successivi all'insediamento dei suoi soldati a Pristina. La Russia, infatti, alcuni giorni fa ha annunciato di avere l'intenzione di inviare in Kosovo con un ponte aereo un nutrito contingente (da 5.000 a 7.000 uomini), ma si e' poi vista subito negare la concessione del permesso di transito da parte di tutti i paesi ai quali ne ha fatto richiesta (Ungheria, Romania e Bulgaria). La capacita' di Mosca di esercitare pressioni contemporaneamente a livello militare, diplomatico ed economico e' di gran lunga inferiore a quella di USA ed Europa, nonostante la sua presenza economica nei Balcani rimanga non trascurabile. Il fatto pero' che la missione KFOR sia sotto il "patrocinio" del Consiglio di sicurezza da' ai russi un fondamentale potere di veto, che diventera' tanto piu' inciviso quanto piu' permarranno le divergenze tra Europa e Stati Uniti. A tale proposito, riprendiamo quanto scritto con efficacia da Michael Karadjis nel settimanale "Green Left Review" del 19 maggio: "mentre vogliono dimostrare di avere in mano le redini della situazione, gli Stati Uniti puntano anche ad avere la Russia come proprio partner subordinato in Europa, in considerazione del suo enorme peso diplomatico e militare. Se l'ignorare la Russia e l'ONU nel lanciare l'attacco NATO mirava da una parte a dimostrare questo ruolo subordinato, dall'altro questa non era una mossa aggressiva contro la Russia. La Russia e' piu' una colonia del FMI che un rivale economico.

Uno degli obiettivi degli USA e' stato quello di evitare la pericolosa possibilita' di un accordo regionale tra l'imperialismo franco-tedesco e la Russia, che potrebbe lasciare gli USA fuori dall'Europa. Gli USA vogliono dare alla Russia un ruolo politico nelle aree vicine alle sue frontiere. Quando Boris Eltsin ha reso pubblica una versione russa della "Dottrina Monroe" nel 1994 Washington ha avuto poco da obiettare; e quando Mosca ha dimostrato con i fatti quello che intendeva con il circolo vizioso della guerra in Cecenia, ha ottenuto l'acquiscenza occidentale. L'inclusione di truppe russe nella forza guidata dalla NATO in Bosnia in seguito agli accordi di Dayton nel 1995 ha cementato questa 'partnership con subordinazione'. E' per questo che gli USA spingono ora fortemente per un ruolo della Russia come intermediario con la Serbia. E il 7 maggio Clinton ha descritto l'operazione in Bosnia come un modello per il Kosova - un particolare interessante, visto che in Bosnia la NATO provvede all'applicazione di una spartizione etnica..."

GLI ACCORDI, L'UCK, IL FUTURO DEL KOSOVO

Che tutto l'assetto del Kosovo sia ancora da decidere, e che esso verra' deciso sul campo, lo dimostrano la vaghezza e la mancanza di definizioni precise negli accordi stipolati (come al solito, con la sola Jugoslavia - con la parte albanese si sta trattando un accordo in questi giorni, ma unicamente in relazione al disarmo dell'UCK), cosi' come i problemi che ci sono stati immediatamente nella definizione dei dettagli militari con la parte jugoslava e quelli successivi relativi all'ingresso delle truppe NATO in Kosovo. Rispetto agli accordi di Rambouillet, la prima differenza che salta agli occhi e' quella relativa al ritiro delle forze serbe, che deve essere completo e rapido, mentre i precedenti accordi prevedevano tempi piu' lunghi e regolavano nei dettagli la permanenza di un contingente limitato, in particolare ai confini della Federazione. Nella risoluzione del Consiglio di sicurezza, invece, si dice che truppe jugoslave potranno tornare in un secondo tempo per proteggere i confini e il patrimonio culturale e religioso serbo (centinaia di siti disseminati su tutto il territorio del Kosovo), rimandando a un annesso nel quale si dice che questo rientro sara' "nell'ordine delle centinaia, e non delle migliaia" di uomini, ma non si puo' non notare che subito dopo la firma dell'accordo, la delegazione NATO che trattava a Blace i dettagli militari parlava gia' di 2.500 uomini (Belgrado ne chiede 15.000). Anche la definizione dello status del Kosovo diventa ancora piu' confusa. L'unico particolare ribadito a chiare lettere nei nuovi accordi, cosi' come lo era in quelli di Rambouillet, e' il rispetto dell'integrita' territoriale della Jugoslavia, alla quale si aggiunge ora quella dei paesi confinanti. Ma per il Kosovo, tra la risoluzione del Consiglio di sicurezza e il documento dei G-8 al quale essa fa esplicitamente riferimento, si prevede un periodo indefinito di amministrazione ONU (alcuni mesi? svariati anni?), al quale fara' seguito un periodo di "ampia autonomia" (non definita in alcun modo), anche in questo caso per un periodo indefinito. Si fa riferimento, in questo caso come in altri punti, al rispetto dello "spirito di Rambouillet" (che comunque negava ai kosovari ogni diritto all'autodeterminazione [1]), ma si tratta di una formula estremamente vaga, che nell'indefinitezza generale del quadro degli accordi puo' comportare tutto e il contrario di tutto. Riguardo all'UCK, a differenza degli accordi di Rambouillet (dove rientrava nel calderone delle "altre formazioni armate") viene citato esplicitamente e quindi riconosciuto, anche se non e' una delle parti contraenti. Rambouillet prevedeva un piano con tempi precisi per il suo disarmo e per la sua integrazione in forze di polizia "multietniche" del Kosovo. Gli attuali accordi parlano di una sua "smilitarizzazione", termine ambiguo che potrebbe significare sia la sua completa dissoluzione come forza armata, che la sua trasformazione o integrazione in una forza di sicurezza. E' chiaro quindi che non solo i dettagli, ma tutti i particolari fondamentali devono essere ancora definiti (non ultimo quello di chi si prendera' carico dell'amministrazione civile - si e' gia' fatta avanti l'OSCE) tra un caos di soggetti diversi, che vanno dall'ONU, alla NATO, all'Europa, agli Stati Uniti, alla Russia, alla Jugoslavia, all'UCK e ai moderati di Rugova.

Nei primi giorni dell'occupazione NATO in Kosovo questa situazione e' stata sfruttata a proprio vantaggio da due soggetti opposti: la Russia, di cui abbiamo gia' parlato, e l'UCK. Quest'ultimo si trova oggi di fronte a quella che sara' una tappa decisiva della sua evoluzione. La prima radicale trasformazione di questa formazione si era avuta tra il marzo e l'aprile del 1998, quando, di fronte alle massicce offensive e ai massacri messi in atto dalle forze di Belgrado, l'allora ristretto gruppo armato si e' trasformato in una forza insurrezionalista di massa, sicuramente al di la' di quelle che erano le intenzioni dei suoi organizzatori. Nei mesi successivi l'UCK si e' trovato a dovere fare contemporaneamente fronte a massicce e ininterrotte cruente offensive su tutto il territorio del Kosovo, da una parte, e dall'altra ai tentativi di una sua liquidazione da parte di Rugova, il quale ha agito prima a livello politico, collaborando con i paesi NATO e aprendo a Milosevic, e poi a livello militare, con la creazione e l'infiltrazione delle FARK (Forze Armate della Repubblica del Kosovo). In tutto questo periodo e fino al gennaio del 1999, l'UCK ha inoltre dovuto fare fronte a una perseverante ostilita' da parte dell'Occidente, che gli ha sempre preferito come interlocutore Milosevic, fino al punto di dare due volte nei fatti il via libera ai tentativi di quest'ultimo di cancellare la resistenza kosovara con ampie offensive militari (febbraio-marzo e luglio- settembre '98). Per riassumere, le fasi passate da questa organizzazione sono state quelle: 1) della formazione terroristica di e'lite fino al febbraio '98 (con un primo salto di qualita' dal novembre del '97, quando vi e' stata la prima conquista di una seppure molto limitata area di territorio, il cuore della Drenica); 2) del movimento insurrezionale di massa, con strutture ampiamente orizzontali e autorganizzate, un radicamento fortemente territoriale e privo di vertici centralizzati, dal marzo a tutta l'estate del '98; 3) del tentativo di razionalizzazione militare (in larga parte riuscito), di centralizzazione dei comandi (conseguito solo in maniera molto limitata) e di creazione di una propria fisionomia politica (completamente fallito), fino al febbraio '99; 4) quello di una nuova divisione interna, della conquista definitiva del potere da parte di un ristretto gruppo (Thaci, Krasnici e i loro stretti collaboratori) sull'onda dell'emergenza di guerra e con il sostegno occidentale, tra il febbraio '99 e oggi. Che la fiducia dell'Occidente sia non solo di recente data, ma vada esclusivamente ai suoi alti dirigenti lo dimostra il fatto che durante i due mesi e mezzo di guerra, e nonostante si sia trovata in forti difficolta', la NATO non ha mai dato alcun aiuto all'UCK (nemmeno alimentare o sanitario) e ha lasciato tranquillamente che venisse sconfitto e in massima parte espulso dal Kosovo insieme alla sua popolazione.

L'unico "aiuto" c'e' stato nell'ultima settimana della guerra, quando l'imminenza di un accordo era ormai chiara, con i bombardamenti effettuati dagli aerei NATO in coincidenza con l'offensiva del monte Pastrik, al confine con l'Albania, rivelatasi comunque un disastro. Da Rambouillet in poi, il gruppo dirigente guidato da Thaci non ha perso occasione per dimostrare la propria subordinazione all'Occidente, raggiungendo punte di estremo cinismo, a volte tragicomico, durante il periodo dei bombardamenti della NATO e dopo. Non solo non una critica e' stata rivolta all'alleanza occidentale per il modo in cui ha lasciato massacrare e deportare la popolazione albanese del Kosovo (e cio' era gia' avvenuto in passato) - l'agenzia Kosovapress, controllata dal vertice UCK, ha continuato con un incredibile servilismo a sostenere che a bombardare le colonne di profughi o la base UCK di Koshare fossero stati "probabilmente Mig jugoslavi" anche dopo che la stessa NATO aveva riconosciuto la propria responsabilita'. Oggi Thaci sembra accettare quasi ogni condizione che gli viene posta: dal disarmo, alla rinuncia all'indipendenza (naturalmente non lo puo' dire a chiare lettere, ma ora afferma di "sperare in un referendum tra tre, cinque o sette anni") e, soprattutto, accettando un protettorato incondizionato e a tempo indeterminato da parte della NATO. Paradossalmente, questo era il progetto originario non dell'UCK, ma dei "moderati" di Rugova, che un tale protettorato richiedevano da anni, cosi' come lo richiedeva il loro punto di riferimento a Tirana, Sali Berisha, il quale, per la cronaca, in un comunicato del 5 ottobre 1998, dopo avere attaccato l'allora dirigenza dell'UCK, chiedeva i bombardamenti della NATO e scriveva che "vi deve essere un nuovo accordo del tipo di quello di Dayton nel quale il principio secondo il quale i confini non devono essere cambiati con la violenza e il principio della autodeterminazione vengano armonizzati" (comunicato del Partito Democratico Albanese, in "Albanews", 5 ottobre 1999). In realta' tra i moderati di Rugova e l'UCK gli scontri sono stati durissimi quando quest'ultimo conquistava un seguito popolare ed era un movimento dalle caratteristiche ampiamente antiautoritarie, oppure, piu' di recente, quando si e' trattato di lottare per i favori dell'Occidente, ma i punti di contatto in realta' non mancano.

La presenza di rugoviani all'interno dell'UCK non e' per nulla trascurabile. Innanzitutto, quando per forza di cose, di fronte alle offensive e ai massacri di Belgrado, l'UCK ha dovuto ampliarsi su tutto il territorio, l'urgenza di organizzare la difesa ha fatto entrare nelle strutture dell'Esercito di Liberazione del Kosovo numerosi dirigenti locali della LDK, il partito di Rugova che per anni ha avuto un controllo capillare del Kosovo "parallelo". Sono stati molti anche i rugoviani che hanno aderito all'UCK per dissidi personali o tattici, ma non di fondo, con il leader della resistenza passiva e tra questi vi e' un esponente di primo piano dell'UCK come Jakup Krasnici. Infine, dall'estate scorsa vi e' una nutrita presenza militare all'interno dell'UCK che aderisce si' a questo "marchio di fabbrica", ma che in realta' ha le proprie origini nelle FARK e riconosce in Rugova il proprio capo politico. Le divisioni tra le due fazioni hanno ormai quasi completamente perso ogni caratteristica di sostanza e si stanno riducendo a una pura e semplice lotta per il potere, che ha un suo parallelo a Tirana (Berisha e i democratici con Rugova, Majko e i socialisti con Thaci). Questo svuotamento di contenuto non ha reso pero' minori le inimicizie e la lotta per il potere in Kosovo sara' sicuramente molto aspra, senza esclusioni di colpi, sia a Pristina che a Tirana. Se Rugova puo' contare sulla lunga esperienza e i consolidati canali di contatto con l'Occidente, e addirittura anche con la leadership di Belgrado, il curriculum di Thaci da questo punto di vista e' piu' fragile, nonostante sia momentaneamente sulla cresta dell'onda, fatto dovuto in buona parte al particolare che la presenza dell'UCK sul terreno in presenza di un'occupazione NATO e' una non indifferente "gatta da pelare" e sono necessari interlocutori che si spera possano tenere sotto controllo la situazione, e da questo punto di vista Rugova non ha molto da offrire. Per migliorare la propria immagine di "garante della stabilita'", Thaci ha compiuto mosse che non possono essere definite che vergognose, come l'incontro con uno dei maggiori finanziatori e sostenitori politici del regime di Belgrado, il ministro degli esteri Dini, o quello con il primo ministro macedone Georgievski, con il quale Thaci si e' congratulato per il trattamento riservato dal suo governo ai profughi albanesi [sic!] e ha delineato un'ampia collaborazione. Nel perseguire questi suoi piani, Thaci ha correttamente compreso che i suoi principali nemici sono i russi - un loro importante ruolo, infatti, non farebbe che andare a vantaggio di Rugova, maggiormente gradito a Belgrado. Entrambi i leader possono comunque solidalmente fare affidamento, per i loro piani, sul fatto che il Kosovo ormai e' distrutto e totalmente dipendente dall'estero, nonche' sul desiderio della popolazione di potere tornare alle proprie case e riprendere una vita pacifica. Questi sono anche i motivi del totale sostegno popolare alla NATO, ai quali va aggiunto il fatto che l'UCK non e' riuscito a proteggere la popolazione di fronte alla macchina da guerra jugoslava, comunque di gran lunga piu' potente. Questo sostegno incondizionato proseguira' fino a quando i primi seri nodi verranno al pettine. A tale proposito, va notato che anche se a parole i vari comandanti di zona appoggiano la NATO, nei fatti il loro atteggiamento non e' cosi' scontatamente remissivo, come testimoniano il comportamento, per fare due esempi, del comandante della zona di Llap, il noto e apprezzato in Kosovo "Remi", uno di coloro che si sono opposti agli accordi di Rambouillet, il quale ha escluso qualsiasi consegna di armi che non siano di piccolo calibro e di vecchio tipo, affermando che l'UCK rimarra' l'esercito del Kosovo ("The Times", 16 giugno), pur augurandosi diplomaticamente una collaborazione con la NATO, o le dichiarazioni del comandante "Drini", che nel caos dei primi giorni dell'occupazione NATO e' riuscito a prendere il controllo di Prizren e rifiuta di prendere in considerazione l'obbedienza a un comando NATO ("The Guardian", 15 giugno). Che i rapporti all'interno dell'UCK siano tesissimi lo testimonia un articolo pubblicato da "The Observer" il 13 giugno (riportato da RFE/RL il 14 giugno), nel quale si riferiscono le parole di un combattente dell'UCK a Kukes, secondo cui "ci sono scontri... tra gli ufficiali e [i soldati regolari di un campo UCK in Albania]... Gli uomini vogliono entrare in Kosova. Se la NATO e' li' con centinaia di giornalisti ritengono che anche loro dovrebbero esserci. E' anche la loro vittoria e sono scontenti per il fatto che nessuno riconosca il loro ruolo" Un altro soldato sottolinea che "tutti i soldati che sono qui sulla linea del fronte vogliono andare a casa a controllare i loro villaggi... L'UCK avra' difficolta' a cercare di tenere insieme i propri uomini". Un mercenario olandese, che si e' dimesso dall'UCK, ha raccontato che "i comandanti stanno combattendo tra di loro per le rispettive posizioni. Ogni comandante ha due guardie del corpo... I comandanti hanno paura l'uno dell'altro. Le cose si metteranno davvero molto male". Il regime di occupazione NATO, la concentazione degli interessi imperialisti in genere nell'area, ma anche il legittimo desiderio di pace e di ordine da parte degli albanesi che rientrano in Kosovo, tenderanno certamente a inibire ogni spinta al cambiamento.

Rimane il fatto che non e' possibile vedere un futuro di liberazione per il Kosovo senza la rimozione delle attuali dirigenze albanesi (radicali o moderate che siano), come avevamo gia' scritto all'inizio dei bombardamenti, e senza una politica autonoma dagli interessi dell'imperialismo. La preziosa, seppure tragicissima, esperienza della lotta di liberazione degli albanesi del Kosovo nel corso dell'ultimo anno e mezzo rimane tuttavia un capitolo fondamentale dal quale non sara' possibile prescindere per una ripresa della battaglia per l'emancipazione da ogni dominio, anche se le attuali condizioni materiali, politiche, militari e internazionali sono l'esatto contrario di quello che sarebbe il contesto ideale di una lotta per un'autentica autodeterminazione.
Belgrado continuera' ad avere una forte voce in capitolo riguardo al Kosovo, nonostante la riduzione di quest'ultimo a un protettorato della NATO (o dell'ONU, se la Russia acquisira' un ruolo effettivamente importante). La misura di tale influenza dipendera' dalle modalita' dei tentativi di stabilizzazione dell'area da parte delle grandi potenze, dall'intensita' dello scontro Europa-USA per l'egemonia e dall'arrivo al potere o meno, in Serbia, di una nuova classe politica. Una leadership moderata piu' presentabile a Belgrado aumenterebbe sicuramente il ruolo della Serbia agli occhi dell'Occidente, a condizione tuttavia che tale dirigenza sia in grado di avere basi sufficientemente solide, cosa che sembra al momento difficile a realizzarsi. I danni e le distruzioni causate dai bombardamenti NATO alla struttura economica della Serbia sono enormi, sicuramente piu' ingenti di quelli subiti dalla macchina militare, la demoralizzazione tra la popolazione serba e' alta, la necessita' di concentrarsi sulla ricostruzione e la ripresa di una vita normale avranno con ogni probabilita' il sopravvento su ogni altro tipo di mobilitazione ed e' difficile che possano riprendere le proteste di studenti, lavoratori e pensionati che sono state intensissime nel 1998. Il salto di qualita' fatto negli ultimi due mesi nella limitazione dei diritti democratici in Jugoslavia e' stato notevole e, viste le condizioni assolutamente sfavorevoli, anche in questo campo sara' difficile un ricupero.

 Rimane da vedere quanto restera' coesa l'oligarchia al potere a Belgrado in un momento in cui in Occidente circolano con insistenza i nomi di possibili successori di Milosevic (esponenti governativi come Granic o Karic, oppure, tra le fila dell'opposizione, i nomi ormai piuttosto logori di Djindjic, Panic o Djukanovic) - non e' infatti da escludersi che al vertice,i' o ad altri livelli il potere di Belgrado, nel caos del dopoguerra, cominci a sfaldarsi. Milosevic e i suoi si trovano probabilmente in una situazione difficile perche' si sono lasciati sfuggire quella che con ogni evidenza poteva essere una loro parziale vittoria personale (non certo per il loro paese). Naturalmente ci si muove qui nel terreno delle ipotesi, ma all'inizio di maggio sembrava chiaro che ci si stesse avvicinando a una soluzione diplomatica con ogni probabilita' piu' vantaggiosa per Belgrado, nel momento in cui erano stati liberati i tre soldati americani e Rugova era stato inviato in Italia. In quei giorni si parlava di un accordo imminente, addirittura si prevedeva la data del 15-16 maggio, ma poi tutto e' saltato, con lo strano "incidente" del bombardamento dell'ambasciata cinese il 7 maggio e l'avvio della campagna per un intervento di terra guidata da Tony Blair, di cui abbiamo gia' riferito nella prima parte. Sempre per fare delle ipotesi a posteriori, non e' difficile immaginare che chi doveva poi assumersi il comando della missione KFOR e il controllo delle zone maggiormente a rischio (l'Europa), abbia premuto per una soluzione con un'iniziale inferiore presenza serba e, soprattutto, russa. Anche il tempismo dell'incriminazione di Milosevic alla vigilia di un probabile accordo e' stato un segno di nervosismo e di lotte interne all'alleanza occidentale. Questo non esclude che poi in un secondo tempo non vi potranno essere nuove aperture dell'Europa nei confronti di Belgrado e Mosca, con i quali i paesi UE hanno salde relazioni, ma non si puo' non notare in questi giorni che uno dei politici occidentali piu' intensamente legati a Belgrado e in particolare a Milosevic e a Milutinovic, cioe' il solito Lamberto Dini, abbia nel giro di una decina di giorni elegantemente scaricato il presidente jugoslavo con ripetuti interventi sul "Corriere della Sera", cambiando decisamente registro rispetto a solo due settimane fa. Il regime jugoslavo quindi in questo momento sembra essere perdente, mentre solo fino a poco tempo fa avrebbe potuto capitalizzare molto di piu' sulle difficolta' della NATO. Ma, lo ripetiamo, tutti i giochi fondamentali devono ancora essere fatti sul terreno e Milosevic, o un suo eventuale successore, avranno ampio spazio di manovra.
Solo due parole sul contesto balcanico, sul quale ritorneremo piu' ampiamente nelle prossime settimane. Il "ventre molle" dei Balcani, la Macedonia, ha retto bene solo apparentemente alla guerra. Il trattamento riservato ai profughi albanesi e l'esplicitarsi dell'ostilita' dei macedoni nei confronti degli albanesi hanno fortemente alterato la gia' difficile convivenza tra le due nazionalita'. Il problema dei diritti nazionali degli albanesi rimane in larga parte irrisolto e il contesto generale e' reso ancora piu' grave da un enorme peggioramento della crisi economica, senza prospettive di miglioramento nemmeno a medio termine (e con la conseguente iniezione di enormi aiuti assistenzialistici). Rimangono intatte invece le ambizioni egemoniche di stati vicini come Grecia e Bulgaria. Quest'ultima ha subi'to, e subira' ancora, enormi danni dalla guerra contro la Jugoslavia, che il governo di Sofia sta gia' utilizzando per coprire il fallimento delle proprie politiche economiche, delineatosi con chiarezza gia' all'inizio di quest'anno, e per ottenere il rinvio della chiusura delle aziende in passivo (e quindi delle conseguenti tensioni sociali), nella speranza di ottenere anch'essa aiuti assistenzialistici dall'Occidente. In Romania la situazione continua a essere catastrofica e tesissima, ai limiti dello "scenario albanese", con un governo che va avanti ormai da mesi tappando buchi e dilapidando mezzi senza alcuna strategia, per fa fronte nell'immediato alle lotte sociali, ma che ha dimostrato la preoccupante tendenza a essere pronto a ricorrere ai carri armati per sedare eventuali proteste di massa.

 La Croazia e' anch'essa sull'orlo di una crisi economica di vasta portata, con ampi segni di mobilitazione dei lavoratori e della popolazione in genere. La guerra della NATO, se si eccettuano la Bosnia e la Croazia, ha provocato un'ampia diffidenza, come minimo, nei confronti dell'Occidente e le difficolta' incontrate dall'alleanza atlantica ne hanno intaccato l'autorevolezza, non solo nei Balcani, ma anche nell'Europa Centro-Orientale. Gli ambiziosi progetti di "patti di stabilita'" sembrano in un tale contesto piu' una pia illusione che qualcosa che abbia qualche possibilita' di riuscita. La partita, nei Balcani, rimane quindi completamente aperta, sotto ogni punto di vista.

NOTA:

[1] Il testo degli accordi di Rambouillet, di cui molti vanno dicendo che prevedeva l'indipendenza per il Kosovo, stabiliva una semplice "revisione degli accordi" dopo tre anni, "prendendo in considerazione la volonta' della popolazione, quella delle autorita' competenti" e "l'atto finale della conferenza di Helsinki" (quella che prevede l'intangibilita' dei confini statali in Europa). Prendere in considerazione la volonta' della popolazione (senza specificare se quella del Kosovo o dell'intera Jugoslavia), vincolandola comunque a quella delle "autorita' competenti" (quali?) e a un atto internazionale che prevede l'intangibilita' dei confini internazionali non puo' proprio essere considerato nemmeno un impegno tacito per un referendum sull'indipendenza.


 LA SINISTRA E LA GUERRA
Come abbiamo fatto negli altri materiali di analisi e commento pubblicati nei momenti di svolta in Kosovo, formuliamo anche questa volta qualche commento sulle linee seguite dalla sinistra di fronte alla guerra. Per chi segue "Notizie Est" e' scontata l'assoluta dissociazione dalla sinistra di governo, che ha scelto di partecipare all'aggressione della NATO contro la Jugoslavia , portando il nostro paese militarmente in prima linea in questa guerra. Le timidissime e rarissime differenziazioni di questa sinistra rispetto alla linea piu' aggressiva non sono dovute in alcun modo a effettive preoccupazioni democratiche o pacifiste (che se fossero state presenti, avrebbero impedito l'adesione alla guerra della NATO), ma all'intenzione di difendere i propri non indifferenti interessi coloniali di media potenza euro-atlantica. Gli slogan umanitari usati per giustificare questa politica fanno a pugni con la politica di chiaro stampo imperialista da anni perseguita nei Balcani e con l'appoggio fornito ai regimi piu' corrotti e autoritari, nonche' all'espansione dell'industria militare italiana.

Ma chi scrive non puo' non astenersi dal totale dissenso sulla linea seguita dalla sinistra piu' radicale o extraparlamentare. Non solo si e' arrivati alla mobilitazione con un enorme ritardo, dopo un anno di ampie reticenze (come minimo) di fronte alla guerra in Kosovo, ma lo si e' fatto con modalita' e obiettivi inaccettabili. La lotta dei kosovari e' stata assolutamente ignorata e nelle mobilitazioni e' stato gia' tanto se venivano ricordati, esclusivamente da un punto di vista umanitario, i "massacri in Kosovo" (il piu' delle volte, comunque, non ve ne era menzione). Non si possono non citare come indicativi di una pericolosa degenerazione politica, per esempio, il mimare la campagna dei ponti e l'adozione del simbolo "target" - entrambi strumenti della campagna del regime omicida di Belgrado, che sotto tale simbolo ha organizzato concerti sui ponti con la partecipazione di alcuni tra i massimi responsabili di un anno di repressioni e massacri in Kosovo (e non solo in Kosovo) e dei piu' noti esponenti sciovinisti dello "showbizness" serbo. Ben altro era lo stato d'animo dei serbi che della distruzione dei ponti (non quelli, sicuri, su cui si svolgevano le manifestazioni) hanno dovuto pagare le conseguenze e non a caso, questo tipo di manifestazione non ha piu' avuto alcun seguito dopo che il regime la ha "consumate". Difficile anche trovare le parole per qualificare l'adesione al ritornello della propaganda di Belgrado secondo cui i profughi "scappano non solo dalle repressioni, ma anche dalle bombe della NATO", mirato a sminuire, in maniera tanto piu' grave perche' non esplicita, i crimini degli aguzzini serbi, nonostante le testimonianze univoche dei diretti interessati e il fatto che la logica dicesse che non era possibile sostenere cio', visto che dalla Serbia altrettanto bombardata non stava fuggendo meta' della popolazione e visto che bombardamenti come quelli effettuati sulla Jugoslavia (micidiali, ma non a tappeto e di svariate volte inferiori a quelli della Guerra del Golfo) non hanno mai nella storia causato esodi di meta' della popolazione come e' avvenuto in Kosovo.

 O ancora, nei casi peggiori, ma purtroppo non rari, la delegittimazione della lotta degli albanesi attraverso fumose teorie di complotti CIA, accuse di traffici illegali o di trame islamiche (con il triste spettacolo di una sinistra che riprende letteralmente informazioni e tesi dell'estrema destra, di organismi di polizia degli stati imperialisti o di esponenti di spicco di questi ultimi, o che arriva a posizioni al limite del razzismo, linee che hanno seguito anche personalita' note internazionalmente come Chossudovsky o Andre' Gunder Frank). Un'altra scelta, su un piano diverso e che chi scrive non condivide in alcun modo, e' stata quella di presentare questa guerra come una guerra degli USA per dominare l'Europa, guerra che ora si asserisce si sarebbe conclusa con una vittoria degli USA. Qui, per esempio, uno degli slogan piu' ripetuti e' stato quello della guerra come scusa, per Washington, per indebolire l'euro. Poco importa che sia ancora in atto l'onda lunga dei dissesti sui mercati finanziari internazionali (che non hanno toccato il dollaro) e che il calo dell'euro e' ampiamente spiegabile con le debolezze delle economie UE, in atto gia' prima della guerra e ancora oggi. E poco importa che per gli USA sarebbe assolutamente irrazionale fare una guerra per questi scopi, quando sarebbe molto piu' facile, con costi infinitamente inferiori, mobilitare sui mercati internazionali qualche Soros di turno - nonostante questo, lo slogan e' ampiamente passato.

C'e' chi si e' spinto piu' in la' (e non sono stati in pochi) rivendicando un maggiore ruolo per l'Europa (la maggior parte dei leader di PRC, per esempio). L'esperienza dei Balcani negli ultimi dieci anni insegna che l'imperialismo europeo non e' per nulla piu' progressista di quello USA e che in alcuni casi il suo "abbraccio" puo' essere addirittura ancora piu' soffocante, vista la piu' massiccia presenza economica e la maggiore vicinanza geografica (le politiche repressive contro l'imigrazione, e tutto il loro contorno economico-poliziesco, sono per esempio politiche totalmente europee). Inoltre, quanto accaduto in Bosnia e in Albania, cosi' come tutti questi anni di "transizione" economica e politica negli altri paesi balcanici, dimostrano che le contraddizioni tra USA ed Europa per un'egemonia nella regione non aprono, nemmeno involontariamente, spazi per le lotte di liberazione dei popoli balcanici e che casomai e' il contrario. Questo non vuol dire perdere di vista il ruolo guerrafondaio e il peso ancora predominante a livello mondiale degli Stati Uniti, vuol dire semplicemente che e' necessario combattere con altrettanto vigore l'imperialismo europeo, prendendo atto che nei Balcani svolge un ruolo di primissimo piano e in crescita.

Non si puo' nemmeno rinunciare a dare sempre la priorita', anche nella lotta indispensabile e giusta contro l'imperialismo delle grandi potenze, alla solidarieta' alle popolazioni oppresse quando si organizzano e lottano per difendersi, poiche' sono gli unici soggetti che questo imperialismo possono mettere in crisi. Sarebbe bello che questi movimenti avessero dirigenze e programmi di sinistra. Ma nel criticarli e nell'emarginarli politicamente si dimentica troppo facilmente che questi soggetti, nei Balcani e nell'Europa Orientale, sono nati negli anni '90, contrassegnati da un vuoto ideologico a livello mondiale, e dopo decenni di spietata oppressione poliziesca ed economica, spesso anche nazionale, da parte di regimi che si sono basati su vuoti slogan "di sinistra". E bisogna riconoscere che anche la sinistra occidentale, pur agendo in condizioni infinitamente piu' favorevoli, e questo da lungo tempo, manca di progetti e vive piu' che altro di passato, un passato che, per l'appunto, questi popoli non possono rivendicare come proprio. Per non girare troppo attorno all'argomento, era necessario ed e' ancora necessario dare solidarieta' alla lotta di autodeterminazione del popolo del Kosovo, anche nelle sue forme armate, dal momento in cui queste ultime sono diventate il canale di difesa dei propri diritti (e della propria semplice esistenza) contro le repressioni e i massacri.

 Cio' vuol dire che quando l'UCK, o settori dell'UCK, hanno promosso questa lotta erano da difendere e lo saranno ancora quando lo faranno. Era ed e' possibile farlo con atteggiamento critico (la sinistra lo ha sempre fatto, con l'eccezione degli stalinisti) e anche denunciando l'irresponsabilita' dei loro dirigenti e le connivenze, o addirittura le aperte collaborazioni, di questi ultimi con gli imperialisti, cosi' come, per restare nei Balcani, era giusto appoggiare in tale maniera critica gli insorti dell'Albania nel '97, anche quando era chiaro che la loro direzione era stata presa dai corrotti e autoritari leader socialisti e quando hanno chiesto l'intervento militare dei paesi NATO, o come e' possibile e giusto appoggiare la causa dei minatori romeni che si rivoltano contro lo sfruttamento, denunciado contemporaneamente i programmi reazionari dei loro leader. In caso contrario, non rimarrebbe che richiedere l'intervento di istanze superiori, espressioni dello stesso imperialismo, come l'ONU o l'OSCE, per fare solo due esempi, oppure illudersi che i manager in doppiopetto e i generali stragisti dei governi oppressori locali, momentaneamente in conflitto con le grandi potenze, rappresentino l'alternativa.