AWMR Italia - Associazione Donne della Regione Mediterranea
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AWMR - Association of Women of the Mediterranean Region



7a Conferenza Internazionale - Italia - Gallipoli 8-12 luglio 1998

Donne e Lavoro nel Mediterraneo

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Avvertenza:
Le lingue di lavoro della conferenza sono state italiano e inglese.
Di alcuni interventi è riportato solo l'abstract perché la registrazione è risultata incompleta o incomprensibile.
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1. Apertura della conferenza
Lecce, Mercoledì 8 luglio, 18:00


Nella Sala consiliare della Provincia, ha luogo l'apertura della conferenza con gli interventi di saluto dell'Assessora provinciale alla Cultura dott.ssa Regina Poso e dell'Assessora alle Pari Opportunità della Provincia dott.ssa Maria Maglio.

Viene letto un lungo caloroso messaggio di saluto alla conferenza inviato dalla Ministra alle Pari Opportunità on. Anna Finocchiaro, la quale si dice dispiaciuta di non poter partecipare, essendo impegnata nella riunione che si sta svolgendo a Innsbruck tra le Ministre europee per le pari opportunità. Manifesta la sua particolare attenzione alla conferenza, dicendosi convinta che da essa emergeranno contributi preziosi per il lavoro di noi tutte.

Yana Mintoff Bland presidente dell'Awmr porta il saluto dell'associazione alla Provincia di Lecce che ospita la settima conferenza annuale.

Fatima Ahmed Ibrahim, presidente dell'Unione donne sudanesi, porge il saluto alla Provincia di Lecce a nome di tutte le partecipanti, venute da 15 paesi dell'area mediterranea.

Ada Donno, per il comitato organizzatore, illustra il programma dei lavori della conferenza.

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1.1. La nuova soggettività delle donne e le priorità della politica
Messaggio alla Conferenza di Anna Finocchiaro, Ministro italiano per le Pari Opportunità
Roma, 7 luglio 1998


Carissima Presidente

sono davvero dispiaciuta di non poter partecipare alla vostra validissima iniziativa ma sono impegnata oggi nella riunione che si sta svolgendo a Innsbruck tra le Ministre europee per le pari opportunità. La prego di voler leggere questo mio messaggio alle convenute e convenuti, salutando in modo particolare le ospiti straniere.

La vostra conferenza con coraggio e competenza mette a fuoco problematiche complesse, quali quelle del rispetto e della valorizzazione dei diritti delle donne - intesi quali diritti umani universali, nello spirito della Conferenza delle donne di Pechino - nei tanti luoghi difficili del Mediterraneo.
In particolare nell'edizione di quest'anno approfondite il tema del lavoro, declinandolo nei suoi molteplici aspetti, dalle forme di marginalità e sfruttamento, alla realtà dei "lavori" nei diversi contesti dei Paesi del Mediterraneo, alla progettualità economica e sociale che le donne sanno esprimere, meritevoli perciò di sostegno in quanto prospettano nuovi possibili modelli di sviluppo e convivenza.

Nel campo dei diritti umani e del lavoro nell'area del Mediterraneo il mio personale impegno e quello delle mie collaboratrici si svolge su diversi fronti, dalle proposte che abbiamo presentato in seno al Comitato per il 50° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani, a quelle da noi sostenute nella delegazione italiana presso la Conferenza per il Tribunale penale internazionale; dalle politiche e dalle relazioni internazionali svolte insieme al Ministero degli Affari Esteri e alla Direzione per la Cooperazione e lo Sviluppo, ai rapporti con le Agenzie ONU e con la variegata rete dell'associazionismo femminile che opera in quest'area.

Quanto ai contenuti, possiamo affermare che esiste, anche in questa nostra parte del mondo, una drammatica contraddizione: da una parte le donne rappresentano un soggetto decisivo per lo sviluppo, la convivenza e la pace e dall'altra invece subiscono le più gravi violazioni dei loro diritti e della loro libertà, dalla povertà alla violenza, alle mutilazioni, alla coazione alla prostituzione.

Il nostro sforzo quindi tiene insieme questi due piani puntando tutto sulla nuova soggettività che le donne stanno esprimendo, e si concentra su alcune priorità:Ho voluto ricordare tutto ciò per manifestarvi, proprio in base a questi impegni concreti e a queste comuni problematiche, tutta la mia particolare attenzione alla vostra Conferenza, dalla quale emergeranno certamente contributi preziosi per il lavoro di noi tutte. Vi prego, pertanto, di farmi avere i vostri materiali.

I miei migliori auguri.

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1.2. Perché "Donne e lavoro nel Mediterraneo"
Ada Donno


La conferenza internazionale "Donne e lavoro nel Mediterraneo" nasce dal lavoro di "rete" fatto dal 1992 ad oggi dall'Awmr.

La scelta di Gallipoli e Lecce come luogo della conferenza non è casuale. La Puglia, il Salento, oltre ad essere luoghi geograficamente "centrali" nel Mediterraneo, lo stanno ri/diventando sempre più anche politicamente e simbolicamente. Potremmo indicare una quantità di ragioni "oggettive" della nostra scelta, ma preferiamo ammettere che ha agito soprattutto il forte desiderio di alcune di noi, che da tempo operano nella direzione della costruzione di reti di relazioni con le altre donne dell'area mediterranea (voglio ricordare che già nel 1991 a Lecce tenemmo un seminario di donne del Mediterraneo, non certo delle dimensioni di questa conferenza, ma ugualmente significativo per noi) alla ricerca di scambi di conoscenze e proposte mirate alla valorizzazione delle rispettive identità culturali e ad un possibile comune agire.

Seguendo il filo della riflessione che andiamo facendo e nell'ambito delle esperienze fatte nell'ultimo decennio, pensiamo che ci siano molte valide ragioni per mettere a tema in una conferenza la questione del lavoro nell'area mediterranea, con le problematiche ad esso connesse, nell'ottica che ci è propria dell'affermazione dei diritti delle donne e con l'obiettivo di riuscire a formulare proposte orientate alla trasformazione degli assetti economico-sociali di tipo patriarcale su cui sono fondati gli stati e le nazioni, nel rispetto e nella valorizzazione delle differenze.

La Conferenza mondiale di Pechino del '95 ha ribadito un dato riconosciuto da tempo, e cioè che il lavoro delle donne concorre in misura maggiore di quello degli uomini alla sicurezza della sopravvivenza umana e della vita sociale, ma è tuttora retribuito molto meno, anzi in buona parte neppure valutato. L'inadeguato riconoscimento di quel complesso di attività produttive, riproduttive e di cura in cui si articola il lavoro delle donne nel privato e nel sociale, costituisce un aspetto fondamentale di quello che si definisce lo "svantaggio" femminile.

Svantaggio che tende ad aggravarsi in questa fase di "globalizzazione" dell'economia, i cui effetti negativi le donne, proprio quando sono alla ricerca di ridefinire la propria identità sociale, pagano più di altri in termini di svalorizzazione e marginalizzazione. Uno sguardo al panorama mediterraneo ci mostra, al di là dei forti squilibri esistenti e delle dissimmetrie, a seconda che i paesi siano più o meno favoriti nell'accesso ed uso delle risorse, un dato comune: marginalità e precarietà continuano ad essere in larga parte attributi del lavoro femminile, persiste in misura più estesa di quanto non si dica la divisione sessuale del lavoro e, oggi come ieri, sono soprattutto donne e bambine a raffigurare la spietatezza delle leggi del mercato.

D'altra parte le politiche del lavoro che i governi sostengono a soluzione della crisi occupazionale che coinvolge anche i paesi privilegiati, ruotano attorno al modello della "flessibilità lavorativa" e delle privatizzazioni della produzione e dei servizi sociali, rispondenti più alle esigenze del mercato che ai bisogni umani. Tale modello induce di fatto un'ulteriore dilatazione della forbice sociale: a ristrette fasce garantite, prevalentemente maschili e collocate nel Nord, che godono della sicurezza sociale, della possibilità di carriera, dell'accesso alle risorse culturali e alla gestione del potere politico, corrispondono larghe fasce non garantite, prevalentemente femminili, giovanili, migranti e collocate nel Sud, il cui lavoro è sottopagato, instabile, con poche opportunità di crescita professionale.

Può la logica del "libero mercato" accordarsi con i progetti di libertà delle donne ed il diritto al lavoro?

In questa nostra conferenza intendiamo visitare i luoghi della discriminazione, dell'abuso e dello sfruttamento femminile nel Mediterraneo, che degradano le condizioni di vita e di lavoro; i luoghi del lavoro femminile nelle situazioni di guerra o di conflitto (come l'ex Jugoslavia, la Palestina) e nelle economie "di transizione" (come l'Albania); i luoghi sommersi dove si sviluppano le forme "moderne" di schiavitù del lavoro.

Partendo dalle realtà lavorative nei rispettivi paesi, vogliamo vedere le possibili prospettive anche rispetto ad un'idea di sviluppo sostenibile e di ambiente, che le direttive delle istituzioni finanziarie internazionali ignorano.

Analizzando la crisi del modello organizzativo e culturale indotto dalla crescita della presenza femminile nel mercato del lavoro, vogliamo tentare una lettura al femminile dei processi economici che stanno cambiando i modelli lavorativi, i valori, la società, i rapporti nella famiglia nei paesi del Mediterraneo, investendo tutte le culture e modificando lo stesso concetto di lavoro.

Vogliamo ragionare sulle pari opportunità e le azioni positive (se siano sufficienti a colmare lo svantaggio delle donne, o se occorra cambiare il contesto dell'organizzazione produttiva e sociale); sulla valorizzazione del lavoro non remunerato delle donne; sul riconoscimento del lavoro di cura, così importante nella vita delle donne perché coinvolge le affettività ed i rapporti familiari (se valorizzarlo significhi monetizzarlo e mercificarlo, o socializzarne delle attività e "remunerarlo" attraverso la riduzione del tempo di lavoro); su un'ipotesi di crescita delle attività di utilità sociale che non potrebbero svilupparsi secondo la logica del mercato, o sull'altra di recupero del governo pubblico del mercato, per garantire il diritto al lavoro e la sicurezza sociale.

Insomma, ci pare un'occasione importante per allargare il confronto fra donne che vivono in luoghi distanti nella comune dimensione mediterranea - dove agiscono "centri di attrazione" differenti, quello europeo nord-occidentale da una parte e quello sud-orientale islamico dall'altra - con l'intento di promuovere la progettualità delle donne nelle politiche del lavoro e dello sviluppo, a livello delle comunità locali, degli stati e nella cooperazione internazionale, nell'orizzonte comune dell'uguaglianza e della giustizia.

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2. Sessione
Il diritto al lavoro nel contesto dei diritti umani delle donne



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2.1. Le donne per nuove strategie di sviluppo:
il ruolo dell'ente locale tra riforma e vita quotidiana

di Katia Bellillo
Assessore alle Pari Opportunità e Vicepresidente della Provincia di Perugia


L'Assessorato alle Pari Opportunità istituito dalla Provincia di Perugia è da tempo impegnato a superare i limiti rivelati dalle azioni rivolte solo alle donne, identificate come componente debole della popolazione, perché possano raggiungere la "parità" rispetto alle più favorevoli condizioni attualmente ancora riservate agli uomini.

L'acquisita consapevolezza della sterilità della contrapposizione uomo donna apre nuovi scenari in cui l'intelligenza, la creatività e la volontà delle donne siano spese non tanto per raggiungere la parità con la condizione maschile, quanto per conquistare migliori ed uguali condizioni per tutti.

Se cento anni fa ci si poneva il problema di come governare i processi di industrializzazione, oggi dobbiamo affrontare la questione di come governare un'economia che oltre alla globalizzazione e alla massificazione ha tra i suoi capisaldi l'informatizzazione, la gestione di reti telematiche e dei flussi di informazione.

I capitali e soprattutto le informazioni non hanno più confini ed è evidente che i processi da gestire si dilatano oltre i confini nazionali ed ancora più rispetto ai singoli territori locali delle Amministrazioni territoriali.

A fronte di una crescita delle attività produttive la disoccupazione oggi aumenta.

La ripresa non è più sinonimo di nuova occupazione, perché è possibile produrre sempre di più con un numero sempre minore di lavoratori.

La crescita della ricchezza di molte nazioni ha prodotto anche la crescita delle disuguaglianze, della disoccupazione, della povertà, dell'esclusione e del degrado ambientale.

Il culto della concorrenza, della competitività e del libero scambio aggravano sempre più la situazione.

I milioni di disoccupati europei, il disastro urbano, la precarizzazione generale, la corruzione, la tensione nelle periferie delle città, il saccheggio ecologico, il ritorno dei razzismi e degli integralismi, la marea degli esclusi non sono miraggi, colpevoli allucinazioni in grave discordanza con questo migliore dei mondi edificato dal pensiero unico per le nostre coscienze anestetizzate.

Accanto alla disperazione esistono immensi bisogni insoddisfatti che costituiscono fonti potenziali di nuovi posti di lavoro.

Si assiste infatti ad una crescente penuria dell'offerta dei servizi, non solo dei classici servizi pubblici: istruzione, sanità, giustizia, trasporti collettivi ed altro, nei quali certamente un aumento degli addetti migliorerebbe la sicurezza e la qualità della vita di tutti i cittadini, ma anche in una categoria che potremmo definire eco-sociale: assistenza agli anziani e agli handicappati, sostegno ai giovani in difficoltà, miglioramento dell'habitat e protezione dell'ambiente.

Soddisfare la domanda di questo tipo di servizi potrebbe creare posti di lavoro ed evitare i guasti prodotti dall'emarginazione e dal degrado sociale e ambientale.

A fronte del crescente disagio generato dall'inadeguatezza delle politiche e degli strumenti messi in campo per fronteggiare situazioni sempre più gravi che ci affliggono non è sufficiente trovare comunque una soluzione alla crisi dell'occupazione, che costituisce forse l'aspetto più appariscente, ma è soprattutto necessario trovare rimedio alla progressiva disgregazione del tessuto sociale, denunciata dalla perdita di identità delle comunità locali e dal degrado degli ambienti di vita.

Sembra quindi che il punto centrale è come a partire da una situazione così complessa e nuova si può caratterizzare il ruolo del governo locale, in un percorso che porti al cambiamento. Limitare l'attività amministrativa alla gestione del quotidiano e dell'esistente non può che essere perdente.

Le istituzioni pubbliche, confinate troppo spesso in ruoli anacronistici, impastoiate in procedure farraginose quanto inutili, che sembrano concepite più per giustificare la propria esistenza che per reale utilità, devono ridisegnare il proprio spazio e ridare appunto un senso alle loro azioni.

E il processo di riforma della P.A., al quale i provvedimenti Bassanini hanno dato una forte accelerazione, apre spazi del tutto inediti a opportunità di trasformare lo stato sociale in senso europeo: riorganizzazione della macchina burocratica, semplificazione del procedimento amministrativo, decentramento.

Il superamento dell'autoreferenzialità della Pubblica Amministrazione si deve perseguire sia attraverso l'individuazione di nuove procedure burocratiche tendenti a semplificare internamente la vita amministrativa, sia offrendo l'opportunità di percorsi lavorativi esterni nuovi ed immettendo forza lavoro disoccupata per realizzare uno scambio che contribuisca alla creazione di un nuovo modello di sviluppo del lavoro e dell'economia solidale.

E in questa direzione si muove il progetto sperimentale "IL RIUSO DEL TEMPO" della Provincia di Perugia con l'obiettivo di "creare condizioni organizzative e culturali che permettano di migliorare la qualità delle prestazioni e l'ottimizzazione delle risorse, individuando soluzioni di lavoro innovative e gratificanti che offrano nuove opportunità di impegno e di conciliazione dei propri tempi di vita".

Tra le azioni previste nel progetto: "Il cittadino ed il tempo ritrovato, il lavoro ed il tempo liberato, la/il dipendente ed il tempo scelto".

Siamo partite dalle donne perché sono proprio loro a vivere con maggiore intensità la dimensione del tempo, spesso conflittualmente ripartito fra tempo di lavoro e tempo di cura.

Sono quindi le più sensibili a raccogliere la sfida della riprogettazione del tempo di lavoro in una pubblica amministrazione ricercando soluzioni innovative che, da un lato eliminino i disagi ormai insopportabili imposti al cittadino e dall'altro offrano nuove opportunità di impegno e di conciliazione dei propri tempi attraverso esperienze di Tempo Scelto.

Tale Azione di propone di rendere disponibili nuovi posti di lavoro, di promuovere lo sviluppo locale e di curare lo scambio di saperi e di progetti, grazie alla divisione volontaria del lavoro fra un'occupata che rinuncia a metà del proprio tempo impegnato in prestazioni e relativa retribuzione scegliendo di impegnarsi in un progetto utile socialmente ed un disoccupato che viene assunto per il tempo liberatosi.

Attraverso un confronto interno ed esterno all'ente si è costituita l'Associazione del tempo scelto che raccoglie al suo interno persone provenienti da una molteplicità di orizzonti socio-professionali e correnti di pensiero.

L'Associazione del Tempo Scelto vuole scoprire le virtù di un'economia di scambio non monetaria, ancora presente per quanti sanno ancora vederla: l'economia del dono e delle reciprocità, dove il legame è tanto importante quanto il dono. Lo slogan "Lavorare meno, lavorare tutti" andrebbe aggiornato con "Lavorare meglio (e nel meglio è compreso anche il meno), impegnarsi tutti (e nell'impegno è ricompreso non solo il lavoro necessariamente utile per sé, ma anche il lavoro e soprattutto il tempo dedicato alla comunità)".

È stata stipulata un'apposita convenzione con l'Associazione del Tempo Scelto finalizzata alla realizzazione di azioni positive rivolte alle /ai dipendenti della Provincia (5°/6°/7° livello funzionale) che offrano nuove opportunità di impegno e di conciliazione dei propri tempi, attraverso esperienze di tempo scelto.

Strettamente correlato alla realizzazione di tali azioni è stato sottoscritto un Protocollo d'intesa fra la Provincia di Perugia, l'Agenzia Regionale per l'Impiego dell'Umbria e l'Associazione del Tempo Scelto al fine di favorire la creazione di nuova occupazione attraverso lo strumento del Tempo Scelto, anche utilizzando le normative nazionali e locali relative ai lavori socialmente utili, in mancanza di specifici riferimenti legislativi.

È stato quindi elaborato un apposito progetto per lavori socialmente utili il cui obiettivo principale è la produzione di un bene o di un servizio sociale e la creazione di impiego. Destinatari del progetto sono 6 giovani residenti nella provincia di Perugia e che non abbiano mai usufruito di ammortizzatori sociali, iscritti nell'elenco dei disoccupati di lunga durata, che verranno utilizzati per un periodo di 12 mesi.

Queste/i giovani condividono con le/i dipendenti, portatrici/ori di progetti di Tempo Scelto, il tempo di lavoro all'interno dell'Ente e l'opportunità di seguire un percorso formativo di 100 ore per la formulazione di un progetto di tempo scelto da realizzare all'esterno.

Promotrice del progetto insieme alla Provincia di Perugia è la Cooperativa Sociale ASAD che si è impegnata, in un apposito protocollo sottoscritto con l'Ente, ad assumere alla fine del progetto almeno il 50% delle/i disoccupati utilizzati nel progetto.

Vorrei sottolineare come la sfida del Tempo Scelto abbia coinvolto non solo il livello politico, ma anche quello tecnico e come abbia permesso di ricostruire anche all'interno di un'amministrazione pubblica quel circolo virtuoso di relazioni sociali e di condivisione di obiettivi che hanno fatto diventare possibile quello che a priori sembrava improbabile.

A partire da questa esperienza, si è sviluppato il confronto alla ricerca di "nuove opportunità per le pari opportunità" ed abbiamo preso in considerazione lo strumento organizzativo del telelavoro.

La prospettiva del telelavoro oggi si pone come una particolare opportunità organizzativa e di sperimentazione sociale, uno dei "siti" privilegiati ove verificare lo sviluppo di prassi alternativa in risposta a problematiche nuove della vita economica e sociale.

Cambia la concezione del tempo di lavoro, meno rigido e più sintonico alle esigenze individuali e della vita extralavorativa.

Gli sviluppi delle tecnologie dell'informazione e le loro applicazioni su vasta scala consentono oggi rapidi collegamenti comunicativi, dando vita, consequenzialmente, a sistemi relazionali del tutto nuovi.

Sistemi che estesi all'organizzazione della vita lavorativa prefigurano radicali cambiamenti negli stili e negli orientamenti dei singoli e della collettività.

È questa la prospettiva del Telelavoro: ovverossia di quella particolare modalità di esecuzione del lavoro, effettuata in luoghi decentrati rispetto alla sede tradizionale e che utilizza le tecnologie telematiche permettendo di realizzare Azioni positive nei confronti delle/dei dipendenti e agevolare l'accesso ai servizi da parte dei cittadini.

Tali tecnologie, infatti, consentono di realizzare il massimo decentramento "real-time", onde per cui il luogo di lavoro non costituisce più una costante del teorema organizzativo e l'orario rigidamente sincronizzato non è più la condizione fondamentale per l'erogazione dei servizi, intesi naturalmente, questi ultimi, nella loro accezione più vasta.

Questa nuova modalità di lavoro, inoltre, potrà essere una soluzione a cui ricorrere in risposta a particolari esigenze dei lavoratori (cura dei figli, studio) oppure diventare l'opportunità di continuare a lavorare o di inserirsi nel mondo del lavoro per le persone handicappate con difficoltà nella mobilità.

La diversa ristrutturazione dei modelli organizzativi comporta il rifondare la centralità della risorsa umana, viene riconosciuta maggiore importanza al talento, alla creatività, alla responsabilizzazione ed autonomia del singolo, migliorando il rapporto tra processo decisionale ed esecutivo.

Un cauto ottimismo ed un'altrettanta cauta concessione alla retorica ci consentono di asserire, senza tema di smentita, che il telelavoro per la Pubblica Amministrazione è una grossa sfida per il futuro.

Il telelavoro è stato finora confinato nella riduttiva versione del lavoro a domicilio e per questo è stato anche decisamente e comprensibilmente avversato, ma in realtà si tratta di un fenomeno ben più complesso come mostrano le forme diverse e più evolute che si stanno affermando attraverso la creazione di "centri di telelavoro" nel territorio che possono favorire l'accessibilità sia dei cittadini ai servizi, sia dei dipendenti al lavoro, riservando la scelta del lavoro a domicilio ai casi di impedimento temporaneo o permanente.

È una scelta di lavoro che investe e coinvolge la qualità della vita, consente di gestire autonomamente il proprio tempo, di ridefinire gli ambiti della propria socialità.

Una valutazione dei reali vantaggi e degli effettivi limiti di queste modalità di lavoro è possibile solo sulla base di concrete esperienze e la Provincia di Perugia può contribuire, con l'avvio di una sperimentazione di forme di telelavoro, ad una necessaria verifica della loro validità sia per dare risposte più adeguate alle esigenze di popolazioni che vivono nelle aree terremotate, sia per migliorare le condizioni di lavoro dei propri dipendenti, dando così piena attuazione a quel principio di pari opportunità che costituisce uno degli impegni dell'ente.

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2.2. Donne e cooperazione nel Mediterraneo
"Noi vagabonde delle parole"

di Nella Condorelli
Rete delle giornaliste del Mediterraneo


La rete delle giornaliste del Mediterraneo è nata in Sicilia e ne fanno parte colleghe professioniste residenti nei quindici paesi dell'Unione Europea e nei dodici paesi partner mediterranei.

La nostra organizzazione è nata come associazione di fatto nel 1991, in seguito alla guerra del Golfo.
Molte di noi impegnate per la prima volta come giornaliste inviate al fronte, si chiesero se la notizia di guerra poteva essere trattata da donne giornaliste alla stessa maniera come era stata trattata, sino a quel momento, da uomini giornalisti, e se c'era una guerra che poteva essere raccontata, oltre a quella che era combattuta dai militari, con le riflessioni sulle sue ripercussioni nelle case, nella vita della gente. Se si poteva farne, come si dice, cronaca bianca. Da qui è partita la nostra riflessione, come giornaliste, sulla professione e sul dialogo che è nato tra noi perché potessimo meglio conoscerci, per meglio lavorare insieme.

Nel Mediterraneo questa è una realtà, è un'esigenza, è una necessità.

La prima riflessione che viene in mente, quando si parla di Mediterraneo, riguarda la parola e la sua concettualizzazione come spazio: spesso ancora oggi parlando di Mediterraneo noi parliamo del mare, senza fare riferimento alle società e alle civiltà che ci sono intorno.

Riflettete su questo: il Mediterraneo si porta dietro echi di memoria, di tradizioni, di grandi religioni e di grandi civiltà che intorno a questo mare sono nate, ma non si parla quasi mai alle donne, agli uomini, alle civiltà diverse che su questo mare si affacciano e che hanno necessità di collaborare, di dialogare, di conoscersi e di cooperare.

Io apprezzo moltissimo iniziative come questa conferenza, rivolte a creare reti di donne che sviluppino conoscenza, dialogo: sono fondamentali per noi che nel Mediterraneo ci viviamo. Partendo dall'esperienza della Rete delle giornaliste del Mediterraneo cercherò di sviluppare il tema che mi è stato assegnato: "Donne come cooperatrici", anche se non è esattamente la mia specializzazione professionale. Io faccio cronaca bianca, sono una vagabonda delle parole, giro tra la riva nord e la riva sud del Mediterraneo forse alla ricerca delle mie radici, in quanto siciliana. Come Rete delle giornaliste abbiamo partecipato a tutte le iniziative relative al partenariato euro-mediterraneo promosse dalla Comunità Europea, a partire dalla Conferenza di Barcellona e dal successivo Forum Euro-Med Civil che hanno posto le premesse della cooperazione che si sta sviluppando fra le società civili del Nord e del Sud.

Penso che capire che cosa è stata la conferenza di Barcellona sia importante perché ha definito la cooperazione euro-mediterranea anche in termini di accesso alle risorse. E nessuno meglio di noi che abitiamo i paesi che s'affacciano sul Mediterraneo sa come una democrazia stabile si realizza soltanto quando le due componenti della società, donne e uomini, hanno le stesse opportunità di accesso allo sviluppo economico.

Nei nostri paesi la piena occupazione femminile, e quindi il godimento dei diritti da parte delle donne, sicuramente è ancora una cosa da venire nei suoi termini completi.

All'interno di quest'area c'è poi da considerare tutta la differenza tra la sponda sud e la sponda nord. Vi riferisco soltanto un dato: l'occupazione femminile in Francia raggiunge una media del 46%; in Algeria la media è del 2%. Francia ed Algeria si guardano, sono due terre di fronte, due sponde dello stesso mare - e si guardano non soltanto perché l'immigrazione algerina in Francia e la presenza francese in Algeria ancora oggi hanno significati e ripercussioni che tutte conosciamo.

Dunque, la conferenza di Barcellona. Nel 1995 i 27 ministri degli esteri dei Paesi dell'Unione Europea e dei paesi partner mediterranei s'incontrano prima in una riunione informale a Tabarka (Tunisi) e successivamente in una riunione formale, istituzionale, a Barcellona, nella quale lanciano le politiche euro-mediterranee di sostegno alla stabilizzazione di una zona di pace nell'area, di stabilità e di sviluppo economico. Queste politiche si traducono, in termini molto concreti, in risorse economiche e finanziarie messe a disposizione dell'Unione Europea, a partenariati che coinvolgono in maniera piramidale sia le istituzioni che le società civili del nord e del sud del Mediterraneo. Perché nel tempo si possa sanare il disequilibrio esistente tra la sponda nord e quella sud, vengono lanciate politiche di distribuzione delle risorse che offrono maggiori opportunità alla sponda sud di creare sviluppo economico. I fondi messi a disposizione sono tanti: si parte da 4,862 milioni di euro nel 1995, cresciuti negli anni e distribuiti in tre grandi aree, delle quali una c'interessa particolarmente: quella dei diritti umani e della democrazia, e quindi della distribuzione di risorse alle "società civili".

Collegato alla Conferenza di Barcellona, si tenne infatti il primo Forum Euro-Med Civil, al quale parteciparono mille rappresentanti di tutto quel tessuto di organizzazioni non governative, associazioni, gruppi che operano nella società civile. Fino al 1995 quando si parlava di europartenariati ci si riferiva alle istituzioni, alle grandi imprese, al grande mondo economico-finanziario, mai la distribuzione di risorse aveva toccato la società civile, le ong, le piccole e medie imprese, le piccolissime imprese individuali che, stando alle statistiche, ci coinvolgono di più come donne.

Distribuiti in undici forum di lavoro, i partecipanti discussero di tutto ciò che riguarda la nostra vita: dalla pesca all'immigrazione, alle telecomunicazioni, ai media. Dal forum n.9, che era specificatamente riservato alle donne, emersero alcune risoluzioni che riguardavano i temi che ora stiamo trattando: i diritti delle donne e la possibilità di creare europartenariati tra donne del nord e del sud su progetti che fossero finalizzati all'acquisizione dei diritti, alla pratica della democrazia, dello sviluppo, alla presenza delle donne nello sviluppo economico.

La presenza delle donne nei luoghi decisionali, secondo il criterio del mainstreaming, era trasversale a tutte le sezioni di lavoro del Forum. Però avvenne che nella risoluzione finale la condizione femminile non fu oggetto di un'analisi specifica, ma venne diluita nel discorso generale. Invece sarebbe stato utile riservare una riflessione particolare alla situazione delle donne: ad esempio al rapporto tra donne e legge nei paesi della sponda sud, dove esse sono strette fra una legge laica fatta dai governi e dai parlamenti usciti dalle guerre di liberazione nazionale da una parte e la legge islamica dall'altra.

Si decise allora di dar vita ad un gruppo di pressione, composto dalle associazioni presenti, con l'obiettivo di spingere affinché la Commissione europea ed i Ministri degli Esteri dei diversi paesi prestassero maggiore attenzione alla presenza femminile nei programmi di stabilizzazione democratica nei paesi della sponda sud, programmi ai quali le donne hanno accesso soltanto in parte.

Voglio ricordare infine che a settembre a Lisbona si svolgerà la prima conferenza euromediterranea per lo sviluppo delle donne, che darà seguito alle risoluzioni di Barcellona e di Malta. Sarà la prima volta che le donne della sponda nord e sud s'incontreranno per stabilire gli europartenariati, come fare i progetti e premere sugli Stati dell'UE perché una fetta sostanziosa dei finanziamenti venga riservata ai progetti che riguardano lo sviluppo economico delle donne.

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2.3. Lavoro domestico, genere ed etnia
Carolina Cardenas e Vicky Franzinetti


Il lavoro domestico retribuito si trova all'incrocio di molti problemi di crescente importanza: il lavoro domestico non retribuito, la sostituzione di molti servizi sociali e l'immigrazione.
Quest'ultimo aspetto, l'incrocio tra lavoro domestico retribuito e immigrazione è abbastanza recente: infatti è vero che la maggior parte delle donne che svolgono ufficialmente questo lavoro (gli uomini sono pochi) sono italiane, è altresì vero che in alcuni gruppi (nazionalità) di immigrate questa è l'occupazione prevalente.

Il lavoro di colf si trova quindi all'incrocio di perlomeno due dei problemi più scottanti di questo periodo, quelli dell'immigrazione e dello stato sociale, eppure se ne parla molto poco.

Se ne parla poco discutendo di stato sociale, come se fosse irrilevante chi sono le persone che forniranno i servizi "di prossimità" o "alla persona" come vengono detti i lavori di cura che includono il lavoro di colf, o che cosa succederà delle lavoratrici quando raggiungeranno l'età della pensione.

Altresì, nei dibattiti sull'immigrazione ha un ruolo molto di secondo piano, anche se in realtà per le caratteristiche, il numero e il fatto che l'entrata della colf è stata l'unica eccezione alle limitazioni dell'immigrazione legale in Italia fino ad ora, questo settore meriterebbe una attenzione particolare.

Quando si discute dello stato sociale spesso si fa riferimento al lavoro del terzo settore e del volontariato, meno allo svilupparsi di situazioni caratterizzate da basse retribuzioni con contributi minimi, se non figurativi, che sembrano suggerire un diffondersi dell'invincibilità delle persone che svolgono servizi e lavori di cura e l'affermarsi del modello sociale di lavoro rappresentato.

In altre parole la discussione pare soffermarsi più sul "che cosa", l'oggetto del lavoro, e nel caso specifico sui servizi e sul chi li riceve (quindi per esempio sulla possibilità di dedurre dalle tasse servizi di cura e assistenza, cosa più che benvenuta), mentre si analizzano assai poco le condizioni di lavoro delle persone che tali servizi forniscono.

Come già detto questo "oblio sociale e politico" è aiutato dal fatto che le lavoratrici sono in stragrande maggioranza donne, e sempre più frequentemente donne immigrate: è come se l'idea sociale che le accompagna fosse che queste donne resteranno nell'ombra, torneranno alle loro famiglie, ai loro paesi. In realtà poi questo non succede, queste donne non possono essere più viste solo come il famoso esercito delle casalinghe che passano dallo svolgere il lavoro di cura gratuitamente nella famiglia, a svolgerlo a poco prezzo per altre famiglie. Altri studi si chiedono come mai le donne anziane siano il gruppo di poveri più consistente in Europa; passate esperienze di altri paesi e degli italiani immigrati dovrebbero insegnarci che molti e molte restano nei paesi di immigrazione e che nell'ignorare questi problemi, ossia nell'ignorare l'impatto di un lavoro su di un ciclo di vita e la sua invisibilità, stiamo seminando una tempesta che raccoglieremo tra 20-25 anni.

Non è irrilevante che il lavoro domestico retribuito si trovi all'incrocio con il lavoro domestico non retribuito. Dal punto di vista delle lavoratrici il fatto di svolgere una parte consistente del proprio lavoro senza retribuzione crea un rapporto completamente diverso nelle donne, sia verso il lavoro domestico retribuito sia nel loro comportamento soggettivo sul mercato del lavoro, rompendo quella relazione forte tra tempo, lavoro e denaro che il lavoro - soprattutto maschile - in una società industriale. Inoltre questo influenza anche l'aspettativa degli altri soggetti del mercato del lavoro. Ossia il fatto che, per esempi, le donne svolgeranno lavoro domestico e di cura non retribuito condiziona i datori di lavoro nei confronti della forza lavoro femminile e viene conteggiato nell'approccio al lavoro retribuito.

Una delle ironie dell'esperienza delle donne adulte è che per la sua invisibilità il lavoro domestico (retribuito e non retribuito) non viene riconosciuto e descritto neanche quando diventa il modello di molti latri lavori, o modello di conduzione sociale. I lavori che vengono descritti come "nuovi" quali ad esempio il lavoro precario giovanile, il nuovo lavoro, un pò dipendente un pò in proprio, il parasubordinato o cooperativo, spesso preceduto da periodi di lavoro non retribuito.

In queste situazioni la persona non guadagna abbastanza da essere indipendente, valore un tempo assoluto nel negoziare il presso della forza lavoro (ossia non si poteva guadagnare meno di quello che serviva per vivere). Il lavoro quando c'è non è sicuro, dipende da tempi "forti", ossia da lavori strutturati a tempo pieno o svolti da persone con ruoli sociali più forti; non pare esserci carriera, uno di deve adattare a fare tanti lavori; ci sono dei periodi di uscita dal mercato del lavoro e la maggior parte delle persone in questa situazione avrà una pensione molto bassa se non interverranno fattori favorevoli. La descrizione di questi lavori nuovi si adatta perfettamente alle migliaia di donne italiane che hanno fatto le casalinghe e pò le "ore" e qualche lavoretto. Questo fatto di rompere la corrispondenza tra lavoro e indipendenza, tra lavoro e autonomia economica potrebbe portare per esempio a grossi mutamenti nei rapporti interfamiliari. Tuttavia, nonostante quello del lavoro domestico e di cura sia un modello sociale e di lavoro emergente, raramente viene studiato se non come marginale.

Altresì va detto che se è vero che il lavoro genera rapporti sociali, allora c'è da chiedersi quali rapporti genererà la reintroduzione del lavoro domestico retribuito residenziale.

poiché questo lavoro è invisibile nessuno lo qualifica, e per esempio raramente si confrontano gli standard nei vari paesi: l'Italia, come sappiamo dalla conferenza ONU di Pechino, è il paese sviluppato in cui le donne svolgono in assoluto il maggior numero di ore di lavoro no retribuito ed in cui gli uomini ne svolgono il minore. È un paese in cui lo standard e le aspettative di servizio domestico (pulizia della casa, cura della persona, qualità del cibo) sono assai alte, e non a caso avendo avuto una classe media che ha goduto di servizi domestici a basso costo fino agli anni 70 ed ora di nuovo.

Questa caratteristica (che faceva sì che fino alla fine degli anni 70 ci fossero un milione di donne italiane iscritte come colf all'INPS, cifra poi scesa ad un quarto e che solo ora riprende a salire) è dovuto alla tarda industrializzazione, alla povertà, all'alta natalità ed a modelli familiari estremamente tradizionali riversatisi poi nello stato sociale.

A questo si aggiunga una complicità politica dei sindacati che hanno accettato il fatto che le domestiche non potessero iscriversi al Sindacato per anni, e che ci fosse un contributo massimo, qualunque fosse la somma pagata e versata. Questo ha voluto dire che insieme all'invisibilità sociale, le colf hanno sofferto anche di invisibilità politica. Questo è uno dei motivi per cui le uniche associazioni di domestiche per anni sono state quelle legate alla chiesa, o alle Acli, che riconoscevano l'importanza del lavoro, e delle lavoratrici, in parte perché corrisponde ad un modello di sostegno alla famiglia a loro consono, ed in parte perché il collocamento avveniva principalmente tramite organizzazioni religiose.

A quanto detto va aggiunto che in particolare il lavoro domestico residenziale è un altro incrocio particolare: tra il pubblico e il privato, tra la Chiesa, la famiglia e lo stato. Come detto la Chiesa è la grande collocatrice, organizzatrice, accoglie e colloca le immigrate, anche illegali e lo Stato delega a questa rete una parte di lavori non più svolti dalla famiglia estesa, non più svolti dai servizi sociali, lasciando a queste reti la politica.

È un incrocio tra spazio di casa e spazio pubblico, in cui sul lavoro domestico retribuito pesa l'invisibilità del lavoro domestico non retribuito.

Nel corso del nostro lavoro abbiamo verificato che il grosso del collocamento a Torino - ma anche altrove - avvenga tramite associazioni etniche e religiose che spesso hanno avuto un ruolo attivo anche nel reclutamento, così come per altri versi avveniva con le donne della Sardegna e del Veneto fino ancora alla fine degli anni 70.

Per alcuni gruppi etnici la rete più forte è quella etnica o nazionale ed il rapporto che l'associazione o rete etnica o nazionale nel suo insieme stabilisce con il volontariato è prevalentemente anche se non esclusivamente cattolico.

Anche qui sorgono delle domande che non sempre hanno delle risposte: per fortuna che questi luoghi di accoglienza esistono, ma qual è la loro politica, che modelli di reclutamento di forza lavoro, di preparazione e di collocamento, quali modelli sociali promuovono?

In ultimo, nell'incrocio tra immigrazione e lavoro a volte si fanno diversi fenomeni:

1) che l'immigrazione più discussa è quella maschile o quella femminile legata alla prostituzione, ossia si evita di discutere quella femminile più invisibile;

2) che le donne di etnia e nazionalità non italiana, in nome del rispetto della loro diversità culturale sono escluse dall'arena che discute o discuteva i modelli sociali, i ruoli.

Ossia le discussioni sui ruoli delle donne nella famiglia, nella prostituzione e nel lavoro paiono svolgersi in maniera non universale, ma riferita ai soggetti, come se dai diritti universali per soggetti passate ai soggetti universali con diritti specifici.

Anche all'interno del gruppo che ha svolto questa ricerca sono rimasti molti non detti, molte situazioni ambigue, come se per esempio alcune divisioni di ruoli fossero più accettabili per persone di altre etnie, come se le donne e gli uomini non si misurassero più né sui lavori né sui diritti, ma in realtà sulle persone che portano i diritti. In altre parole, il gruppo non ha affrontato, né questo gli era stato richiesto quell'incrocio difficile tra diritti, tra diritti universali e comunità, tra eguaglianza ed il possibile riversarsi nel lavoro delle diversità culturali. Il gruppo non ha altresì, né era suo compito, discusso quali sono i modelli sociali che emergono dalla reintroduzione in Italia del lavoro servile e domestico, e di quali saranno prezzi che lasceremo da pagare a generazioni future di donne - in termini di ruoli, modelli e lavoro - e ai figli, sia agli immigrati di seconda generazione che ai residenti da più generazioni.

Le domande restano, anche se non formulate: c'è da chiedersi per esempio se la presenza e la promozione di lavoro domestico e di cura retribuito, nelle forme che sta assumendo oggigiorno, non contribuisca al rafforzamento dei modelli stereotipati della struttura familiare, e a sua volta che modello societario ne emerga.

Ci si chiede anche quante di queste donne non abbiano avuto la libertà di scegliere altri lavori, oppure quanto il modo in cui è organizzata questa società incida su questa scelta. Hanno accettato questi lavori con rassegnazione e senza aver avuto la spinta, partendo da sé per cercare altro lavoro? Se questo è vero, quali sono le implicazioni di un inserimento con ruolo subalterno con un'identità debole? Come si tradurrà in termini sociali il fatto che il mercato del lavoro domestico sempre di più è un mercato di donne immigrate, e certamente quasi esclusivamente di donne?

Credo che uno dei motivi per cui il gruppo non ha discusso questi aspetti è che vi sono delle incertezze e delle differenze di opinione, e forse, nel concludere questo lavoro l'unica cosa che si può dire è che è ora di iniziare dei dibattiti più fondati sulle diverse opinioni e teorie sul lavoro domestico, l'immigrazione e lo stato sociale in questo incrocio, invece di restare ingabbiati tra l'essere pro o contro. La discussione forse deve andare oltre al razzismo e all'antirazzismo, modelli sul lavoro e diritti delle donne.

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2.4. Fatima Ahmed Ibrahim
Sudanese Committee against Violation of Women's Human Rights


A proposito del diritto al lavoro e della nostra via all'eguaglianza, ricorda che già Maurice Morgan - l'antropologo americano - parlava del sistema schiavile come radice dell'ineguaglianza delle donne. La maggioranza delle donne europee è oggetto di discriminazione. Riguardo alla situazione nel suo paese, ricorda che secondo il Corano le donne sono inferiori agli uomini perché ne sono economicamente dipendenti. Alcuni dicono che di ciò è responsabile l'Islam, altri che è a causa della concentrazione di potere politico nelle mani di uomini che discriminano - e lei è d'accordo con questa posizione. Sta di fatto che la disuguaglianza è profondamente radicata nella struttura della società. Le organizzazioni femminili non sono unite ed i mass media si occupano più delle differenze di genere che dell'importante ruolo delle donne nella società.

Ricorda il colpo di stato del 1958, sostenuto dalla Cia, in cui tutti i partiti politici furono interdetti. Nel 1962 si costituì l'associazione delle donne sudanesi. Nel 1996 diventò autonoma e reclamò la presenza di ostetriche qualificate nei villaggi, aiutando inoltre le donne ad organizzarsi e a lottare per la democrazia ed i diritti umani. Nel 1965 Fatima fu eletta al Parlamento e chiese uguali diritti per le donne, uguale retribuzione e pari opportunità. Nel 1969 erano già stati compiuti dei passi in questa direzione, ma ora i fondamentalisti al potere hanno riportato l'orologio indietro e la loro battaglia deve ricominciare.

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2.5. Il lavoro delle donne: liberazione o alienazione?
di Djouer Amhis, Algeria


Quando parliamo del lavoro delle donne, abitualmente ci soffermiamo sui rapporti economici e sociali. Forniamo cifre, facciamo riferimenti storici. Presentiamo percentuali, diagrammi, e così via.

Ma i numeri non danno conto della vita reale. La storia delle donne è la storia della loro oppressione attraverso i secoli.

Sarebbe tuttavia interessante osservare la percezione del lavoro femminile da parte della società e le sue manifestazioni nella relazione di coppia, nei paesi di cultura patriarcale.

Come percepiscono gli uomini il lavoro fuori casa delle donne?

Come risentono, nel loro intimo, dell'intrusione delle donne nello spazio maschile?

Perché nel loro inconscio la partecipazione finanziaria delle donne alla vita familiare in qualche modo li disturba?

Quali sono gli effetti sulla vita di coppia a livello psicologico e del rapporto interpersonale?

Quali possibilità hanno gli uomini di adattarsi a questa nuova immagine? Come possono integrarvisi, senza traumi, senza perdere la loro identità?

Quello che dobbiamo sempre tener presente è che una dotta deve sempre più lottare per acquisire - non il potere - ma il diritto ad essere una persona indipendente.

Le donne nel mercato del lavoro sono davvero poche. Su un totale di 14.036.000, cioè il 48,69% della popolazione complessiva dell'Algeria, solo il 13,17% delle donne algerine hanno un lavoro, come rivela un censimento dell'ufficio nazionale di statistica. Esso mostra una "debole" presenza delle donne nel mercato del lavoro, al contrario dell'impressione generale secondo cui esse occupano scale più alte. Questo tasso nelle aree urbane è due volte più alto di quelle rurali, vale a dire il 17,5% contro il 6,2% secondo i risultati di un'indagine condotta dall'ONS nel 1996 su un campione di 6.146 famiglie, pubblicati su El Watan dell'8 marzo 1998.

Peraltro il giornalista afferma che le donne sposate non investono nell'ambiente di lavoro per ovvie ragioni "data la preminenza delle responsabilità e carichi familiari, come anche la mancanza di qualificazione"(1).

La disparità relativa alle opportunità di lavoro è flagrante. A parità di competenze, agli uomini viene data la priorità.

Come in grammatica, "il maschile prevale sempre".

Nell'ambito delle istituzioni scolastiche, ci sono misure disgustose: per passare alla seconda classe della scuola secondaria, la priorità viene data ai ragazzi, anche se le ragazze ottengono risultati migliori. Limiti prefissati prescrivono un'ingiusta selezione.

I genitori - specialmente quelli delle classi sociali inferiori - danno la priorità agli studi dei figli maschi.

Nell'ambito delle classi rurali, in particolare, le ragazze lasciano la scuola all'età di dodici anni, perché rappresentano una minaccia per l'onore della famiglia.

Assegnate a....

In ogni società e in ogni tempo, alle donne viene assegnato uno status del tutto "inamovibile".

Nell'Epistola ai Corinzi, San Paolo dice:"Come in tutte le assemblee dei Santi, le donne devono stare in silenzio..., dato che non è consentito loro di parlare. Devono essere obbedienti... e se desiderano un'informazione su qualche cosa, devono chiederla al marito, una volta a casa, dal momento che è inappropriato per una donna parlare durante un'assemblea".

L'8 marzo 1966, in occasione della giornata internazionale della donna, Boumedienne espose all'uditorio uno dei problemi che il governo algerino doveva affrontare in questi termini: "C'è il problema della disoccupazione. Quando c'è disponibilità di un lavoro, dev'essere offerto ad un uomo o a una donna? L'uomo deve starsene a casa mentre la donna va fuori a lavorare? Questo è il problema".

In un'intervista su Alger Republicain dell'aprile 1991, Ali Belhadj, leader del FIS, dichiara: "Il luogo naturale per una donna è la sua casa. In una società veramente islamica, alle donne non dovrebbe essere permesso di lavorare... Esse non producono beni materiali, ma quella cosa primordiale che è un Musulmano. La promiscuità è contraria alla moralità islamica. Le ragazze ed i ragazzi devono stare separati".(2)

Quando Khomeiny chiese alle donne iraniane di indossare il chador, di essere velate, ha inteso dare al velo un significato preciso. "Esso rappresenta il ripudio della dimensione economica delle donne".

Quando Ali Belhadj dice che "le donne non dovrebbero lavorare", che cosa fanno allora in casa?

Una risposta alla domanda posta alle donne è stata fonte di riflessione, il motivo di un questionario sul lavoro delle donne.

Una donna di casa alla quale chiediamo "Lavori?", risponde "No, non lavoro". Il che significa due cose: primo, che non lavora fuori casa, per un salario; secondo, che il lavoro di casa non è visto come un lavoro.

La nozione di lavoro è riferita solo alla produzione, al punto di vista economico?

Non è tempo che noi cogliamo l'aspetto meritorio di un lavoro assunto nel fiore dell'esistenza di una persona?

Lavoro di casa
Nelle società tradizionali - quelle patriarcali per la precisione - una rigorosissima organizzazione gerarchica usava stabilire la divisione dei compiti.

Una donna deve prendersi cura della famiglia, governare le faccende quotidiane, educare i figli e accudire il marito, essendo questi il pilastro della casa, colui che fa vivere. Spesso ho sentito dire: "Il cus-cus bianco fatto di grano era per gli uomini, perché lavoravano, mentre le donne venivano dopo, condannate a mangiare cus-cus di orzo". Così stavano le cose, una specie di contratto e nessuno avrebbe pensato di trasgredirlo. Era un modo di funzionare - ingiusto certamente - che assicurava l'equilibrio familiare e attraverso esso l'ordine sociale... Nelle società patriarcali, spesso chiuse, le evoluzioni ed i cambiamenti erano molto lenti; le donne non erano consapevoli della parte decisiva nella quale erano confinate. Col sorgere di nuove idee, rivendicazioni sociali, il movimento di liberazione delle donne ed i media, le donne affrontano la loro condizione con uno sguardo nuovo e allora una risoluzione di cambiamento romperà le immagini, i diagrammi abitualmente ammessi.

Le donne non vogliono più essere viste come oggetti, strumenti, ad uso altrui. Non accettano più la condizione di dipendenza che le aliena e le tiene in uno stato d'inferiorità. Una nuova percezione di sé stesse e della propria vita le aiuterà a farsi consapevoli di nuove prospettive.

Le nostre madri - donne del dovere - nate nelle società patriarcali, non avevano altra scelta che la sottomissione. Non avevano altri mezzi di sopravvivenza e di sicurezza. L'immagine della donna obbediente, "tagliata e manipolata a piacere", sta per lasciare il posto - sebbene molto lentamente e ancora parzialmente - all'immagine della donna economicamente indipendente.

Le difficili condizioni economiche obbligano le donne a praticare una professione per provvedere ai bisogni della famiglia: sia sul mercato, nel campo della salute, dell'educazione, dei media, sia in casa nei mestieri non riconosciuti di pasticciera, tessitrice, sarta, ricamatrice, fornaia.

Il patriarcale

Nel corso della storia delle società troviamo una evidente relazione tra padre, potere e Dio. Le donne sono state costantemente e deliberatamente escluse dalla conversazione, dagli spazi sociali...

Le monarchie basate sulla legge divina hanno visto diminuire o sparire il proprio potere. "L'assassinio del Re è un simulacro dell'uccisione di Dio, esso stesso essendo il simulacro della morte del padre".(3)

Le donne che vogliono emanciparsi attraverso il lavoro prima dovevano affrontare l'autorità e lo sguardo del padre, del fratello, dello zio, dei vicini, di tutta la comunità maschile.

La lotta delle donne algerine non può trascurare tutto ciò che è società, l'importanza delle tradizioni, dell'atavismo, delle esperienze culturale, tutto ciò che forma la personalità e definisce la gerarchia sociale. Questa lotta non può essere paragonata a quella di altri paesi di differente contesto. È importante adattare a ciascun paese differenti forme di lotta.

Ad andare troppo veloci si corre il rischio di pericolosi contraccolpi che possono sfociare in effetti opposti a quelli desiderati. I mutamenti devono avvenire progressivamente, disponendo le strutture dell'apprendistato e dell'educazione che porteranno all'autoconsapevolezza.

La liberazione della donna è vista come un'assoluta violazione dell'ordine: quello divino, quello maschile. La religione è importante, tanto mentalità è compenetrata della paura di Dio. Il dibattito religioso perpetua il potere del sistema patriarcale. Questo aspetto dev'essere tenuto in considerazione. Le credenze religiose impediscono di discernere chiaramente e obiettivamente i veri problemi sociali. La paura dell'Altro è così forte che si pone come ostacolo insormontabile per molte donne... La maternità - che nelle società patriarcali conferisce uno status privilegiato alle donne - no può essere messa in discussione in un giorno.

Solo il miglioramento dei livelli di esistenza e l'aspirazione ad una migliore qualità della vita possono cambiare le cose.

La sessualità, ristretta nei tabù sociali, sfugge al controllo degli uomini, una perdita di autorità percepita come un attentato alla "rejla", alla "virilità".

La scelta delle donne di decidere della propria vita, della loro maternità, della loro sessualità, "turba" l'ordine, e come in ogni cambiamento, la paura genera aggressività, violenza, meccanismi di autodifesa. Ancor più degli uomini che picchiano le mogli - purtroppo - la violenza più difficilmente tollerata, la più distruttiva, è quella delle parole che uccidono.

Alla sottrazione all'autorità, alla sovversione viene opposta un dialogo svalutante.

L'angoscia dell'identità e la paura di perdere la virilità accentua negli uomini la virulenza della discussione.

Il ruolo delle donne è sempre stato "naturalmente" assegnato. Questa nuova immagine di donna che decide di se stessa disturba nel profondo.

Come Souad Khadjia giustamente nota in "Per le donne d'Algeria": "Oggi, la giovane donna svelata deve prima lottare con se stessa per distruggere i clichés della superiorità maschile impressi nel suo immaginario sin dalla prima infanzia, dell'uomo violento, indiscutibile padrone e cercare in qualche modo di farlo apparire troppo comune, costringere se stessa a trionfare sulle paure dell'infanzia... Ma l'uomo algerino non può vederla... nel senso che neppure lui può vederla com' è, ma come la sua educazione gli ha fatto credere che ella sia".

"Invece, se l'uomo algerino lotta oggi contro le donne che sono realmente o simbolicamente svelate, è perché teoricamente parlando, le donne diventano reali. Esse cessano di essere totem e tabù nello stesso tempo. Svelandosi, esse sconsacrano se stesse. Diventano reali e chiedono di essere viste come sono. La loro immagine di donne fantasma che l'uomo può trasformare a suo piacimento, si muta in una realtà concreta con un corpo, una volontà, forse opposta alla propria, libere di scegliere l'immagine che esse vogliono avere".(4)

Una donna che rifiuta di essere rinchiusa, che rifiuta la riproduzione e la sottomissione, è vista come provocatoria. In ogni momento della sua vita si trova in situazioni conflittuali che la inchiodano, la alienano sempre più. Molestie, umiliazioni, pubblico disprezzo, ogni suo passo avanti è considerato un indebolimento del potere maschile.

È evidente, comunque, per le nostre società tradizionali, l'indipendenza economica è stato il primo passo verso la liberazione delle donne.

Ma la loro lotta non riguarda solo se stesse. Il fatto che le donne cambino, fa cambiare anche gli uomini? Questo, in un sistema sociale patriarcale, non è palese. Come si può accettare di perdere potere?

Il lavoro delle donne: un'alienazione?

Nelle nostre società in via di sviluppo, l'esempio del modo di attraversarle delle donne rivela quanto l'economia è importante.

Una donna lavora tutto il tempo. Si fa carico del lavoro in casa e fuori. È esausta ma rifiuta di smettere di lavorare fuori; ha un sacco di difficoltà. Non si fa niente per facilitare la vita alle madri lavoratrici: trasporti, asili nido, orari dei negozi..., come nota Djamila Amrane: "Una condizione da pariah nel mondo del lavoro".(5)

"Lavorare per le donne algerine non è un segno di progresso, né una conquista del mondo esterno, è solo una dura necessità di sopravvivenza".

Il suo supporto economico è necessario per migliorare le condizioni di vita della famiglia. Ma accade che l'uomo si appropri del suo salario e lo spenda a suo piacimento, sebbene la legge islamica permetta alle donne di disporre interamente dei propri beni.

Il lavoro delle donne non è apprezzato nelle società arabe del Nord Africa. Una legge araba promossa nel 1957 (articolo115) afferma:"Tutte le persone provvedano ai propri bisogni coi propri mezzi, ad eccezione delle mogli i cui bisogni sono a carico dei mariti"(6)

Il marito è così depositario della sua posizione di mantenitore dal momento che il suo ruolo è di mantenere la moglie. Se la sua identità è minacciata, tollera a fatica questa situazione: "Se la moglie parla e non obbedisce più al capo, l'identità culturale soffrirà uno shock mortale".

Come può un uomo accettare tale umiliazione? Il suo comportamento cambia in modo insidioso. Diventa odioso, insopportabile, aggressivo. La moglie si sente colpevole e si sforza di fare ogni cosa in maniera perfetta: lavorare fuori casa e allo stesso tempo compiacere il "capo". La paura di non essere piacenti... non è un'altra forma di sottomissione che depriva le donne e le coppie di miglioramento? Desiderio e potere vanno alla pari?

Anche la preparazione delle donne disturba. Prima le donne erano escluse dal sapere in generale. Non avevano neppure accesso al sapere religioso. Non andavano in moschea. L'eroina Fadhma N'Soumeur(7)si nascondeva dietro la porta per poter ascoltare le lezioni del maestro del fratello e raggiungere quella conoscenza che le era vietata.

C'è un unico detentore del sapere: lui. Solo lui sa. Un marito una volta disse alla moglie: "Non devo insegnarti niente, sai quanto basta". Secondo lui, parte della sua supremazia sarebbe svanita se qualcun altro avesse condiviso il suo potere. E dal momento che neppure prima condivideva alcun potere, la moglie diventava la causa della sua nullità.

A questo punto inizia una discussione svalutante e le donne si trovano imprigionate nel VERBO.

È comunque evidente che le donne non desiderano conquistare il potere. Vogliono solo affermare la loro identità di esseri umani indipendenti e cessare di essere ridotte ad oggetti sessuali. Cercano di migliorarsi fisicamente ed intellettualmente. Diventano soggetti attivi, determinati ad affermarsi.

L'indipendenza economica è certamente un passo verso la liberazione. Le condizioni delle lavoratrici le trasformano in personalità emergenti. Per essere donna, avere accesso alla propria identità, deve affrontare un sacco di ostacoli: ella è "depositaria" del suo ruolo di moglie e madre. La nuova immagine si compone con molta difficoltà.

Dopo tutto, continuano ad assumere la doppia giornata. Sebbene apparentemente il lavoro delle donne non è sempre liberante, resta non di meno una determinazione a resistere che fa del lavoro un passo nella lotta delle donne.

(1) El Watan, 8.3.1998

(2) Journal Horizons, 23.3.1989

(3) Jean Lacroix, Paternité et democratie, Revue Esprit, maggio 1947

(4) Souad Khodja, A comme Algériennes, pag.8

(5) Danièle Djamila Amrane Minne, Femmes au combat, La Guerre d'Algérie 1954-1963, pag.19

(6) Citata da Fatma Ait Sabbah in La femme dans l'incoscient musulman, pag.132

(7) Fadhma N'Soumeur nacque all'incirca nel 1830. Organizzò la difesa contro la penetrazione coloniale francese nella sua regione e lottò coraggiosamente.

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3. Sessione
Marginalità, sfruttamento, disoccupazione: la risposta delle donne



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3.1. La marcia d'Israele verso la globalizzazione colpisce le donne arabe
di Roni Ben Efrat, direttrice di Challenge Magazine


Mentre prende forma la New economy del Medio Oriente, l'industria tessile israeliana è entrata in crisi, e il settore arabo, che attualmente fornisce la maggioranza della sua forza-lavoro, corre il rischio di trovarsi dinanzi alla rovina economica. Le grandi fabbriche di proprietà ebraica, come Delta, Kitan, Castro e Tefron, riorganizzano la forza-lavoro secondo gli orientamenti del capitalismo mondiale, che tende a cercare manodopera al costo più basso, e questo significa che la popolazione araba che vive nel nord d'Israele, la cui economia dipende quasi esclusivamente da questa industria, potrebbe essere completamente estromessa dal processo produttivo.

Il governo di Netanyahu ha celebrato il suo più grosso trionfo economico nel 1997: ha ridotto l'inflazione al "livello europeo" del 7%. Guardando al futuro, l'establishment economico israeliano progetta di ridurre il deficit, abbassare ulteriormente l'inflazione, tagliare i servizi e continuare a vendere le aziende pubbliche ad imprenditori privati. Questi traguardi implicherebbero la chiusura di intere industrie, provocando numerose bancarotte e causando una disoccupazione sul lungo termine a livello del 10% circa. Per Israele, un basso tasso di inflazione rappresenta la carta d'ingresso nei vertici dell'economia mondiale.

Altrettanto si può dire del processo di pace conosciuto come Accordi di Oslo. Un paese instabile che si regge su un'economia di guerra non è il miglior posto dove investire. L'idea, nata agli inizi degli anni '90, era di usare il consenso palestinese per dichiarare la fine del conflitto, così da stabilizzare Israele come potenza economica della regione. Il principio che si doveva seguire era: non ascoltare ciò che dicono i politici, ma osservare quello che fanno gli economisti.

Questa tendenza cominciò in modo silente, ma adesso sta guadagnando terreno in modo piuttosto visibile: le industrie a forte intensità lavorativa stanno progressivamente abbandonando Israele per l'Egitto e la Giordania. Questo richiede la collaborazione tra compagnie israeliane e straniere, nonché degli imprenditori arabi. Le barriere doganali si alzano, in accordo con il trend internazionale. Agli occhi di Israele, il commercio con i vicini costituirà un ulteriore impulso all'economia del paese.

Durante l'ultimo summit sull'economia del Medio Oriente a Doha (Qatar), Giordania ed Israele firmarono un accordo che prevedeva una joint industrial zone, da situarsi in Giordania del Nord, nella città di Irbid. I beni prodotti saranno commercializzati in USA senza essere gravati da imposte doganali. La zona industriale di Irbid ospita già dieci aziende Israeliane, incluse le Industrie Delta Tessili e Koor. Sul quotidiano ebraico Yediot Aharonot del 16 gennaio 1998, Semadar Peri esamina il nuovo trend della cooperazione regionale, e cita Dov Lautmann, il proprietario della Delta, che impiega 3500 persone, (Lautmann era il consulente speciale per l'economia araba di Rabin, ed è stato il primo ad aprire una fabbrica in Egitto).

Egli descrive la strada tortuosa grazie alla quale la biancheria prodotta dalla Delta raggiunge gli scaffali dei negozi statunitensi dopo aver attraversato diverse località del Medio Oriente. Lautman acquista cotone grezzo in Egitto e lo spedisce in Turchia per la filatura e la tessitura. Da lì il tessuto va a Karmiel in Israele, dove viene tagliato e disegnato. Quindi viene trasportato sino a Irbid in Giordania per il lavoro di cucitura ed imballaggio, per tornare infine a Karmiel dove viene imballato e spedito negli Usa. I bassi salari - che differiscono a seconda dei paesi dove si svolgono i diversi momenti della produzione - permettono alla Delta di affrontare il mercato americano al prezzo competitivo di dieci dollari per capo di biancheria. In questo articolo, Lautmann si vanta di non aver mai licenziato nessuno dei suoi lavoratori. Le fabbriche in Egitto e Giordania, dice, gli consentono di creare lavoro in Israele. La cosa è ben lontana dalla verità. La Delta ha licenziato 250 lavoratrici arabe della filiale di Shefar'am, chiusa nel Marzo 1997. Un'altra filiale nel villaggio di Beit Jan ha dovuto chiudere nel febbraio '97, lasciando un centinaio di operai senza lavoro.

Nell'ottobre '96, Doron Tamir, dell'Associazione Industriali fu citato dallo Yedíot Aharonot per aver dichiarato che, dei cinquantamila lavoratori tessili esistenti in Israele, ventimila avrebbero perso il posto nei successivi due anni.

Per la popolazione araba - particolarmente quella del nord d'Israele - il risultato sarà il disastro economico. Per anni, quella tessile è stata l'unica industria permessa nel settore arabo, e l'unica fonte di lavoro per la maggior parte delle donne. Le stime dicono che le donne arabe costituiscono un terzo dell'intera forza-lavoro del settore tessile israeliano. A partire dagli ultimi vent'anni, accanto alle più grandi industrie tessili situate nelle città ebraiche, sono sorti piccoli laboratori che impiegano manodopera sottopagata, disseminati nei villaggi arabi. I manager di queste piccole imprese agiscono abitualmente come subappaltatori di grandi aziende, impiegando migliaia di giovani donne arabe. Queste lavoratrici sono confinate nei loro villaggi, da una parte a causa della tradizionalismo delle loro famiglie, e dall'altra per la mancanza di altre opportunità di lavoro. Le condizioni di lavoro sono spesso al di sotto dei normali standard, ed esse ricevono salari assai più bassi di quelli che potrebbero guadagnare nelle fabbriche.

Amir Peretz, capo del sindacato nazionale Histadrut, diceva a Semadar Peri nell'articolo citato sopra che "il calo dell'industria tessile è inevitabile; l'importante, in ogni caso, è cercare di rendere questa transizione quanto più morbida possibile".

Invece di organizzare una lotta coordinata internazionalmente contro la globalizzazione, Peretz dunque si augura solo che questa avvenga facilmente. Il significato è chiaro: garantire alle fasce ebraiche dei lavoratori israeliani la sicurezza di un graduale accesso a settori più redditizi, usufruendo nello stesso tempo dei benefici sociali. Per i lavoratori arabi, invece, inclusi quelli che sono cittadini israeliani, non ci sono alternative. Infatti, la maggior parte delle industrie elettroniche - che costituiscono un settore trainante in questo paese - per motivi di sicurezza, non assumono lavoratori o lavoratrici arabe. Poiché questi appartengono a segmenti più deboli e non organizzati dell'economia, e spesso vivono lontano dagli uffici di collocamento governativi, raramente riescono a percepire sussidi di disoccupazione.

In un periodo di veloce privatizzazione, questo significa che centinaia di migliaia di lavoratori - quelli israeliani appartenenti alle fasce più deboli e quelli arabi - saranno relegati ai margini della società. Sono gli arabi, ad ogni modo, a trovarsi particolarmente nei guai. Sono esclusi dalle industrie ad alta tecnologia, ma non possono nemmeno trovare un lavoro ai livelli più bassi, che sono letteralmente "sommersi" dal lavoro straniero e palestinese. E nemmeno hanno parte in qualsiasi piano che riguardi lo sviluppo del paese: nessun settore ha bisogno di loro. In termini sociali, questo si traduce in uno sfacelo, in degrado sociale, in tagli ai servizi essenziali, e in meno soldi per l'educazione e la salute.

La globalizzazione, accettata in eguale misura in Israele dai sindacati dei lavoratori e dai padroni, si esprime nel processo di Oslo. Dietro il bello slogan sul "nuovo Medio Oriente", si nasconde un nuovo, più potente apparato internazionale di sfruttamento economico. Gli slogans politici ubbidiscono ai bisogni economici. Israele si trova a competere per avere la propria parte nel mercato occidentale. Una forza lavoro a basso costo è quanto mai essenziale, anche se questo significa calpestare i più deboli. Il colosso globalizzato del capitale israeliano ha, tuttavia, i piedi di argilla: fino a che Israele continuerà ad occupare i territori arabi, l'area rimarrà instabile. Non importa quanto le cose potranno andare lisce, non c'è via d'uscita a questa situazione: i lavoratori egiziani e giordani non sono diversi da quelli palestinesi. Tutti loro, compresi gli stranieri che lavorano in Israele, un giorno si organizzeranno e rivendicheranno i propri diritti. Allora, avremo un'Intifada globalizzata.

Roni Ben Efrat è direttrice del Challenge Magazine, rivista bimestrale in inglese specializzata sul conflitto arabo-israeliano. Una copia omaggio può essere richiesta a Challenge, pob 41199, Jaffa, 61411, o semplicemente via
e-mail: <odaa@p-ol.com>.

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3.2. Profughe, rifugiate politiche e lavoro a Belgrado
Dr. Maja Kandido-Jaksic, Psicologa
traduzione di Giovanna Martelloni


Introduzione

Gli ex stati e società della Yugoslavia sono stati colpiti da uno shock disastroso che ha causato la loro distruzione e disintegrazione. Ondate di rifugiati delle popolazioni della Croazia, della Bosnia e dell'Herzegovina si sono mosse prevalentemente verso Belgrado restando lì come profughi, accolti principalmente dai familiari più stretti, da amici o da conoscenti, ed in numero minore o persino trascurabile dalle autorità. In questo testo l'autore analizza le donne sotto stress ai tempi del conflitto a Belgrado. Dalla presente ricerca, attraverso il contatto diretto ed interviste alle rifugiate, sono stati raccolti ed analizzati dati relativi alle capacità lavorative nel nuovo ambiente, ai problemi di adattamento, ai traumi ed abusi sulle persone, alla salute fisica e mentale delle donne. Ad ogni modo, si potrebbe concludere che la popolazione delle donne rifugiate a Belgrado, nel suo insieme, è stata fortemente traumatizzata con conseguenze negative di grande portata dai conflitti armati e dagli avvenimenti successivi ad essi accompagnati e dagli incidenti fra le ex repubbliche vicine.

Modello e metodologia

Strumenti:


Questionari per le donne rifugiate (Questionari differenti con tipi di domande in base al contenuto ed al soggetto specifico: dicotomia di domande, scelta multipla con categorie qualitative, domande nella forma di una scala qualitativa, domande che richiedono una classificazione, domande che richiedono una risposta libera).

Il campione di donne indagate consisteva di 195 madri dell'età compresa fra i 35 ed i 50 anni, i cui figli sono ora studenti nelle tre scuole superiori di Belgrado, è servito a fornire contatti con gli intervistati. La metà circa delle donne intervistate appartenenti alla popolazione rifugiata a Belgrado hanno un livello d'istruzione di scuola media e superiore, un quarto è di un grado di istruzione più basso e l'altro quarto di laureate presso istituti superiori. Prima del loro arrivo in Serbia la gran parte delle donne erano impiegate, sposate ed avevano avuto una vita confortevole e regolare all'interno delle loro famiglie.Attualmente, tutte le donne sono state, chi più o chi meno, direttamente colpite e minacciate dalla guerra.. Il 10% sono vedove che hanno perso i loro mariti in guerra, il 19% sono divorziate, la metà di queste asseriscono che la guerra assieme alle condizioni di vita piuttosto difficili è stata la causa principale del loro divorzio. Il 15% vive in famiglie smembrate a causa dell'assenza della madre, del padre, del marito o dei figli dovuta alla separazione forzata, o perché son dovuti rimanere nelle altre repubbliche per proteggere i propri beni o ancora perché sono stati inviati all'estero in luoghi più sicuri. Numerosi componenti delle loro famiglie sono deceduti per cause di guerra, in altre parole, perché sono morti di miseria, mancanza di medicinali e servizi medici, la qual cosa significa che i rifugiati devono prendersi cura di se stessi e dei loro figli senza avere alcun sostegno.

Problemi specifici di disoccupazione delle donne rifugiate.

L'emigrazione in larga scala e l'abbandono delle abitazioni restano tra le più tragiche conseguenze del cataclisma causato dalla guerra. L'abbandono dell'ambiente d'origine imposto dagli eventi della guerra ha cambiato fondamentalmente le precedenti ed essenziali condizioni di vita delle rifugiate e profughe dalla Croazia e dalla Bosnia e delle loro famiglie. Le profughe rifugiate incontrano una serie di difficoltà: da quelle causate dalla insufficienza di denaro ad una più vasta gamma di problemi di ordine sociale e psicologico. Il crollo economico dovuto alle sanzioni delle Nazioni Unite e alla stessa guerra sembra che abbia causato un allargamento della disoccupazione nell'intera area della Yugoslavia, dove le donne rifugiate si sono prevalentemente raccolte e dove hanno trovato protezione ed una residenza temporanea o permanente. In base al materiale di ricerca raccolto sulle rifugiate e le donne profughe, l'impoverimento e l'insicurezza patiti nell'affrontare i bisogni quotidiani, rappresenta un forte fattore di stress multi-dimensionale, nel senso che potrebbe produrre un'intera gamma di gravi disturbi di vario genere nelle famiglie e negli individui. La gran parte delle intervistate sentono minacciata la propria sopravvivenza dalla scarsità e dalla mancanza di denaro.

Qui seguono le percentuali delle risposte che indicano il parere delle intervistate su ciò che per loro costituisce un problema che presenta difficoltà concrete. Fra le profughe politiche vengono indicati come "grandi difficoltà" tre ordini di problemi.

Il primo blocco di domande si riferisce ai problemi di sopravvivenza:La povertà è considerata dalle donne rifugiate il primo e più serio problema che hanno affrontato nel nuovo ambiente. Solo la metà delle intervistate ha trovato un nuovo impiego pressoché in regola, tuttavia esse non lavorano più nell'ambito della loro professione. Più dei tre quarti di loro ora sono a "lavoro nero" e vendono persino una parte dei propri aiuti umanitari, alcune di loro hanno trovato una precaria fonte di guadagno come venditrici nei parchi, in luoghi all'aperto e nei mercati delle pulci, altre come domestiche presso famiglie, baby-sitter, accompagnatrici, governanti e infermiere per anziani e persone bisognose di aiuto. Si potrebbe dedurre che molte di loro fossero insegnanti di scuola superiore, medici, giudici e simili.

La frustrazione più grande per le donne intervistate è la loro condizione finanziaria, la povertà e l'impossibilità di avere altre fonti di guadagno per soddisfare i bisogni propri e quelli dei loro figli. La grande maggioranza di esse, il 76%, pensa che i bisogni elementari dei propri figli non siano abbastanza o per nulla soddisfatti.

Il secondo e più serio problema è l'abitazione e la condizione di coloro che non hanno il permesso di soggiorno. Il materiale raccolto suggerisce che i rifugiati che vivono in Serbia sono in gran parte (95%) sistemati presso le famiglie dei loro parenti o amici i quali, a loro volta, hanno avuto grandi difficoltà finanziarie durante l'embargo.

Di fatto il problema principale di queste donne rifugiate è l'impossibilità di ottenere la cittadinanza nel nuovo paese e per questo hanno difficoltà ad ottenere lavori fissi e corrispondenti alle proprie professioni. Tutti gli altri problemi collaterali, tensioni e difficoltà che loro affrontano e di cui hanno esperienza vengono principalmente da tali gravi ed insormontabili problemi di vita.

Il secondo ordine di problemi è relativo alle condizioni fisiche, di salute mentale e di stress psicologico:Più della metà quasi delle donne intervistate (58%) ha risposto che sin dall'inizio della loro condizione di rifugiate o profughe, hanno sofferto assai di più di malattie e disturbi fisici e/o mentali. È anche importante notare che si è avuta la più grande percentuale di malattie e di disagi fisici e mentali fra i rifugiati politici e che tutto l'insieme dei problemi psicosomatici è stato direttamente correlato alla lunghezza della loro condizione di rifugiate e di profughe. Quanto più a lungo hanno vissuto la condizione di rifugiate e di profughe tanto più intensi sono diventati i disturbi fisici e mentali. Da quando queste donne sono rimaste in gran parte disoccupate, per mancanza della nuova cittadinanza, sono state private della previdenza sociale e a causa della loro totale povertà hanno vissuto gravi rischi e problemi..

Molte donne soffrono di sintomi assai seri di melanconia, ansietà, senso di abbandono, apatia e depressione.

Fra di loro sono assai diffusi diversi tipi di nevrosi e complessi di inferiorità, senso di solitudine, sensazione che la loro vita sia demotivata e priva di senso. Solitamente le donne si sentono inutili, non solo perché non lavorano, ma anche perché percepiscono e soffrono delle nuove condizioni in cui si trovano (nuovo ambiente, mancanza di dimora e problemi di soggiorno, separazione dagli altri componenti familiari, frequente e prolungata mancanza della vicinanza dei figli, di poterli accudire, guidare, amare, ecc): della perdita di un profondo scambio emotivo che prima avevano con i loro figli. Oggi molte madri rimpiangono il fatto di non aver partecipato abbastanza all'educazione dei propri figli e la quasi totalità (85%) lamentano il fatto che i figli le evitano, che non obbediscono né le rispettano più come in passato. Da questo punto di vista, le donne intellettuali tendono ad adattarsi meglio e spesso riescono a trovare qualche attività all'interno di ambienti a loro più vicini o più lontani. In questo modo le donne sono in grado di conservare la fiducia in se stesse e l'auto rispetto, mentre le donne appartenenti alle classi più basse con un livello di istruzione più basso soffrono cinque volte di più di depressione e mostrano una maggiore tendenza al suicidio. Il 12% di queste donne intervistate ha dichiarato che sebbene prima della guerra esse non avessero nei loro matrimoni nessun problema simile, oggi sono vittime dei loro mariti ubriachi che spesso le violentano e le picchiano dinanzi ai figli.

Un gran numero delle donne rifugiate si lamenta anche della monotonia e vuotezza della propria vita in tali circostanze e la maggioranza sta cercando l'opportunità di avere un lavoro pagato.

Il terzo ordine di problemi è legato alla questione dei diritti umani, da dove scaturiscono le seguenti risposte:

Più dei tre quarti delle donne rifugiate e profughe intervistate (78%) ha risposto che finora, a loro, i diritti umani non sono stati né riconosciuti né rispettati. Molte di loro hanno incontrato specifiche difficoltà dinanzi a problemi elementari come ottenere i documenti di base (cittadinanza, passaporti, carte di identità, ecc.).

La guerra in Croazia e in Bosnia Herzegovina ha causato distruzione ed intolleranza in primo luogo fra i membri dei gruppi etnici coinvolti nel conflitto. In tali circostanze di emergenza, si sono avuti stereotipi e pregiudizi sociali persino tra membri dello stesso gruppo etnico, se una parte di esso veniva individuata come possibile minaccia agli interessi della maggioranza messa così in pericolo.

Un problema di notevole significato e assai delicato in senso politico in tutta l'area della ex Yugoslavia, che il ricercatore ha osservato, ma che ancora non è stato racchiuso nello studio su "Rifugiate e profughe politiche", è relativo alle donne ed ai figli di matrimoni misti. Nel progettare i futuri programmi di accoglienza dei rifugiati e dei profughi politici nell'area dell'ex Yugoslavia, è importante prendere in considerazione il fatto che esiste una larga percentuale di persone (ogni sei matrimoni), i cui genitori o sposi sono di nazionalità differenti e quindi che queste donne rappresentano un gruppo di persone particolarmente traumatizzato ed esposto a particolari tipi di tensioni. Tali persone hanno affrontato determinate difficoltà relative a problemi elementari come il conseguimento di documenti fondamentali (cittadinanza, passaporti, carte d'identità ecc.) e, in conseguenza dell'attuale guerra, sono state esposte ad una eccezionale aggressività ed intolleranza nei confronti delle loro origini etniche da parte dell'ambiente circostante. Queste persone lamentano di più i problemi della sicurezza e dei diritti umani. Più dei quattro quinti delle donne intervistate (81%) sono pienamente o sostanzialmente soddisfatte del grado di sicurezza personale nella situazione attuale, mentre le donne che hanno matrimoni misti dichiarano che si sentono minacciate nei loro diritti e grado di sicurezza personale o considerevolmente violate a paragone con gli altri gruppi di donne. Le donne appartenenti a questa sono tre volte di più e più gravemente portate alla malattia mentale che gli altri gruppi.

Allora si può concludere che i matrimoni misti attualmente all'interno dell'intera area dell'ex Yugoslavia rappresentano una grave rischio mentale. Il primo aiuto del quale le persone appartenenti a matrimoni misti avrebbero bisogno sarebbe di vedersi riconosciuta la doppia cittadinanza in conformità alle origini dei due sposi, e questo problema dovrebbe essere risolto dalle Nazioni Unite al più presto possibile.

Note conclusive

La conclusione principale alla quale si giunge attraverso questa indagine è che quasi tutte le donne rifugiate ed i loro figli provenienti dalla Croazia, Bosnia ed Heregovina che vivono in Serbia sentono prevalentemente nostalgia di casa e che il desiderio della maggioranza di esse è di ritornare nelle proprie case. In conformità con questo dato, la maggioranza delle intervistate (72%) si aspetta più che di essere profughe politiche di ritornare nelle proprie case. Rispetto al futuro, la maggioranza delle donne intervistate hanno espresso pareri pessimisti e si aspettano persino che i problemi aumentino.


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3.3. Donne per la dignità
di Evgenia Kiranova, Bulgaria


"Donne per la dignità" è un'associazione nuova in Bulgaria, costituitasi cinque anni fa. Abbiamo voluto chiamarla così perché ci pareva che in una situazione di così grave crisi economica, psicologica e morale determinatasi nel Paese dopo il collasso del socialismo, la restituzione della dignità perduta fosse la cosa su cui concentrare primariamente gli sforzi delle donne.

Ci siamo molto impegnate sul problema del lavoro delle donne, organizzando studi, incontri, dibattiti, perché pensiamo che la salvaguardia o la conquista dell'indipendenza economica sia la cosa fondamentale. Di quale dignità della donna - e dell'uomo - si può parlare, infatti, quando non c'è lavoro, e se c'è è sottopagato, senza contratto o senza assicurazione sociale?

Di quale dignità si può parlare se il costo delle cure sanitarie, per l'istruzione dei figli comporta una spesa superiore a quello che una donna, pur lavorando, può guadagnare?

Per non parlare delle umiliazioni e delle violenze che le donne subiscono sul posto di lavoro: nella nostra attività abbiamo incontrato un'alta percentuale di donne che, pur in possesso di un'istruzione superiore, pur potendo aspirare ad un lavoro molto qualificato, sono invece costrette ad accettare qualunque condizione pur di guadagnare qualche soldo.

Qualche tempo fa, nel sud della Bulgaria, in un'azienda tessile impiantata di recente con capitale straniero, si è verificato il caso di due operaie che sono svenute sul posto di lavoro, per la fatica e l'ambiente malsano: solo allora è venuta fuori la verità sulle condizioni lavorative di queste donne, supersfruttate, prive di garanzie e maltrattate dai datori di lavoro. Ma quando la nostra associazione si è recata sul posto per parlare con queste operaie e per chiedere loro di denunciare il fatto in televisione, queste hanno avuto paura. Ci hanno detto: e se perdiamo pure questo posto, come vivremo? Una situazione insostenibile per noi che appena pochi anni fa non sapevamo che cosa fosse disoccupazione.

Ma abbiamo tante testimonianze di donne che sono venute presso la nostra associazione per raccontare le loro amare esperienze: donne che, pensando di doversi solo adattare ad umili lavori, hanno ricevuto nel tempo, da parte del datore, richieste sempre più degradanti e proposte di prestazioni sessuali.

Tempo fa una giovane donna, laureata in filosofia, ci raccontò di avere accettato un impiego come cassiera in un piccolo caffè di proprietà di un arabo residente in Bulgaria. Dopo qualche giorno questi le aveva chiesto di fare anche le pulizie nel locale, e lei aveva accettato per non perdere il posto. Poi aveva preteso che facesse di fare le pulizie anche nella sua casa, poi l'aveva invitata a "stare" con lui e infine le aveva proposto di andare con certi suoi amici, a pagamento. A questo punto lei s'era ribellata ed era venuta da noi a denunciare il fatto. Ma quante donne, a differenza di lei, sottostanno a tutte le pretese, vengono irretite con la promessa di un lavoro all'estero e finiscono sulle strade d'Europa a fare le prostitute!
Sono sempre le condizioni determinate dalla crisi economica a costringere le lavoratrici bulgare a certi passi, capiamo che non è certo per scelta se tante donne vanno ad allargare le cifre della prostituzione in Europa.

Purtroppo tutte queste difficoltà, invece di determinare volontà di battersi per cambiare le cose, spesso generano apatia e sfiducia anche in tante donne che una volta erano molto attive nella vita sociale e nei movimenti femminili e che ora si sono ritirate nel loro privato. Invece di organizzarsi e protestare quando vengono aumentate le tasse scolastiche, quando vengono chiusi gli asili nido, quando salgono i prezzi dei beni di prima necessità, ciascuna cerca di risolvere da sé i propri problemi, magari coltivandosi i pomodori sul balcone.

Lo scopo della nostra associazione è di dire a queste donne sfiduciate che hanno dei diritti da fare rispettare e che li possono difendere unendosi alle altre, associandosi, costituendo cooperative. Dobbiamo far capire che non è vero che le cose non possono cambiare, l'importante è credere nelle proprie forze e questo potrà avvenire solo se le donne uniranno le loro forze attraverso i confini per salvare i loro diritti.

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3.4. L'empowerment economico delle donne vittime della violenza domestica in situazioni di guerra e di economia povera
Nadezda Cetkovic e Vera Litricin
Coordinatrici di Centro per donne maltrattate
e di SOS Hotline Centro per le ragazze di Belgrado


La situazione economica in Serbia è critica. La ex Jugoslavia si usava classificarla fra i paesi europei di medio sviluppo economico. Oggi è la più povera. Nel 1997 la Jugoslavia (Serbia e Montenegro) aveva 2.331.000 occupati (2.014.000 nel terziario) e 814.000 persone in cerca di lavoro (tra questi 456.000 donne). In totale, il paese aveva 1.319.886 persone che beneficiavano dell'assistenza statale. La media salariale netta nel 1997 era di 803 dinari mensili ( pari ameno di 150 marchi) che bastano per comprare circa 160 kg di pane o un paio di blue jeans. La media delle pensioni è di 713 dinari.

La guerra e l'embargo hanno causato la distruzione dell'industria e il mercato nero è ora la sola istituzione che funziona. La situazione creata dalla guerra è stata sfruttata da uomini senza scrupoli ed un manipolo di potenti politici sono divenuti proprietari della maggior parte della ricchezza nazionale, mentre un altro ristretto gruppo di persone si è arricchito importando carburanti, armi, sigarette e qualsiasi altro bene di cui la gente necessiti. Si stima che questi uomini ricchissimi - profittatori di guerra - siano non più del 3% della popolazione, mentre la stragrande maggioranza è povera e poverissima. Il ceto medio non esiste più.

In tale situazione, le donne o hanno perduto il lavoro o lavorano a salari bassissimi. Ma devono comunque trovare il modo di mantenere se stesse ed i propri figli. Alla situazione problematica esistente si aggiungono i molti profughi che vivono nelle città o nei centri di accoglienza. Il dover lottare per vivere in così difficili condizioni provoca uno stress che inevitabilmente sfocia in violenze domestiche.

Le associazioni femminili lavorano da diversi anni sul problema della violenza all'interno della famiglia. Uno degli aspetti di questo lavoro consiste nello sforzo di migliorare le condizioni economiche delle donne. Il Centro per donne e bambini maltrattati è una di queste associazioni che cercano di aiutare le donne ospitate a diventare il più possibile indipendenti economicamente.

Il Centro ha cominciato ad operare nell'aprile del '94 per iniziativa di SOS Hotline per donne e bambini vittime di violenze ed è un progetto femminista che dà sostegno alle donne vittime di violenza domestica e di discriminazioni, e a donne che si trovano in una posizione socialmente debole. In ogni caso, il nostro centro non accoglie coloro che sono irresponsabili nei loro comportamenti, come le alcoliste o le drogate.

Finora sono passati dal nostro centro 67 donne e 91 bambini. Entrando nel rifugio, le donne firmano un contratto in cui sono stabiliti precisamente gli obblighi ed i diritti reciproci.

Delle 67 che sono state ospiti del rifugio, 52 erano state segnalate da SOS telephone for women and children di Belgrado, 11 dalla Caritas di Belgrado e 4 da altre organizzazioni consimili di altre città della ex Jugoslavia.

Metà delle donne erano comprese in una fascia di età adulta tra i 30 ed i 40 anni e ciò sta a dimostrare che esse avevano subito a lungo violenza prima di decidersi a lasciare le loro case e a difendere la propria integrità fisica e mentale.

L'analisi delle caratteristiche sociodemografiche delle donne ospitate dal centro ci fa concludere che la percentuale delle appartenenti a minoranze etniche o religiose è più alta di quelle della comunità di maggioranza. Venti sono profughe. Dalle testimonianze delle donne risulta che quattro di esse hanno trascorso l'infanzia in un brefotrofio, due sono straniere, due hanno avuto storie di psichiatria, quattro hanno figli illegittimi che probabilmente sono stati una concausa della violenza a cui esse sono state esposte.

L'appartenenza a minoranza o a gruppi marginali sembra dunque essere un considerevole fattore di esposizione alla violenza per queste donne.

Anche il razzismo è stata causa di violenza, soprattutto a partire dallo scoppio della guerra e con la pesante propaganda massmediale contro la gente di diversa nazionalità che vive nei territori della ex Jugoslavia. Nei casi più gravi di violenza era compresa l'intolleranza razziale.

Sebbene le donne accolte nel centro avessero in totale 96 figli, solo 74 di questi erano stati condotti con sé dalle madri.

In circa i tre quarti dei casi, le donne avevano trovato accoglienza mentre si nascondevano dai loro uomini: mariti o ex mariti, conviventi o ex conviventi, padri, figli, fratelli. Dodici di esse sono venute nel centro per ragioni direttamente connesse con la guerra, anche se fra queste sono comprese casi di violenza subita da un membro della famiglia.

Tre sono venute nel centro per via della loro posizione inferiore nella società.

Il Centro non ha alcun supporto finanziario dallo Stato. I contributi per affittare una casa nel villaggio, per impiantare un pollaio e alcuni laboratori li abbiamo ricevuti da organizzazioni umanitarie. Le coordinatrici del centro hanno realizzato diversi progetti per consentire alle donne accolte di guadagnarsi da vivere, con l'allevamento di polli, la tessitura di tappeti, i lavori a maglia, i laboratori cucito e di ceramica, i negozi di regali e dell'usato.

Le donne possono lavorare in uno di questi progetti sulla base del regolamento del centro. Il guadagno della vendita delle uova, dei lavori a maglia, dei tappeti e delle ceramiche viene diviso in tre parti: un terzo alle donne stesse, un altro terzo per coprire i costi della loro permanenza nel centro ed il rimanente da investire nel negozio.

Sebbene il "potere" economico delle donne che lavorano nel centro antiviolenza non sia grande, è molto importante per loro e si è rivelata una buona terapia per molte. La violenza prodotta dalle stesse donne come conseguenza del trattamento subito ("violenza trasmessa") è diminuita, spesso traducendosi in forme creative ed artistiche. Le donne hanno imparato ad organizzarsi, a rispettarsi reciprocamente e ad essere orgogliose delle loro conquiste. Il solo aspetto negativo è che il lavoro che noi siamo in grado di organizzare è a basso profitto: di fatto, uguale a quello delle nostre nonne.

La SOS Hotline ed il Centro per le ragazze è invece una Ong che lavora da quattro anni e mezzo. Le principali attività sono: ascolto telefonico, riunioni con le ragazze, un programma per le ragazze profughe, educazione sessuale, consulenza legale, psicoterapia e prevenzione dello stupro. Nel campo del rafforzamento economico delle giovani donne, abbiamo organizzato una scuola d'informatica e lezioni d'inglese. Le giovani che vengono al centro abitualmente sono profughe o provenienti da famiglie disturbate. Imparando l'inglese ed il computer, hanno molte più possibilità di trovare lavoro. Organizziamo workshops sui diritti delle donne, sulle molestie sessuali e diamo loro sostegno se si trovano in condizioni di vita pessime.

Sia il Centro di accoglienza che il Centro per le ragazze, infine, agevolano i contatti fra le donne e i Centri di assistenza sociale, l'Istituto di salute mentale, il Tribunale e tutte quelle istituzioni che sono importanti per risolvere i loro problemi.

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3.5. Le molestie sessuali nei posti di lavoro
di Irene Giacobbe, Roma


La Dichiarazione e il Programma d'Azione adottato alla quarta conferenza mondiale sulle donne, a Pechino nel 1995, hanno raccolto i contributi e le elaborazioni da parte di donne di tutto il mondo. Nel documento finale si indicano gli obiettivi da conseguire e le iniziative che possono essere prese per raggiungere tale scopo sia da parte dei governi che dalle parti sociali.

I concetti della valutazione in una prospettiva di genere delle disuguaglianze esistenti tra uomini e donne, dell'acquisizione di potere e responsabilità da parte delle donne (empowerment), della loro valorizzazione, della necessità di informare le politiche quotidiane dei singoli Paesi all'attenzione non superficiale a due sessi, mettendo al centro della corrente (mainstreaming) la prospettiva di genere, attraversano il documento in tutte le sue parti e ne segnano il carattere nuovo.

Poiché Pechino è stato il punto più alto di elaborazione collettiva e condivisa da parte delle donne, mi è sembrato opportuno partire da quel documento

Nell'ambito del tema che è oggetto di questa settima conferenza, scelta preziosa della quale ringrazio le organizzatrici, richiamerò la vostra attenzione sulle molestie sessuali nei posti di lavoro.

Il Piano d'Azione della conferenza di Pechino affronta il tema della molestie sul lavoro nei capitoli dedicati alla VIOLENZA CONTRO LE DONNE (paragrafi da 112 a 130) inserendolo tra gli atti di violenza fisica sessuale o psicologica che provocano un danno o una sofferenza alle donne.

Inoltre troviamo le molestie sessuali al punto F del capitolo che riguarda DONNE ED ECONOMIA (paragrafi da 150 a 180) dove si dice che i "comportamenti discriminatori impediscono loro di essere promosse a posti di maggiore importanza" e che "l'esperienza delle molestie sessuali è sia un affronto alla dignità della lavoratrice, sia un ostacolo a che la donna possa arrecare un contributo proporzionale alle proprie capacità".

Quanto alle "Iniziative da assumere da parte dei governi ", viene indicato l'obiettivo strategico di "adottare misure concertate per prevenire ed eliminare la violenza nei confronti delle donne".

Nel paragrafo 124 si parla di "introdurre o inasprire le sanzioni penali, civili, amministrative o di lavoro nelle legislazioni nazionali per punire o risarcire i torti provocati alle donne e alle bambine che sono soggette a qualsiasi forma di violenza, sia in casa, sia nel luogo di lavoro sia nella società"; mentre nel paragrafo 125, viene indicato a governi, inclusi i poteri locali e le organizzazioni comunitarie ecc., l'obiettivo di "riconoscere la vulnerabilità alla violenza ed altre forme di abuso delle donne emigranti, incluse le donne lavoratrici emigranti, il cui stato legale nel paese ospitante dipende dai datori di lavoro che possono sfruttare tale situazione".

Infine, nel paragrafo 178, in relazione all'obiettivo strategico di "eliminare la segregazione professionale e tutte le forme di discriminazione sul lavoro", si chiede a governi, datori di lavoro, associazioni sindacali, lavoratori, organizzazioni delle donne di assumere iniziative rivolte a "emanare e applicare leggi e mettere a punto regolamenti che proibiscano le discriminazioni sessuali nel mercato del lavoro in particolare tenendo in considerazione le lavoratrici anziane, in materia di assunzioni, promozioni e benefici accessori e sicurezza sociale, così come le condizioni di lavoro discriminatorie e le molestie sessuali; creare meccanismi per il periodico riesame e verifica di tali leggi".

LA SITUAZIONE IN ITALIA

Nel nostro Paese manca una legge specifica che affronti globalmente il grave problema delle molestie sul lavoro. Il Senato ha approvato nel mese di aprile un disegno di legge che dovrà passare all'esame della Camera prima di diventare legge dello stato. Fino ad oggi le indagini sindacali restano ancora le fonti di informazione più sensibili sull'estensione del fenomeno in Italia: in esse si segnala che una lavoratrice su tre nel corso della propria vita lavorativa è soggetta a molestie.

L'Istat ha realizzato nel corso del 1998 un'indagine multiscopo nella quale erano inserite alcune domande sulle molestie nei luoghi di lavoro. Dai primi dati emerge un 5% di donne molestate ed una grande reticenza nel dare le risposte.

Anche se scopo dell'Istat non è la denuncia, ed inoltre esiste il vincolo del segreto legato alle indagini statistiche, le donne difficilmente comunicano la loro situazione di disagio. Tale difficile comunicazione viene confermata dall'indagine realizzata per la trasmissione televisiva "Porta a Porta", un'indagine telefonica che ha confermato gli stessi risultati percentuali.

Perché non tutte le molestate parlano della loro difficile situazione e tantomeno denunciano i fatti ?

All'azienda o alle forze di polizia arriva meno di una denuncia su 80 casi e, per quelle poche combattive che non rinunciano a difendere se stesse e il proprio diritto a lavorare con sicurezza, il percorso a ostacoli che le attende inizia di solito con la scoperta delle lacune e delle disfunzioni della "giustizia".

LE DISFUNZIONI DELLA GIUSTIZIA

In mancanza di una legge specifica, sino ad oggi le querele per molestie sessuali, quando cioè non si sono trasformate in un reato più grave quale aggressione o tentata violenza, hanno dato luogo a delle ipotesi di reato ex art.660 del codice penale.

Questo articolo - molestie e disturbo alle persone - prevede una figura "minore" di reato; si tratta non di un "delitto" ma di una contravvenzione. La differenza pratica è che la pena è irrisoria: si ha o una pena detentiva ( l'arresto fino a sei mesi), o una pena pecuniaria (la multa fino a un milione di lire).

Da ciò consegue tra l'altro che, se il procedimento dura più di quattro anni e mezzo, il reato si prescrive.

Oltre alla mancanza di una legge specifica, le donne potranno scontrarsi col rifiuto di accettare la denuncia da parte delle forze dell'ordine, o col consiglio di "lasciar perdere", con il ritardo nella trasmissione delle informazioni e nell'inizio del procedimento; con l'archiviazione senza darne comunicazione all'interessata e senza motivarla ( salvo sapere che bisogna espressamente inserire la richiesta di essere informata del seguito); con la mancata costituzione di parte civile; con le difficoltà e gli ostacoli frapposti alla costituzione di parte civile per le associazioni di sostegno; con il costo delle procedure giudiziarie, con la lentezza del procedimento ed i continui rinvii; con i pregiudizi dei giudici; con l'atteggiamento irrispettoso verso le parti; con la declassazione del reato e la sua minimizzazione; col non veder considerato globalmente l'insieme dei reati commessi; col non riconoscimento integrale dei danni subiti.

Inoltre in mancanza di una legge, e quindi di norme che possano essere applicate uniformemente da Aosta a Canicattì, assume rilevanza la discrezionalità e l'organizzazione interna dei tribunali e delle preture. Se a Pordenone sono sufficienti 90 giorni per avere una risposta dalla Legge, a Roma occorrono 5 anni.

In molti casi è stato necessario fornire ai magistrati la documentazione in materia (nuova legge contro la violenza, sentenze della Corte Europea, raccomandazioni della Comunità Europea, Codice di comportamento, risoluzioni) poiché non ne avevano conoscenza.

Le richieste di archiviazione sono altissime anche a fronte di certificati medici per lesioni e aggressione. Nei casi di denunce plurime, da parte di uomini e donne, si manifesta la tendenza a sottovalutare o cercare di cancellare la denuncia maschile.

Tutti i tipi di comportamento elencati in precedenza sono indicativi della tolleranza sociale di cui gode questo genere di violenza contro le donne ed aiutano meglio a comprendere il perché della reticenza e del silenzio sui fatti.

CHE FARE ?

Se, a partire dalle sedi istituzionali e dalle parti sociali, c'è il rifiuto a riconoscere che le molestie sessuali sono una delle forme di violenza attraverso le quali si esercita nella società, nello spazio pubblico, fuori della famiglia, il potere "sessuale" maschile; che esse sono una grave forma di "aggressione" alla quale si somma un potere gerarchico ed economico, si nega di vederle in quel continuum della violenza contro le donne che è il meccanismo attraverso il quale passa la messa in subordine dell'intero genere e la riduzione al silenzio.

Gli argomenti evocati dai fautori dell'inutilità di legiferare su queste materie vanno dalla preoccupazione di "evitare gli eccessi all'americana" alla pseudo ironia del "lasciateci la seduzione almeno sul posto di lavoro", alla certezza della "inutilità della sanzione penale".

Esse testimoniano una reale ignoranza della vera gravità del fenomeno ma anche la voglia di rimettere in silenzio le donne, come soggetto che ha dato nome, riconoscimento e visibilità a questa forma di violenza nello spazio pubblico tanto antica quanto sommersa.

È necessario riprendere le indicazioni che ci vengono da Pechino:

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3.6. Donne, lavoro e mafia
di Renate Siebert, Università della Calabria


Mi piacerebbe dare degli spunti per una discussione su fenomeni come la mafia, o meglio le mafie, e sui tratti comuni che possono esserci con certe forme d'integralismo e fondamentalismo: analizzando alcuni aspetti, come la rilevanza del controllo sociale che viene esercitato nei territori dominati dal potere mafioso, potremmo riscontrare degli elementi, situazioni di qualità simile a quelli che le donne conoscono in territori soggiogati da forme di terrorismo fondamentalista. Non sono in grado di dire molto su questo, sono evidentemente fenomeni diversi e vanno contestualizzati volta per volta, ma potrebbe essere utile rifletterci insieme.

La mafia e le mafie sono fenomeni che, paradossalmente, spesso vengono sopravvalutati ma allo stesso tempo sottovalutati. Sopravvalutati come fatto eccezionale, terroristico, molto vistoso, quando interviene con attentati e fatti sanguinosi. Sottovalutati nella loro dimensione più subdola, quella della vita quotidiana e dell'influenza sulla vita relazionale fra le persone. Credo che questo aspetto, nel caso della mafia, abbia particolare rilevanza per le donne, implicitamente ed esplicitamente, anche se - ma forse proprio perché - esse formalmente sono escluse dall'appartenenza ai gruppi mafiosi.
Per certi versi, le donne - il femminile - rivestono una centralità in questo tipo di organizzazione criminale.

Teniamo conto che si tratta di un fenomeno, quello delle mafie, riscontrabile a livello internazionale, altamente integrato con i processi di globalizzazione ed economie avanzate, che però ha una base territoriale, dove questa gestione economica molto avanzata si mescola fortemente con le forme tradizionali della vita. E proprio in questa mescolanza agisce l'elemento forte della capacità di potere sulle persone che vivono in questi territori e sulle relazioni fra di loro.

Fra le donne del femminismo c'è chi sostiene che il patriarcato sia finito: io credo che questa della fine del patriarcato, possa essere una indicazione di tendenza ed è molto utile discuterne, ma quantomeno indicherei in contemporanea un'altra tendenza: in contesti democratici esistono e si sviluppano delle enclaves di carattere totalitario e antidemocratico, criminalmente patriarcale. Queste, però, non vanno confuse con le forme tradizionali del patriarcato.

Vorrei enucleare alcuni tratti caratteristici, e di particolare rilevanza per le donne, che queste organizzazioni criminali rivestono. Si tratta di organizzazioni monosessuali, contrassegnate da rituali d'iniziazione, forme di esercizio del potere con una forte concentrazione sulla morte e sull'angoscia. Gli uomini che ne fanno parte sono legati dal vincolo del segreto e della morte che crea una sorte di fortissima coesione sociale interna all'organizzazione.

Queste organizzazioni esercitano un potere totalitario, la cosiddetta signoria territoriale: queste enclaves all'interno di paesi con ordinamento democratico e rispetto dei diritti civili, sono territori in cui di fatto vige la pena di morte, dove i diritti individuali e collettivi sono sospesi.

Esse hanno un rapporto molto particolare con le forme pubbliche dello Stato: sono allo stesso tempo contro lo Stato e con esso. Questo aspetto potrebbe essere oggetto di una riflessione, andando anche oltre le questioni di mafia.

Ancorando il proprio potere al loro carattere totalitario, queste organizzazioni hanno una presenza sul territorio tale che tende ad azzerare totalmente la divisione tra sfera pubblica e sfera privata, perché il dominio sulle persone viene esercitato non solo fuori casa, nelle relazioni sociali, nei commerci, nel lavoro, ma anche nelle relazioni intime, dentro casa. Non c'è più sfera privata, né privacy. Questo potere viene esercitato giorno e notte sul piano sociale e sul piano psichico dei singoli individui.

Che cosa significhi questa costante ombra di presenza sulle vite dei singoli individui, soprattutto delle donne, credo che vada analizzato e contestualizzato: che cosa comporti per le donne che provengono o vivono in famiglie mafiose, è in quale misura sia diverso per le donne appartenenti a strati sociali che hanno contiguità con la mafia, per coabitazione nei quartieri dove domina la mafia o altre ragioni.

C'è poi da considerare c'è la questione generazionale e l'influenza della mafia sulle vite di donne che per estrazione e biografia vivono in contesti totalmente estranei agli ambienti mafiosi, ciò che in qualche modo lega tutte le donne, tutte le vite (anche quelle degli uomini) in luoghi dove "la paura dell'altro è una forza che oscura la socializzazione".

Questa forza agisce su tutti coloro che vivono nei territori dominati da essa, ma per le donne ci sono situazioni specifiche. Come dicevo prima, paradossalmente, le donne e il femminile, proprio perché rimossi e formalmente esclusi, rivestono una centralità per gli uomini dell'organizzazione mafiosa.

Da un lato, l'estromissione delle donne, l'omofobia, psichicamente creano una fortissima coesione all'interno del gruppo segreto. Dall'altro, i forti legami fra uomini, l'omosessualità latente, si accompagnano ad un valore simbolico proiettato all'esterno dell'organizzazione: non a caso l'organizzazione mafiosa viene chiamata "mamma santissima"

Come sembrano confermare le testimonianze autobiografiche, al singolo affiliato con una debole identità maschile, l'organizzazione mafiosa e la sua ideologia offrono una via di autoaffermazione.

Da questo quadro, possiamo ricavare indicazioni di tendenza anche per il tema specifico della nostra discussione di questi giorni, cioé il rapporto delle donne con il lavoro.

È chiaro che in generale la presenza mafiosa sul territorio è un condizionamento estremamente negativo per il mercato del lavoro, perché blocca le attività, tranne quelle legate direttamente al profitto criminale: il pizzo, le tangenti, le estorsioni, la gestione degli esercizi commerciali. Ma soprattutto in un'ottica di rinnovamento, credo che vengano strangolate le nuove iniziative, quelle di tipo cooperativo e associativo, quelle che tendono ad avere un carattere economico non esclusivamente legato al profitto, ma anche con finalità di innovazione culturale.

La violenza fisica come meccanismo di regolazione del mercato evidentemente blocca ed impoverisce le possibilità - ad esempio con l'uccisione dei gestori di esercizi commerciali - e tendenzialmente aumenta la disoccupazione, tranne che nei rami criminali.

Viene alimentata costantemente la corruzione nel rapporto con gli enti pubblici, sotto la minaccia di morte s'impone un rapporto strumentale con tutto. Questa è una caratteristica, se vogliamo, del sistema capitalistico, però in territori egemonizzati dalla mafia assume delle forme estreme e quindi condiziona fortemente, nel mercato e nelle culture del lavoro, tutte le forme di coesione sociale, di solidarietà e di cooperazione anche informale; impedisce lo sviluppo della qualità della vita, dei servizi, delle garanzie legali e della sicurezza. E, per quanto riguarda le donne, blocca i processi di emancipazione, perché in un contesto di libertà dominato da forme di potere e di morte, le donne non hanno possibilità di emanciparsi. E non solo le donne delle famiglie mafiose: la libertà, come la democrazia, non è divisibile; se è bloccata per una parte della popolazione, tendenzialmente lo è per tutte.

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3.7. La prostituzione come lavoro
Maria Celeste Nardini, deputata al Parlamento


Parlamentare italiana di Bari, dice che una delle principali ragioni delle migrazioni è la ricerca di sopravvivenza della gente. Raramente emigra chi vive bene. Si riferisce alle donne che non hanno scelto di vendere i loro corpi ma sono state costrette a farlo come immigrate. Presenta due assunzioni: la pratica della prostituzione e la natura della prostituzione stessa come forme di violenza. Le donne prostitute sono emarginate. Le leggi dovrebbero essere adeguate poiché questo fenomeno sociale si sta diffondendo drammaticamente. La maggior parte di queste donne sono immigrate irregolari e vittime del racket internazionale del crimine. Esse sono obbligate a diventare prostitute e spesso non hanno scelta.

Parla infine di violenza sessuale sui bambini, droga ed altri problemi connessi con la prostituzione femminile.

Le donne immigrate vengono da diversi paesi. In quanto donne conoscono il loro destino, diventano prostitute e restano nell'ombra a causa del loro status di irregolari. Mandano i loro guadagni a casa alle loro famiglie. Occorre capire quali sono i loro bisogni e quelli delle loro famiglie e creare una rete di informazione a riguardo.

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4. Sessione
Donne e lavoro nel Mediterraneo: le differenti esperienze



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4.1. Il lavoro è la forza che muove ogni cosa
di Ninetta Pourou Kazantzis e Maroulla Vassiliou, Cipro


Soprattutto per le donne - per tanti anni tenute da parte, chiuse in casa, con nessuna opportunità di partecipazione alla vita sociale, culturale e politica - il lavoro è diventato sinonimo di libertà ed indipendenza.

Il diritto al lavoro è uno dei fondamentali diritti umani per tutti gli individui sopra i 18 anni ed è quello troppo spesso ed in troppi paesi costantemente violato. Pari opportunità, paro retribuzione e rispetto nell'ambiente di lavoro sono temi di fronte ai quali si trovano la maggior parte delle donne nelle nostre società androcentriche.

A Cipro si stima che nel 1996 le donne hanno contribuito per circa un terzo al reddito familiare. Una recente ricerca del Cyprus Government Research and Statistics Department che esaminava i bilanci e lo status finanziario delle famiglie, analizzava e valutava l'importanza di questo contributo per gli standards familiari ciprioti.

L'analisi è connessa con le caratteristiche socio-economiche e demografiche delle donne stesse e degli altri componenti della famiglia. La scoperta più interessante è che più anziane sono le donne, più basso è il loro contributo in percentuale. Le più giovani tendono a guadagnare di più, le più anziane meno. Ciò è dovuto in primo luogo al fatto che le donne non salgono nella scala gerarchica come gli uomini; pertanto, nell'età giovanile i due sessi occupano posizioni agli stessi livelli retributivi, mentre più avanti negli anni gli uomini occupano posti meglio retribuiti.

Nella situazione economica odierna, là dove manca il lavoro, disoccupazione e sfruttamento colpiscono soprattutto le donne, i giovani e le minoranze. È perciò necessario che indirizziamo i nostri sforzi verso la salvaguardia del nostro diritto al lavoro, alla maternità e alla partecipazione a tutte le forme di vita sociale e politica.

L'AWMR è impegnata a lavorare per il pieno riconoscimento del diritto delle donne al lavoro in tutti i paesi del Mediterraneo, per la giustizia, l'uguaglianza e la pace.

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4.2. Donne e lavoro a Cipro
di Ninetta Pourou-Kazantzis, segretaria generale dell'AWMR


Per capire pienamente la situazione economica di Cipro oggi, bisogna essere consapevoli della situazione politica creata dall'invasione turca del 1974. Cipro, prima di quella data, aveva un'economia fiorente, con un reddito pro capite fra i più alti d'Europa e la struttura sociale era addirittura a forma di rombo: pochissime persone possedevano enormi ricchezze, la maggior parte della popolazione era costituita da classe media e pochi erano in fondo alla scala sociale con scarsi mezzi per vivere.

La maggioranza della gente aveva la casa di proprietà (92% della popolazione nel 1972), il tasso di disoccupazione era di circa l'1,2% (bilancio governativo del 1973) con una agricoltura tendenzialmente in calo, un'industria leggera ed il turismo che erano i tre maggiori settori economici, l'87% delle famiglie possedeva l'automobile ed il 36% di questi ne aveva una seconda (relazione governativa del '73), il 98% delle case aveva elettricità, acqua potabile e linea telefonica, con un costo minimo del consumo. Le donne costituivano il 33% della forza lavoro tendenzialmente in aumento e circa il 67% delle ragazze completava gli studi superiori, proseguendo l'istruzione universitaria all'estero (dati governativi del 1973).

Nel 1974, con l'invasione turca si ebbe l'occupazione del 37% dell'isola (oltre il 60% delle terre coltivate è tuttora occupata), l'esodo di 200mila persone dalle loro case - profughi nel loro stesso paese - la perdita delle nostre importanti aree turistiche di Famagusta e Kyneria, la perdita dell'importante porto di Famagusta, la chiusura del nostro aeroporto internazionale di Nicosia, tuttora controllate dalle forze dell'Onu nella cosiddetta zona cuscinetto.

I duecentomila profughi perdettero le case, proprietà, lavoro, mezzi per vivere. L'economia di Cipro si trovò di fronte ad un problema che pochi avrebbero mai potuto immaginare. Il governo fu costretto a costruire nuove abitazioni per qualcosa come 50mila famiglie, dovette incoraggiare l'industria e il turismo in aree come Limassol e Pafos che erano prevalentemente agricole fino a quel momento, dovette costruire un nuovo aeroporto a Larnaca ed allargare il vecchio piccolo porto di Limassol.

Allo stesso tempo, abbiamo dovuto fornire un lavoro alla gente. Tra il '74 e l'85 molti ciprioti hanno cercato lavoro nei paesi arabi. Ci son voluti più di dieci anni alla nostra economia per avvicinarsi ai livelli di prima del '74. È stato possibile grazie alla creatività e al duro lavoro dei ciprioti. L'industria leggera - specialmente tessile e calzaturiera - ha toccato le punte massime tra il '78 ed il '90. Le esportazioni attraverso la zona franca di Limassol hanno procurato notevoli disponibilità di capitali al governo e le banche "offshore" per stranieri hanno aperto occasioni di lavoro con buone paghe ai ciprioti. Purtroppo la crisi economica europea e mondiale non poteva non colpire anche Cipro. Inoltre i nostri problemi politici sono peggiorati rispetto a prima. L'intransigenza dei leaders turco-ciprioti e turchi, la loro indisponibilità ad accettare una giusta e durevole soluzione al nostro problema nell'ambito di uno stato federale - greco e turco - per vivere in armonia, pace e stabilità ed il fatto che la comunità internazionale non faccia alcuna pressione sulla Turchia in questa direzione, rende la divisione dell'isola una spaventosa prospettiva.

L'Unione Europea, in cui erano investite gran parte delle nostre speranze, sembra essere un altro strumento di pressione nei confronti del governo cipriota perché sia più malleabile per poter diventare in breve tempo membro a pieno titolo. Perciò non possiamo parlare di reale progresso nei diritti delle donne, senza che sia risolto questo problema, senza che la nostra gente riacquisti il diritto alle sue proprietà, le sue case ed il suo lavoro: un diritto di giustizia, uguaglianza e pace.

Esaminiamo ora qual è la situazione delle donne lavoratrici. Il ruolo delle donne nell'economia mondiale è riconosciuto universalmente e costituisce uno dei criteri basilari della parità di genere.

Secondo i dati statistici, a Cipro la partecipazione delle donne al mercato del lavoro ha, finora, una tendenza all'aumento. In particolare nel 1992 le donne costituivano il 38,2% della popolazione economicamente attiva, mentre nel 1996 era il 38,6%. C'è da notare che questo incremento era dell'1,7% tra l'86 ed il '91, ma ora è circa lo 0,4%. Ciò è da attribuire alla crisi economica generale degli ultimi anni.

La pressione della crisi danneggia prima di tutto le donne ed è un elemento negativo per la loro crescita futura. Un altro criterio basilare è la posizione delle donne nella cosiddetta piramide lavorativa. La partecipazione delle donne al management ed ai posti di amministrazione raggiunge appena lo 0,8% della forza lavoro femminile, mentre gli uomini occupano un 4,7% in posizioni simili.

Su 5590 manager solo 659 sono donne: una percentuale dell'11,78 (dati 1995). Sembra esserci un aumento in percentuale dal 1992, quando le donne costituivano solo il 9%, ma questa crescita non è ancora soddisfacente.

La disoccupazione tra le donne è ancora alta: il 54,89% della forza lavoro disoccupata. C'è da dire che questo dato non subisce variazioni significative tra il '92 ed il '96, e questo elemento è incoraggiante.

In breve possiamo dire che:Il fatto che i datori di lavoro parlino più frequentemente di "flessibilità" del lavoro e la tendenza crescente del part-time sono fattori che causano estrema ansietà, dato che le donne sono le prime ad essere interessate.

Vediamo ora in breve qual è la nostra legislazione relativa al lavoro delle donne.

La legge dell'uguale salario per uguale lavoro a Cipro è stata approvata nel 1992, ma finora non esiste una chiara definizione di che cosa significhi "uguale lavoro" e l'applicazione della legge è del tutto insufficiente. Nei posti alti in gran parte esiste l'uguale compenso, ma nelle fasce lavorative più basse c'è una grande differenza tra i salari maschili e femminili. Per le donne il lavoro è ancora considerato secondario rispetto alla famiglia e potrebbe finire in qualsiasi momento. Il modello "uomo=lavoro=carriera" e "donna=famiglia=figli" è ancora prevalente nella società cipriota, nonostante i seri sforzi delle organizzazioni femminili e dei sindacati per cambiarlo.

Adesso abbiamo la Legge di maternità che tutela le madri e consente 12 settimane di congedo pagato, con la possibilità di prolungare il periodo di altre sei settimane a metà paga, e inoltre permette di ridurre di un'ora la giornata lavorativa per l'allattamento e la cura dei figli per un periodo di sei mesi dopo la nascita. Ancora non si parla di congedo "parentale" per ambedue i genitori e questo è uno dei diritti per i quali ci stiamo battendo. Bisogna che gli uomini si sentano "padri" e si assumano pari responsabilità accanto alle madri nei riguardi dei figli. Inoltre ciò aiuterebbe a cambiare la mentalità riguardante il "modello di donna" di cui si diceva prima.

Abbiamo la Legge contro le molestie sessuali sul lavoro ed un tribunale speciale per giudicare questi casi. Ma dobbiamo dire che le querele sono minime e non consideriamo questo come uno dei problemi più seri.

Un grosso passo avanti fatto dal precedente governo è stata la creazione del "Meccanismo per la promozione dei diritti delle donne e la parità di genere" del quale fanno parte quasi tutte le organizzazioni femminili e sindacali, con funzione consultiva presso il Ministro della Giustizia. Le prossime leggi sulla parità ed i diritti delle donne, come pure le leggi sul lavoro, dovranno essere pensate e concordate con questo Meccanismo prima di essere sottoposte al Parlamento.

Ciò che desideriamo sia fatto ora è la creazione di altri meccanismi simili per monitorare l'applicazione delle leggi nell'ambito di accordi collegiali e promuovere la cooperazione tra lavoratori e datori di lavoro.

Uno dei problemi nuovi che Cipro deve affrontare è quello del lavoro importato. Il fatto che un'alta percentuale di ciprioti sia in possesso di diploma o laurea (il 55,5% dei quali sono maschi ed il 44,5% donne), comporta che essi ambiscono avere solo lavori specializzati e ben retribuiti. Sicché la maggior parte dei posti nell'industria turistica, quelli retribuiti meno, come camerieri, ecc., vengono occupati da stranieri - soprattutto asiatici - che trovano a Cipro migliori paghe e livelli di vita. Oggi, con la crisi economica, molti di questi si ritrovano disoccupati, ma preferiscono comunque restare sull'isola piuttosto che tornare nei loro paesi.

Le leggi li tutelano abbastanza ed i casi di sfruttamento riguardano soltanto i clandestini, le cui condizioni di lavoro e di alloggio non possono essere controllate dalla polizia o dalle autorità.

Parlando in generale, dunque, posso dire che tendenzialmente la posizione delle donne nel mercato del lavoro va migliorando.

Care amiche, concludo dicendo: le donne hanno diritto a sbagliare senza sentirsi colpevoli. Ma anche gli uomini hanno diritto ai sentimenti e agli insuccessi.

Non siamo state create da sole e non procreiamo da sole. Se non vogliamo che la prossima generazione erediti il sistema di cose presente, dobbiamo lavorare per cambiare la mentalità nelle nostre società.

Una straordinaria donna greca - Eleni Glykatzi Arveler - qualche tempo fa ad Atene ha detto: "Quando delle donne ignoranti, senza qualifica, semplici e ordinarie saranno elette o nominate a posti pubblici o importanti, allora - e solo allora - la parità sarà un fatto reale".

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4.3. Amal Shihada
della componente araba del Movimento Donne Democratiche di Israele


Parla della situazione della popolazione araba in Israele oggi. Ci sono 2.700.000 donne.
Il tasso di disoccupazione femminile è del 16%. Lo stipendio femminile è il 55% di quello maschile. Le donne arabe guadagnano quattro volte meno.
Il tasso di disoccupazione delle donne arabe è del 84% e le condizioni di lavoro sono peggiori.
La maggior parte lavora nell'industria tessile, dove ricevono un salario inferiore al salario minimo.
La normalizzazione dei rapporti fra Giordania e Israele ha peggiorato la situazione, perché gli stipendi in Giordania sono di gran lunga inferiori.
Noi incoraggiamo le donne a lottare per i loro diritti e a chiedere condizioni di lavoro dignitose.

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4.4. Hana Zand
componente ebraica del Movimento Donne Democratiche d'Israele


Parla della disoccupazione femminile in Israele. Le donne arabe sono le prime ad essere licenziate. La discriminazione salariale su base etnica e di genere è molto diffusa . Secondo un recente studio il 38% delle donne ha paura di avanzare rivendicazioni in quanto teme il licenziamento. La situazione attuale è connotata da una politica di demolizione del processo di pacificazione, creazione di uno stato palestinese efficiente e ricerca di una soluzione al problema dei profughi; ciò pregiudica uno sviluppo economico reale. È necessario che gli accordi provvisori siano attuati e che si ponga termine ai nuovi insediamenti israeliani. Il conflitto con il Libano, ancora in corso, continua ad avere un costo in termini di vittime sia israeliane che libanesi. Israele deve ritirarsi dal sud del Libano e raggiungere un accordo con la Siria. È impossibile andare avanti senza dare una soluzione a questi problemi.

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4.5 Nava Elyashar
Jerusalem Link Batshalom, Israele


Parla della situazione del lavoro in Israele e si sofferma sulla mascherata discriminazione contro gli immigrati dalla ex Russia. Se sei una donna in Israele oggi, non puoi avere molte aspettative, anche se le donne sono più istruite degli uomini. Impedire alle donne di raggiungere il massimo delle loro potenzialità è un vero spreco, specialmente perché le donne vivono più a lungo. Parla anche dei bassi salari e della disparità di retribuzione nei kibbutz.

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4.6. Donne e lavoro in Grecia
di Dina Vardaramatou, AWMR


Ufficialmente la disoccupazione in Grecia è del 10,5%. In realtà questa cifra è sottostimata.
Il governo sta provando a ridurre l'inflazione e a prendere misure per rafforzare l'economia.
Le compagnie vengono vendute a investitori stranieri, come sostiene il governo, per incrementare le casse dello Stato e migliorare l'economia. Il governo cerca anche di vendere le banche e privatizzare le strutture pubbliche, misure che - ormai è provato - contribuiscono ad incrementare il settore privato dell'economia e ad aumentare la disoccupazione.
Nel gennaio 1998 ci sono state trattative fra il governo e i sindacati per un nuovo contratto collettivo nazionale, ma non si è raggiunto nessun accordo e di conseguenza c'è stata una marea di scioperi. Non sono state prese misure a favore dei lavoratori e non c'è alcuna garanzia per il loro futuro.
La Grecia si troverà presto di fronte ad una situazione economica come quella della Gran Bretagna, dove società pubbliche e private possono licenziare i lavoratori per "sostenere" L'economia. Le prime fasce sociali a subirne le conseguenze saranno quelle più deboli, soprattutto immigrati e donne.

Tendenzialmente le studentesse vanno meglio dei loro colleghi maschi, ad ogni livello di studi. Attualmente in Grecia cresce il numero di donne che raggiungono un alto grado d'istruzione ed utilizzano i loro titoli in campi tradizionalmente di dominio maschile. E tuttavia la percentuale di donne non scolarizzate è ancora alta: nel 1993 era del 52% nelle aree rurali, del 43,88% nell'intera Grecia.

Secondo un'indagine condotta dal Ministero del Lavoro, le donne costituiscono il 51% della forza lavoro in Grecia, anche se solo il 35% è attivo. La percentuale di disoccupazione femminile di lungo periodo raggiunge il 40,8%. Nel 1993 il 55,6% delle donne disoccupate era in cerca di prima occupazione. L'età media per sposarsi per le donne è salita a 25 anni, mentre il tasso delle nascite è diminuito enormemente.
Di conseguenza si va riducendo il numero delle persone che dovranno lavorare per mantenere il crescente numero di quelle in pensione. Il governo sta chiedendo alle donne di considerare questo fatto e di contribuire al progresso del loro paese facendo più figli. Ma cosa offre il governo in cambio?
Se guardiamo la legislazione, le lavoratrici madri del settore pubblico con un figlio sotto i 6 anni, possono ottenere di assentarsi dal lavoro per un periodo fino a 2 anni senza retribuzione. Questo non sarà considerato come periodo lavorativo ai fini pensionistici e di sicurezza sociale.
Le donne incinte che hanno bisogno di speciali cure a domicilio per la gravidanza, possono sospendere l'attività lavorativa, ma con retribuzione dimezzata.

Pertanto il governo chiede alle donne di fare più bambini, ma senza rendere loro la vita più facile. La legge non fa nessun riferimento alla possibilità di congedi parentali per gli uomini.
È scontato che spetti alle donne stare a casa e prendersi cura di loro restando distaccate dal loro ambiente di lavoro, dalla loro vita sociale. Saranno le donne a sacrificare la loro pensione futura per allevare i figli.

Al contrario, il servizio militare è considerato come periodo lavorativo e viene aggiunto all'ammontare totale degli anni di lavoro. Il fatto è che la famiglia e la crescita dei figli sono visti dal governo e dall'apparato statale come i compiti principali nella vita delle donne. In altre parole le donne sono
considerate le "curatrici ufficiali" che in molti casi sostituiscono l'intervento dello Stato. Il lavoro delle donne è considerato come un loro dovere e non un loro diritto. Il loro reddito è visto come un sovrappiù del reddito familiare. A loro viene chiesto di contribuire ad incrementare la famiglia: ma se entrambi i genitori lavorano chi avrà cura dei figli? Chi svolgerà il lavoro domestico? Le donne tra i 25 ed i 30 anni costituiscono il gruppo sociale con la più bassa presenza nella forza lavoro.
Questo perché o fanno figli, o devono crescerli. Alle donne greche si raccomanda spesso di avere figli intorno ai venti anni, quando hanno la forza e la disposizione: coloro che scelgono la carriera e l'indipendenza economica sono viste come infelici e incomplete. Per molti la cosa peggiore che le donne possano fare nella vita è scegliere di lavorare e non avere figli.

La percentuale dei divorzi in Grecia è aumentata. Di conseguenza il numero delle famiglie greche sostenute da una single o da madre divorziata è molto aumentato.
Secondo le statistiche del 1981, il numero di famiglie il cui capofamiglia era donna era 474.600, pari a una percentuale del 5%. Nel 1991 questo numero è salito, ciò significa che un numero maggiore di donne è diventato indipendente e in grado di sostenere se stesse ed i figli con il proprio lavoro.
In ogni caso le madri sia single che sposate, si prendono cura dei loro bambini. Molte di loro hanno un lavoro part-time poiché hanno difficoltà a permettersi una baby-sitter e ad avere accesso a servizi come gli asili nido.

Il lavoro part-time è abbastanza nuovo in Grecia. La norma è entrata in vigore con la legge n. 1892 del 1990. Attualmente il governo sta provando a stabilire uno status legale che permetterà al settore pubblico e alle società e imprese private di trasformare il 20% dei loro lavoratori in part-time.
Le donne costituiranno la vasta maggioranza di questo 20%. Nel 1993 il 61 % dei lavoratori part-time erano donne. L'ironia è che il lavoro part-time era stato inizialmente istituito per combattere la disoccupazione, la verità è che il lavoro part-time sta creando disoccupazione. La maggiore preoccupazione è che il part-time così concepito contribuisca a diminuire i diritti dei lavoratori.

Un'altra misura che il governo sta prendendo sono i turni di 10 ore. La settimana lavorativa non supererà le 48 ore, ma in alcuni casi ai lavoratori si potrà chiedere di lavorare di più. Si è sostenuto che questa misura aumenterà la produzione e darà lavoro a più gente.
In ogni caso chi sarà capace di lavorare così tanto tutti i giorni? La gente lavorerà per 10 ore al giorno, a cui molti devono aggiungere le ore di viaggio per raggiungere il posto di lavoro. Quando ritornano a casa, ci saranno i figli o anziani di cui prendersi cura, il lavoro di casa e così via.
Quanti lavoratori saranno in grado di fare tutto? Quante donne potranno permettersi un aiuto extra? Quante donne saranno capaci di lavorare per 10 ore, oltre a viaggiare per altre due o tre ore? La loro vita sarà solo lavoro-casa-lavoro. Il romanzo "Grapes of Wrath" non è solo un libro profetico, è la nostra realtà quotidiana.

Le donne greche votano da poco più di 40 anni, avendo conquistato questo diritto negli ultimi anni '50. La Repubblica ellenica ha una vita costituzionale di quasi 150 anni, ma a lungo le donne sono state escluse dalla vita pubblica.
Non potevano andare all'università, in alcuni casi neanche a scuola, non potevano accedere a molti diritti come il diritto di proprietà, o quello di sedere insieme agli uomini in luoghi pubblici senza essere sposate.
Dovevano lavorare dall'alba al tramonto nei campi, dando alla luce i loro figli durante il tempo del raccolto, essere costrette ad un matrimonio combinato, e portare una dote ai loro futuri mariti.

E veramente difficile per una donna che sta in politica essere anche una buona madre, poiché difficilmente trova il tempo e gli obblighi sono molti. Le riunioni tendono a durare sino all'alba e questo probabilmente non è mai stato un problema per gli uomini, i quali non hanno mai dovuto preoccuparsi della cura dei figli.
Ancora una volta tocca alla donna prendersene rinunciando alla politica. La presenza delle donne nei luoghi di potere è bassa. Nelle amministrazioni locali le donne sindaco sono solo l'1% e le donne presidenti dei consigli lo 0,7%.

Molte donne negli ultimi decenni sono entrate nel mercato del lavoro retribuito, ma solo poche hanno avuto accesso a posizioni decisionali e manageriali. Le donne che ricoprono posizioni manageriali nel settore pubblico non superano il 10,6%. In definitiva solo il 3% delle lavoratrici ha una posizione di dirigente e solo l'1,98% delle funzioni di alta dirigenza sono ricoperte da donne.

Secondo il WINPEACE Report (1988), mezzo milione di donne greche lavora a casa, 700.000 lavorano in imprese familiari senza alcuna assicurazione sociale. Secondo lo stesso rapporto, ci sono oltre due milioni di donne inattive, un milione delle quali vorrebbe lavorare ma non ha speranza.
La ragione di questa bassa partecipazione risiede nella concezione patriarcale del ruolo che i due sessi hanno o hanno dovuto assumere, l'assenza di servizi sociali come asili nido e centri per gli anziani, il modo in cui le forze di lavoro sono distribuite e, ultimo ma non meno importante, il fatto che il più delle volte sono gli uomini a decidere chi deve essere promosso e chi no.
Lo slogan "uguale retribuzione per uguale lavoro" è quasi un mito: nel 1993 le donne erano pagate dal 20,6 al 28,5% meno degli uomini. Nel 1981 questa differenza andava dal 30,3 al 42,8%.

Quanto all'esclusione delle donne da alcuni settori: non c'è nessun giudice donna nell'Alta Corte, sono pochissime le donne in posizione di rilievo nel settore giustizia, nessuna donna lavora nel Fire Brigade Department, sono donne solo il 5,88% negli uffici di polizia, per fare solo alcuni esempi.
Nel 1994 le donne che lavoravano nel settore agricolo erano 368.653. Dal 1988 fino al 1993 c'è stato un abbassamento del 22,6%. Allo stesso tempo c'è stato un declino del 30,9% nell'industria e un incremento del 20% nel commercio e nel turismo.
Queste cifre indicano la situazione generale in Grecia. L'agricoltura sta morendo lentamente e il settore dei servizi sta crescendo. In altre parole i modelli tradizionali di produzione stanno per essere soppiantati da altri. La Grecia sta subendo, come altri paesi nel mondo, gli effetti della globalizzazione dell'economia. La svalutazione della dracma ha creato una maggiore insicurezza finanziaria nel popolo greco. Il governo sta prendendo misure quali l'aumento delle tasse e tagli al sistema pensionistico e allo stato sociale. Secondo le statistiche fomite dall'ONU, la percentuale di fondi destinati all'assistenza sociale in Grecia raggiunge il 6% del PNL nel 1980 e approssimativamente l'11% nel 1993. La Svezia è il paese che globalmente stanzia la più alta quota, il 23%. Secondo la legge n. 1296/82 ogni cittadino greco, uomo o donna, ha diritto ad una pensione mensile. Il servizio sanitario nazionale è accessibile ad ogni cittadino greco. La legge 2084/92 assicura l'eguaglianza tra i due sessi in termini di sicurezza sociale.
Ci sono molte assicurazioni finanziarie in Grecia che forniscono alla popolazione lavorativa cure ospedaliere, medicine e rilevanti provvigioni. Il problema è che il maggiore ente previdenziale, l'Istituto per l'Assistenza Sociale, sta attraversando tremende difficoltà finanziarie e organizzative. Di conseguenza alla gente si chiede di pagare di più per un beneficio minore.
C'è per esempio una lista di medicine non mutuabili perché classificate come costose. In alcuni casi le somme che i greci pagano per la propria assistenza sociale è veramente alto, ma la qualità del servizio non è altrettanto alta.

Secondo recenti indagini, il 65% delle donne che lavorano hanno subito molestie sessuali nell'ambiente lavoro. Le molestie sessuali oltre ad essere una forma di discriminazione verso le donne è anche indice ineguaglianza. Quello che si dovrebbe e potrebbe fare è rafforzare la legislazione già esistente.
C'è una tendenza negativa dei sindacati a non considerare le molestie sessuali come oggetto delle politiche sindacali. Nel 1998 il numero di donne "corteggiate" dai loro datori di lavoro e che hanno subito molestie sessuali è stato considerevole.
Alcune di queste donne hanno sporto denuncia ed hanno vinto la loro causa ed i mass media hanno presentato il fatto come roba del l'altro mondo e queste donne sono divenute il centro di svariati commenti.

La prima cosa da fare per diminuire la disoccupazione è rafforzare la posizione delle donne. Esse devono essere più consapevoli dei loro diritti, del loro potere, delle loro qualità e del loro contributo.
Questo potrebbe essere fatto, per esempio, attraverso speciali programmi guida e seminari che dovranno puntare a rinforzare l'autostima delle donne, speciali programmi di formazione, aiuti dallo stato per consentire alle madri di lavorare. In ogni caso l'obiettivo più importante è che questi programmi siano accessibili a tutte le donne.
Questi seminari contribuirebbero all'empowerment delle donne rendendole consapevoli dei loro rafforzandole psicologicamente, legalmente, emotivamente. Molte donne non sono certe dei loro diritti e si lasciano sfruttare dai loro datori di lavoro.
Di conseguenza vivono sotto il costante timore di perdere il lavoro e non usano appieno le loro qualifiche. Le donne devono essere informate, devono partecipare alle associazioni femminili. È solo attraverso un'azione collettiva e iniziative organizzate che la voce delle donne sarà ascoltata.
Un passo avanti è stata l'istituzione del Centro d'informazione per l'impiego e la formazione delle che è stato creato dal Centro di Ricerca per le Pari Opportunità con la collaborazione del Ministero per la Parità, con il supporto dell'Unione Europea nell'ambito dell'iniziativa comunitaria NOW (New Opportunities for Women).
È rivolto a donne disoccupate che vogliono entrare o rientrare nel mercato del lavoro, o a lavoratrici minacciate dalla disoccupazione e che vogliono cambiare professione o acquisire qualifiche addizionali. Questo programma mira ad aiutare le donne ad affrontare attivamente la disoccupazione e a rivendicare un proprio futuro personale e professionale. Abbiamo una lunga strada da percorrere e sarà dura.
Gli economisti cercano di spiegare che si sta andando avanti, scienziati sociali ci offrono le loro teorie, i governi stanno rendendo i ricchi più ricchi e i poveri più poveri. Quando comprenderemo il potere che abbiamo nelle nostre mani, quando ci uniremo ed avremo consapevolezza dei nostri diritti, allora cambieremo radicalmente il mondo, avremo un lavoro che non solo ci aiuterà a vivere ma che ci renderà vive e creative in ogni aspetto della nostra vita.

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4.7. Avvocato donna
Claudia Romanelli, Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Bari


Partendo da una indagine conoscitiva che la cassa previdenza degli avvocati ha realizzato nel corso dell'ultimo anno, si evince come il numero delle donne avvocato in rapporto al numero degli uomini sia in costante aumento.

Si sa che quanto avviene nell'ordine forense corrisponde a una generale crescita da parte delle donne nell'ambito di ogni lavoro di tipo intellettuale. Negli ultimi concorsi di magistratura il numero delle donne spesso supera quello degli uomini.

Nell'avvocatura il numero delle donne iscritte all'Albo dei praticanti Avvocati ed il numero delle donne che supera l'esame di avvocato tendono ad eguagliare e talvolta a superare quello degli uomini. Rispetto al passato, del resto, la prova di un aumento delle donne avvocato è data dal numero delle pensionate che sono solo 212 rispetto agli uomini che sono 7.224. Attualmente il numero delle donne iscritte alla Cassa è di 13.808 rispetto a 45.210 uomini. Rappresentiamo quindi io 24% dell'intera categoria degli iscritti alla Cassa.

Il numero complessivo degli iscritti negli albi degli avvocati al 31.12.97 è di 89.865 di cui 24.739 sono donne, con una percentuale quindi del 27%. Infine interessante è vedere l'incremento delle iscritte per fasce di età, de fino ai 30 anni le iscritte alla cassa corrispondono al 50%, dai 30 ai 39 si riducono al 38%, di 40 ai 45 diventano il 25%, dai 46 ai 64 il 9%.

Ai dati succitati è seguita l'elaborazione di un questionario a cui tuttavia ha risposto un numero limitato di donne ed i cui risultati possono solo considerarsi parzialmente attendibili anche se permettono comunque una valutazione generale sulla libera professione esercitata dalle donne.

Emerge che se nel nord la percentuale delle donne che svolge l'attività è più alta, nel Centro, ma soprattutto nel Sud, questa percentuale si assottiglia notevolmente per un duplice ordine di motivi. il rimo può essere costituito dalla presenza di infrastrutture quali asili, scuole, ecc., di una maggiore efficienza dei servizi sociali che consentono alla donna di non rinunciare a formare una famiglia; il secondo motivo può essere rappresentato dalla organizzazione degli studi legali, spesso composti da numerosi professionisti che consentono una maggiore e completa collaborazione tra gli associati.

Ne Meridione, invece, l'assenza o l'inefficienza dei servizi sociali e la struttura organizzativa degli studi ancorata a vecchi schemi, rende difficile l'attività professionale da parte delle donne che, se decidono di non rinunciare alla famiglia e di crescere dei figli sono costrette ad allontanarsi dall'attività fatta eccezione per quei rari casi in cui un consolidato studio alle spalle spesso costituito da familiari o una associazione con altri professionisti provveda a mantenere i rapporti con la clientela e a seguire le pratiche.

Per attuare quell'equilibrio tra responsabilità familiari e professionali, la donna deve contare su una organizzazione del lavoro di studio ed una massima collaborazione da parte dei colleghi.

Non va trascurata peraltro anche la difficile barriera derivante da una mentalità che ancora oggi risulta ancorata a certi schemi e luoghi comuni difficili da superare rispetto ad una professione come quella dell'avvocato che nasce come professione maschile.

Le maggiori difficoltà si incontrano nei rapporti con la clientela che, nelle aree economicamente meno sviluppate, manifesta ancora diffidenza nel farsi assistere da una donna.

La professione dell'avvocato oggi è decisamente penalizzata dall'elevato numero degli iscritti che crea una maggiore concorrenza ed una difficoltà a trattenere la clientela, laddove un qualsiasi motivo impedisca all'avvocato di lavorare con continuità.

Infatti il rapporto personale di fiducia, che si crea tra l'avvocato e il cliente, esige massima e continuativa disponibilità. Se questa continuità si interrompe, il cliente non ha difficoltà a indirizzare la propria fiducia nei confronti di altro collega.

Tali sono i grossi limiti di percorso che la donna avvocato incontra nella fascia di età giovanile tra i 30 e i 40 anni se decide di avere un figlio, considerato che si tratta dell'età che corrisponde senza dubbio al periodo di maggiore crescita professionale per un avvocato.

Ed è per questo che la donna è spesso costretta a decidere di rinunciare all 'attività professionale, almeno temporaneamente, anche perché le convenzioni sociali ancora oggi rendono maggiormente accettabile una donna avvocato che abbia avuto figli, rispetto ad un avvocato che vi abbia rinunciato, suo malgrado, privilegiando le proprie ambizioni lavorative.

Attualmente l'unico intervento legislativo a tutela delle donne libere professioniste è quello della legge 379/90 vigente dal 91, che proprio per tutelare le donne ed il loro diritto a non rinunciare alla maternità, ha previsto la corresponsione di una indennità da parte della Cassa di categoria. Va rilevato che la legge è di qualche mese precedente la famosa normativa dettata in materia di pari opportunità n. 125/91.

La legge 379, che da alcuni sondaggi effettuati dalla Commissione delle pari opportunità, non è conosciuta dalla stragrande maggioranza delle libere professioniste delle varie categorie, stabilisce che le iscritte alla Cassa di previdenza possono richiedere una indennità pari all'80 % di 5/12 (per i due mesi prima della data del parto e i tre mesi successivi), calcolata sulla base del reddito dichiarato dalla professionista il secondo anno precedente dalla data del parto.

Tale previsione normativa consente alle donne professioniste un sostegno economico, evitando una radicale riduzione del tenore di vita, che il lavoro le ha consentito da raggiungere e soprattutto che alla maternità si ricolleghi uno stato di bisogno economico.

Quindi duplice tutela da parte della normativa: da un lato la salute della madre e del nascituro attraverso l'astensione dal lavoro, dall'altro evitare una diminuzione del tenore di vita in modo che non operino rispetto alla gravidanza ostacoli e remore.

Tuttavia dopo i primi anni di applicazione della legge sulla indennità di maternità sono emerse già le prime perplessità.

Parlando di avvocati si sa, che fatta eccezione per singoli casi, il reddito non è certo rilevante in giovane età e comunque non è costante in considerazione del particolare tipo di attività condizionata dai tempi lunghissimi del sistema giudiziario.

Pertanto, la professionista spesso è costretta a lavorare anche durante quei cinque mesi, nel corso dei quali invece, la legislazione in materia di maternità prevede l'obbligatoria astensione dal lavoro, a tutela della salute della madre e del figlio.

Del resto il riconoscimento dell'80% del reddito dichiarato due anni prima della richiesta di indennità sarebbe giustificata dalla autonomia e flessibilità con cui la professionista può organizzare il proprio lavoro. Si dice che il lavoro libero professionale non sia soggetto a pressioni direttive, di programmi, di orari, di attività obbligatorie come viceversa sarebbe per il lavoro subordinato.

Si tratta in realtà di stereotipi non generalizzabili che mal si adattano alla complessa realtà effettiva del lavoro nella società moderna ed alla assai variegata realtà del lavoro libero professionale. Basti pensare all'attività forense i cui termini processuali, le decadenze oltreché le date di udienza, difficilmente tengono conto delle esigenze dei singoli avvocati.

Così come l'allontanamento dalla professione indotto da una gravidanza o malattia o crescita del bambino, non viene minimamente tutelato laddove si prolunghi oltre i termini consentiti dei cinque mesi.

Nel lavoro autonomo manca una tutela economica della malattia, ma la maternità non può essere equiparata alla malattia perché necessita di una tutela speciale.

A fronte di una disparità di trattamento, qualche volta ci si nasconde o si resta quanto meno inattivi per difficoltà di ordine pratico o facendo riferimento a sistemi contributivi che non consentono una pari tutela. Ma queste giustificazioni non possono essere condivise.

È necessario che il legislatore riveda la legge 379/90 per tutelare più compiutamente la maternità.

D'altronde questo era l'auspicio della Corte Costituzionale che, con sent. 150/94, se da un lato si asteneva dal dichiarare la illegittimità costituzionale dell'art.7 della L. 903/77, nella parte in cui riconosce al padre lavoratore il diritto all'astensione facoltativa per sei mesi nel primo anno di vita del bambino solo nella ipotesi in cui la madre sia lavoratrice subordinata e non anche nel caso in cui sia autonoma, dall'altra riconosceva la necessità che il futuro legislatore perfezioni la normativa vigente nel senso di una maggiore protezione del valore della maternità anche a favore delle lavoratrici autonome.

Secondo alcuni autori che si sono interessati dell'applicazione della legge in concreto, la indennità andrebbe commisurata alla riduzione effettiva del reddito. Si sostiene che chi può continuare a lavorare, difficilmente riduce del 20% la propria attività, mentre chi non ha la possibilità di lavorare, per difficoltà incontrate nel corso della gravidanza o nella crescita del bambino non potrà contare che sull'importo limitato dell'80 % dei 5712 del reddito. Tuttavia, verificare la effettiva riduzione del lavoro della professionista in corso di gravidanza e puerperio non è agevole.

Allora una possibile soluzione potrebbe essere quella di stabilire un importo fisso a titolo di indennità di maternità, eliminando il meccanismo della percentuale sul reddito e permettendo così a tutte le donne, un dignitoso sostentamento nel corso dei cinque mesi che eventualmente possa anche essere esteso ad un periodo più lungo, per i casi di maternità a rischio che impongano un riposo forzato della gestante.

Del resto tale meccanismo sarebbe anche più legittimo se consideriamo che per tale indennità, contribuiscono annualmente tutti i professionisti, uomini e donne, in misura fissa.

Il Consiglio dell'Ordine di Bari, del quale ho l'onore di far parte quale unica rappresentante femminile, quest'anno ha istituito presso di sé il Comitato delle Pari Opportunità, in conformità alla L. 125/91. il Comitato si propone preliminarmente di effettuare una indagine conoscitiva a livello territoriale sul numero delle donne iscritte, sull'età delle donne che svolgono l'attività, (in modo da capire se vi è un allontanamento dalla professione ed in caso affermativo quali siano le motivazioni), su quante donne svolgano l'attività in modo continuativo, sulle loro difficoltà professionali e responsabilità familiari, sulle difficoltà delle giovani praticanti ad inserirsi negli studi professionali, così da poter assumere iniziative atte a creare le effettive condizioni di pari opportunità nel percorso professionale individuando quelle espressioni e situazioni che provochino anche indirettamente una discriminazione tra i due sessi.

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4.8. Katarina Belobrkovic
del Centro di consulenza per le donne vittime della violenza, Belgrado


Parla delle opportunità per le donne nell'Europa dell'est. La situazione sta enormemente modificandosi. Nel loro Centro hanno lavorato con oltre 2.000 donne vittime della guerra e della violenza.
Sulla totalità di lavoratori che hanno perso il posto di lavoro il 75% è costituito da donne. Le donne subiscono la violenza del governo e quella domestica.
Il Centro di consulenza di Belgrado ha riscontrato che molte donne continuano a subire abusi in casa perché non hanno indipendenza economica. Cercano di fornire a queste donne lavoro e formazione, ma il loro progetto incontra molti ostacoli perché c'è poco lavoro e perché le organizzazioni governative tendono a snobbare le Ong.
Molti, rimasti per anni senza lavoro, hanno cercato di avviare imprese private assumendo ragazze di bell'aspetto senza dare loro i contributi sociali e spesso abusando di loro sessualmente.
L'unica possibilità è spesso rappresentata dal lavoro di servizio nelle case e l'assistenza agli anziani, con paghe molto basse. Le giovani rimangono a casa a lungo.
Molte si prostituiscono per poter uscire dalle mura domestiche e dalla dipendenza. La situazione in Serbia non è rosea e le prospettive sono misere.

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4.9. Rojin Tanrikulu
rappresentanza del Kurdistan a Roma


Ringrazia a nome delle donne Kurde l'AWMR per averle dato la possibilità di parlare senza preavviso. Gli ultimi 25 anni sono stati molto difficili per le donne kurde non solo in Turchia ma anche in altri paesi, compresa l'Italia. Ci sono 40 milioni di kurdi nell'area della Mesopotamia. Essi sono stati continuamente oppressi ma hanno conservato la loro cultura mesopotamica.
Purtroppo non sono ancora in grado di creare un proprio stato e sono divisi tra Turchia, Siria, Iraq ed Iran dopo il trattato di Losanna, firmato anche dall'Italia. I kurdi non essendo riconosciuti come stato non hanno alcun diritto, hanno subito perfino il genocidio. Non possono dare nomi kurdi ai loro figli, ai loro villaggi e città, ai loro fiumi. Violenza ed aggressioni aumentano contro di loro in Turchia e la gente ha molta paura.
Tale situazione è totalmente contraria ai diritti umani, eppure ci sono paesi che continuano a sostenere il governo turco. La popolazione maschile è diminuita e gli uomini sono o in prigione o nella clandestinità. Le donne non possono resistere così facilmente, donne e bambini sono le prime vittime.
Ogni giorno l'esercito attacca i villaggi, le donne sono picchiate e violentate, i loro figli uccisi ed i villaggi distrutti. La cultura patriarcale kurda relega le donne in una posizione d'inferiorità, ma sono esse che hanno conservato la cultura nazionale. Il sistema politico e sociale opprime le donne e questo le ha rese più vulnerabili all'invasione turca.
Per la continuità della cultura nazionale kurda, da un punto di vista politico, economico e sociale, le donne hanno un ruolo centrale. Sono donne più della metà dei componenti dei gruppi politici e questo fa sì che esse non siano limitate più al ruolo di mogli e di madri ma lavorino per la libertà e la liberazione.
Con la loro esperienza ed il coraggio, le donne vanno avanti. Il governo non vuole che le donne combattano contro lo stato coloniale. Così soldati chiedono alle donne di spogliarsi le torturano e le violentano. Molte preferiscono suicidarsi.

Una campagna europea è stata lanciata per portare i colpevoli davanti al tribunale dell'Aja. Ogni giorno migliaia di donne vengono torturate, e questo è stato riconosciuto dal tribunale come un crimine. C'è bisogno del sostegno dell'Awmr poiché questi processi sono costosi, per quanto gli avvocati si paghino molto poco.
Le donne sono il 20% della popolazione detenuta e sono tenute in isolamento più degli uomini. Leyla Zana che è da lungo tempo in carcere è divenuta un simbolo. Ella ha dichiarato che non lascerà la prigione e non abbandonerà le sue compagne detenute.
Uno scambio di delegazioni sarebbe buono per stabilire un dialogo tra le associazioni femminili. Il Kurdistan non è molto lontano da qui ed è una vergogna che i media tacciano questo problema. Ciascuno può fare qualcosa per sostenere la causa del Kurdistan.

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4.10. Emna Soula Atallah
Rete delle giornaliste del Mediterraneo, Tunisia


Interviene sul modo in cui le donne della Tunisia sono presentate dai mass media, riferendosi ai risultati di una sua ricerca. Non è chiara l'immagine del ruolo che le donne hanno nel suo paese. C'è il rischio di ricevere un'informazione distorta poiché i media non sono veritieri.
In Tunisia i fondamentalisti perpetuano i problemi nella società. Essi contribuiscono a rafforzare gli stereotipi del ruolo delle donne. I media fanno la loro parte. Le donne non rappresentate nei media. Presenta statistiche che si riferiscono alle donne e al lavoro, i modelli culturali ed il loro ruolo.
Abitualmente l'informazione è fatta dagli uomini e per gli uomini. C'è un grosso gap tra le donne e l'informazione. Solo pochi articoli si riferiscono alle donne dando un'immagine non solo non chiara ma addirittura falsa.
Essi si limitano alle assunzioni tradizionali sul ruolo che le donne hanno o dovrebbero avere. Perciò i media non contribuiscono all'evoluzione della donna tunisina.

Nella sua ricerca ella analizza sia il ruolo tradizionale che quello moderno e cerca di rispondere a domande come: qual è il ruolo della donna? Oltre a non essere rappresentate nei media - sia nazionali che internazionali - esse non hanno accesso alle nuove tecnologie.

Le giornaliste donne si sono attivate per cercare di eliminare questa attitudine, mettendo al centro la formazione di una nuova immagine di donna che sia più rappresentativa e perciò più produttiva.


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5. Sessione
Donne nell'economia globale: il diritto a lavorare con dignità.
Realtà e prospettive mediterranee



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5.1. La politica economica in Africa e Medio Oriente
di Valentine Moghadam, Iraniana, Direttrice of Women's Studies,
professore associato di Sociologia all'Università Statale dell'Illinois, Usa


Questa relazione prende in esame modelli, problemi e prospettive dell'occupazione femminile nei paesi del Medio Oriente e del Nord Africa, dove si assiste ad un cambiamento delle politiche economiche regionali sotto la pressione della globalizzazione.
I risultati si basano su una ricerca che ho condotto in Algeria, Marocco, Tunisia, Egitto, Turchia, Siria, Giordania e Iran sin dal 1990, servendomi di dati statistici, documenti ufficiali, fonti secondarie e interviste che ho effettuato personalmente in queste regioni.
I risultati, indicano da una parte la tendenza all'aumento del numero di donne in cerca di lavoro - contemporaneamente agli alti tassi di disoccupazione - e dall'altra la progressiva "femminilizzazione" del lavoro nella pubblica amministrazione, dal momento che i salari diventano sempre più bassi e gli uomini preferiscono orientarsi verso lavori più redditizi in settori privati in crescita.

Malgrado le statistiche ufficiali non colgano incrementi nella partecipazione femminile alla forza lavoro, l'esame di casi concreti evidenzia una crescita di attività tra i poveri e le donne lavoratrici nel settore cosiddetto urbano informale.
Nello stesso tempo, le politiche sociali restano inadeguate o limitate alle donne impiegate nel settore pubblico.
È probabile che l'allargamento dell'economia sovverta alcuni aspetti patriarcali della distribuzione del lavoro, incrementando nel lungo periodo la partecipazione femminile in tutti i suoi campi, ma nel breve periodo i termini sociali in cui ciò è messo in pratica sono altamente problematici.
Per questa ragione, ricercatrici e associazioni femministe hanno sentito il bisogno di esaminare accuratamente condizioni di lavoro, politiche sociali e legislazione sul lavoro.

Uno schema di analisi: economia politica, genere ed occupazione femminile

Tra le caratteristiche durature del mercato del lavoro in Medio Oriente e Nord Africa, vi è il basso tasso di partecipazione delle donne, sia in confronto ad altre regioni del mondo, sia rispetto alla percentuale maschile.

Una seconda caratteristica, collegata alla prima, e sempre in relazione ad altre nazioni e al lavoro maschile, è l'accesso limitato delle donne al lavoro salariato.
Le donne, infatti, costituiscono generalmente in questi paesi una piccola percentuale dell'intera forza lavoro salariata.

Un terzo aspetto è che il lavoro femminile non-agricolo si è concentrato nel settore pubblico e che le donne sono ampiamente assenti da alcuni settori quali le vendite e i servizi privati, stando a quanto risulta dalle statistiche sul lavoro salariato.
Questo aspetto è stato largamente discusso, col ricorso anche a cause culturali.
Invece del comune approccio che ha teso ad indicare cultura e religione come fattori di spiegazione del basso livello di partecipazione delle donne al mondo del lavoro e di altre caratteristiche che connotano l'occupazione femminile nel Medio Oriente, è più efficace delineare un quadro della cause prendendo in esame la politica economica, e l'ideo logia sessista, utilizzando uno schema più pratico in una ricerca comparativa esterna ed interna ai paesi studiati, che prenda come punto di partenza sia la natura economica della regione e il suo posto nel sistema mondiale, procedendo con l'esame delle strategie di sviluppo e le politiche di determinati stati, sia le specifiche strutture di classe e l'ideologia dei generi.
Questo approccio costringe a riconoscere che, a parte il numero generalmente non alto di persone appartenenti al settore impiegatizio, nelle economie in via di sviluppo dei vari paesi, le tecnologie capital-intensive con i relativi alti salari destinati agli uomini durante il periodo del boom del petrolio impedivano un profondo coinvolgimento delle donne nel lavoro (vedi Moghadam, 1993).
All'interno dell'area considerata, la comparazione tra paesi ad economia petrolifera e paesi ad economia non petrolifera, paesi in cui era chiesta forza-lavoro e paesi in cui ve n'era un'eccedenza, paesi ricchi e poveri, rivelava comunque che nelle zone ad economia aperta e in quelle dove non si dipendeva dalla vendita del petrolio, c'era una componente maggiore di donne nella forza-lavoro - e ciò spiega le differenze tra Tunisia e Marocco da una parte e tra Algeria ed Iran dall'altra.

Le politiche statali sono sempre state importanti per spiegare le differenze di trattamento riservate alle donne per quanto riguarda il lavoro salariato.
Generalmente, i governi socialisti o liberali probabilmente sono stati più propensi ad incoraggiare il lavoro femminile.
Nel mio libro "Donne moderne: genere e cambiamento sociale nel Medio Oriente", ho descritto tutti gli stati più potenti del Medio Oriente e del Nord Africa come neo-patriarcali (un concetto preso da Hisham Sharabi), e le relazioni di genere che generalmente caratterizzano i paesi di quest'area come patriarcali (in contrasto con le relazioni di genere più eque od egualitarie che possiamo trovare in altre società, dove le donne hanno una più ampia gamma di scelte possibili e un più diretto accesso alle risorse economiche).

Una dimensione del sistema neo-patriarcale, che introduco ora, è ciò che io chiamo il "contratto di genere patriarcale".
Seguendo la tradizione del "contratto sessuale" di Carole Pateman, e del "contratto di genere" di Liisa Rantalaiho, ma limitandone il senso alla definizione dei ruoli dell'uomo e della donna nel contesto urbano, definisco il contratto di genere patriarcale nel Medio Oriente come l'ambiente di relazioni tra uomini e donne fondato sulle figure maschio/approvvigionatore - femmina/casalinga, in cui il maschio ha l'accesso diretto al lavoro salariato e al controllo della produzione mentre la donna è fortemente dipendente dai membri maschi della sua famiglia.
Durante il boom del petrolio, caratterizzato da una forte urbanizzazione e da grossi flussi di capitale attraverso i vari paesi, il contratto di genere patriarcale fu attuato e certamente contribuì all'arricchimento degli Stati produttori di petrolio e agli alti stipendi che si giunse ad ottenere in quel periodo.
Esso fu inoltre codificato in leggi, specialmente in quei paesi dove vigeva la legge patriarcale.

Spesso, le leggi patriarcali vogliono che la donna debba ottenere il permesso dal padre e dal marito per lavorare, chiedere un prestito, avviare un'attività imprenditoriale o intraprendere un viaggio d'affari.
Inoltre, esse concedono alla donna una quota più bassa di eredità.
In "Donne Moderne" suggerisco che il conseguimento di un alto grado di scolarizzazione e occupazione corrispondente alla crescita del movimento femminista potrebbe portare quello che io chiamo il contratto patriarcale di genere a un punto interrogativo in paesi come Algeria, Marocco, Tunisia, Egitto, Turchia e Siria (anche perché, i movimenti islamici, mi sembra, sono arrivati a un punto tale da accrescere la visibilità delle donne e accelerare la caduta del sistema patriarcale).
Lo schema che utilizzo tiene conto del cambiamento di status delle donne e del loro accesso al lavoro salariato come il risultato di un cambiamento economico strutturale.
Nel mio nuovo libro, "Donne, lavoro, e riforma economica in Medio Oriente e Nord Africa", ho applicato lo schema genere-ed-economia-politica per capire i probabili effetti del cambiamento delle politiche economiche di otto paesi dell'area Nord-Africana e Mediorientale sul lavoro femminile.
Qui, come in altre regioni, si sta passando dalla precedente strategia di sviluppo di industrializzazione basata sull'import ad una crescita dell'export, per equilibrare i bilanci e incrementare la competitività, e numerosi paesi hanno adottato apposite politiche governative, spesso con l'assistenza della Banca Mondiale e dell'IMF.
Da notare che, dopo l'era del boom petrolifero, i salari sono scesi, specialmente nel settore pubblico, e gli uomini hanno dovuto prendere un secondo e anche un terzo lavoro nel settore privato o in quello dell'economia informale.
Bassa produttività ed inefficienze dilagano nei mercati del lavoro (vedi Karshenas, 1995).
La disoccupazione è in crescita in tutta l'area, dovuta anche alla crescita della popolazione combinata allo scarso sviluppo economico. Questi nuovi sviluppi fanno sorgere nuove domande: la liberalizzazione economica accrescerà la domanda di donne lavoratrici e nuove opportunità di lavoro nei differenti settori?
O avverrà al contrario a breve termine la marginalizzazione delle donne dal lavoro?
Che genere di lavori saranno riservati alle donne: regolari, oppure precari nell'economia sommersa, come il lavoro a domicilio?
La scolarizzazione e la formazione delle donne riceveranno più attenzione?
Nel lungo periodo, in che modo questa liberalizzazione colpirà le donne, la loro posizione nel mercato del lavoro, il loro status sociale e legale e il sistema delle relazioni di genere? Infine, come stanno rispondendo le donne alle sfide e alle opportunità dei cambiamenti politico-economici e alla globalizzazione?

Il contesto globale

Prima di esaminare l'area che ci interessa, bisogna considerare il contesto globale.
Nell'attuale situazione mondiale di economie aperte, di nuovi regimi di scambio e di industria competitiva ed esportatrice, i processi si ripercuotono duramente sul lavoro femminile, sia quello salariato che quello non pagato, nei settori formali o in casa, nel manifatturiero così come nei servizi pubblici e privati.

In tutto il mondo c'è stato un'enorme crescita di donne professioniste, imprenditrici e operaie, e un grande numero di occupazioni e professioni si sono "femminilizzate".
Il fenomeno della femminilizzazione del lavoro è il risultato di fattori demografici, per cui è cresciuto il numero di donne alla ricerca di un lavoro, son cresciute sia la domanda che l'offerta di lavoro femminile (relativamente economico) da parte delle industrie e della pubblica amministrazione.

Certo la crescita di partecipazione economica delle donne è una buona notizia, ma meno incoraggiante è il fatto che la femminilizzazione del lavoro sia avvenuta nel contesto della globalizzazione e con la diffusione del lavoro flessibile, e che il lavoro femminile non è stato accompagnato da una ridistribuzione delle responsabilità riguardo alla cura della casa e dei figli.
Inoltre, le donne continuano ad essere svantaggiate nel nuovo mercato del lavoro, in termini di salari, formazione e segregazione occupazionale; e sono anche impiegate in misura sproporzionata nelle sempre crescenti forme di lavoro precario, part-time, occasionale, o a domicilio.
Queste forme di lavoro instabile e precario sono caratterizzate dai bassi salari e dall'assenza di assicurazione sociale.

In generale, le condizioni delle donne dipendono dallo stato dell'economia di cui fanno parte.
Le condizioni lavorative delle donne del Nord Europa sono le migliori; segue l'America, mentre nell'Europa dell'est e nella ex Unione Sovietica lo status delle lavoratrici è cambiato drammaticamente in peggio dopo il crollo del comunismo.
Nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo è certamente emersa una fascia di donne in carriera nel settore pubblico e in quello privato, ma gran parte delle donne in cerca di lavoro non ha una formazione professionale, lavora nel sommerso, senza assistenza, e in condizioni di progressivo impoverimento. Contemporaneamente alla crescita del lavoro femminile, c'è stata una crescita della disoccupazione.
Recessione, ristrutturazione economica e bassi tassi di sviluppo ne sono state le cause; essa raggiunge livelli molto alti rispetto agli standard internazionali, come confermato da Banca Mondiale e ILO, in Algeria, Giamaica, Giordania, Egitto, Marocco, Nicaragua, Polonia, Slovacchia e Turchia.
In molti paesi le donne disoccupate sono Le donne sono quelle entrate per ultime in ordine di tempo nella forza lavoro urbana, in cerca di occupazione (ad esempio in Egitto, Iran, Turchia e Cile, dove i tassi di disoccupazione femminile arrivano al 30% contro il 10% maschile.
In altri paesi, però, dove è avvenuta una ristrutturazione delle imprese con largo impiego di donne, o nei settori di esportazione che hanno perduto mercato, il dato riguarda anche donne precedentemente occupate e che hanno perso il posto (come in Malaysia nella metà degli anni '80, in Marocco, Vietnam alla fine degli anni '80, Tunisia e Turchia più recentemente).

In generale le lavoratrici possono essere di città, donne rurali di recente inurbamento, immigrate, o lavoratrici straniere a contratto; possono essere single, sposate, o capo-famiglia.
Nonostante ciò, né le politiche sociali, né la legislazione del lavoro e nemmeno le infrastrutture urbane si sono adeguate all'entrata in larga scala delle donne nel mercato del lavoro urbano o ai problemi causati dalle vicissitudini dalla forza lavoro femminile.
I programmi di formazione per le donne sono scarsi, rendendole vulnerabili alla recessione e incoraggiando la competizione nel mercato del lavoro e i licenziamenti.
La legislazione esistente in materia di previdenza sociale tende a limitare il campo d'azione, e i suoi benefici raggiungono una fetta molto piccola della forza lavoro femminile urbana.
Inoltre tale legislazione, compresa quella sull'assistenza alle donne in maternità e per la cura dei figli, e sulle azioni positive per facilitare l'accesso delle donne al mondo del lavoro, è stata sottoposta a severo vaglio dall'espandersi delle politiche economiche neoliberiste.
La conseguenza è stata che molti paesi hanno ridotto diritti e programmi a favore delle donne.
Oltre al danno prodotto ai bambini e alle famiglie, questi tagli limitano la piena partecipazione e la possibilità di competere con gli uomini nel mercato del lavoro.
Nello stesso tempo, la disoccupazione e la diminuzione del reddito hanno costretto le donne di alcuni paesi ad entrare nel mondo della prostituzione.

Gli effetti della globalizzazione non sono passati inosservati agli occhi delle organizzazioni femministe di tutto il mondo.
La loro rete trasversale ha posto l'attenzione sui problemi economici, la ristrutturazione, la povertà, la crescita economica, e la pressione crescente che tutto questo comporta sulle donne, nel mentre si cerca una migliore rappresentanza femminile all'interno dei sindacati.

Ostacoli strutturali, politici e familiari all'occupazione femminile

Dal Nord Africa al Medio Oriente, l'accesso al lavoro salariato è per le donne una strada piena di ostacoli: dall'ancora alto tasso di crescita demografica, all'analfabetismo (specialmente rurale), alla minore scolarizzazione femminile; e poi, l'alta disoccupazione dei giovani maschi, la stagnazione e i pochi investimenti, la considerazione del lavoro delle donne come di importanza secondaria rispetto a quello degli uomini; la proibizione del lavoro notturno alle donne perché considerato disdicevole o per le difficoltà che esso obiettivamente comporta; la disuguaglianza per quanto riguarda la sicurezza e i servizi sociali; leggi sulla famiglia che limitano il diritto delle donne a godere delle eredità, a viaggiare, a lavorare; l'influenza scarsa o nulla delle associazioni femminili, incluse quelle che si occupano del lavoro delle donne; la scarsa sensibilità dei governi verso la questione femminile, col risultato di un'assenza pressoché totale della dimensione di genere nella pianificazione politico-economica; i costi del lavoro per le donne, incluse le deficienze infrastrutturali (trasporti) e le politiche sociali inadeguate ad aiutarle ad affrontare i problemi di un doppio lavoro (in casa e fuori).

Ma la tendenziale globalizzazione dell'economia porterà infine ad uno sviluppo nella situazione occupazionale e nei livelli di formazione delle donne?

Considerati diversi fattori, e cioé l'aumento della domanda di manodopera femminile nei settori tradizionalmente intensivi; la necessità di alzare il livello di formazione professionale per essere più competitivi; l'interesse ad innalzare i redditi per riscuotere più tasse; l'aumento della presenza femminile in settori come quello bancario, assicurativo, informatico ed altri importanti ruoli professionali; la crescita del turismo con possibile conseguente richiesta di lavoro femminile in un settore finora precluso alle donne; la necessità di espandere il settore del lavoro nei servizi sociali; l'espansione della piccola impresa privata, si potrebbe rispondere di si.

Comunque, la realizzazione di queste possibilità dipenderà non solo dai fattori economici, ma anche dalla capacità di pressione dei movimenti sociali e dell'associazionismo femminile.

L'occupazione femminile nell'era del neo-liberismo: tendenze, problemi, prospettive

Consideriamo alcuni effetti dei cambiamenti politico-economici nel Medio Oriente e Nord Africa sulla condizione femminile nel breve periodo.
In paesi come Marocco e Tunisia, e in misura minore in Egitto, Syria e Giordania, il settore tessile manifatturiero che privilegia l'esportazione ha visto una crescita del lavoro femminile, attingendo in pratica esclusivamente da esso.
Anche il settore pubblico ha visto una stabilizzazione e un incremento del lavoro femminile. La disponibilità di manodopera femminile a basso costo ha senz'altro contribuito a rendere competitiva l'industria marocchina e tunisina.
Ma ciò che va indagato è se la crescita dell'occupazione femminile riguarda prevalente mente il lavoro regolare o il sommerso, e quale ruolo ha il lavoro a domicilio o a cottimo.
In Tunisia si è registrato un calo della presenza femminile nel manifatturiero.
Nello stesso settore, tradizionalmente femminilizzato, già tra l'84 e l'89 si verificò un calo; lo stesso avvenne in Siria, tra l'81 ed il '91, oltre che nel manifatturiero, anche nei settori dell'elettronica, costruzioni, commercio, finanziario e dei servizi.
A che cosa va attribuito?

Un fenomeno di femminilizzazione dell'occupazione si è registrato nel settore pubblico statale - per esempio in Siria dove la presenza femminile è passata dal 18,7% del 1980 al 26?9% del 1992.
In Iran le donne hanno raggiunto la percentuale del 31% nel 1991.
Nonostante l'esiguità dei salari, le donne continuano a preferire il pubblico perché più garantito.

In Egitto cresce l'imprenditoria femminile, ma molte potenziali imprenditrici vengono bloccate dalla riluttanza delle banche a far credito alle donne.
Inoltre permangono limitazioni ed impedimenti legati ad un diritto familiare arcaico che non consente alle donne di godere dell'eredità, di viaggiare o intraprendere un'attività senza il consenso del maschio della famiglia.
Bisognerebbe fornire alle donne programmi di formazione e crediti non limitati ai tradizionali tipi di attività (abbigliamento, tappeti), ma allargati a settori socialmente utili e culturalmente appropriati come quello dei servizi (centri di assistenza, asili nido), col sostegno statale per venire incontro alle esigenze delle donne meno abbienti.

A fronte della crescita, nell'area considerata, del numero di donne in cerca di occupazione, queste continuano ad incontrare barriere che determinano l'altissimo tasso di disoccupazione femminile (14%-30%) in tutta la regione.
La tendenza negativa riguarda soprattutto le giovani in attesa di prima occupazione (con scolarizzazione media), ma comprende anche donne che hanno perso il proprio posto di lavoro a causa della ristrutturazione e della privatizzazione (come in Tunisia).
È chiaro che le più vulnerabili appaiono le donne meno scolarizzate - anche se in paesi come la Giordania ci sono molte disoccupate anche tra coloro che hanno un alto grado di preparazione.

Un'altra caratteristica che contraddistingue Nord Africa e Medio Oriente è l'assenza di occupazione femminile nel commercio e nei servizi.
A lungo termine, la globalizzazione cambierà questo stato di cose ed è quindi necessario che i governi tengano conto di questo stato di cose e adottino politiche che incoraggino il lavoro delle donne - fino ad ora ostacolato da convenzioni culturali - in questo campo.
Specialmente il turismo può fornire posti di lavoro alle donne - anche se, perché questo accada, bisognerà rimuovere tutti gli ostacoli di cui si è detto sopra, in termini di legislazione familiare e di politiche che favoriscano le pari opportunità.

In proporzione, il numero di donne occupate nell'intera regione rimane basso (15% della forza lavoro contro il 35% di America Latina, Asia e paesi sviluppati) e riguarda per lo più il settore pubblico.
Ma, con la liberalizzazione economica e la privatizzazione, si renderà necessario indagare l'espansione del privato dal un punto di vista di genere: aumenterà l'occupazione femminile o no? E se no, perché? Cosa fare per favorire l'ingresso delle donne nei settori privatizzati?

La necessità di politiche sociali per le lavoratrici

In tutta l'area del Medio Oriente, come altrove, è in atto un dibattito sulle politiche sociali per le lavoratrici.
Sebbene la grande maggioranza delle donne che sono nella produzione non beneficiano dei contributi sociali né delle leggi di tutela del lavoro, il piccolo numero di lavoratrici regolarmente retribuite e che godono di congedi di maternità devono comunque misurarsi con la concezione diffusa che il loro lavoro dia meno affidamento di quello maschile, e che sia più caro.

Questo è in particolare il caso dell'Egitto, dove le impiegate nel settore pubblico hanno beneficiato pienamente delle leggi a favore della maternità (tre mesi pagati e due anni circa di aspettativa non pagata, utilizzabili per tre volte senza perdita di anzianità).
Ma le interviste sul campo effettuate nel gennaio '95 hanno confermato che i lavoratori erano fortemente contrari a questo tipo di assistenza.
Uno studio condotto dal governo affermava esserci una implicita discriminazione nei confronti del lavoro femminile, espressamente dovuta alla discontinuità del lavoro femminile per le gravidanze e lo svezzamento.
Inoltre, il settore privato ha aggirato l'obbligo di legge richiedendo asili nido e pause per l'allattamento nelle imprese con più di cento lavoratrici, con l'intenzione deliberata di assumerne poi un numero più basso.
Così, malgrado l'esistenza di leggi sulle pari opportunità, la loro attuazione è disattesa, senza che si indaghi su questa mancanza.

La visione diffusa tra le professioniste egiziane è che la percezione dell'attaccamento familiare delle donne e la loro presunta inaffidabilità sia un pretesto per riservare il lavoro agli uomini, e che invece in conseguenza della recente crisi economica esse non abbiano usufruito del lungo congedo non pagato di maternità perché non potevano permetterselo.
Può darsi benissimo che le donne siano ingiustamente considerate forza lavoro "troppo cara"; che le indennità siano prelevate dai redditi di tutti i lavoratori (uomini, e sempre con un lavoro fisso e lo stipendio pieno), e che i diritti ad una lunga aspettativa con la garanzia di riottenere il lavoro siano raramente considerati come un problema in termini di mercato del lavoro o di capitale umano.

Al momento, la legislazione sul lavoro è in sede di revisione e si prevede di allineare il settore pubblico e quello privato.
Per le donne questo comporterà la riduzione dell'aspettativa per maternità ad un anno invece di due, goduta due volte invece di tre, e valida solo per le donne con almeno dieci mesi di servizio.
Malgrado le critiche di alcune attiviste egiziane, è possibile che la riduzione del periodo di aspettativa per le donne aiuti a creare più equità tra il settore pubblico e quello privato, e al contempo elimini la percezione delle madri lavoratrici come partecipanti alla forza-lavoro, mentre conservano i diritti di madre.

In Iran, le donne rappresentano davvero una parte piccolissima della forza lavoro - e sono presenti soprattutto nel settore pubblico.
La legislazione sul lavoro e sulla maternità segue le raccomandazioni dell'ILO.
Di solito, sono protette solo le donne che lavorano nelle aree urbane e nella pubblica amministrazione, il che vuol dire che la maggioranza delle donne lavoratrici non lo è.
Un altro problema, è che la durata dell'aspettativa per maternità - tre mesi - non è sufficiente, né per la madre, né per il bambino; la miglior soluzione sarebbe di estenderla a sei mesi, a stipendio completo e con la possibilità di usufruire di questo diritto due volte per tutto il periodo di lavoro.
Questo, incoraggerebbe sicuramente le donne ad entrare nel mondo del lavoro.

Ci sono ottime ragioni per estendere i benefici della legislazione sociale, comprese le leggi sul lavoro e di tutela delle donne, al settore privato e al sommerso, attraverso nuove forme di finanziamento: se la maternità fosse riconosciuta alle donne lavoratrici come un diritto, il loro rendimento migliorerebbe, come la loro salute.
Inoltre, l'estensione di programmi di sicurezza sociale anche al sommerso stabilizzerebbe la crescita della popolazione e della forza lavoro - e quindi anche il problema delle pensioni femminili.
In più, promuovere la partecipazione delle donne nel mercato del lavoro urbano richiederà il miglioramento del loro curriculum scolastico, programmi di formazione, crediti e corsi per donne imprenditrici, e altre iniziative per facilitare le assunzioni femminili specialmente nel privato, con conseguenze positive non solo sulla parità di genere e sull'empowerment, ma anche sullo sviluppo sociale.

Le donne si organizzano

Malgrado l'impostazione capitalista - il ritiro dello stato dalla sfera economica, la creazione e l'espansione di un settore economico privato, l'allargamento della dasse capitalista - la globalizzazione crea nuovi spazi e nuovi attori.
In più, esso annuncia l'emergenza di una nuova entità politica e di un nuovo soggetto storico: le donne.

Le organizzazioni di donne e i gruppi femministi di tutto il mondo criticano gli aspetti negativi della globalizzazione, spingendo per una maggiore spesa sociale, una più grande partecipazione, e per la democratizzazione.
Incoraggiate dalla mondializzazione del confronto democratico e femminista, e dai contatti con le reti femministe transnazionali e le organizzazioni internazionali, le donne del MENA discutono sugli aggiustamenti strutturali, sul fondamentalismo, i diritti umani e quelli delle donne, con grandi implicazioni nelle relazioni di genere, la cittadinanza delle donne, e per l'intera società civile.

Quali sono i segni principali di questo attivismo politico delle donne?
Ai primi di novembre 1994 vi fu ad Amman la conferenza regionale delle ONG delle donne Arabe, conclusasi con la stesura di un documento programmatico che indicava le priorità da affrontare, politiche, legali ed economiche.
A questo documento ne fece seguito un altro, stilato alla conferenza preparatoria di New York del 1995, che sanciva la volontà di allargare le basi del processo democratico sia nella politica che nel sociale; di assicurare la sacralità dei diritti umani e l'abolizione di ogni legge che autorizzi discriminazione e violenza nei confronti delle donne, in particolare quelle contenute nel diritto di famiglia.
Inoltre, in esso si condannava il fondamentalismo e gli estremismi culturali, che inducono al terrorismo e alla violenza contro le donne, e si sollecitava lo sviluppo sociale per contrastare l'impatto negativo degli aggiustamenti strutturali e assicurare alle donne il soddisfacimento dei loro bisogni.

L'emergere dell'associazionismo femminile e l'articolazione di tali richieste nel MENA si spiega con fattori demografici, economici e politici.
Da una parte la crescita del numero di donne scolarizzate, impiegate, mobili e politicamente consapevoli, e dall'altra l'aumento della povertà, della disoccupazione, della disuguaglianza; la minaccia del fondamentalismo islamico; un movimento diffuso a livello regionale per i diritti umani e la democratizzazione; una struttura globale di opportunità creata dalle conferenze delle Nazioni Unite sin dal 1985.

Infine, possiamo identificare sette tipi di organizzazioni femminili nella regione mediorientale e nord africana:Ci sono segni di cooperazione e solidarietà tra le lavoratrici e le femministe della media borghesia? In Marocco e Tunisia, le lavoratrici organizzate hanno protestato contro le molestie sessuali e altri problemi, ricevendo il supporto dalle organizzazioni femministe e per i diritti civili.
In Marocco, una tavola rotonda sui Diritti delle Donne fu organizzata nel 1995 dalla Lega Democratica per i Diritti delle Donne, con la costituzione di un comitato permanente che comprendeva tutte le 12 organizzazioni partecipanti.
Questo comitato espresse il bisogno di rivedere il codice del lavoro per introdurvi la condizione femminile, includendo la categoria di lavoratrici domestiche nella definizione di "donne salariate" e delineandone diritti e benefici, per elevare il minimo dell'età lavorativa a 15 anni e per garantire alle donne il permesso di maternità a pieno reddito e la garanzia di non perdere il lavoro.
Quando le lavoratrici scioperarono per protestare nel 1995 a Rabat contro le molestie sessuali, i gruppi marocchini femministi collaborarono attivamente con loro (vedi Moghadam, 1998).

Attualmente, le organizzazioni femminili, nei paesi del MENA, non sono molto influenti.
Ma questa situazione potrebbe cambiare.
La creazione di nuovi spazi dovuta alla liberalizzazione e il decentramento di quello che una volta era un potere economico centralizzato potrebbero portare all'articolazione di ulteriori richieste femministe e delle prospettive femminili in politica economica e nella pianificazione delle risorse umane. Certamente i cambiamenti nelle politiche economiche sfideranno le organizzazioni delle donne a forgiare alleanze e articolare interessi e bisogni delle lavoratrici nel nuovo ordine economico che si sta evolvendo.
In questo modo, le organizzazioni femminili e le donne lavoratrici potranno scardinare il contratto di genere patriarcale dalle fondamenta.


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5.2. Yildiz Ecevit
ricercatrice presso la Middle East Technical University, Ankara


Relaziona su "Donne e lavoro in Turchia". Argomento del suo intervento sono le politiche degli "aggiustamenti strutturali".
Fin dagli anni 60 prevalevano le politiche di sostituzione dell'importazione e la forza dei sindacati.
Nel gennaio 1980 queste politiche furono cambiate per poter ridurre i problemi relativi alla bilancia dei pagamenti, incoraggiare l'export e ridurre la domanda interna.
Ciò ha indotto un abbassamento degli standard lavorativi e a forme di produzione più flessibili.
Le imprese hanno utilizzato maggiormente lavoratori occasionali e temporanei, scaricando i costi di un mercato instabile sui salari più bassi.
Privatizzazione, disoccupazione e mancanza di investimenti nel settore manifatturiero hanno provocato un aumento del tasso di inflazione e dei prezzi degli alimenti, un deterioramento degli standard di vita ed un aumento della povertà.
Nel 1987 i poveri erano 7.5 milioni con un reddito giornaliero inferiore ad un dollaro.
Nel 1990 questa cifra è salita a 10 milioni.
Le famiglie avevano bisogno almeno di due stipendi e spesso un adulto doveva avere due lavori per vivere: in certi casi i beni di necessità erano prodotti in casa invece che comprati.
Le donne sono state le più colpite dai tagli nei servizi pubblici e dal costo maggiore della vita.
Le opportunità di lavoro nei centri urbani sono tuttora scarse per le donne.
Sempre più donne sono in cerca di lavoro e sopportano il peso della disoccupazione.
Nel 1990, il 40% delle donne nei centri urbani, comprese in una fascia di età fra i 20-25 anni, erano disoccupate.

Le lavoratrici nel settore manifatturiero sono colpite dalla politica degli aggiustamenti strutturali più di quelle che lavorano nei servizi.
C'è un numero crescente di studi sul problema delle donne ed il lavoro. Si è registrato un aumento della forza lavoro femminile nelle aree urbane dall'11% al 18%, ma non nelle industrie manifatturiere.
È sempre più evidente che il manifatturiero per l'esportazione si basa sul lavoro a domicilio e a contratto.
Negli anni 90, solo ad Istanbul, si contavano 88.000 lavoratori a domicilio, a causa della povertà e della mancanza di alternative di lavoro.

Gli stipendi reali devono aumentare e deve essere introdotta la possibilità di un impiego alternativo sicuro svolto in condizioni ottimali.
È anche importante offrire assistenza alle donne che vogliono creare cooperative e dare la sicurezza di posti di lavoro fuori dalle mura domestiche.
È necessario esercitare una pressione a tutti i livelli perché siano introdotte leggi che assicurino la cura dei bambini sui luoghi di lavoro.

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5.3. Le donne e il processo di trasformazione della cultura del lavoro
di Maria Mancarella


L'occupazione femminile nel Sud é, negli ultimi decenni, cresciuta in modo costante ed evidente, molto più di quella maschile (anche in presenza di una domanda non certo in crescita) e, nonostante il fenomeno della "segregazione occupazionale" caratterizzi ancora in modo marcato la composizione per sesso di molte attività e professioni, l'incidenza della componente femminile in tutti i settori, anche quelli a prevalenza maschile, é in considerevole aumento laddove invece la disoccupazione, anch'essa in continua crescita, é andata concentrandosi in modo preoccupante tra i giovani, uomini e donne, soprattutto del Sud.

In realtà, quando si parla di occupazione femminile non si può non far riferimento alla apparente contraddittorietà dei dati statistici che, accanto all'aumento dell'occupazione evidenziano anche, in particolare tra le donne del Sud, quello della disoccupazione. Negli ultimi venti anni, infatti, la presenza delle donne nel mercato del lavoro é notevolmente aumentata per effetto non solo dell'aumento delle donne occupate ma anche di quelle disoccupate. Tra gli uomini, invece, é cresciuta molto la disoccupazione ma poco l'occupazione.

Una spiegazione di questo diverso andamento della occupazione maschile e femminile é rintracciabile da una parte, al di là delle esigenze del mercato del lavoro, al crescere della propensione delle donne, soprattutto meridionali, alla partecipazione al mercato del lavoro, propensione che l'aumento della domanda non é riuscito ad assorbire, e dall'altra al cambiamento del modello di partecipazione femminile al mercato del lavoro: in età più avanzata che in passato e in modo più durevole, stabile e qualificato, anche in conseguenza dei grandi cambiamenti nei comportamenti demografici delle donne meridionali e alla crescita dell'istruzione superiore, secondaria e universitaria.

Da una parte, dunque, sta cambiando il posto che il lavoro ha nel progetto di vita della donna (Carmignani, Pruna, 1991, pag.144) dall'altra siamo di fronte ad un cambiamento radicale (non solo meridionale e non solo italiano) delle esigenze del mercato del lavoro, cambiamento ancor più potenziato e reso evidente da alcune coincidenze che potrebbero far diventare l'offerta di lavoro femminile realmente più competitiva di quella maschile (D'Oria, 1997,pag.133 ).

Proviamo a capire se questo é possibile e a quali condizioni.

Sicuramente uno degli elementi che maggiormente caratterizzano la presenza di uomini e donne nel mondo del lavoro é rappresentato dalle caratteristiche utilizzate per definire il loro modo di accostarsi al lavoro.

Gli uomini sono in genere definiti e apprezzati per le loro doti di affidabilità, efficienza, professionalità, caratteristiche che essi costruiscono attraverso un percorso di progettazione di sé molto razionale, faticoso, coerente, lungo (dura spesso tutta la vita) ma gratificante; le donne sono invece ritenute apprezzabili soprattutto per la loro fantasia, tenacia, flessibilità, caratteristiche assimilabili più ad un modo di essere, totalizzante e complessivo, a tratti di personalità che si ritengono quasi "naturali" nelle donne che all'idea di un progetto di sé da costruire nel tempo. (Francescato,1998)

Ma "affidabilità, efficienza, professionalità" e "fantasia, tenacia e flessibilità" non sono solo delle caratteristiche che sembrano distinguere gli uomini dalle donne, sono anche modalità di rapportarsi alla realtà tipiche di intere epoche storiche. L'era della scienza e della tecnica in cui viviamo ha fatto, in realtà, della efficienza, affidabilità e professionalità la sua bandiera: la modernità, infatti, guidata da una logica di futurizzazione, distruggendo le sicurezze del passato, ha concentrato i suoi sforzi nella costruzione del futuro. A partire da un'idea di progresso, pensato come crescita continua, lineare e cumulativa, essa ha costruito l'illusione di un procedere verso uno sviluppo senza fine, guidato da una logica razionale e fondato sull'equivalenza tra passato-tradizione-arretratezza da una parte e futuro-modernità- sviluppo dall'altra.

L'accelerazione delle trasformazioni, l'incognita sugli esiti del progresso hanno messo in crisi in modo radicale questo modello di sviluppo, facendo emergere, a fronte di una difficile progettabilità del futuro, l'importanza del presente e quindi della quotidianità.

L'attenzione alla vita quotidiana come spazio in cui i soggetti costruiscono il senso del loro agire (Melucci,1998) é sicuramente una delle dimensioni cruciali della società contemporanea, quella che permette di cogliere e sperimentare le infinite possibilità dell'azione umana ma anche di verificarne le difficoltà e i limiti.

Più che la capacità di perseguire in modo coerente uno scopo, più che l'efficienza a qualunque costo, più che gli eventi in quanto tali, acquista oggi sempre più importanza il significato che gli eventi della vita, incluso il lavoro, hanno per uomini e donne, la loro capacità di contenere e valorizzare cose diverse tra loro, l'attenzione al benessere fisico, la stabilità psicologica, la creatività.

Più spazio alla quotidianità, da sempre spazio delle donne, ha significato allora più spazio alle donne, maggiore valorizzazione delle loro caratteristiche, attenzione agli affetti, ai sentimenti, alla qualità dei rapporti. L'accento sulle qualità che contraddistinguono l'agire femminile ha spostato l'accento dall'intenzionalità al senso, da una logica forte, basata sulla razionalità secondo lo scopo ad una logica debole, basata sul limite e sul contesto. L'agire razionale, prettamente maschile, é infatti guidato da un fine esplicitamente definito, dentro cui i comportamenti sono spiegabili sulla base del loro grado di congruenza rispetto al fine.

L'agire femminile, l'agire pratico é, invece, un agire guidato da un sistema di disposizioni durevoli nate dall'esperienza e definibili all'interno di vincoli e limiti, come opportunità praticabili legate al contesto (Signorelli, 1996) le cui scelte e i cui comportamenti sono comprensibili attraverso un criterio di razionalità limitata, soggettiva, definibile nel contesto in cui comportamenti e scelte sono prodotti. L'agire femminile, al contrario di quello maschile, contiene i sentimenti, tollera la contraddizione, accetta l'ambivalenza.

Anche i ruoli sociali che uomini e donne sono chiamati a ricoprire sono diversi e diverso é il processo di socializzazione ad essi: progettualità e adattamento, linearità e compresenza, coerenza e flessibilità sono i due versanti su cui uomini e donne costruiscono le loro identità.

Ma, mentre razionalità, coerenza, certezza del domani sono stati i pilastri su cui l'uomo moderno ha costruito la grande illusione del suo futuro, adattamento e flessibilità sembrano essere le nuove parole d'ordine, capaci di risolvere tutti i problemi. Nel postmoderno dominato dall'incertezza, dal cambiamento, dalla flessibilità la capacità delle donne di adattarsi, di tenere insieme mondi diversi, di prendersi cura degli altri oltre e non solo di sé sembra perciò vincente.

Ciò nonostante, mentre l'innalzamento della scolarità e un nuovo atteggiamento nei confronti del lavoro spingono molte donne a considerarlo come una componente "normale" della loro vita, i meccanismi di funzionamento del mercato del lavoro ne impediscono nei fatti la permanenza, in particolare in coincidenza con il crescere delle responsabilità familiare dopo il matrimonio e la nascita dei figli.

Da una parte allora il mercato del lavoro chiede forza lavoro flessibile, polivalente, capace di adattarsi, dall'altra non é in grado di utilizzare a pieno chi tali caratteristiche possiede; siamo in presenza di un'altra contraddizione.

Per comprendere il senso di questa contraddizione é necessario tener presente innanzitutto alcuni limiti di carattere culturale che caratterizzano la situazione italiana, particolarmente nel Mezzogiorno:
  1. la centralità del lavoro nella vita degli individui e in particolare degli uomini;

  2. l'assenza di una cultura della mobilità

  3. la scarsa propensione del nostro sistema economico alla creazione di lavoro e in particolare di lavoro atipico

  4. l'eccessiva enfasi di genere presente nelle analisi sull'evoluzione del mercato del lavoro, analisi che hanno spesso connotato le trasformazione in termini di "eccezionale crescita" per tutto ciò che concerne i cambiamenti della componente femminile e in termini di "perdita" per quanto si riferisce alla componente maschile.
Altri elementi utili per comprendere il senso della contraddizione sono legati a:Negli ultimi anni questo dualismo va rafforzandosi poiché i cambiamenti recenti vanno nella direzione del rafforzamento del modello basato sul lavoro standard, unico, continuo, con orari di lavoro lunghi e rigidi che e rimane destinato agli uomini. In realtà, gli spazi che si aprono sono tutti nel segmento secondario (lavori a tempo parziale, bassa qualifica, senza carriera) e finiscono per essere destinati alle donne

Se tutto rimane in questi termini, il vero rischio é che per le donne flessibilità significhi aumento della segregazione, spezzoni di lavoro poco qualificato, non garantito, sottopagato, sommerso, lavoro nero.

In realtà non si può affrontare il problema della redistribuzione del lavoro retribuito tra uomini e donne senza affrontare quello della redistribuzione tra i sessi del lavoro non pagato, del lavoro di cura (Picchio,1997). Dai dati del Rapporto sullo sviluppo umano del 1995 emerge che la quota di lavoro non pagato svolta dalle donne é il doppio di quella degli uomini e questo dato vale non solo per l'Italia ma anche per i paesi con alto tasso occupazione femminile.

In realtà in un sistema economico come quello occidentale capitalistico, che si fonda sulla opacità economica del lavoro di riproduzione, sulla sua svalorizzazione e marginalizzazione, il lavoro non retribuito é del tutto strutturale e non residuale, così come la prospettiva emancitoria lo ha sempre definito (basti pensare che le casalinghe definite come persone "a carico" sono quelle che lavorano per sostenere chi lavora per il mercato).

Oggi sono in atto tendenze evolutive rispetto a questo rischio: una sempre maggiore consapevolezza del contributo economico del lavoro di riproduzione; una crescente attenzione agli standard di qualità della vita anche nei processi di produzione; la creazione di un mercato di servizi alla persona la crescita del settore non-profit.

Esiste, dunque, una convergenza tra esigenze di flessibilità del nuovo assetto produttivo e sociale e disponibilità della forza lavoro femminile; nonostante questa convergenza, finché nulla sarà fatto per attutire le differenze tra uomini e donne nella distribuzione del lavoro pagato e non pagato, finché non sarà modificato complessivamente il senso del lavoro; finché l'idea del piacere non sarà connessa a quella del lavoro sottraendolo all'unica dimensione della necessità e dell'alienazione; finché non sarà allargata contemporaneamente l'area del lavoro pagato delle donne e quella del lavoro non pagato degli uomini, lavoro flessibile significherà per le donne lavoro imprevedibile, de-regolamentato, sommerso, illegale. Sarà solo il prezzo da pagare per entrare nel mercato del lavoro e non uno strumento per sentirsi libere di esprimere la loro fantasia, tenacia, intraprendenza nella vita affettiva, famigliare e professionale, scegliendone i modi, i tempi e i luoghi.

In realtà, perché centralità e marginalità diventino categorie utili per studiare il rapporto con il lavoro di uomini e donne, perché la presenza delle donne nel mercato del lavoro avvii un processo di trasformazione della cultura del lavoro.

é necessario rivedere i termini del problema e ripensare completamente la funzione del lavoro nella costruzione dell'identità maschili e femminili.

Riferimenti Bibliografici

D.Barazzetti, C.Leccardi, Fare e pensare, Rosenberg & Sellier, Torino, 1995

F.Carmignani, M.L.Pruna, Le donne nel mercato del lavoro. Vecchi problemi e nuove opportunità, in G.Bonazzi, C.Saraceno, B.Beccalli, Donne e uomini nella divisione del lavoro, Franco Angeli, Milano, 1978

S.D'Oria, E se un giorno l'offerta di lavoro femminile fosse quella più competitiva?, in AAVV., Lavoro e non lavoro nel Salento, Piero Manni, Lecce, 1997

D.Francescato, Amore e potere, Mondadori, Milano, 1998

A.Melucci, Verso una sociologia riflessiva, Il Mulino, Bologna, 1998

A.Orioli, Flessibilità, Il Sole 24 Ore, Milano, 1997

A.Picchio, Lavori ed insicurezze sociali, di donne e uomini, in F.Bimbi, A.Del Re(a cura di), Genere e democrazia, Rosenberg & Sellier, Torino, 1997

S.Piccone Stella, C.Saraceno, Genere, Il Mulino, Bologna, 1996

P.Villa, Donne e lavoro: i nodi irrisolti, in F.Bimbi, A.Del Re, op.cit.


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5.4. Il lavoro della donna: storia di economia e di economie
Considerazioni tra il serio e il faceto
di Aicha Bouabaci
, scrittrice algerina

La vita di ogni donna è un lungo rendiconto: conti buoni qualche volta, conti cattivi spesso, conti da rifare sempre... Bisogna sempre contare, con le donne, lo si faccia a breve, a medio o a lungo termine.

Il poeta francese Aragon l'ha predetto: "La donna è l'avvenire dell'uomo". E Kateb Yacine, l'algerino, non ha forse riconosciuto da parte sua che "una donna che scrive vale tant'oro quanto pesa"?

Conti gravi, tradotti nello spazio tempo e nell'esplosione profonda della parola femminile.

Ma la donna non sempre raccoglie i suffragi di queste verità semplici, intelligenti e belle. Le sue azioni e la sua parola sono spesso denigrate, proprio da coloro che ella disturba... Per questi uomini, è chiaro che non bisogna mai contare sulle donne: oscure diavolesse, ogni loro atto mira a sconvolgere l'ordine costituito e obbliga l'uomo a rifare i suoi conti, anche se poi egli le nega ogni esistenza nel campo della finanza pubblica. E dunque!

Il lavoro casalingo: la donna depositaria di doveri plurimi

PADRONA DI CASA: a lei compete interamente la direzione dell'amministrazione domestica. Poiché non ha studiato contabilità, le si devono riconoscere capacità evidenti quando occorre, solitamente a partire dal magro bilancio messo a disposizione dal marito, di giostrare con i soldi per ripartirli il più armoniosamente possibile tra le diverse spese di casa, riuscendo talvolta perfino a risparmiare un gruzzoletto che un giorno mostrerà trionfante al marito, per tirarlo fuori da qualche impiccio!

Riesce a risparmiare l'olio, a preparare un vero pasto con un pò di legumi, a prolungarne il consumo trasformando ingegnosamente i piatti: il piatto del giorno prima neppure si riconosce, tanta abilità ella dimostra nel dargli un'apparenza tutta nuova.

Il suo registro contabile, dalle colonne ordinate, esiste solo nella sua testa, come il suo elenco di fatture e saldi. Per fare i suoi conti, lei non fa i turni, diligentemente seduta nell'ufficio che non c'è: l'ufficio è riservato a lui che "lavora", cioè a lui che porta i soldi a casa.

La sua personalità è costruita secondo un sistema di funzioni che s'inseriscono l'una nell'altra in un concatenamento efficace come l'automatismo di una catena di montaggio o di un processore.

CASALINGA: è incaricata delle faccende domestiche e viene continuamente richiamata all'ordine: "Quando lavi, fai attenzione al sapone, alla polvere, all'acqua; non fare sprechi perché tutto è molto caro, lo sai!". E lei raziona tutto, non getta mai niente, arriva a far quadrare i conti, addirittura a risparmiare: senza per questo meritarsi la gratitudine del marito che è chiamato fuori casa a delle mansioni meno meschine.

D'altra parte questa parsimonia ch'ella s'ingegna d'applicare per alleggerire il carico del maitre de l'argent potrebbe ritorcersi contro di lei, un giorno, se dovesse intervenire un litigio col marito: egli potrebbe allora rimproverarle questa avarizia di circostanza, che non corrisponde evidentemente ad un'attrattiva femminile.

MADRE: deve mostrare qualità riconosciute di educatrice, comprensive della competenza di efficiente governante; deve saper inculcare nei suoi figli le regole della buona condotta, vegliare sulla loro buona salute fisica e morale, controllare che facciano i compiti di scuola.

Anche quando questa mamma fosse del tutto analfabeta. Mi commuove sempre la volontà di queste madri di far uscire i loro figli dall'ombra della miseria e dell'ignoranza. Lei non sa né leggere né scrivere, ma sta lì a seguire attentamente lo svolgimento delle operazioni. Lei che non ha frequentato la scuola, arriva a parlare con una certa disinvoltura di matematica, di storia e di educazione civica... spesso senza che i figli diletti scoprano la profondità della sua ignoranza di partenza: tanto questa madre sa imporsi con la sua tranquilla autorità.

Inutile rammentare che, se questi figli non dovessero raggiungere risultati onorevoli nonostante l'interessamento assiduo della madre, la sanzione del padre si rivolgerebbe contro di lei, il cui compito "naturale" è di vegliare sul buon ordine e l'armonia generale. "È un errore tuo!" è l'espressione preferita di questi capifamiglia che si considerano, una volta per tutte, ingannati dalle loro compagne nelle quali avevano riposto tutta la loro fiducia!

Se la donna, questo "pilastro", questa "banca" della casa, ha una qualsiasi défaillance, la responsabilità ricade interamente su lei stessa. Perché LUI, è evidente, non può occuparsi di tutto. Il suo lavoro assicura a lei una vita confortevole.

Una volta oltrepassato il confine del suo recinto professionale, una volta che lui è a casa, lei deve assecondare tutti i suoi capricci, a cominciare dall'esigenza di disporre subito di uno scenario propizio al meritato riposo: pantofole, sigarette, caffè, giornale, televisore.... il tutto avvolto in un ovattato cocon di silenzio.

E mentre la madre attende alle sue numerose faccende, secondo la regola consacrata, coronata alla fine della giornata dalla presenza di tutti i figli, il padre può pretendere un'altra ricompensa, ugualmente riconosciuta: raggiungere gli amici al bar.

A partire da qui, ogni cosa può verificarsi: il pasto freddo che attende il capo supremo e che bisogna evidentemente riscaldare anche se è mezzanotte suonata, nonché i prevedibili rimproveri, se questa creatura del focolare a tempo pieno dovesse lamentarsi della sua fatica, per mille ed una ragioni, fra le quali quelle legate al suo statuto di moglie, con tutti gli annessi e connessi! Sicché, a mezzanotte, quest'uomo-principe azzurro spera di ritrovare la sua compagna bella e fresca come la Cenerentola delle favole e per la donna i conti non sono finiti. Ogni negligenza da parte sua, ogni cattiva volontà giustificherebbero senz'altro, stando a certe teorie maschili, il bisogno naturale dell'uomo di rivolgere i suoi sguardi altrove ed il suo diritto di essere volubile. Tanto peggio per la donna che non ha saputo tenersi il marito! È questa ancora una delle sue funzioni essenziali e naturali: piegarsi alle esigenze di questo coniuge che la legge maschile ha reso onnipotente in grazia del suo status di procacciatore di fondi!

È come se si riflettessero nella casa le politiche della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale: questo lavoro femminile 24 ore su 24, gratuito al 100%, non è nient'altro che il sostituto di molti salari che dovrebbero essere corrisposti a molte persone - amministratore delegato, insegnate, segretaria, contabile e anche baby sitter - per consentire infine all'uomo di uscire la sera senza sua moglie!

Va detto poi che in questo periodo di crisi che tanti focolari domestici attraversano, un solo salario non basta più ed il lavoro della donna deve proseguire sul mercato. Sotto la pressione del bisogno, son tornate anche a vivere antiche tradizioni e le donne sono obbligate a compiti che parevano superati: farsi da sé il pane, i dolci, preparare quei piatti tradizionali che vanno ad arricchire le mostre-mercato... o che vengono affidati ai figli perché li vendano per strada, come apprezzabile arrotondamento del salario del capofamiglia. Senza contare che da sempre le donne continuano ad applicarsi ai lavori di cucito e maglia, il cui ricavato servirà per i bisogni minuti di colei che li avrà realizzati nel tempo sottratto alle faccende di casa, oppure per il corredo delle figlie, o per altri progetti ancora.

Nei nostri paesi, la superdonna è questa che è chiamata ad espandersi quando ha la possibilità di trovare un'occupazione all'esterno, in una scuola, un ospedale, un ufficio.

La donna lavoratrice: lente bifocale

Che sia semplice infermiera o medico, istitutrice o ingegnere nucleare, segretaria o magistrata, se queste funzioni sono gerarchizzate, tale gerarchia non vale per la donna quando rientra nel foyer familiare: esse sono donne e nient'altro che donne, strette dalle stesse responsabilità, dagli stessi pensieri, dagli stessi interrogativi. E se questi compiti sono già complessi per la donna che non ha statuto pubblico, che dire di quelle che hanno fatto la scelta del "dentro" e del "fuori", esposte a tutte le critiche, spesso anche da parte delle altre donne? Nessuna défaillance è consentita a queste donne, altrimenti la sanzione è notoria, brandita ogni volta che la situazione familiare si fa critica: bisogna scegliere, o la casa, o il lavoro. Come se la prima scelta implicasse una stagione di villeggiatura e non una serie di lavori a catena! Situazione corneilliana.

Per quelle che hanno deciso di assumere la vita duplice, ogni coartazione si raddoppia, come la scommessa. Devono riuscire in tutto, nelle loro funzioni di donne, genitrici, mogli ed ogni altra cosa, per non essere ridotte all'unica funzione essenziale: il lavoro in casa, sigillo della loro cittadinanza.

Il lavoro fuori casa accresce il loro splendore se è sollecitato da necessità economiche, se serve ad accrescere le entrate del capofamiglia, e quindi il livello di vita della famiglia. Esse ci tengono. Che cosa sarebbero se non avessero questa funzione "pubblica"? Anonime tra tutte e vergognosamente dipendenti da questa entrata mensile.
Eppure non crediate che il fatto di percepire un salario renda tutte le donne indipendenti: non dimenticate il peso delle convenzioni sociali, le inibizioni di un'educazione trasmessa da una generazione all'altra. Il numero delle donne che ancora si sentono obbligate a firmare una procura al marito perché ritiri per loro il salario in banca o alla posta è molto alto.

Né bisogna dimenticare il conforto che a tanti mariti deriva da questo salario supplementare, che finisce col sopperire in gran parte, e a volte a rimpiazzare totalmente il loro, facendoli così ragionare: poiché lei lavora (da notare che tutto il resto non viene considerato lavoro; quale donna casalinga non si è sentita rispondere a qualche sua lamentela: "sei sempre stanca, ma perché, che hai fatto?"), si assuma le spese di casa, spettano a lei. E se questa lei commette l'imprudenza di accettare ogni cosa per mantenere l'armonia familiare, rischia di perdere tutto, a cominciare dalla pace dell'anima! Certi mariti risentiti contro queste mogli che li hanno raggiunti e superati, non fanno che svalutarle agli occhi della famiglia e della società: fino a che esse non abdicano completamente, in un campo o nell'altro. Esistono esperienze molto dolorose in proposito!

Ci sono perfino donne sospettate di tutti i mali e lasciate alla vendetta degli integralisti, nella pura tradizione di ogni fascismo, poiché una donna che lavora oltrepassa il suo diritto e usurpa quello dell'uomo.

Da qui l'impellenza di convincere le lavoratrici - o per via indiretta i loro mariti - della necessità di dedicarsi esclusivamente alle loro sacre funzioni di procreatrici ed educatrici, in contropartita di un'indennità pagata dallo Stato. Vorrebbe essere un elemento "a favore" delle donne, e non ci s'interroga sulle possibilità reali di concretizzare una misura simile in un paese dall'economia dissestata. Una promessa come tante, una sanzione tra le altre!

Peraltro ciò che si riferisce alle casalinghe o alle lavoratrici "dentro e fuori" non riguarda solo le mogli, ma anche le figlie e le sorelle: quante vocazioni di tutori e despoti si sono rivelate in questi tempi di crisi e di disoccupazione, in cui fa comodo poter contare sul salario dell'altra, nella buona coscienza di una responsabilità dismessa!

Il lavoro della donna prende esso stesso il colore di una sanzione senza fine. Accumulazione di frustrazioni per la casalinga che non pesa sul bilancio pubblico, se non sotto la forma di un'indennità salariale attribuita al coniuge (maschio) salariato, e di cui ella spesso non è a conoscenza. Ma la stessa quantità di frustrazioni, d'un genere diverso, accompagna colei che ha scelto lucidamente il percorso di combattente, per il meglio.... Dunque, come immaginare il peggio, in questa successione di divieti vecchi e nuovi, in questo maquis di contraddizioni?

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5.5 L'economia del dono
di Genevieve Vaughan


Nel mondo d'oggi coesistono due paradigmi economici fondamentali, in contraddizione logica ma complementari.
Di questi, uno è visibile, l'altro invisibile; uno considerato di grande valore, l'altro sottovalutato.
Uno è collegato agli uomini, l'altro alle donne.
Bisogna quindi dare valore a quello collegato alle donne, provocando uno spostamento fondamentale nei valori a cui improntiamo le nostre vite e politiche.

Mi sono accostata per la prima volta all'idea del donare, come fondamentale principio economico e di vita, mentre svolgevo un lavoro sulla lingua e la comunicazione.
Successivamente, come femminista, mi sono resa conto che, nelle mie funzioni di moglie e madre, svolgevo un lavoro, non retribuito, di dono - così come tutte le donne del mondo.

Il sistema economico attuale, che sembra essere così naturale e diffuso da potersi modificare, si basa su una semplice operazione, alla quale gli individui partecipano a livelli diversi e con tempi differenti.
Questa operazione è lo scambio, che può essere descritto come un dare per ricevere.
La motivazione è nella finalità stessa rivolta a se stessi, in quanto ciò che viene donato ritorna, in forma diversa, al donatore/donatrice per soddisfare le proprie esigenze.
Il soddisfacimento del bisogno dell'altra/o è il mezzo per raggiungere il proprio soddisfacimento.
Lo scambio necessita dell'identificazione degli oggetti scambiati, oltreché della misurazione di essi come modalità per stabilire l'equivalente nel soddisfacimento reciproco, sì che nessuna/o dia più di quanto riceve.
L'operazione, quindi, deve avere visibilità, deve poter attirare l'attenzione, anche se nel suo essere ripetuta spesso trasforma questa sua visibilità in un luogo comune.
Nello scambio entra il denaro, che prende il posto dei prodotti, rappresentandone il valore quantitativo.

Questo rapporto umano basato sullo scambio, apparentemente semplice in quanto ripetuto continuamente, diventa una sorta di archetipo o magnete per altre interazioni umane, mostrandosi - esso stesso e tutto ciò che gli è simile - normale, mentre il resto è folle.
Parliamo, per esempio, degli scambi d'amore, di conversazioni, di sguardi, di favori, di idee.

Esiste anche un altro tipo di scambio simile alla definizione linguistica.
La definizione serve a mediare l'appartenenza o meno di un concetto ad una certa categoria, proprio come la monetizzazione di una attività ne media l'appartenenza alla categoria del lavoro.
Proprio la visibilità dello scambio è conferma di se stesso, mentre altri tipi di interazione sono resi invisibili o inferiori per effetto di contrasto o descrizione negativa.
Ciò che è invisibile sembra non avere valore, mentre ciò che è visibile è identificabile con lo scambio, il che non fa che attribuire una sorta di valorizzazione quantitativa.
Inoltre, dal momento che esiste una dichiarata equivalenza fra ciò che diamo e ciò che riceviamo, sembra che chi ha molto ha prodotto molto o dato molto, perciò è, in qualche modo, più di chi ha meno.
Lo scambio mette l'ego in prima posizione e gli permette di crescere e svilupparsi secondo modalità che enfatizzano modelli comportamentali di competizione e gerarchizzazione secondo il modello "io-primo".
Questa ego non è parte intrinseca dell'essere umano, è, piuttosto, un prodotto sociale delle interazioni umane in cui è coinvolto.

Il paradigma alternativo, celato o quantomeno non identificato, consiste nella cura, in genere indirizzata verso gli altri.
Continua ad esistere poiché ha il fondamento nella natura stessa dei bambini; esseri dipendenti ed incapaci di restituire a colei/colui che dona.
Se le loro esigenze non vengono soddisfatte, unilateralmente, dalla donatrice/donatore, sono destinati a soffrire e morire.
La società ha assegnato il ruolo della cura alle donne, in quanto siamo noi a generarli e ad avere il latte per nutrirli.

Poiché una larga percentuale di donne alleva i propri figli, siamo destinate ad un'esperienza che si compie al di fuori dello scambio, fatto che ha bisogno di provare una forma di interesse verso l'altra/o.
Le forme di ricompensa o punizione implicate hanno a che fare con il benessere dell'altra/o.
La gratificazione personale viene dalla sua felicità, non dalla nostra.
Nel migliore dei casi, ciò non comporta impoverimento o sfruttamento di noi stesse.
In presenza di abbondanza, abbiamo di che nutrire altri.
Il problema è che di solito ci si trova in situazioni di scarsezza, creata artificialmente allo scopo di esercitare controllo, che rendono l'interesse verso l'altra/o difficile e logorante.
Il rapporto di scambio, infatti, deve avvenire in condizioni di scarsezza, poiché se i bisogni vengono abbondantemente soddisfatti nessuno sente la necessità di fare rinunce pur di ottenere ciò di cui ha bisogno.

Si dice che attualmente la terra produca abbastanza per nutrire tutti.
Questo, tuttavia, non può avvenire sulla base del paradigma dello scambio.
Né il paradigma dello scambio o il tipo di ego dominante che lo favorisce possono perpetuarsi in una situazione di abbondanza e libero scambio.
Da qui la necessità di creare scarsezza su scala mondiale, attraverso le spese per gli armamenti e altre forme di spreco delle risorse: 17 miliardi di dollari potrebbero fornire cibo per tutti per un anno e invece rappresentano gli investimenti di una settimana in spese militari.
Viene così creata la condizione affinché il paradigma dello scambio possa sussistere e legittimarsi.

Se identifichiamo il paradigma del dono con il modello femminile, si può affermare che è già ampiamente diffuso in quanto le donne rappresentano la maggioranza della popolazione.
Anche molti uomini lo praticano in qualche forma.
Spesso le economie non capitaliste, per esempio le economie semplici, hanno forme superiori di pratiche di scambio e diverse e importanti forme di leadership femminile.

Per esempio, ritengo che molti dei conflitti fra donne e uomini che appaiono determinati da differenze personali, siano in realtà differenze nel paradigma alla base del nostro comportamento.
Le donne criticano il forte ego maschile, e gli uomini criticano le donne in quanto non realistiche, con un cuore tenero e incline alla sofferenza.
Ognuno cerca di convincere l'altra a seguire i propri valori.
Molte donne, di recente, hanno iniziato a seguire il paradigma dello scambio, che ha il vantaggio immediato di liberarle dalla oppressione di una economia della schiavitù - e il vantaggio psicologico che la monetizzazione dà valore alle loro attività.
Ma lo stesso paradigma dello scambio è causa di schiavitù.

Dal momento che la gente si sposta da un paradigma ad un altro, può accadere che il paradigma di provenienza venga semplicemente rinviato, così che alle donne che accettano il paradigma dello scambio rimane il ruolo di cura, mentre gli uomini che si fanno donatori rimangono in realtà attenti solo al proprio ego.
Ciò è evidente nel caso delle religioni, in cui esistono uomini che legiferano con l'attenzione verso gli altri, spesso in base al principio dello scambio, escludendo e squalificando le donne.
Fanno apparire l'altruismo così santo da renderlo impraticabile alla maggioranza (ignorando che spesso rappresenta la norma per le donne).
È come la sindrome della madonna-puttana, per cui la donna è o sopra o sottovalutata, adorata o disprezzata.
L'altruismo viene fatto apparire irraggiungibile, associato spesso al sacrificio di se stessi (a causa della scarsa economia dello scambio), o può apparire uno spreco; nelle religioni patriarcali la carità si dà in cambio dell'anima.

L'atto della donazione che ha, alla base del suo principio di scambio, una grande ego non funziona, come abbiamo potuto verificare a livello di aiuti fra nazioni.
Ci sono vincoli posti dal paese donatore che impoveriscono chi riceve.
Un altro aspetto dei conflitti dei paradigmi è che il lavoro domestico o altre forme di lavoro femminile non monetizzabili sono visti come inferiori, come non lavori; valorizzarli è considerato sovversivo del paradigma dello scambio. Forse il lavoro femminile è pagato meno del maschile per far sì che rimanga in una posizione di dono privato del potere.
La soluzione non è nel pagare il lavoro femminile di più, ma nel modificare i valori fino a squalificare la monetizzazione e lo scambio.

Come può un paradigma non competitivo, di cura, confrontarsi con un paradigma competitivo? Sarà sempre in posizione di svantaggio, in quanto la competizione non è alla base della sua motivazione o valore.
È certamente difficile non competere senza perdere, dando quindi legittimità alla posizione altrui.
Un altro grosso problema è rappresentato dal fatto che se il soddisfacimento di un bisogno è senza compenso, non si dovrebbe chiedere il suo riconoscimento.
Ma, non chiedendone il riconoscimento, le donne sono rimaste inconsapevoli dell'aspetto paradigmatico delle loro azioni e valori.

È comunque chiaro l'aspetto pernicioso del paradigma rivolto all'ego.
Genera il rafforzamento dei pochi e la perdita di potere, l'impoverimento, la morte e l'invisibilità dei molti.
Dal momento che l'ego è un prodotto sociale, in qualche modo artificiale, ha bisogno di essere continuamente ricreato e confermato.
Ciò può avvenire anche attraverso la violenza sugli altri, inclusa la violenza sessuale.
Ciascuno, in quanto altro, è ignorato, negato, escluso, degradato, per confermare la superiorità e l'identità degli ego dominanti.
Vorrei evitare di fare, su questo punto, discorsi di ordine morale (infatti, il peccato entra nel rapporto di scambio, pronto a risarcire il torto fatto) e guardare ai problemi semplicemente come conseguenze logiche e psicologiche dei paradigmi.
La vendetta e la giustizia richiedono un equilibrio contabile.
Ma noi abbiamo bisogno di gentilezze e di cura.
Se si considera che l'85% delle persone con condanne a carico hanno subito violenza nell'infanzia, dobbiamo capire che il problema non è la giustizia.
Come la carità, la giustizia umanizza lo scambio quel poco che occorre per non farlo mutare.
Abbiamo bisogno di un mondo basato sul dono e per-dono, non sul castigo.

A questo punto, sembra sia importante creare strutture transitorie, che possano legittimare il donare.
Queste strategie, come forme di commercializzazione della causa, in cui i profitti sono dati a progetti che riguardano i cambiamenti sociali fatti per soddisfare i bisogni, fanno uso dello scambio come dono.
Anche il movimento per il finanziamento dei cambiamenti sociali esalta il donare, specialmente quando proviene da un modello di abbondanza e non di scarsezza.
Ma lo fanno altrettanto tutti quelli coinvolti nei movimenti per la pace, femministi, per le terapie del benessere, che dedicano tempo ed energie a soddisfare i bisogni umani e sociali.
Stiamo facendo la cosa giusta, ma non sappiamo perché.
Talvolta sviliamo persino l'atto di attenzione verso l'altra/o mentre lo pratichiamo, perché il modello dello scambio è così forte e penetrante.
Abbiamo bisogno di dare il nostro denaro, il nostro tempo e la nostra attenzione per cambiare i valori e le alternative economiche, sia vecchie che nuove, che non dipendano dallo scambio e dal mercato.
Le donne devono rendersi conto che i nostri valori ed energie sono importanti fuori come dentro la famiglia.
Gli stessi problemi sociali sono bisogni che dobbiamo soddisfare. Il nostro protenderci verso l'altra/o deve diventare la norma.

Solo così l'antico sogno, per cui i potenti deporranno le armi ed i ricchi i loro beni, potrà diventare realtà, guidato dalle donne del mondo.
Possiamo per esempio muoverci all'interno del "primo mondo" per perdonare il debito del "terzo mondo".
Vorrei attirare la vostra attenzione sulla parole per-donare.

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5.6. Parità di trattamento uomo donna nel lavoro a livello comunitario
Maria Luisa De Cristofaro
, docente dell'Università di Bari

La parità di trattamento fra uomo e donna nel lavoro - tema di questa relazione - è stata oggetto di una consistente produzione normativa a livello sia nazionale che comunitario e internazionale, regolamentata in specifiche disposizioni applicative del principio di uguaglianza, il quale trova generale accoglimento negli ordinamenti europei.
In particolare la nostra Costituzione, che garantisce, nell'art.3, l'uguaglianza formale e sostanziale di tutti i cittadini, riconosce, nell'art.37 alla lavoratrice parità di diritti e di retribuzione.

A livello comunitario il principio di non discriminazione - richiamato anche nelle disposizioni del Trattato CEE, che vietano disparità di trattamento in base alla nazionalità - trova espresso riconoscimento nell'art.119, che impone la parità di retribuzione tra uomini e donne per "uno stesso lavoro"; pertanto, la stessa unità di cottimo per il lavoro retribuito a cottimo e la stessa unità di tempo per quello compensato a tempo.
La nozione di retribuzione, ai sensi del secondo comma dell'art. 119, comprende non solo la paga-base, ma tutti gli "altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell'impiego di quest'ultimo", precisazione di non scarso rilievo in quanto una parte del corrispettivo dell'attività lavorativa è erogata proprio sotto forma di vantaggi vari e diversi, frequentemente non in denaro.

La norma, pur collocata fra le disposizioni sociali, per ragioni di ordine sistematico, ha trovato in realtà la sua sostanziale motivazione iniziale piuttosto in esigenze di ordine economico, cioé di predisporre misure idonee ad eliminare i possibili fattori di distorsione della concorrenza dovuti allo scarto fra i salari maschili e quelli femminili, in quanto disparità di retribuzione a danno delle donne si registravano in tutti i Paesi membri, anche in quelli nei quali la parità è sancita dalla legge nazionale.

Invero, se la parità fra i lavoratori dei due sessi è un principio dell'ordinamento della CEE, pur tuttavia, esso, nell'ambito della costruzione comunitaria, appare avere minore importanza funzionale del divieto di discriminazione basato sulla nazionalità, essendo quest'ultimo indispensabile per l'esistenza e non solo per il funzionamento del Mercato Comune, ora Unione Europea, mentre la parità di trattamento retributivo, la quale evita ingiustificati vantaggi alle imprese a prevalente occupazione femminile, che si verificherebbero nel caso in cui queste potessero praticare salari più bassi per le donne rispetto agli uomini, garantisce il migliore funzionamento della Comunità economica, ma non è fondamentale per la sua esistenza; benché sia da rilevare una più ampia sfera di applicazione soggettiva del divieto di discriminazione sessuale rispetto a quello di disparità nazionale, che è diretto esclusivamente ai lavoratori migranti da uno Stato membro ad un altro, diversamente dal primo che riguarda sia i migranti che i non migranti.
Questo minore rilievo comunitario della parità di trattamento fra i due sessi spiega lo scarso impegno dei diversi Stati nel dare attuazione al disposto dell'art.119, interpretato quanto più possibile in senso riduttivo: così l'espressione "stesso lavoro" si riteneva riferibile esclusivamente alle cosiddette "funzioni miste", cioè quelle svolte nella stessa impresa e nelle stesse condizioni di lavoro, da uomini e donne indifferentemente; situazioni che, secondo un'indagine statistica fatta dalla CEE, interessavano non più del 23% delle lavoratrici.

Del resto, anche in Italia si registrava la stessa assenza di una volontà politica attuativa dell'art.37 della Costituzione: infatti, la giurisprudenza anche della Corte di Cassazione fino al 1970 ancorava la parità di lavoro alla parità di rendimento, che nel caso delle donne per definizione era considerato inferiore rispetto a quello degli uomini, giustificando una disparità salariale per le lavoratrici nonostante le identiche mansioni da esse svolte.
Solo nel 1971 la Corte di Cassazione afferma che bisogna fare riferimento all'inquadramento professionale, e non al rendimento, per individuare la parità di lavoro.

Stante l'inerzia degli Stati membri di dare compiutamente attuazione all'art.119, la Corte di Giustizia delle Comunità europee è intervenuta non soltanto obbligando questi a rispettare gli obblighi che essi si sono assunti nel Trattato istitutivo, ma altresì incidendo sugli stessi rapporti interprivati.
Infatti, nella sentenza 8 aprile 1976, causa 23/75, Defrenne II, si è riconosciuto alla disposizione in esame carattere di norma dotata di effetto diretto negli ordinamenti nazionali, attribuendo ai singoli diritti tutelabili in sede giurisdizionale almeno rispetto alle "discriminazioni dirette" e palesi, cioè a quelle "che si possono accertare con l'ausilio dei soli criteri di identità del lavoro e parità di retribuzione indicati da detto articolo", mentre le "discriminazioni indirette dissimulate" possono essere messe in evidenza solo valendosi di disposizioni di attuazione più precise, di carattere comunitario o nazionale.

In ordine alle discriminazioni dirette ed aperte, il magistrato può procurarsi tutti gli elementi che gli consentono di verificare se una lavoratrice sia retribuita meno di un lavoratore a parità di lavoro; pertanto l'art.119 può essere applicato direttamente: esso attribuisce agli individui un diritto che i giudici dei Paesi membri sono tenuti a tutelare.
Grande risalto è stato dato al riconoscimento che questo articolo sia per sua natura idoneo a sortire effetti oltre che in rapporto allo Stato anche fra i privati, cosicché è stata evidenziata come una grossa novità l'efficacia diretta "orizzontale" oltreché "verticale", riconosciuta all'art.119.
All'uopo la Corte riconosce una duplice finalità, economica e sociale, perseguita da tale disposto, collocato nel capo del Trattato dedicato alla politica sociale, argomentando l'attribuzione alla parità retributiva della natura di principio fondamentale del Trattato.

La Corte, ricostruendo il contenuto di questo principio, lo fa coincidere in sostanza con il divieto di "qualsiasi discriminazione fra i 1avoratori di sesso femminile e quelli di sesso maschile, tanto diretta quanto indiretta, nell'ambito non solo delle singole aziende, ma anche d'interi settori industriali o persino dell'economia nel suo complesso".
L'uguaglianza della retribuzione e lo stesso lavoro passano da elementi costitutivi a meri criteri di verifica della sussistenza delle disparità proibite. La Corte, grazie alla sua interpretazione estensiva, allarga l'ambito di operatività dell'art.119 spianando la strada ad ulteriori suoi sviluppi applicativi ed impegnandosi con la sua giurisprudenza creativa nell'allargare gli orizzonti di una politica sociale comunitaria.
La Corte ha aperto così un varco nella delimitazione fra competenze comunitarie e statali, giungendo a riconoscere una necessaria competenza comunitaria, concorrente con quella nazionale, per l'effettiva attuazione della norma del Trattato specie nella determinazione dei criteri integrativi richiesti per la sua piena applicazione, che non siano stati fissati con opportuni provvedimenti degli Stati membri.

Nella giurisprudenza successiva (sentenza 11 marzo 1981, causa 69/80, Worringham e Humphreys) la Corte comunitaria ha deciso che "l'art. 119 si applica direttamente a qualsiasi forma di discriminazione che possa venire rilevata in base ai soli criteri d'identità del lavoro e di parità di retribuzione da esso indicati, senza che provvedimenti comunitari o nazionali che determinano detti criteri siano necessari per la loro attuazione.

Un ulteriore ampliamento della portata dell'effetto diretto dell'art .119 viene realizzato con la sentenza 4 febbraio 1988, causa 157/86, Mary Murphy, nella quale si afferma che questa disposizione deve essere interpretata nel senso che si riferisce del pari, oltre che all'ipotesi della disparità di retribuzione per lo stesso 1avoro, al caso in cui chi lo invoca per ottenere una retribuzione uguale ai sensi di esso, svolga un lavoro di valore superiore a quello del lavoro della persona presa come termine di paragone.
La Corte, andando oltre il criterio dell'identità di lavoro, sostiene che il principio della parità retributiva, se vieta che, a motivo del sesso, una retribuzione inferiore venga corrisposta ai dipendenti di un certo sesso che prestano un'attività di valore uguale a quello prestato dai dipendenti dell'altro sesso, vieta a maggior ragione una disparità salariale qualora la categoria dei dipendenti che percepisce la minore retribuzione effettui un lavoro di valore superiore.
Essa aggiunge che spetta al giudice nazionale, dinanzi al quale viene fatta valere una disposizione del Trattato direttamente efficace, dare al diritto interno, in tutti i casi in cui questo gli lascia un margine discrezionale, un'interpretazione ed un'applicazione conformi alle esigenze del diritto comunitario e, qualora una siffatta interpretazione conforme non sia possibile, disapplicare le norme nazionali incompatibili.

L'evoluzione della giurisprudenza della Corte nel senso dell'ampliamento della portata dell'art.119 trova conferma anche in altre decisioni, che puntualizzano il concetto di retribuzione o individuano fattispecie di discriminazioni dirette o indirette che verranno di seguito meglio individuate.
Così nella sentenza 27 giugno 1990, causa 33/89, Kowalska, si precisa che le indennità corrisposte al lavoratore dal datore di lavoro al momento del1a cessazione del rapporto di lavoro costituiscono una forma di retribuzione differita, che spetta al lavoratore in ragione del suo impiego, ma che gli viene versata al momento del1a cessazione del rapporto di lavoro allo scopo di rendere più agevole il suo adattamento alle nuove situazioni derivanti da tale cessazione.
Pertanto tali indennità rientrano nella nozione di retribuzione ai sensi dell'art.119 del Trattato, il quale osta all'applicazione di una disposizione di un contratto collettivo, stipulato per il pubblico impiego nazionale, che consenta ai datori di lavoro di escludere dei lavoratori a orario ridotto dal godimento di un'indennità temporanea in caso di cessazione del rapporto di lavoro, quando risulti che di fatto lavora a orario ridotto una percentuale notevolmente più bassa di uomini che di donne, a meno che il datore di lavoro provi che la detta disposizione sia giustificata da fattori obiettivi ed estranei a qualsiasi discriminazione basata sul sesso.
La Corte ritiene che in presenza di una discriminazione indiretta ad opera di una disposizione di un contratto collettivo, i membri del gruppo sfavorito, uomini o donne, devono, in proporzione al loro tempo di lavoro, essere trattati allo stesso modo ed essere assoggettati allo stesso regime degli altri lavoratori, in proporzione al loro orario di lavoro; regime che, in mancanza della corretta trasposizione dell'art.119 del Trattato nel diritto nazionale, resta il solo sistema di riferimento valido.
Tale posizione della Corte viene ribadita nella sentenza 7 febbraio 1991, causa C 184/89, Nimz, nella quale vengono riportate nell'ambito di applicazione dell'art.119 anche le modalità con cui un accordo collettivo dispone il passaggio praticamente automatico, per anzianità da un livello retributivo ad un altro.
Essa giudica non conforme alla norma in esame la clausola di un contratto collettivo che preveda, ai fini dell'accesso a un 1ivello retributivo più elevato, la presa in considerazione per intero dell'anzianità per i dipendenti che prestino servizio per almeno i tre quarti dell'orario di lavoro normale, ma per la metà soltanto di tale anzianità per i dipendenti il cui orario sia compreso tra la metà e i tre quarti dell'orario normale, qualora risulti che quest'ultima categoria di fatto sia composta da una percentuale di uomini notevolmente inferiore a quella delle donne, a meno che il datore di lavoro non dimostri che la suddetta clausola del contratto collettivo sia giustificata da fattori la cui obiettività dipende, in particolare, dal rapporto tra la natura delle mansioni espletate e l'esperienza che l'espletamento di tali mansioni fa acquisire dopo un determinato numero di ore di lavoro effettuate.

In conseguenza dell'efficacia diretta orizzontale che tale norma esplica, il giudice nazionale - in presenza di una discriminazione indiretta ad opera di una disposizione di un contratto collettivo - è tenuto a disapplicare la disposizione stessa senza doverne chiedere e ottenere la previa rimozione in via di contrattazione collettiva o mediante qualsiasi altro procedimento e ad applicare ai membri del gruppo sfavorito da tale discriminazione lo stesso regime che viene riservato agli altri lavoratori.
Del resto, già nella sentenza 9 febbraio 1982, causa 12/81, Garland, la Corte - dopo avere rilevato che il fatto che un datore di lavoro, al di fuori di qualsiasi obbligo contrattuale, conceda speciali agevolazioni di viaggio ai dipendenti di sesso maschile, dopo il pensionamento, costituisce, ai sensi dell'art 119, una discriminazione a danno delle ex dipendenti, le quali non possono fruire degli stessi vantaggi - statuisce che, qualora il giudice nazionale sia in grado di accertare, in base ai soli criteri d'identità di lavoro e di parità di retribuzione, senza necessità di provvedimenti comunitari o nazionali, che la concessione di speciali agevolazioni di trasporto ai soli pensionati di sesso maschile implica una discriminazione in ragione del sesso, a tale situazione si applica direttamente l'art .119 del Trattato.

Per concludere circa la portata dell'art.119, da segnalare la sentenza 17 maggio 1990, causa 262/88, Barber, nella quale viene ulteriormente precisato il concetto di retribuzione, nel senso che le prestazioni corrisposte dal datore di lavoro ad lavoratore all'atto del licenziamento costituiscono una forma di retribuzione cui il dipendente ha diritto in ragione del suo impiego, che gli viene versato al momento della cessazione del rapporto di lavoro, per assicurargli un reddito durante la ricerca di un nuovo lavoro.
Siffatte erogazioni economiche rientrano nella sfera di applicazione dell'art.119, secondo comma del Trattato, a prescindere dal fatto che siano corrisposte in forza di un contratto di lavoro, di disposizioni di legge o volontariamente.

Rientrano altresì tra i vantaggi corrisposti eventualmente in modo indiretto dal datore di lavoro al lavoratore, in ragione dell'impiego di quest'ultimo, le pensioni versate dai regimi professionali privati, caratterizzati dal fatto di essere istituiti in esito ad una concertazione tra le parti sociali ovvero ad una decisione unilaterale del datore di lavoro, che il loro finanziamento sia interamente a carico del datore di lavoro o di quest'ultimo e dei lavoratori, che la legge ammette che con il consenso del lavoratore si sostituiscano in parte al regime legale e che riguardano solo i lavoratori di talune imprese.

Secondo la Corte, la norma del Trattato non consente la fissazione di un requisito di età che varia secondo il sesso per le pensioni versate nel contesto di un regime professionale privato che si sostituisce in parte al regime legale, anche se la differenza tra l'età di pensionamento degli uomini e quella delle donne è analoga a quella stabilita dal regime legale nazionale.

A giudizio della Corte, in materia di parità di retribuzione fra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile, una vera trasparenza, che consenta un controllo efficace, è garantita solo se il principio di uguaglianza deve essere rispettato per ciascun elemento della retribuzione corrisposta agli uomini e alle donne e non globalmente per il complesso dei vantaggi connessi agli uni ed alle altre.
La Corte ribadisce, come già nella sentenza 25 maggio 1971, causa 82/70, Defrenne I, che le prestazioni corrisposte dai regimi legali nazionali di previdenza sociale ( nella fattispecie in esame, la pensione di vecchiaia) non rientrano nella nozione di retribuzione, in quanto il contributo del datore di lavoro al loro finanziamento non costituisce pagamento indiretto di vantaggi al lavoratore, poiché tali regimi non sono stati stabiliti in funzione del rapporto di lavoro, ma in base a considerazioni di politica sociale e i vantaggi che ne ricavano i lavoratori non dipendono dal contributo del datore di lavoro, ma dal possesso dei requisiti di legge.

Per altro verso, la Corte nella sentenza 15 gennaio 1978, causa 149/77, Defrenne III, precisando che l'art. 119 si pone come regola speciale rispetto agli art. 117 e 118 del Trattato CEE, ha affermato che esso non si applica all'eguaglianza di trattamento nelle condizioni di lavoro.

L'introduzione, accanto al principio della parità di retribuzione, del più ampio principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione ed alla promozione professionale, nonché le altre condizioni di lavoro, quindi tutti gli aspetti del rapporto di lavoro, si è in effetti realizzata con una apposita Direttiva del Consiglio, la nr. 76/207 del 9 febbraio 1976, che in Italia ha trovato attuazione in larga parte nella legge n. 903 del 9 dicembre 1977.
Essa, nonostante l'accusa di aver proibito la discriminazione per motivi di sesso limitatamente ad alcune condizioni di lavoro, in virtù del divieto generale di discriminazione contenuto nell'art.13 è stata riconosciuta con la sentenza 26 ottobre 1983 (causa C 163/82 - Commissione contro Italia) dalla Corte di Giustizia pienamente conforme alla Direttiva Comunitaria n.76/207, che viene emanata un anno dopo la Direttiva n.75/117 del 10 febbraio 1975, per il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative all'applicazione del principio della parità della retribuzione fra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile.
Tale atto comunitario vincolante per gli Stati membri estende la parità retributiva anche al lavoro al quale è attribuito "valore eguale".
Inoltre, sancisce che quando un sistema di classificazione professionale sia utilizzato per la determinazione delle retribuzioni, esso debba usare parametri comuni ai lavoratori dei due sessi.
In merito, la decisione della Corte di Giustizia, sentenza 1/7/1986, causa 237/85, Rummler, precisa che in via generale la succitata Direttiva non osta a che un sistema di classificazione professionale, ai sensi dell'art.1, 2° comma, usi per determinare il livello retributivo il criterio dell'impegno o sforzo muscolare o del grado di pesantezza del lavoro manuale, qualora, tenuto conto della natura delle mansioni, il lavoro da compiere esiga effettivamente una certa forza fisica, purché, mediante la presa in considerazione degli altri criteri, esso sia in grado di escludere nel suo complesso, qualsiasi discriminazione basata sul sesso.
In particolare dalla Direttiva emerge:
  1. che i criteri per l'inquadramento ai vari livelli retributivi devono garantire la stessa retribuzione per lo stesso lavoro obiettivamente considerato, indipendentemente dal fatto che sia svolto da un uomo o da una donna;
  2. che il basarsi su valori corrispondenti alle prestazioni medie dei 1avoratori di un solo sesso, onde determinare l'entità dell 'impegno o sforzo richiesto dal lavoro o la sua eventuale pesantezza, costituisce una forma di discriminazione basata sul sesso, vietata dalla Direttiva;
  3. che per non essere discriminatorio nel suo complesso, il sistema di classificazione professionale deve tuttavia prendere in considerazione, qualora lo consenta la natura delle mansioni da svolgersi nell'impresa, dei criteri in relazione ai quali i lavoratori di entrambi i sessi possano possedere particolari attitudini.
Sempre, con riferimento alla Direttiva 75/117 la Corte di Giustizia delle Comunità europee nella sentenza del 17 ottobre 1989, causa 109/88, Danfass, ha puntualizzato due aspetti particolarmente rilevanti che per certi versi vanno oltre l'ambito specifico della parità di trattamento fra uomo e donna:
  1. l'obbligo per il datore di lavoro di osservare un criterio di trasparenza nella gestione dei sistemi retributivi applicati al proprio personale dipendente;
  2. l'onere della prova per l'accertamento delle pratiche di discriminazione specialmente della "discriminazione indiretta", l'individuazione della quale - come detto in precedenza - è stata ripetutamente oggetto della giurisprudenza Comunitaria.
La Corte afferma che, qualora un'impresa applichi un sistema di retribuzione caratterizzato da una mancanza totale di trasparenza, il datore di lavoro ha l'onere di provare che la sua prassi salariale non è discriminatoria, ove il lavoratore di sesso femminile dimostri, su un numero relativamente elevato di lavoratori, che la retribuzione media dei lavoratori di sesso femminile sia inferiore a quella dei lavoratori di sesso maschile.
Quando risulta che l'applicazione dei criteri in aumento, quali la flessibilità, la formazione professionale o l'anzianità del lavoratore sfavorisce sistematicamente il lavoratore di sesso femminile, il datore di lavoro può giustificare il ricorso al criterio della flessibilità se esso viene inteso come attinente all'adattabilità ad orari e luoghi di lavoro variabili, dimostrando che tale adattabilità riveste importanza per l'esecuzione dei compiti specifici che sono affidati al lavoratore, ma non se tale criterio viene inteso nel senso che si riferisce alla qualità del lavoro svolto dal lavoratore; il datore di lavoro può giustificare il ricorso al criterio della formazione professionale dimostrando che tale formazione riveste importanza per l'esecuzione dei compiti specifici che sono stati affidati al lavoratore; egli non deve particolarmente giustificare il ricorso al criterio dell'anzianità, poiché quest'ultima va di pari passo con l'esperienza, la quale pone generalmente il lavoratore in grado di meglio svolgere le sue prestazioni.

Si tratta indubbiamente di una sentenza di importanza fondamentale per reprimere, in particolare nel campo del lavoro, le discriminazioni sessuali, specie indirette.

La decisione della Corte appare senz'altro equilibrata, in quanto - pur non negandosi in generale la possibilità di adottare parametri differenziali di retribuzione - essa rileva come dietro l'applicazione di certi criteri soggettivi di maggiorazione salariale potrebbe celarsi l'insidia di una discriminazione indiretta, una fattispecie insidiosa proprio perché difficile da definire quanto da individuare, come dimostra lo sforzo fatto dal legislatore italiano, nel definirla nell'art.4 della Legge n. 125/91.
Essa è stata, comunque, individuata dalla stessa Corte di Giustizia europea in una qualsiasi "misura che, apparentemente neutra, svantaggia di fatto in modo prevalente i lavoratori di un sesso, senza essere obiettivamente giustificata", secondo il dispositivo della sentenza del 31 marzo 1981, causa 36/80, Jenkis.
In quest'ultima decisione la Corte ha asserito che una retribuzione oraria inferiore per i lavoratori a tempo parziale rispetto a quelli a tempo pieno è discriminatoria, ove la percentuale delle donne che lavorano part-time nella stessa impresa sia notevolmente superiore a quella degli uomini.
Il datore di lavoro potrebbe sottrarsi all'accusa soltanto dimostrando che la differenza retributiva era necessaria al raggiungimento di obiettivi cui era estranea qualsiasi discriminazione sessuale.
Quindi, il concetto di "discriminazione indiretta" definisce l'effetto differenziato sui singoli individui di un certo sesso di criteri formalmente uniformi; la peculiarità della "discriminazione indiretta" riposa sull'irrilevanza dell'intento discriminatorio ai fini dell'integrazione della fattispecie tipica.

Si tratta di prassi che, pur legittime nella forma, sono discriminatorie nell'applicazione: ciò si verifica quando si rileva che una prassi ha un effetto sproporzionato sulle donne, nel senso che più donne che uomini sono negativamente colpite dalla stessa, o meglio meno donne che uomini possono soddisfare una determinata richiesta, a causa di fattori sociali ed economici, come le responsabilità delle donne riguardanti la cura dei figli, che le penalizzano nel mondo del lavoro extracasalingo.
Vengono così messi in risalto gli aspetti sociali e collettivi della disuguaglianza, in modo tale da evidenziare quella condizione di fattori, di diversa natura, determinanti la disparità nei punti tanto di partenza, quanto di arrivo, permettendo di cogliere meglio la dimensione più spesso collettiva che individuale della discriminazione.
Per stabilire, infatti, se una prassi ha effetti negativi, deve osservarsi il comportamento abituale del gruppo di appartenenza del soggetto che si reputa discriminato, cioè nel caso di specie la lavoratrice la quale lamenta una disparità di trattamento retributivo rispetto ai colleghi di sesso maschile; all'uopo il riscontro della discriminazione indiretta dovrebbe aversi allorché, pur in presenza di requisiti comuni per i due sessi, questi possono essere soddisfatti in proporzione ad un numero di donne considerevolmente inferiore rispetto a quello degli uomini.
Ciò apre la porta - ed è questa una delle affermazioni più interessanti della sentenza che si sta esaminando - alla prova statistica, vale a dire ad una valutazione comparativa dei trattamenti rispettivamente dei lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile; questa scelta è stata poi condivisa dal nostro legislatore nell'art. 4 della legge 10 aprile l991, n. 125: ed invero, la nozione della discriminazione indiretta conduce logicamente alla prova statistica; una discriminazione sistematica non potrebbe essere trovata che attraverso una valutazione qualitativa dei suoi effetti.
Ora, è indubbio che dal riconoscere l'ammissibilità di una prova siffatta, ne consegue il passaggio ad un regime probatorio più favorevole alle presunte vittime di comportamenti discriminatori.
Se, infatti, una delle ragioni di ineffettività della tutela processuale predisposta dai legislatori nazionali nei confronti della discriminazione è da rinvenirsi nella difficoltà che di norma il soggetto discriminato incontra a provare la sussistenza del fatto illecito, questo è tanto più vero allorché si è in presenza di discriminazioni indirette.

La Corte Europea pertanto giustamente ha deliberato che, in una situazione dove è in causa un meccanismo di maggiorazione del salario individuale caratterizzato da una mancanza totale di trasparenza, le lavoratrici non possono che fare riferimento alle differenze tra retribuzioni medie.
Esse saranno private di ogni mezzo efficace per far rispettare il principio della parità retributiva, davanti alla giurisdizione nazionale, se il fatto di apportare questa prova non avrà per effetto di imporre al datore di lavoro l'onere di dimostrare che la sua pratica salariale non è in realtà discriminatoria, in quanto le sue scelte sono giustificabili, a prescindere dalla diversità sessuale, per "ragioni obiettive" dell'impresa: come risulta da una precedente sentenza del 13 maggio 1986, causa 170/84, Bilka, nella quale viene asserito che un'impresa può giustificare I'adozione di una politica salariale che comporti l'esclusione dei lavoratori ad orario ridotto (prevalentemente donne) dal regime pensionistico aziendale, sostenendo che essa non è indirettamente discriminatoria, solo qualora sia accertato che:
  1. i mezzi scelti per raggiungere tale obiettivo rispondono ad un'effettiva esigenza dell'impresa;
  2. sono idonei a raggiungere l'obiettivo in questione;
  3. sono a tal fine necessari.
Ciò implica, per il datore di lavoro innanzitutto, l'onere di provare che l'azione ad effetto indirettamente discriminatorio abbia efficacemente contribuito a realizzare le esigenze oggettive dell'impresa; dimostrando, in secondo luogo, che i mezzi da lui scelti sono adeguati allo scopo perseguito, mentre comportamenti indirettamente discriminatori non sono ammissibili qualora il medesimo risultato possa essere conseguito altrimenti.

L'importanza di questa giurisprudenza della Corte Comunitaria è di aver anticipato, per via giudiziaria, quanto previsto in una proposta di Direttiva, presentata dal Consiglio CEE il 24 maggio 1988, sull'onere della prova nel campo della parità di retribuzione e dell'uguaglianza di trattamento fra uomini e donne; si prevede che l'interessato potrebbe limitarsi a fondare la presunzione della discriminazione, diretta o indiretta, sulla base di un fatto o di una serie di fatti indiziari, in modo che spetti al datore di lavoro controbattere siffatta presunzione.
In altri termini, qualora il dipendente fornisca un serio indizio dell'esistenza della discriminazione, incombe al datore di lavoro provare che la differenza di trattamento è1egittima.
Nonostante questa proposta a tutt'oggi non sia stata approvata, il nostro Paese si è adeguato con il già citato art. 4 della legge n. 125/1991 alle indicazioni comunitarie.
Ai sensi dell'art.6 della Direttiva n. 75/11 7, invero, gli Stati membri debbono prendere, conformemente ai loro sistemi giuridici, le misure necessarie per garantire l'applicazione del principio di parità di trattamento ed assicurarsi dell'esistenza di mezzi efficaci per una effettiva realizzazione dell'uguaglianza; il che implica anche la possibilità di regole innovative relativamente all'onere della prova.

L'ampia analisi che è stata fatta delle pronunce della Corte evidenzia come nel corso di oltre un ventennio - la prima sentenza in materia è infatti del 1971 - la giurisprudenza della stessa abbia cercato di mettere a fuoco, e non senza qualche ombra, la ratio della regolamentazione comunitaria sulla parità uomo/donna in materia di lavoro, precisandone il campo applicativo oggettivo e soggettivo, sulla base della convinzione che la politica sociale della Comunità va concepita come degna finalità a sé stante e non soltanto come rimedio ai negativi effetti sociali del progresso economico.
È, infatti, a seguito dell'elaborazione ad opera della commissione e dell'approvazione da parte del Consiglio in data 21 gennaio 1974 di un Programma di azione sociale, teso a ridurre le disparità nelle condizioni di vita, nonché a migliorare la qualità della vita e il tenore di vita della popolazione della Comunità, che vengono adottate, oltre quelle due già esaminate, altre tre Direttive in materia di parità: la 79/7 del l9 dicembre 1978, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento fra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale; la 86/378 del 24 luglio 1986, relativa all'attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne nel settore dei regimi professionali di sicurezza sociale; la. 86/613 dell '11 dicembre 1986, relativa all'applicazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne che esercitano un'attività autonoma, ivi comprese le attività nel settore agricolo e relativa altresì alla tutela della maternità.
Nella nuova prospettiva politica più sensibile alla tematica sociale, che sfocerà nella Carta Comunitaria dei diritti sociali fondamentali (1989), si ampliano gli spazi di intervento comunitario anche in materia di parità non solo grazie all'intervento del Consiglio, ma anche mercé l'azione della Corte di Giustizia, che è tuttavia istituzionalmente limitata: l'accertamento ha per oggetto esclusivamente l'applicazione delle norme di cui il giudice razionale domanda l'interpretazione o la Commissione CEE assume l'inadempimento; inoltre, la Corte esamina soltanto quei provvedimenti del legislatore nazionale allegati in giudizio dallo Stato membro per dimostrare l'esecuzione dell'obbligo comunitario, mentre restano esclusi dall'area oggettiva del giudicato i provvedimenti interni non adottati in giudizio.

Una preoccupazione che attraversa orizzontalmente tutte le pronunce della Corte in materia è quella di dare effettività al principio di parità. Questo obiettivo viene perseguito innanzitutto attraverso l'applicazione, anche in questo campo, del principio della efficacia dell'art. 119 e delle Direttive che disciplinano la materia.

Il fatto che l'art.119 sia formalmente indirizzato agli Stati non impedisce - come si è già ampiamente visto - di attribuire i diritti da esso derivanti ai singoli individui che abbiano interesse alla sua attuazione (efficacia verticale o orizzontale); le Direttive sono provviste di efficacia diretta non solo verticale tutte le volte che le disposizioni in esse contenute sono incondizionate e sufficientemente precise: i singoli potranno allora invocarle nei confronti dello Stato membro che non le abbia attuate correttamente.
In tal senso si esprime la sentenza 12 1uglio 1990, causa C188/89, Foster, che riconosce efficacia diretta all'art.5 n.1 della Direttiva 76/207, nonché la sentenza 24 giugno 1987, causa 384/85, Borrie Clarrke, che ha riconosciuto efficacia diretta all'art.4 n.1 della Direttiva n.79/7.
Così anche, la sentenza 25 luglio 1991, causa 345/89, Stoekel, ha riconosciuto all'art.5 della Direttiva n. 76/207 un'efficacia esclusivamente verticale, dalla quale deriva l'obbligo per gli Stati membri di non stabilire come principio legislativo il divieto di lavoro notturno delle donne, anche se derogabile, qualora non sia previsto alcun divieto di lavoro notturno per gli uomini.

Successivamente, però, con la sentenza 2 agosto 1993, causa 158/91, Levy, la stessa Corte ha parzialmente ridimensionato la portata della precedente pronuncia, affermando che il giudice nazionale deve garantire l'osservanza del citato art.5, disapplicando ogni altra disposizione contraria della normativa nazionale, a meno che l'applicazione di tale norma sia necessaria ad assicurare l'esecuzione, da parte dello Stato membro interessato, di obblighi derivanti da una Convenzione conclusa con gli Stati terzi, precedentemente all'entrata in vigore del Trattato CEE.
Pertanto, il giudice italiano avrebbe potuto continuare ad applicare l'art.5 della legge n. 903/1977 - diversamente da quanto sostenuto dal Tribunale di Catania nella sentenza dell'8 luglio 1992, confermata dalla Cassazione con decisione 3 febbraio 1995 n. 1271, sulla base della citata decisione del '93 della Corte Comunitaria, almeno fino alla ratifica da parte dell'Italia della nuova Convenzione dell'OIL n. 171 del 16 giugno 1990; invece il nostro governo ha denunciato la Convenzione OIL n. 89 del 1948, resa esecutiva con la legge 2 agosto 1952 n.1305, quindi prima del Trattato CEE.

Tralasciando questo aspetto, altri profili meritano considerazione in questa sede. All'uomo è opportuno ricordare che in Italia, la regolamentazione del lavoro femminile notturno era contenuta nella legge n. 653 del 1934 che, con il combinato disposto degli articoli 12 e 13, faceva divieto alle aziende industriali e alle dipendenze di queste di adibire le donne di qualunque età e i minori di anni 18, ad un'attività che non prevedesse un periodo giornaliero di riposo di almeno 11 ore consecutive, comprendenti l'intervallo tra le 22 e le 5. L'aver assimilato le donne ai minori lascia chiaramente capire che l'intento principale - ma non unico - della legge fosse quello di proteggere quanti non sono dotati di un organismo abbastanza forte da sopportare i rischi fisici e psichici derivanti da condizioni di lavoro particolarmente gravose.

Lo spazio lasciato dalla legge a possibili deroghe era limitatissimo e riguardava i casi di donne che avessero compiuto 16 anni e adibite "a 1avori che per loro natura devono essere necessariamente continuati giorno e notte" (art. 14).
L'integrazione apportata dalla Convenzione OIL del 1948 si è limitata ad introdurre la possibilità di deroga al generale divieto di lavoro notturno femminile in casi di "forza maggiore": la rigidità di tale divieto ha portato all'incostituzionalità di quelle norme del '34.

Con l'emanazione della Direttiva CEE n. 76/207 viene completamente capovolta la prospettiva di valutazione della prestazione lavorativa notturna delle donne: all'art.5, 1° comma, questa dispone che "l'applicazione del principio della parità di trattamento, per quanto riguarda le condizioni di lavoro... implica che siano garantite agli uomini e alle donne le medesime condizioni, senza discriminazioni sul sesso"... "dagli Stati membri devono essere prese le misure necessarie affinché siano riesaminate quelle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative contrarie al principio della parità di trattamento, originariamente ispirate a motivi di protezione non più giustificati. . . " (2° comma).

La Direttiva ha inoltre previsto, all'art.9, un termine massimo di 30 mesi dalla sua notificazione per l'emanazione di disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative, conformi ai principi della stessa.
Un termine più lungo (quattro anni) è stato concesso per la revisione delle disposizioni contrarie ai principi su citati, allorché la necessità di protezione che li ha ispirati all'origine non sia più fondata.

Di fronte a queste prospettive paritarie il legislatore italiano si è adeguato con solerzia riconsiderando la materia del lavoro notturno femminile nella legge del 1977 n. 903.
L'art. 5, infatti, che sostituisce la disciplina dettata dalla legge n. 653, restringe l'ambito del divieto notturno innanzitutto dal punto di vista temporale: dall'intervallo tra le ore 22 e le 5, previsto dalla legge 653 del 1934, si passa a quello tra le 24 e le 6 dell 'art. 5 della legge 903/77.

La novità di maggiore rilievo introdotta dall'art.5 è però quella contenuta al 1° comma: il divieto del lavoro notturno può essere diversamente disciplinato o rimosso dalla contrattazione collettiva, anche aziendale.

In concreto, però, questa norma, se da una parte ha superato il vaglio di legittimità costituzionale del nostro giudice delle leggi - la vigente regolamentazione del lavoro notturno delle donne, infatti, è stata giudicata conforme al dettato costituzionale dai giudici di palazzo della Consulta con la sentenza n. 246 del 6 luglio 1987, nella quale si afferma che la disciplina del lavoro notturno introdotta con l'art.5 della legge n. 903/77, si è rilevata particolarmente "flessibile ed equilibrata, capace di coniugare l'esigenza di protezione della donna lavoratrice con la necessità di non disincentivare le assunzioni di manodopera femminile - dall'altra è stata ritenuta in contrasto proprio con la Direttiva n.76/207 dalla Corte di Giustizia della CEE con l'ormai celebre sentenza del l991.

In questa causa si poneva il problema di decidere se il divieto di lavoro notturno per le donne, previsto dal diritto francese, fosse compatibile con il principio di parità di trattamento tra uomini e donne quale risulta dalla Direttiva europea del 9 Febbraio 1976.
Più precisamente, la sentenza ha risolto una questione pregiudiziale d'interpretazione dell'art.5 della Direttiva del 1976 n. 207, sollevata da un giudice francese.
Nel giudizio, il governo francese aveva sostenuto che il divieto di lavoro notturno per le donne, accompagnato da numerose deroghe, risponde a generali finalità di protezione della manodopera femminile e a considerazioni di ordine sociale; ma la Corte, davanti alla quale il governo italiano era intervenuto adesivamente, ha respinto tale tesi replicando che le pur numerose deroghe poste dalle legislazioni francesi e italiane non sono sufficienti a garantire il rispetto pieno della Direttiva.

Il principio affermato è il seguente: "l'art.5 della Direttiva del Consiglio 1976 n.76/207, relativa all'attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione, alla promozione professionale, e le condizioni di lavoro, è sufficientemente preciso per far sorgere a carico degli Stati membri l'obbligo di non vietare per legge il lavoro notturno delle donne, pur dove tale obbligo comporti delle deroghe, mentre non esiste alcun divieto di lavoro notturno per gli uomini".

Questa affermazione merita di essere analizzata per dedurre la criticabile nozione di parità che la ispira: una parità esclusivamente formale, non sostanziale.
In effetti, la Corte pare avere sottovalutato gli argomenti portati dal governo francese e italiano a sostegno della permanenza in ambedue gli ordinamenti di divieti legali di lavoro notturno per le donne.
L'Italia, ad esempio, nelle sue conclusioni sul caso, aveva presentato due ragioni che giustificavano una protezione speciale delle donne dal lavoro notturno: i rischi specifici di aggressione sessuale durante la notte e le particolari responsabilità familiari che gravano sulle donne.
Ma le considerazioni che gli uomini e le donne non sono nei fatti nella stessa posizione rispetto ai rischi di aggressione sessuale o alle responsabilità familiari e che, di conseguenza, l'eguaglianza sostanziale consiste nel trattare in diritto in modo diverso tali diverse situazioni, è una concezione respinta dalla Corte adducendo a motivo che si tratta ai "preoccupazioni estranee all'obiettivo della Direttiva", che dunque non rientrano nel concetto di protezione della donna ai sensi del 3° comma dell'art.2.

Tale atteggiamento torna a "separare radicalmente l'eguaglianza formale nella vita professionale (oggetto della Direttiva) e le inuguaglianze sostanziali nella vita extraprofessionale".

È evidente a cosa conduce questo modo di ragionare: giudicando la vita privata dei lavoratori una "preoccupazione estranea" al diritto del lavoro, verrebbero necessariamente giudicate contrarie al diritto di eguaglianza formale tra i lavoratori tutte le misure che hanno lo scopo di facilitare la vita del lavoratori con responsabilità familiari.
Invero, la rimozione del divieto del lavoro notturno femminile non potrebbe oggi non essere supportata, a mio parere, dall'adozione di "azioni positive".

Invece, in ambito comunitario, le valutazioni di tutte le misure giuridiche diseguali (tra le quali rientrano a buon diritto le vecchie norme di "tutela" femminile, ma anche alcune fra le più recenti disposizioni promozionali come le "quote") sono guardate con molto sospetto.
Legislatore e giudice comunitario pensano che, salvo limitate e giustificate eccezioni, ogni differenza di trattamento fondata sul sesso costituisca "discriminazione"; per discriminazione intendono, allora, la "diseguaglianza" in sé (intesa come norma specifica), e non le conseguenze sfavorevoli di una diseguaglianza di regolamentazione priva di giustificazione.
Il diritto comunitario cammina in questo modo verso l'eliminazione graduale, ma totale, delle misure giuridiche diseguali, sia di quelle "vetero-protettive", che di quelle "promozionali".

Il significato della sentenza Stoeckel può, quindi, essere ragionevolmente ridotto alla condanna del vecchio modo di proteggere il lavoro femminile, caratteristico delle legislazioni dello scorso secolo e della prima metà di quello che sta finendo.
Sembra, dunque, che la Corte di giustizia si sia limitata solo a giudicare negativamente quelle misure che, in nome della protezione, escludono le donne da qualche tipo di lavoro o da qualche settore di attività senza alcun richiamo alle azioni positive, per superare le attuali disparità di fatto. Lo strumento utilizzato dalla Corte è stato quello di eliminare il limite discriminatorio (in quanto diseguale); per eliminarlo ha dovuto dire che il limite non giustificato, e per negare la giustificazione ha dovuto però negare anche l'evidenza.
Infatti, se l'esistenza di maggiori rischi può essere discutibile - ma non tanto - la maggiore penosità del lavoro notturno per le donne, dovuta anche all'ineguale distribuzione delle responsabilità familiari, non può tuttora essere negata.

Non resta alla Corte che ricorrere ad un argomento "tecnico": 1e preoccupazioni relative all'organizzazione della famiglia e alla ripartizione delle responsabilità familiari sono del tutto estranee alla Direttiva 75/207, dato che 1e sue disposizioni sono rivolte a garantire la parità di trattamento nel lavoro e non nella famiglia.

In conclusione, mentre il diritto italiano continua ad affrontare talune specificità del lavoro femminile affidando ai divieti la salvaguardia dei diritti delle donne alla salute e alla sicurezza, e dunque eterodirigendo le donne, il diritto comunitario sceglie la strada dell'autodeterminazione delle donne, conferendo loro dei diritti e lasciandole libere di esercitarli. Così facendo, il diritto comunitario pensa a donne già eguali sia in diritto che nei fatti; ignora, però, la realtà di una larga parte dell'Europa nella quale le donne sono uguali in diritto, ma nei fatti sono ancora molto lontane dall'eguaglianza.
Perciò necessitano - a mio parere - allo stato attuale misure "promozionali" del lavoro femminile in luogo della vecchia legislazione protettiva che va abolita secondo la Direttiva CEE.

Conformemente a questa visione della parità piuttosto in senso formale la Corte ribadisce nella sentenza del 15 maggio 1986, causa 222/84, Johnston, che la disposizione (art.2,n.2 e n.3) della Direttiva 76/207 che ammette deroghe alla parità di trattamento degli uomini e delle donne in fatto di accesso al lavoro e di condizioni di lavoro deve essere interpretata restrittivamente.
Eccettuate le norme a protezione della gravidanza e del puerperio, la tutela della donna che essa nomina non comprende la tutela contro i rischi e i pericoli che non riguardino specificatamente le donne come tali, come - nel caso in specie - quelli cui è esposto il poliziotto armato nell'esercizio delle sue funzioni.
Pertanto, solo le differenze fisiologiche tra uomini e donne possono giustificare trattamenti differenziali in casi limitati: ad esempio, quando si debbano assicurare misure specifiche a salvaguardia della salute della donna.

D'altra parte, però, questa concezione formale del principio di parità di trattamento fra lavoratori e lavoratrici ha il limite di portare ad un'insufficiente considerazione, da parte della Corte di Giustizia, di quelle "misure volte a promuovere la parità di opportunità tra uomo e donna, in particolare ponendo rimedio alle disparità di fatto che pregiudicano le opportunità delle donne", pur previste dall'art.2, comma4, di cui è ammessa la compatibilità con il principio di non discriminazione; in altri termini quelle "azioni positive", di cui viene sollecitata l'adozione anche nella Raccomandazione 84/635/CEE del 13 dicembre 1984 e nei quattro Programmi Comunitari a medio termine per le parità di opportunità per le donne 1982-85; 1986-1990;1991-1995;1996-2000.

Con questi programmi la Comunità Europea si è proposta di incrementare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e di valorizzare il loro contributo alla vita economica e sociale, favorendone l'occupazione e la carriera specie nei settori in cui sono sottorappresentate, grazie anche all'adozione di azioni positive che, sulla base dell'art.2 comma 4 della Direttiva, consentono d'intervenire per innalzare la soglia di partenza della categoria svantaggiata, al fine di assicurare uno stato effettivo di pari opportunità.

L'azione positiva dovrà dunque essere diretta, intervenendo ad esempio sull'orientamento scolastico e sulla formazione professionale, alla rimozione degli ostacoli che impediscono alle donne la parità di opportunità.
L'azione positiva non potrà invece essere diretta a garantire alle donne una parità di risultati nell'occupazione di posti di lavoro, dunque nei posti di arrivo, a titolo di compensazione per le discriminazioni storicamente subite.
Insomma, l'azione positiva non può non essere considerata, tanto meno utilizzata, come un mezzo per restaurare, attraverso misure discriminatorie, una situazione di eguaglianza ferita nel passato".

In queste conclusioni, fatte proprie dalla Corte di Giustizia, si registra a mio avviso una maggiore cautela rispetto a quanto rilevato dalla Corte Costituzionale italiana nella sentenza 24/26 marzo 1993, n.109, sia pure con specifico riferimento alle misure previste dalla legge 25 febbraio 1992, n.225, azioni positive per lo sviluppo dell'imprenditorialità femminile.
Viene dalla nostra Corte ammessa la legittimità costituzionale delle azioni positive a favore delle donne, quindi anche di quelle disciplinate dagli articoli 1,2 e 3 della legge n.125/1991, che trovano il loro fondamento nel comma 2 dell'art.3 della Costituzione italiana, cioè nel principio di uguaglianza sostanziale, anche in deroga al generale principio di formale parità di trattamento, stabilito dal comma &.
Il risultato da raggiungere con le azioni positive, infatti, è quello di redistribuire a favore dei gruppi svantaggiati, su di una base proporzionale, le opportunità di accedere a benefici e risorse.
Orbene, le leggi n.125/91 e n.215/92 si propongono proprio di realizzare siffatto obiettivo a favore di uno di questi gruppi socialmente svantaggiati, le donne appunto.

La nostra Corte Costituzionale pare tenda ad avallare nella sentenza citata una nozione ampia di di azioni positive, più di quella che è stata accolta a livello comunitario dalla Corte di Giustizia.
Specie nella sentenza del 17 ottobre 1995, relativa ad un procedimento avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta a norma dell'art.177 del Trattato - domanda vertente sull'interpretazione dell'art.2, n.1 e 4 della Direttiva n.76/207 - la Corte assume un atteggiamento molto restrittivo, quasi di chiusura di fronte ad alcune misure che si propongono di realizzare nei fatti la parità sostanziale.

Chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dell'art.4 del Landespleichstellungsgesetz 20 novembre 1990 (legge del Land di Brema relativa alla parità fra uomini e donne nel pubblico impiego), il quale dispone - come si è detto - che sia nell'assunzione che nella promozione venga data precedenza alle candidate di sesso femminile, a parità di qualificazione, rispetto agli uomini, qualora esse siano sottorappresentate, la Corte ha sentenziato che una siffatta normativa nazionale va oltre la promozione della parità ed eccede i limiti della deroga prevista dalla Direttiva.

Nonostante il rilievo dato dal terzo "considerando" della già richiamata Raccomandazione 13 dicembre 1984 - per cui "le disposizioni normative esistenti in materia di parità di trattamento, intese a conferire diritti agli individui, sono inadeguate per eliminare tutte le disparità di fatto, a meno che non siano intraprese azioni parallele da parte dei governi, delle parti sociali e degli altri enti interessati, per controbilanciare gli effetti negativi risultanti per le donne, nel campo dell'occupazione, da atteggiamenti, comportamenti e strutture sociali" - la Corte conclude che la preferenza accordata alle donne, sempre che ne ricorrano le condizioni indicate, "in quanto mira a far sì che le donne siano rappresentate in pari misura rispetto agli uomini in tutte le categorie retributive e in tutti i livelli di un servizio, sostituisce all'obiettivo della promozione della parità di opportunità, di cui all'art.2 n.4, un risultato al quale si potrebbe pervenire solo mediante l'attuazione di tale obiettivo".
Nulla viene detto su come raggiungere il traguardo di una effettiva parità, mentre il giudice nazionale nell'ordinanza di rinvio giustamente evidenziava che un regime di quote, come quello controverso, può contribuire per il futuro a superare svantaggi tuttora subiti dalle donne e che perpetuano le ineguaglianze del passato, in quanto esso crea l'abitudine di vedere le donne ugualmente impegnate nello svolgimento di alcune funzioni più prestigiose".

Inoltre egli esattamente ha puntualizzato che "la tradizionale assegnazione delle donne a determinate attività e la concentrazione del lavoro femminile in posti che occupano un rango inferiore nella gerarchia professionale sarebbero in contrasto con i canoni di parità giuridica attualmente in vigore". Ed in effetti in molti paesi si possono affermare principi generali avanzati per i cittadini, ma allo stesso tempo non ci si impegna a sviluppare le politiche sociali per attuarli.
Orbene, come rilevato dal Bundesarbeitsgericht, nella fattispecie non ricorre un regime di quote rigido che riservi alle donne una determinata percentuale dei posti vacanti, prescindendo dalle loro qualificazioni, tanto che il giudice nazionale lo ritiene compatibile con le norme costituzionali e legislative tedesche, interpretando la disposizione controversa "nel senso che, sebbene in linea di principio la preferenza debba essere accordata alle donne in caso di promozione, l'equità impone tuttavia di fare un'eccezione a questo privilegio ove sia necessario".

Si è in presenza, quindi, di un provvedimento che, pur apparendo discriminatorio, mira a perseguire "lo scopo di migliorare l'attitudine delle donne a concorrere sul mercato del lavoro ed a proseguire nella carriera in posizione di parità rispetto agli uomini".
Ma la Corte di Giustizia, sorda a tali esigenze di ordine sociale, ha considerato prioritario il salvaguardare la parità formale e ha ritenuta illegittima una disposizione finalizzata a realizzare direttamente la parità sostanziale.

Questo atteggiamento a livello CEE più favorevole ad una uguaglianza formale può far sorgere il dubbio che il principio della parità nel lavoro tra i due sessi abbia trovato un terreno favorevole per germogliare e crescere nell'ordinamento comunitario, incidendo - è vero - positivamente anche negli ordinamenti nazionali, in quanto però non confligge con i prevalenti interessi economici, ai quali, più che ad istanze di carattere sociale, sembra tuttora sensibile l'Unione Europea.
Invero, i padri dell'Europa si sono mossi secondo un'ottica liberista: non a caso l'attuale Unione nasce nel 1967 come Mercato Europeo Comune, nel quale la politica sociale è strettamente in funzione del buon funzionamento del mercato, improntato alla regole della "libera concorrenza".

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5.7. Bettina Corke
delegata dell'Independent Forum for Advancement of Women presso la FAO, Roma


Dice che fino a che le donne non si misureranno con la politica ad alto livello, rimarranno senza potere.
Dobbiamo porre al primo posto le rivendicazioni collettive di progresso e la necessità dell'organizzazione al di sopra dei problemi individuali e sessuali.
Dobbiamo trovare il tempo di discutere i modi per applicare le risoluzioni.
Non possiamo discutere del lavoro fuori dal contesto dell'economia globale.
Il 60% del denaro liquido resta denaro liquido.
Solo il 6% finisce nel commercio. La democrazia è solo una tecnica, una copertura di questa realtà.
Per quanto importante sia la violenza sessuale, dobbiamo considerarla nel contesto della violenza strutturale.

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5.8. Empowerment al femminile
Bianca Rosa Gelli, Osservatorio Donna dell'Università di Lecce


L'empowerment rappresenta un concetto chiave della psicologia di Comunità. Nella letteratura di questa disciplina esso infatti è considerato il suo obiettivo di fondo.

Ma, come C.Picardo (1995) annota, il termine è già presente sin dagli anni '60 nella letteratura politica, all'interno della moderna teoria della democrazia e del movimento dei diritti civili, nello sviluppo del terzo mondo, nei movimenti che fanno capo a minoranze e, last but not least, nei movimenti femminili.

L'area dei significati del termine sembra così allargarsi e per alcuni versi andare oltre quello che il costrutto suggerisce in Psicologia di Comunità.

Sin qui, infatti, al concetto di empowerment sono stati attribuiti significati quali : rendere potenti, attivare risorse, passare da uno stato di passività ad uno di attività, acquisire autorevolezza. Meno sottolineato è il fatto che l'acquisizione di potere comporta responsabilità e genera emancipazione, termini questi con una forte connotazione politica. Non dimentichiamo che è proprio l'assunzione di responsabilità che può portare nei luoghi del potere.

L'entrata delle donne nella sfera politica degli anni passati aveva come presupposto questa assunzione di responsabilità, non solo ed esclusivamente il desiderio di dominio. Le donne hanno così fantasticato un ritorno di autorità. Nei luoghi di potere di fatto si trovano alcuni degli strumenti che abilitano a dare simbolicamente vita, voce, ricchezza o, al contrario, a far tacere, a cancellare, a ridurre le opportunità di esistenza. È per la donna un ritrovare l'antica potenza, quella materna, che è poi quella di dare vita, del prendersi cura (cfr. Althea Horner riportata da Buttarelli). Ma le donne non hanno nei fatti avuto la capacità di far sì che l'aspirazione alla autorità non si trasformasse in potere).

Sicuramente nel passaggio dalla dimensione squisitamente disciplinare a quella dichiaratamente politica il termine epowerment subisce uno spostamento in avanti:
da "rendere potenti", che implica l'azione di un terzo che ti pone in condizioni di esserlo, a "divenire potenti", avere forza, incisività, autorevolezza, capacità di emanciparsi, di chiedere e ottenere parità di diritti. Aumenta, senza alcun dubbio l'implicanza della dimensione soggettiva, fermo restando il fatto che il suo attivarsi è conseguente ad una idea, una forza, un sostegno esterni al soggetto.

È merito della ricerca delle donne aver introdotto e recuperato la categoria della soggettività, prima stigmatizzata come relativistica e pre-scientifica: nella ricerca delle donne, per la prima volta, tra ricercatore e oggetto della ricerca si stabilisce una relazione significativa.

Empowerment e mainstreaming sono state le parole chiave della Conferenza di Pechino tese a promuovere reali parità di diritti per le donne attraverso:Con Pechino quindi si va oltre il concetto di pari opportunità, per asserire la capacità di cambiamento che l'azione e i saperi delle donne, la loro stessa presenza nei luoghi pubblici, e soprattutto nei centri decisionali, dell'economia e della politica, possono e debbono innescare.

Ed ancora l'importanza che l'azione educante e di trasmissione non acritica della cultura può svolgere sulle nuove generazioni di uomini e di donne.

Così come si va oltre il significato che comunemente la parola empowerment ha: alle donne, rese empowered, si chiede di introdurre cambiamento nei modelli di vita per migliorarla.

Di fatto, un'azione di cambiamento si è già andata determinando, là dove le donne hanno avuto spazio di espressione e di azione politica; di fatto il femminismo ha reso empowered le donne non solo negli spazi e nei luoghi dove esso si è andato affermando, ma anche attraverso la produzione di un "corpo di categorie teoriche e di azione" che è penetrato nel tessuto sociale e culturale dell'occidente producendo un'azione diffusa, un femminismo diffuso (Calabrò 1983, Balbo 1997) che di fatto ha:È peraltro da dire come tutto questo, se ha modificato il piano degli atteggiamenti, ha inciso molto poco su quello dei comportamenti. Di fatto, della cultura maschile è rimasto tutto intero lo zoccolo duro (quello che Freud definisce "lo strato roccioso profondo" che impedisce di accedere al regno delle madri). Mentre il femminismo, superando il concetto di uguaglianza, approda al pensiero della differenza e della reciprocità, il pensiero maschile comincia solo ora a riflettere sulla propria crisi. Questa riflessione porta alcuni studiosi, in particolare dell'area anglosassone a riconoscere come "gli uomini sarebbero stati resi invisibili a se stessi a causa degli ideali di autonomia e di autocontrollo presenti nel modello cartesiano di razionalità" (cfr. Seidler: Riscoprire la mascolinità.)

Potere o Autorità?

Un'ulteriore riflessione che qui è opportuno fare è se il termine potere esaurisce il senso dell'azione di empowerment così come ora definito, o se quello di autorità, autorevolezza, meglio lo interpreta. Autorità e potere vengono quasi sempre identificati. In realtà la distinzione tra questi due termini tende a ridisegnare il confine tra interno/esterno, se "si accetta la premesssa che sia l'autorità, tra i due, ad avere maggiormente da fare con la mappa dell'interiorità".

Di fatto il termine potere, comunemente associato all'area del maschile, è qualcosa che muove dall'esterno, che può prescindere in quanto tale dal consenso. Dando origine a strutture riproducibili e rigide e, oggi, per lo più impersonali, il potere gode di una relativa indipendenza rispetto agli individui concreti che in tali relazioni sono implicati. L'autorità implica un rapporto di fiducia, essendo poco probabile che essa trascuri le relazioni personali, perché è proprio su questo che essa si fonda ; se ciò accade, l'autorità degenera in vuoto autoritarismo. Mantenere un rapporto d'autorità comporta una continua riproposta di sé nei riguardi di chi ti riconosce come autorevole, il quale a sua volta deve di continuo operare una sorta di patteggiamento interiore per poterti continuare a riconoscere come tale. È questo un gioco continuo tra dipendenza e indipendenza che rinvia alla dialettica hegeliana servo/padrone (Fenomenologia).

Poiché è proprio delle donne lavorare sulle relazioni, il termine autorità, nel senso di autorevolezza, ci sembra essere più consona ad esprimere l'azione di empowerment diretta alle donne. Quest'azione tende a ridisegnare la storia e la cultura dei rapporti maschio/femmina senza con questo pensare di ribaltare i termini della questione né quanto meno consegnare alle donne un potere fatto di dominio prevaricante l'altro. Esistono, è indubbio, dei differenziali di poteri tra uomini e donne: lavorare sul polo dell'autorità significa comprendere, interpretare tali differenziali per modificare i rapporti di forza vigenti, mettendo in luce anche il gioco sottile di complicità messo in atto dalle donne per il passato che, è inutile negare, permane anche adesso e che fa sì che nonostante tutto ( la rivoluzione sessuale, una legislazione paritaria, un cambiamento diffuso degli atteggiamenti ) il quotidiano continui a scriversi in termini di potere maschile.

È necessario, anche se doloroso, gettare uno sguardo retrospettivo a "quanto ci legava dentro rispetto a figure maschili del potere, a cui il nostro riconoscimento interiore conferiva un prestigio che le rendeva in apparenza invincibili" (W.Tommasi, 1998).

Al contrario, la relazione delle donne con il potere è ancora "giovane" e "acerba", contraddittoria e un po' ambivalente, tanto da far pensare ad una vera e propria forma di "resistenza femminile all'accesso ai luoghi e agli strumenti del potere" (M.L.Boccia,1998), una resistenza che ha bisogno di essere adeguatamente interrogata e non soltanto istituzionalmente combattuta.

Preferiamo parlare di autorità, più che di potere, perché l'autorità non è come il potere una cosa della quale ci si può impossessare, è un processo, il processo di interpretazione e di spostamento dei differenziali di potere. Il luogo di costruzione dell'autorità è innanzitutto nella persona che l'attribuisce ad altri: più precisamente, vi è autorità nella relazione tra chi la riconosce e chi se la vede attribuire. L'autorità è qualcosa che sicuramente è legata ad alcuni requisiti - una certa solidità, una capacità di giudizio, a qualità e talenti personali, talvolta una carisma - ma essa è soprattutto legata al riconoscimento da parte degli altri, a una attribuzione di fiducia, a una credibilità e alla relazione che si instaura conseguentemente.

L'autorità appartiene alla relazione più che alla persona.

Etimologicamente, poi, auctoritas si lega a augere, ovvero a far crescere, a far uscire allo scoperto ciò che è dentro, "nel mondo ciò che abita dentro di noi" (cfr. Hannah Arendt: Che cos'è l'autorità ) L'autorità costruisce ponti, mostra mediazioni, mentre il potere le nasconde. Una persona diviene autorevole soprattutto in forza della sua capacità di offrire mediazioni. L'autorità deve sempre rinnovare il lavoro di mediazione

Femminismo e Psicologia di Comunità

Quando la psicologia di comunità incrocia la riflessione critica del femminismo, filtrata dall'esperienza personale di studiose e ricercatrici di diverse discipline, il termine empowerment si carica di un significato più ampio, imponendo uno spostamento in avanti degli obiettivi e del tipo di intervento. L'infiltrarsi di donne con mente politica nel chiuso delle discipline intellettuali, territorio notoriamente maschile, comporta, infatti, nuove forme di riflessione teorica. L'intersezione del tema del femminile con discipline come la filosofia, la psicoanalisi, la storia, la sociologia, il pensiero politico economico, la biomedicina è, per alcuni aspetti, "favorita", resa possibile dal determinarsi di una serie di coincidenze: Tutto questo ha favorito e reso vincente una modalità di pensiero, quello femminile, basato sulla compresenza di contrari, sull'attenzione all'altro, sulla flessibilità, sulla relazione, sulla capacità di tessere reti e di tenere insieme cose, sentimenti, situazioni, anche assai diverse tra loro.
Il fatto che questo modello di pensiero sia quello vincente si concretizza nelle relazioni sociali, nella crescita, a volte anche eccessiva, di interi settori di lavoro o di cura fortemente femminilizzati, sia sul versante della forza lavoro, sia su quello dell'utenza, sia su quello delle logiche che li governano ( terzo settore), una crescente attenzione alla qualità della vita, nei suoi aspetti relazioni, lo spostarsi dell'attenzione dalla produzione di beni materiali (maschile) a quella di beni immateriali (femminile), sino all'attuale "aristocratico" elogio della marginalità.

La maggiore presenza femminile nei luoghi del sociale, del culturale e politico, e comunque una loro maggiore visibilità, pur avendo messo in una certa difficoltà il mondo maschile, non ne ha intaccato il sistema concreto della gestione del potere, che per alcuni versi oggi si muove operando il recupero di spazi già occupati dalle donne : l'uscita dal mercato del lavoro, la diminuzione delle presenze femminili nelle rappresentanze politiche, segnata, negativamente a nostro avviso, dal loro recupero in extremis attraverso la cooptazione nei governi locali. Tutto questo non accade peraltro in assenza di sottili "complicità" femminili, frutto in parte di assenza o perdita di memoria delle giovani generazioni, ma anche di interpretazioni differenti, quando non fraintendimenti, di concetti quali: potere, autorità, responsabilità, libertà, democrazia; in particolare quando essi ne intersecano altri quali: uguaglianza/differenza, parità/pari opportunità, rottura/mediazione, dominio/sottomissione/reciprocità.

In una fase quanto mai difficile di ridefinizione dei ruoli, di cui le donne sono momento portante, ma che inevitabilmente coinvolge l'universo maschile, mirata non al ribaltamento degli equilibri di genere ma al riconoscimento della soggettività dell'altro/a, l'azione di empowerment non può che essere rivolta al femminile inteso come totalità di un universo, ovvero alla nuova generazione di donne e ragazze, e non riferirsi soltanto ad alcune marginalità e/o patologie, anche se numericamente rilevanti; assumendo con questo una valenza preventiva e non solo riparativa. Questo richiama l'attenzione sulla necessità di procedere sulla base di un'etica della reciprocità e dello scambio e di una capacità di mediazione, non nel senso svilito del termine che una politica come lotta per il potere ci rimanda, ma come mediazione creativa, capace di rimuovere gli ostacoli che si frappongono alla convivenza umana, capace di riconoscere ed affrontare i conflitti compresi quelli dentro di sé.

Se l'azione di empowerment si configura in questa ottica allora la sua realizzazione non può che passare attraverso il processo formativo dentro cui è possibile la creazione di una tradizione da trasmettere nei luoghi del sapere ( scuola, università, mondo del lavoro), come fonte di autorevolezza, forza, soggettività; non nella separatezza o nella solitudine ma nel reciproco coinvolgimento rispettoso delle differenze.

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5.9. I percorsi della segregazione occupazionale per sesso
di Paola Martino


Marginalità delle donne

A partire dagli anni '70 (Fig. 1) si verifica un incremento della presenza delle donne nel mercato del lavoro che si evidenzia in più aspetti: un maggior numero di donne entra nel mercato, sia come occupate che come disoccupate; un maggior numero di donne permane in esso più a lungo.

Questo incremento ha molteplici cause:L'occupazione femminile si caratterizza sul binomio rigidità-flessibilità. Da un lato le donne sono più deboli, a causa delle rigidità sul mercato dovuta al carico degli impegni familiari (doppia presenza); dall'altro le donne sono più flessibili e adattabili ai cambiamenti del mercato del lavoro, in quanto spesso non svolgono il ruolo di capofamiglia

Quindi all'incremento numerico del lavoro femminile si affiancano elaborazioni teoriche che portano alla "ridefinizione il lavoro femminile come lavoro di riproduzione e per il mercato, la messa a fuoco della doppia presenza, come dato saliente dell'esperienza di vita di maggior parte delle donne" (Bimbi, Pristinger, 1985, pag. 95)

Ma nonostante il mutamento dello scenario lavorativo, in seguito a questo aumento del lavoro femminile, e la conseguente riduzione delle distanze tra uomini e donne sul mercato del lavoro, "molti indicatori concorrono a delineare un perdurante e stabile sistema di disuguaglianze, rappresentato in particolare dalla segregazione occupazionale delle donne" (Bianco, 1997, pag.277).

Segregazione occupazionale lavorativa.

Il concetto di segregazione occupazionale per sesso si scinde in due aspetti: la segregazione orizzontale, cioé la concentrazione delle donne in alcune professioni e in determinati settori di attività; la segregazione verticale, la concentrazione delle donne nei livelli lavorativi più bassi.

Per quanto riguarda la segregazione orizzontale le donne risultano concentrate prevalentemente nei servizi e meno presenti nei comparti industriali (tav. 1).

Tav. 1 Percentuale di occupati per settore sul totale degli occupati.
donneuomini
1981 19911981 1991
agricoltura12,2 7,110,5 7,1
industria28,8 24,544,2 40,9
servizi59,0 68,444,7 52,0
totale100 100100 100

Fonte: Istat, Censimento della Popolazione 1991

Le donne sono in percentuale in numero maggiore nelle posizioni di lavoro di tipo subordinato e meno qualificato: sono solo il 16, 1 per cento tra gli imprenditori e i manager, mentre sono il 52, 1 per cento tra gli impiegati e il 39,0 per cento tra gli operai non qualificati. (Tav. 2).

Tav. 2 Incidenza della percentuale di donne nei gruppi occupazionali.
% donne
Imprenditori, manager16,1
Professionale, docenti37,9
Quadri, tecnici44,9
Addetti vendite46,5
Impiegati52,1
Operai specializzati21,1
Operai comuni24,0
Operai non qualificati39,0
Totale35,0

Fonte: Istat, Censimento della Popolazione 1991.

Il termine segregazione in Italia é spesso usato solo dagli specialisti, al contrario si riferisce a fenomeni consistenti e diffusi. Si tratta di una termine di per se neutro che assume sociologicamente rilievo quando é associato a una situazione di "svantaggio", come nel caso del sesso, dove gli uomini sono concentrati in luoghi migliori o a livelli più alti delle donne. Si può quindi affermare che la segregazione delle donne produce disuguaglianza di genere (Bianco, 1997).

Fra le possibili cause della scarsa diffusione di analisi sulla segregazione occupazionale, vi è probabilmente la maggiore attenzione da parte delle studiose femministe italiane, a partire dagli anni 80, a elaborazioni più teoriche e filosofiche. Nello stesso tempo è rilevante la scarsa diffusione in Italia di Women studies, sul modello americano, che "fanno da ponte fra la cultura universitaria e la conoscenza più diffusa" (Valentini, 1997, pag. 95).

Alla segregazione occupazionale si affianca una discriminazione salariale per le donne occupate. Sin dal massiccio ingresso delle donne nel mercato del lavoro vi è stato un gap salariale tra uomini e donne. Il dato più evidente, rilevato dalla Banca d'Italia, ci riporta che nel 1989 lo stipendio di una donna dirigente corrisponde al 63 per cento di quello dell'uomo dirigente.

Questo divario salariale non è legato alla minore anzianità delle donne, infatti nei gruppi occupazionali il gap aumenta con l'aumentare dell'età: quindi allo svantaggio iniziale si somma, nel corso del tempo, l'effetto carriera (Bianco, 1997). Così come questa differenza salariale non è solo conseguenza della segregazione professionale, perché le donne guadagnano meno anche quando svolgono lavori uguali agli uomini.

Segregazione occupazionale e differenziali retributivi sono quindi una realtà del nostro mercato del lavoro, che è evidentemente in qualche modo legato alle caratteristiche di genere della forza-lavoro.

Per cercare di spiegare tale caratteristica vi sono state numerose e discutibili teorizzazioni; alcuni studi più recenti hanno hanno fatto un notevole passo in avanti e individuato tre differenti chiavi di lettura: subalternità sociale della donne, divisione sessuale dei ruoli nel lavoro, disuguaglianze sociali delle donne.

La subalternità sociale delle donne, esiste prima della subalternità lavorativa. Per cui l'uomo, in quanto principale percettore di reddito della famiglia ha elevate aspettative retributive, mentre la donna, il cui reddito è considerato aggiuntivo, ha minori aspettative ed è disposta ad accettare guadagni e mansioni inferiori (Bettio, 1988).

La tradizionale organizzazione del lavoro dell'industria determina una divisione sessuale dei ruoli, quindi il tempo di lavoro nell'industria per l'uomo è reso possibile dal fatto che il lavoro di cura è stato completamente delegato alle donne. Nel mercato del lavoro del passato, le donne vengono progressivamente espulse dalla industria, per poi rientrare, in presenza di un aumento della domanda di lavoro, in settori di attività più compatibili con la doppia presenza (Abburrà, 1989).

È necessario tenere conto delle disuguaglianze sociali che differenziano le donne e cercare con le analisi di raggiungere almeno l'obiettivo di "impostare il problema e porre degli interrogativi circa le logiche di scelta e azione dei soggetti, visti in quanto connotati sia dal genere sia dalla collocazione sociale" (Bianco, 1997, pag. 58). Sono tre le tappe della vita che determinano il processo di produzione e riproduzione della segregazione: la socializzazione all'interno della famiglie e della scuola, l'ingresso nel mercato del lavoro, i percorsi delle carriere.

La segregazione occupazionale finora esaminata è uno degli aspetti della disuguaglianza lavorativa, perché all'interno delle aziende, delle carriere assistiamo a una concentrazione delle donne nei livelli inferiori, la cosiddetta segregazione verticale.

Non sono disponibili studi approfonditi su questa materia, ma i dati a disposizione confermano questa tendenza sia nell'industria (le donne sono concentrate nelle qualifiche operaie e impiegatizie più basse), che nel pubblico impiego (le donne sono molto poche nella dirigenza e presenti nelle qualifiche medio basse).

Le interpretazioni di questo fenomeno non devono ridursi a considerare le caratteristiche poco adatte delle donne alle carriere organizzative, né a vedere le donne come un gruppo di uguali con le stesse caratteristiche e comportamenti. Una possibile spiegazione dovrebbe tenere conto di più elementi:La segregazione formativa.

Il momento della formazione è uno dei momenti cruciali che fornisce alle donne una possibilità in più di avere accesso al lavoro. Questo sembra molto chiaro alle nuove generazioni che si rendono conto che l'istruzione rappresenta uno strumento in più, la possibilità di diventare qualcuno, come testimoniano alcune ragazze in una ricerca su le giovani donne e il loro futuro (Leccardi, 1996). Anche le famiglie iniziano a modificare gli investimenti formativi, se prima istruire le figlie femmine rappresentava quasi un lusso di pochi, oggi l'istruzione diventa un buon investimento, in particolare per le famiglie meno agiate.

I dati confermano questa tendenza per cui nell'ultimo decennio il numero di diplomate e laureate è notevolmente aumentato: le diplomate dall'anno 1972-73 all'anno 1986-87 passano dal 43% al 52,5%; le iscrizioni all'Università crescono dal 38,2% del 1972-73 al 52,5 del 1994-95.

Ma questa raggiunta parità formativa non sempre si traduce in parità lavorativa (Spanò, 1996). Infatti nonostante uomini e donne abbiano livelli di istruzione uguali, per le donne permane una segregazione educativa, in quanto le donne si concentrano in tipi di scuole con minori sbocchi professionali, sono in maggioranza nei licei classici e scientifici. Esse sono in minoranza nelle scuole secondarie superiori che preparano al lavoro tecnico, quali istituti tecnici e professionali. Mentre le donne sono sempre la maggioranza negli istituti magistrali (nel 1991 l'11,5 oper cento di donne contro lo 0,9 di uomini). I dati degli ultimi anni '90 registrano comunque una diminuzione delle iscrizioni ai licei e un aumento delle iscrizioni alle scuole tecniche, ma la differenziazione tra uomini e donne rimane. (Tav.4).

Tav. 4 Iscritti per ogni tipo di scuola superiore. Valori percentuali.

1972-731986-87
donneuominidonneuomini
Licei, di cui31,827,528,222,6
Liceo classico13,88,910,25,7
Liceo Scientifico16,117,813,215,8
Liceo artistico 2,0 0,8 1,6 0,7
Istituti tecnici, di cui26,553,437,155,0
Ist. tecnico industriale 1,127,0 2,121,9
Ist. tecnico commerciale19,512,026,719,6
Ist. tecnico per geometri 0,611,3 1,310,0
Istituti professionali, di cui16,516,218,720,3
Ist. profess. commerciale11,6 1,711,4 2,0
Ist. profess. industriale 0,711,5 1,513,7
Ist. profess. femminile 2,8 0 3,9 0,2
Altre scuole, di cui25,2 2,915,9 2,2
Istituto magistrale20,5 1,911,5 0,9
Totale scuole superiori100100100100

Fonte: Istat, Annuari dell'istruzione

Nella formazione universitaria le donne privilegiano le facoltà umanistiche e sono meno presenti nelle facoltà scientifiche. Anche qui però i dati più recenti fanno registrare qualche cambiamento. Nel periodo dal 1972-73 al 1994-95, le donne iscritte alle Facoltà del gruppo di ingegneria aumentano dal 2,9 al 5,4 per cento, quelle iscritte al gruppo economico e sociale dal 9,1 per cento al 23, 0 per cento, mentre calano dal 55,4 per cento al 32,8 per cento le iscritte al gruppo letterario. (Tav. 5).

Le donne quindi iniziano a fare scelte di formazione tenendo conto dei possibili sbocchi nel mercato lavorativo.

Tav. 5 Iscritti alle Università per gruppi di Facoltà. Valori percentuali.

1972-731994-95
donneuominidonneuomini
Gruppo scientifico 15,2 13,012,0 12,2
Gruppo medico 9,0 19,0 2,9 2,6
Gruppo ingegneria 2,9 22,1 5,4 23,3
Gruppo agrario 0,3 2,9 1,8 2,9
Gruppo economico e sociale 9,1 17,5 23,0 30,0
Gruppo giuridico 6,7 12,3 22,1 18,8
Gruppo letterario 55,4 12,2 32,8 10,2
Totale Università 100 100 100 100

Fonte: Istat, Annuari dell'istruzione

Non bisogna comunque dimenticare che dietro ogni scelta lavorativa di una donna vi è un percorso di doppia presenza da affrontare. I dati dimostrano che le donne più istruite scelgono più facilmente di lavorare, anche perché ne hanno più occasioni; mentre rimangono maggiormente segregate le donne con un basso livello di istruzione, sia perché le occasioni di lavoro sono minori, sia perché dedicarsi al ruolo di madre e moglie è più conveniente e in alcuni casi "naturale".

Possibili politiche di intervento

Per favorire il superamento della segregazione formativa e lavorativa e fornire pari opportunità di lavoro alle donne nel 1991 è stata varata la legge sulle azioni positive. Si tratta di una legge tra le più avanzate d'Europa, che dà alle donne, dopo 13 anni dalla approvazione della legge di parità (1977), una definizione istuituzionale della discriminazione e della politica delle pari opportunità (Beccalli, 1991).

L'approvazione della legge ha determinato dentro e fuori il movimento delle donne un vivace dibattito; sicuramente l'avere sancito per legge la legittimità ad agire per rimuovere gli ostacoli che impediscono la realizzazione di pari opportunità è stato un importante passo in avanti per tutte le donne. Ma la tardiva applicazione di alcuni strumenti previsti dalla legge, il permanere di una cultura tradizionalista, il distacco che spesso si crea tra legge formale e realtà concreta hanno fatto di questa legge uno strumento limitato.

È quindi importante affiancare a questi e altri strumenti legislativi, come ad esempio l'incentivazione del part time, del job sharing, del retravailling, sia una riconsiderazione dei tempi di lavoro, che una azione che insista sulla diffusione, sul radicamento di una cultura delle pari opportunità nel mondo della formazione e del lavoro.

Per quanto riguarda la segregazione formativa si è avviato un interessante percorso basato sull'orientamento come azione formativa, cioè permettere alle giovani di riflettere su se stesse e sui propri desideri, di credere nelle proprie capacità e di avvicinarsi eventualmente anche a materie, e quindi future professioni, da sempre considerate maschili. (Erlicher, Mapelli, 1991).

Come abbiamo visto nei dati precedentemente riportati sulle scelte formative negli ultimi anni, inizia a cambiare qualcosa e nelle Università aumentano le iscrizioni a Facoltà più tecniche.

Tutto questo si dovrebbe tradurre in un potenziamento dell'empowerment delle donne, inteso come capacità di potenziare le proprie possibilità, riconoscendo i propri desideri, liberandosi da stereotipi e aspettative di altri e individuando il proprio progetto di realizzazione professionale.

In questo senso si sta muovendo il Centro Studi "Osservatorio Donna" dell'Università di Lecce, che ha individuato uno spazio di interesse, sia a livello teorico che pratico, sul potenziamento dell'empowerment e sulla rimozione di stereotipi e pregiudizi. In particolare il Centro sta progettando, in collaborazione con il Provveditorato agli Studi di Lecce, un intervento su questi temi nelle scuole secondarie superiori.

Alcuni dati locali

Per quanto riguarda la situazione di Lecce e della sua provincia è importante riflettere su alcuni elementi.

Il numero delle donne in cerca di prima occupazione, dal censimento del 1991, è di poco inferiore a quello degli uomini, 9 per cento di donne contro il 10 per cento di uomini; al contrario il numero delle donne occupate è quasi la metà del numero degli uomini, 24 per cento di occupate contro il 42 per cento di occupati.

Nella distribuzione nelle diverse attività economiche il dato locale ricalca in parte quello nazionale: le donne sono scarsamente presenti nell'industria con il 22,9 per cento, mentre sono più rappresentate nelle attività terziarie con il 44,4 per cento, ma comunque meno degli uomini (che sono il 51,8 per cento) e ciò contrariamente al dato nazionale dove le donne nel terziario sono la maggioranza.

Inoltre nell'area di Lecce e provincia rimane alto il dato delle donne occupate in agricoltura, 32,7 per cento; ma bisogna tenere conto che si tratta di un dato falsato dalle donne iscritte all'ufficio di collocamento come braccianti solo per potere riscuotere i contributi, ma che in realtà non svolgono lavoro agricolo. (Tav. 6)

Tav. 6 Distribuzione per sesso e attività economica.
Lecce e provincia. Valori percentuali. 1991

donneuomini
Agricoltura32,712,7
Industria22,935,5
Altre attività44,451,8
Totale100100

Fonte: Istat, Censimento della Popolazione, 1991.

Nella distribuzione nelle diverse professioni degli occupati si evidenzia la cosiddetta segregazione verticale, in quanto le donne risultano essere meno rappresentate nelle professioni corrispondenti a classi sociali più elevate, il 16 per cento di donne tra i legislatori, dirigenti e imprenditori contro l'83 per cento degli uomini; il 38 per cento delle professioni intellettuali di donne contro il 61 per cento di uomini. Al contrario la percentuale di donne inquadrate come personale non qualificato sale al 46 per cento. (Tav. 7).

Tav. 7 Occupati per professione e sesso
Lecce e provincia. Valori percentuali. 1991

donneuomini
Legislatori, dirigenti e imprenditori16,083,0
Professioni intellettuali38,061,0
Professioni intermedie-tecnici47,052,0
Professioni esecutive di ammin. e gest.36,063,0
Professioni relative alle vendite e servizi35,063,0
Artigiani, operai specializzati e agricolt.33,066,0
Operai industriali21,078,0
Personale non qualificato46,053,0

Fonte: Istat, Censimento Popolazione, 1991.

Riguardo la segregazione formativa la situazione locale non si discosta da quella nazionale, infatti la percentuale di donne che si iscrive alle scuole tecniche è la metà di quella maschile, nel 1993-94 il 34 per cento di donne contro il 66 per cento di uomini. Con particolare differenza negli Istituti tecnici industriale e nautico dove le donne sono il 4 per cento rispetto al 96 per cento degli uomini, o ancora nell'Istituto tecnico agrario con l'8 per cento di donne e il 92,0 per cento di uomini.

Rimane alta la percentuale di donne nei licei e schiacciante la maggioranza delle donne negli istituti magistrali, 93 per cento di donne contro il 7 per cento di uomini. (Tav. 8).

Tav. 8 Iscritti per ogni scuola superiore.
Lecce e provincia. Valori percentuali. a. s. 1993-94

donneuomini
Licei59,041,0
Istituti professionali41,059,0
Istituti tecnici, di cui34,066,0
Istituto tecnico agrario8,092,0
Istituto per geometri12,088,0
Istituto industriale4,096,0
Istituto nautico4,096,0
Istituti d'arte52,048,0
Istituto magistrale93,07,0
Totale48,052,0

Fonte: Provveditorato agli Studi di Lecce

Un ultima riflessione da sottolineare è la distribuzione dei giudizi di merito tra gli alunni maschi e le alunne femmine delle scuole di Lecce e provincia: le donne hanno complessivamente giudizi migliori. (Tav. 9).

Tav. 9 Distribuzione giudizi

Lecce e provincia. Valori percentuali. a.s. 1993-94

donneuomini
sufficiente39,359,6
buono23,519,2
distinto16,410,5
ottimo20,819,2

Fonte: Provveditorato agli Studi di Lecce

Inoltre le donne hanno dei tassi di ripetenza e di bocciatura più bassi degli alunni maschi, ma nello stesso tempo il tasso di abbandono è superiore per le alunne femmine, 55 per cento per le donne contro il 24 per cento degli uomini.

Sicuramente dietro questo dato vi è la considerazione, già valutata in sede nazionale, che l'investimento nella formazione scolastica fino agli anni '90 ha riguardato prevalentemente i figli maschi. per cui probabilmente e soprattutto nelle classi sociali meno abbienti, sono le donne ad abbandonare la scuola per andare a lavorare o per mettere su famiglia.

BIBLIOGRAFIA

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6. Interventi pervenuti alla conferenza
e Messaggi di saluto


Interventi pervenuti alla conferenza

Messaggi di saluto

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6.1. Donne palestinesi e diritto al lavoro
Shadia El Sarraj, AWMR Palestina


Molti fattori condizionano il diritto al lavoro delle donne palestinesi: politici, sociali, culturali.

Dal punto di vista politico, c'è da dire che dal 1948 l'economia dei Territori palestinesi si è caratterizzata per la sua dipendenza. Fino alla guerra del '67 con Israele è stata dipendente dall'economia egiziana e giordana, dal momento che la Palestina era amministrata da quei paesi. In seguito all'occupazione israeliana, la forza lavoro maschile palestinese è divenuta il prodotto più esportato dai territori occupati. La dipendenza occupazionale sul mercato del lavoro israeliano è più pronunciata nel caso della Striscia di Gaza che della West Bank. Nel 1992 lavorava in Israele il 39% della forza lavoro di Gaza.

I Palestinesi hanno sofferto profondamente della prolungata occupazione militare israeliana che è stata, ed è tuttora, una croce da portare ed un ostacolo a qualsiasi processo di pianificazione e programmazione dello sviluppo. Israele ha operato sistematicamente per rendere la terra dei Palestinesi, le loro risorse naturali e finanziarie e la stessa popolazione dipendenti dall'economia israeliana, integrandole nei suoi disegni politici, sfruttandole e vincolando l'economia palestinese ad ordini militari, leggi e regolamenti brutali, imponendo strutture ed infrastrutture che la paralizzano.

Circa il 37% della popolazione adulta nei Territori partecipa alla forza lavoro. Secondo i dati relativi al settore privato, il 25,8% è impiegato in agricoltura, seguito dall'industria con il 15,5% e dall'edilizia con il 10,4%.

Le difficoltà economiche che le famiglie palestinesi hanno dovuto affrontare dopo l'occupazione israeliana del '67 ha costretto un gran numero di donne a cercare lavoro per integrare il reddito familiare. L'impatto dell'Intifada e la detenzione di molti uomini hanno costretto le donne a sostituirli nel lavoro. Anche l'emigrazione degli uomini in cerca di lavoro è stato un fattore che ha creato più occasioni di lavoro per le donne.

Tuttavia, il tasso di presenza femminile nella forza lavoro resta basso, stimato intorno al 10-12% nei Territori, per molte ragioni. Prima fra tutte l'alta disoccupazione, che ha toccato il 68%, dovuta alla politica israeliana di chiusura totale dei Territori, che ha impedito ai lavoratori palestinesi di raggiungere il proprio posto di lavoro in Israele.

Nella Striscia di Gaza la bassa presenza di donne nel complesso della forza lavoro può essere attribuita anche a limitazioni imposte da fattori socio-culturali. Le tradizioni culturali sono particolarmente importanti in Palestina, più che in qualsiasi altro paese arabo, in quanto sono una forma di resistenza all'occupazione israeliana.

Dalla distinzione tra diritto costituzionale e civile deriva inoltre l'intrinseca contraddizione nello status delle donne, per cui ad esse è riconosciuta un'uguaglianza politica nell'ambito di una legislazione che preclude loro le libertà personali. La tradizionale separazione della sfera privata e pubblica ha contribuito a questa ambivalente condizione.

Un'altra ragione della disoccupazione femminile è il basso livello di scolarizzazione delle donne. La dispersione scolastica femminile è un problema palese fin dalla scuola primaria. Ma anche l'accesso delle donne ai gradi superiori dell'istruzione è ridotto per via della loro limitata possibilità di muoversi. Per quanto si enfatizzino i benefici dell'istruzione, la mentalità tradizionale e le consuetudini agiscono ancora come barriere contro l'accesso delle donne all'istruzione ad ogni livello.

La mobilità limitata è stata sempre una grossa costrizione per le donne, che ne ha condizionato l'accesso ai mezzi di trasporto, alle cure mediche, all'assistenza legale e al lavoro.

A causa dei livelli di vita deteriorati dall'occupazione israeliana, le famiglie con molti figli hanno preferito investire nell'istruzione dei maschi piuttosto che delle femmine.

Il matrimonio precoce è un'altra seria ragione di restrizione del diritto delle donne all'istruzione e al lavoro. I valori sociali tradizionali, associati alla modestia della ragazza, determinano l'abbandono della scuola e spesso conducono al matrimonio in età precoce, nonostante i limiti stabiliti dalla legge. Circa il 40% delle ragazze, soprattutto delle aree rurali, diventano mogli e madri in questa fase della loro vita. L'alto tasso di fertilità delle donne palestinesi, stimato fra i più alti del mondo, il gran numero di figli messi al mondo, spesso rende loro difficile trovare lavoro proprio negli anni di vita che sono i più produttivi nell'attività lavorativa.

D'altra parte la remunerazione non è uguale per uomini e donne. Viene stimato che i salari delle donne siano pari al 50-60% di quelli percepiti dagli uomini per un uguale lavoro. Neppure la percettività dei diritti sociali connessi con l'attività lavorativa è paritaria. La concezione che gli uomini sono i soli a portare il pane in casa è stata la prima ragione per cui si è trascurato di perseguire la parità di trattamento riguardo agli assegni familiari, alle indennità e alle pensioni. Alle lavoratrici sposate, al contrario degli uomini, non viene automaticamente riconosciuta l'inclusione nell'assistenza sanitaria per gli altri componenti della sua famiglia, a meno che il marito e i figli non siano inabili al lavoro. La facoltà di usufruire del congedo di maternità può essere ricusata per effetto di una complicazione legale collegata al congedo per malattia.

A tutto questo si aggiunga che molta parte della forza lavoro femminile non ha conoscenza delle leggi che la tutelano.

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6.2. Equità e giustizia dinanzi alla legge: il caso delle donne palestinesi
di Ayesha Rifai, AWMR Gerusalemme Est
Trad. Giovanna Martelloni


Sia la narrazione aneddotica che la letteratura in generale suggeriscono che il ruolo delle donne nell'economia internazionale è in relazione con il loro benessere fisico e psichico. Poiché esso le espone a rischi che non capitano a caso, ma che sono un riflesso della ripartizione del lavoro in base al sesso sia nel lavoro salariato che nel posto assunto all'interno di una società più allargata. Da quanto è documentato, in nessun luogo di questa terra le donne sono entrate a far parte della forza lavoro alle stesse condizioni degli uomini. Nella gran parte dei paesi vengono convogliate in determinati settori dell'economia, solitamente in impieghi di servizio in aree selezionate dell'industria manifatturiera, come nei settori dell'abbigliamento e del calzaturiero, e nella produzione alimentare. Nella gran parte dei paesi del terzo mondo, inclusa la Palestina, le donne costituiscono una quota significante della forza lavoro impiegata nell'agricoltura. È da notare che all'interno di ogni area di lavoro, vi è una concentrazione di donne negli impieghi con paghe più basse e con livelli minimi. Così il mercato del lavoro continua ad essere caratterizzato dalla segregazione verticale e orizzontale, che vede la condizione della donna sottomessa ai tradizionali pregiudizi sulla ripartizione sessuale del lavoro. (Feminist Review, 1986).

Ciò non si limita agli aspetti pratici dei sistemi sociali dominanti, ma viene esteso anche ai sistemi legislativi, che costituiscono la spina dorsale e il termine di riferimento per la maggioranza delle società...!

Il caso della Palestina non è diverso da tutto ciò.

Considerando il contesto palestinese, si conviene che vi sia una sostanziale disparità tra uomini e donne all'interno di quasi tutti i campi della vita sociale. Ciò si manifesta in tutti gli aspetti incluso quello del lavoro e delle sue leggi.

Le leggi in atto nella West Bank si basano sulla giurisprudenza giordana, mentre quelle applicate nella Striscia di Gaza, su quella egiziana. Sebbene le due giurisprudenze vengano ancora applicate all'interno della struttura della Sharià islamica, certe indagini sul diritto civile, nel caso specifico, indicano il permanere delle impronte dei britannici che furono fra i primi ad occupare la Palestina. Per questo alcune delle loro leggi sono state accuratamente integrate da quelle palestinesi.

Da allora sono state fatte delle revisioni e sono state introdotte delle modifiche minori alle leggi palestinesi, comunque nessuna di esse prende in considerazione i bisogni delle donne palestinesi. Anche dopo l'insediamento dell'Authority palestinese, avvenuto nel 1993, non è accaduto nulla sino a quando il Movimento delle donne palestinesi non ha richiamato l'attenzione dei politici palestinesi e di coloro che decidono sul fatto che sono loro ad essere tenuti a prestare a tale questione piena attenzione e sollecitudine.

Aspirando ad una maggiore equità e giustizia per le donne palestinesi, le loro leader sono state concordi nel porre al primo posto sulle loro agende la promulgazione di una legislazione e quindi hanno impegnato tutti i loro sforzi nell'agire e nell'avere parola nel sistema legislativo palestinese in evoluzione.

Sostenute dal supporto dell'Authority Palestinese e dal suo organo legislativo, il Consiglio Legislativo Palestinese, le donne palestinesi hanno lanciato una campagna estesa su tutto il territorio nazionale intitolata "Modello Parlamentare Palestinese: Donne e Legislazione", rivolta a tutti i palestinesi e non solo alle donne.

L'idea di questo Modello Parlamentare Palestinese rappresenta un ampliamento di suggerimenti e di proposte introdotti dai partecipanti a gruppi di lavoro condotti durante le due fasi preliminari della campagna. Queste sono complementari ai lavori compiuti da più di venti istituzioni coinvolte, governative e non, che sono state e sono tuttora attive nei campi dei diritti umani, dei movimenti delle donne e del diritto civile ed islamico.

Le due fasi precedenti vennero istituite e condotte dal Centro delle Donne per il Consiglio Legale e Sociale di Gerusalemme. La prima comprendeva un'attenta indagine su tutti i testi legislativi che hanno a che fare con le donne e che operano sia nella West Bank che a Gaza, sottolineando quelli che presentano discrepanze nel trattamento degli uomini e delle donne. La seconda fase della campagna è stata l'elaborazione di un progetto che ha messo in risalto suggerimenti e proposte per l'introduzione di modifiche che garantissero uguaglianza e giustizia per le donne palestinesi.

In sostanza, il Modello Parlamentare Palestinese mira a raggiungere un certo numero di obiettivi che includono:

  1. L'incoraggiamento di un dialogo aperto ed evidente fra tutti i sistemi e gruppi sociali riguardanti le leggi applicate ed i loro termini di riferimento, così da creare un senso di consapevolezza del processo legislativo e del ruolo che può essere giocato all'interno di esso.

  2. La diffusione della conoscenza della legge, nella misura più ampia possibile, all'interno di tutti i gruppi sociali, facendone in tal modo un bene pubblico.

  3. L'attualizzazione del concetto di democrazia che racchiude in sé il fatto che la nazione è fonte di autorità e che tutti sono uguali dinanzi alla legge senza alcuna discriminazione.

  4. Lo sviluppo delle capacità degli elettori palestinesi per il perseguimento, l'interrogazione e l'interazione con le attività del Consiglio legislativo palestinese, dal quale ci si aspetta che eserciti la sua influenza nelle negoziazioni per l'approvazione di modifiche anticipate.

  5. Richiamare l'attenzione dei media e della stampa, del pubblico in generale e di coloro che hanno potere decisionale.

  6. Far passare attraverso il sostegno pubblico le modifiche suggerite, per riuscire con una strategia che sia trasferibile in testi scritti, in modo che il Consiglio legislativo palestinese le possa adottare e possibilmente approvare.
Nonostante le riserve di alcune persone e l'opposizione di molti, finora è stato realizzato molto. Ma la questione cruciale che resta è se le donne palestinesi riusciranno a fare un passo in avanti verso la realizzazione del loro ultimo obiettivo introducendo le modificazioni che vogliono alle leggi che sono rimaste intatte per così lungo tempo. Questo è ciò che i pochi mesi a venire riveleranno dopo che il Consiglio legislativo palestinese annuncerà i risultati delle sue discussioni in merito ai cambiamenti proposti.

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6.3. Società in transizione:
nuovo paradigma di trasformazione della famiglia.

di Elena Grozdanova, Ministro del lavoro e delle politiche sociali
della Repubblica di Macedonia
e Brnakica Dadasovic, operatrice sociale
Trad. di Giovanna Martelloni


Struttura teorica

L'ambiente culturale e sociale ha il suo impatto sulla persona individuale, soprattutto e in modo più rigoroso attraverso il tessuto familiare. La famiglia gioca il suo ruolo più significativo nell'addestrare i suoi componenti alla vita quotidiana della società attraverso il processo di socializzazione.

La famiglia ha una propria vita come qualsiasi altro organismo/sistema vivente. Essa costituisce una nuova forma di condizione sociale che richiede una studio specifico ed un approccio interpretativo.

Ogni famiglia ha i suoi momenti di crisi durante il suo percorso di vita, tuttora la famiglia funzionale ha la capacità di scoprire nuove vie nella soluzione di problemi e conflitti che sono inevitabili nel vivere quotidiano.

Per lo più, una famiglia non funzionale rinvia la soluzione dei problemi. Tali famiglie sono costantemente in crisi e non si individua il momento in cui ne appaiono i sintomi o quando la crisi si manifesta e minaccia la rottura dell'intera famiglia.

Nella nostra società il periodo di transizione ha causato enormi cambiamenti nel sistema sociale e politico, nelle condizioni socio-economiche, nelle regole morali ed etiche, nonché nei sistemi di valori e di orientamento. Ciò ha prodotto un certo impatto sulla società e sulla gran parte delle famiglie che sono l'elemento fondante della società.

Le prevedibili crisi di sviluppo, che ogni famiglia ha sperimentato, ora sono più complesse a causa delle crisi prodotte dal periodo di transizione: la famiglia si trova ad affrontare molti cambiamenti inattesi nello stile di vita e nella qualità del vivere, dovuti anche ad un più basso standard di vita che comporta il rischio di turbare le funzioni vitali della famiglia.

La famiglia perde la sua intima stabilità di base, cosa che disturba le relazioni all'interno del sistema familiare.

Il sottosistema coniugale diventa non funzionale ciò significa che il disordine nella omeostasi coniugale ha luogo attraverso il cambiamento dei poteri: il marito diventa disoccupato, la moglie inizia a procurare capitale, oppure entrambi i coniugi non hanno alcuna prospettiva di sostentamento reale ed entrambi escono dalla famiglia in cerca di una migliore vita materiale attraverso lavori illegali, contrabbando ed altre forme di attività economiche che sino ad allora gli erano estranee.

D'altro canto, con la perdita del potere reale, i genitori perdono anche l'autorità di genitori e non sono più in grado di essere un vero pilastro rispetto alla formazione della personalità dei propri figli.

Poiché molti figli tendono all'edonismo, alla soddisfazione dei loro bisogni materiali, psicologici e intellettuali, cercano di trovarlo al di fuori dell'area familiare e all'interno della società che a sua volta affronta il suo chaos e che non offre alle giovani generazioni nulla di rilevante, tranne che lo spettro di un fenomeno socio-patologico (crimine adolescenziale, delinquenza, consumo di alcool, droghe, gioco d'azzardo, prostituzione infantile e tutti gli altri prodotti di questo tempo).

La famiglia si trova ad affrontare una grave crisi all'interno ed all'esterno dei confini familiari, ciò disordina i legami e le relazioni familiari a tutti i livelli.

Una maggiore fusione della famiglia porta ad una crisi familiare generale e la famiglia, in quanto parte del sistema sociale, decade.

Il crescente numero di divorzi a Skopje ( la capitale della Repubblica macedone) è un buon indicatore di tutti quei cambiamenti ai quali è sottoposta la nostra società in transizione. I coniugi non sanno più convivere, ora non sanno neanche come divorziare, né sanno come sopportare, da un punto di vista economico, sociale, psicologico o emotivo la fase di crisi durante il processo di divorzio. La loro crisi viene riflessa in modo più intenso dalla parte più vulnerabile del loro sistema familiare - vale a dire i figli.

I figli stanno affrontando una crisi sociale, e al tempo stesso si trovano penosamente dinanzi alla crisi del loro sistema familiare, perdono la loro stabilità di base e ciò apre un intero campo di fenomeni psico-patologici e socio-patologici.

Compiti ed obiettivi:

Uno degli obiettivi che la società ha stipulato con la Legge sulla Famiglia è la protezione degli interessi dei figli in situazioni in cui si ha il collasso del sistema familiare.

Uno dei programmi che noi abbiamo sviluppato è di supportare sistemi familiari con un solo genitore (quel genitore al quale i figli vengono affidati dopo il divorzio). L'obiettivo generale del programma consiste nell'affidare ad operatori sociali che agiscono attraverso gruppi di intervento e di terapia contro i disturbi inter-psichici apparsi durante la crisi sociale e familiare, allo scopo principale di ridurre la "passione" del divorzio. In questo modo viene stimolata una maggiore funzionalità della famiglia con un genitore (one-parent-family).

Ulteriori obiettivi specifici sono:
  1. Allargamento e sviluppo delle capacità per affrontare lo stress.

  2. Ridefinizione dei ruoli a causa dell'esistenza di cambiamenti all'interno della famiglia, anche attraverso l'abbandono di vecchi modelli di comportamento che ora non sono più funzionali ed adozione di nuovi modelli funzionali.

  3. Promozione della comunicazione tra genitori e figli allo scopo renderli sensibili verso i loro bisogni, e verso i bisogni dei figli.
Così, il nuovo sistema familiare esistente è abilitato a ricostruire nuovi confini, ruoli, relazioni, modi di distribuzione di potere, nuove interazioni, allo scopo di sviluppare una sana omeostasia ed un nuovo sistema familiare.

metodi di lavoro:

Questo programma di intervento e di terapia usa come struttura di riferimento l'approccio sistematico nel decifrare la famiglia ed il suo trattamento.

Allo scopo di realizzare questo programma, vengono usate molte tecniche, come: biblio-terapia, (biblio-therapy), terapia dell'infanzia (doll-therapy), gioco dei ruoli (role-playing), valori chiarificatori (clarifying values), soluzione di problemi (problem-solving), giochi di fantasia (water-fantasies), manipolazione della creta (working with clay), sviluppo di un lessico emotivo (development of an emotional dictionary), espressività attraverso il disegno, i colori ed i movimenti (expressing through drawing, colors and movements), ed ancora la costruzione di un geneogramma per ogni famiglia.

Attraverso tutti questi metodi usati in un gruppo, le risorse di una persona vengono risvegliate in senso immaginativo, effettivo, fisico e sociale.

Principali caratteristiche del gruppo:

I gruppi sono formati da 10 famiglie con un solo genitore; non sono pubblici ed hanno una composizione eterogenea in rapporto al sesso, all'età, all'istruzione ed allo stato sociale. La durata del programma è di sei mesi. Gli incontri si tengono una volta a settimana e durano due ore. Ciascun laboratorio è strutturato in anticipo con obiettivi ben prefissati che devono essere raggiunti.

I laboratori operano attraverso lo scambio di opinioni allo scopo di trovare nuove risposte cognitive, emotive e comportamentali alla crisi sociale iniziata con il divorzio inteso come particolare fattore di stress.

Programma del laboratorio:

Il laboratorio si attua in 24 incontri suddivisi in cinque fasi:

Fase 1: 10 laboratori. I partecipanti lavorano attivamente su se stessi e sulla propria esperienza emotiva rispetto al divorzio e condividono le loro emozioni di sacrificio, fallimento, stress, perdita ed ansietà.

I partecipanti lavorano sull'accettare una parziale responsabilità personale del fallimento, lo scopo di ciò è renderli consapevoli di tali sentimenti, da ridurre in un secondo momento, e produrre un cambiamento nell'attitudine personale rispetto al divorzio.

Fase 2: 6 laboratori. Con l'elaborazione di un diagramma che ha anche caratteristiche educative, si prospetta alle famiglie la possibilità di funzionare, vengono anche a conoscenza delle dinamiche relazionali, comprendono l'influenza dei modelli transgenerazionali del partner, ed anche il tipo di relazione tra matrimonio e figli e fra tutti gli altri componenti della famiglia.

Attraverso l'elaborazione di un proprio geneogramma, viene ridotto il sentimento di deficienza personale del membro del gruppo, ciò porta ad una rivalutazione razionale della propria personalità, della personalità dei genitori e del sistema di legami, preso nel suo insieme, per creare una connessione fra le disfunzioni e per rompere il sistema di modelli inadeguati di comportamento.

Fase 3 : I membri del gruppo affrontano il problema di essere genitori unici con grandi responsabilità nei confronti dei figli e cercano di operare una ricostruzione funzionale del sistema a genitore unico (singl-parent -system).

Fase 4 : Lavorare con i membri del gruppo prestando particolare attenzione alle relazioni all'interno dell'ambiente sociale: con genitori, amici, cooperatori, e contemporaneamente costruire una relazione adeguata con l'altro genitore su un nuovo livello di rapporto fra genitori, ponendo la relazione genitore-genitore e figlio-genitore come la più importante caratteristica

Fase 5 : Si deve prestare una particolare attenzione agli aspetti personali di crescita e di sviluppo, nonché al miglioramento della qualità dello stile di vita personale. Si stanno tenendo dei colloqui sulla possibilità di formare nuovi rapporti associativi, sulle loro prerogative nonché sulle aspettative dei membri dei gruppi relative all'accettazione ed al processo di costruzione di una relazione tra i loro figli ed il nuovo compagno (coniuge) e alla costruzione di un rapporto con i figli del partner nati dal suo precedente matrimonio. Si presta una particolare attenzione al rapporto "i miei figli-i tuoi figli-i nostri figli".

Metodi di valutazione

La natura sperimentale di questo programma, il ristretto campo e gli obiettivi accuratamente definiti, nonché le caratteristiche del modello, determinano il metro della sua valutazione ponendo dei limiti alla metodologia ed alla validità sostanziale.

A causa di ciò ci siamo limitati al metodo della prova e riprova (test-retest).

Ogni membro del gruppo compila un "questionario d'ingresso" (input-questionnaire) e dopo aver completato il ciclo di incontri un "questionario d'uscita" (output-questionnaire). I questionari contengono domande individuali per la valutazione di moduli paralleli (d'ingresso e di uscita), ciascun questionario contiene anche un gruppo di domande specifiche che l'altro questionario non può contenere. Questionari paralleli vengono elaborati per i genitori (in ingresso ed in uscita) e per i figli ( in ingresso ed in uscita).

Questi questionari contengono domande su varie aree: dati anagrafici, domande che richiedono un parere sull'altro genitore e sul rapporto fra genitori e domande che richiedono il parere dei figli.

Le domande del questionario d'ingresso sono relative alle aspettative ed alla partecipazione al gruppo, il questionario di uscita contiene domande su una personale valutazione del lavoro svolto all'interno del gruppo.

Le domande per i figli hanno caratteristiche simili, essi devono dare risposte sulla esperienza personale, una valutazione del proprio rapporto col genitore col quale si vive ed un'altra sul genitore col quale non si vive, una valutazione relativa al loro giudizio sul rapporto tra i genitori ecc. .

Anche qui vengono poste domande specifiche nei questionari d'ingresso e di uscita., che partono da ciò che loro si aspettano dal gruppo ad arrivano a ciò che ne hanno avuto.

Durante il lavoro di gruppo viene usato anche il metodo di osservazione del gruppo, col quale gli elementi di osservazione vengono sviluppati e pianificati in anticipo.

Prospettive

In base all'esperienza dalla diretta implementazione al lavoro pratico ed ai risultati ottenuti con una valutazione, si è progettato di sviluppare, arricchire e rendere questo programma più sensibile o attuale rispetto ai bisogni specifici delle famigle menzionate.

Allo stesso tempo è necessario applicare un sistema più sistaltico e più valido per valutazioni più approfondite dei dati.

È anche nostra opinione che la costruzione di una rete di programmi complementari che dovrebbe coprire tutte le età dei figli possa essere un contributo essenziale per un'azione preventiva nella famiglia nel periodo di transizione, così come nel periodo successivo al divorzio della famiglia

conclusione

Il periodo di transizione della nostra società ha portato grandi cambiamenti al sistema politico e sociale, alle condizioni socio-economiche, alle norme etiche e morali ed ai sistemi di valori e di orientamento. Ciò ha il suo impatto su tutti i segmenti della società e soprattutto sulla famiglia come cellula di base della società.

La famiglia sperimenta significativi cambiamenti.

Possiamo giustamente dire che ci troviamo ad avere a che fare con una trasformazione della famiglia come risultato di :La nostra realtà sociale è già triangolare (?) nel senso delle relazioni inter-personali che portano la famiglia ad uno stile di vita aggressivo, il cui risultato è un gran numero di divorzi. In tal modo si ha una nuova trasformazione familiare, stabilendo nuovi rapporti, relazioni, distribuzione di poteri, divisione di ruoli all'interno del sistema familiare composto da un genitore (one-parent-family system).

Questo programma è inteso come attività preventiva e come tentativo sperimentale. È focalizzato sul lavoro con famiglie con un genitore (un solo genitore che vive con i suoi figli) nel periodo successivo al divorzio. All'interno di una struttura di riferimento di sei mesi con 24 incontri di sessioni settimanali di due ore, ci sono cinque fasi con particolari elementi qulificanti per ciascuna fase. Gli operatori sociali hanno obiettivi prefissati, il metodo di lavoro di base è di intervento psico-sociale e la terapia ha carattere pedagogico.

Ogni laboratorio include lo scambio di esperienze nel contesto di un gruppo con l'uso di molte tecniche: biblio-terapia, terapia dell'infanzia, gioco dei ruoli, giochi di fantasia, geneogrammi, espressività attraverso il disegno.

Questo gruppo di lavoro non è pubblico ed ha sino a 10 genitori con i loro figli. Il gruppo viene selezionato con un criterio trasparente: è etereogeneo rispetto al sesso, all'istruzione ed allo stato sociale.

Quanto agli obiettivi di valutazione, vengono usati questionari scritti con schemi (d'ingresso e di uscita) e metodi di osservazione paralleli.

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6.4. La faticosa ricerca della parità:
le tabacchine nel salento 1900-1950.

Rosalba Nestore

Introduzione


Tentare di ricostruire pezzi di storia delle donne, settoriale, locale di alcune categorie, può significare in alcuni casi molto, e tuttavia significa ancora molto poco se confrontato con l'enorme quantità di ricerca e di ricostruzione che ancora è da farsi. È vero, molto è stato già detto, e molto è stato già fatto: dalle numerose riviste di storia delle donne, presenti e purtroppo ormai chiuse, (vedi l'esperienza preziosa di "Memoria"), le raccolte di studi di genere che si vanno diffondendo anche in Italia, i numerosi Centri di studio e di documentazione, le singole, lodevoli iniziative di donne che tentano di salvare pezzetti più o meno piccoli di voci e di silenzi.

Il nuovo, nuovissimi femminismo, quello degli anni '90, quello che si sta affacciando sul nuovo millennio, potrà avvalersi di tanta intelligenza, volontà, intellettualità e competenze espresse dalle donne e ormai universalmente riconosciute; eppure tanto ancora resta da fare. Resta tutto intero il problema della ricostruzione dello statuto delle storie delle donne, della ricognizione e inventario delle esperienze, del vecchio, vecchissimo, sepolto "nell'archeologia del silenzio" e del nuovo, nuovissimo che ancora si stenta a riconoscere .Una ricostruzione, insomma che parallelamente deve percorrere il doppio binario del passato e del futuro ben ancorandosi al presente. Ritrovare il proprio passato, facendolo emergere dagli archivi, dalle memorie dalle esperienze di vita, e nello stesso tempo guardare al proprio futuro sapendo riconoscere e segni, i simboli, le strade che portano al sapere di genere. Potenziare dunque le risorse, avviare e mantenere vivo il dibattito, costruire reti di pensiero, di parole e di azioni per tenere insieme la storia, il lavoro, il pensiero filosofico, politico, sociale psicologico ecc. e tutto quello che si muove in questo nuovo, nascente universo femminile.

1. La Tabacchicoltura in Terra D'Otranto.

La ristrutturazione agricola nei primi decenni dopo l'Unità d'Italia, fu pagata sostanzialmente dalle masse contadine del Mezzogiorno, "...lo sfruttamento estremo della forza-lavoro dei contadini vessati dai tempi lavorativi prolungati oltre ogni dire, ingaggiati con la più bassa tariffa possibile dagli imprenditori coi quali patteggiavano sulla piazza del paese, la sera prima; in lotta(...), contro la miseria e la fame "effettiva e straziante".

La crisi profonda dell'olivicoltura e della viticoltura, determinata tra l'altro da malattie parassitarie, costrinsero i proprietari terrieri a fare tentativi di diversificazione delle colture. Nei quattro circondari di Brindisi, Gallipoli, Lecce e Taranto che costituivano il territorio della Terra d'Otranto, la coltura del tabacco, già diffusa nei secoli passati, ebbe un improvviso incremento ed alla fine dell'800 vi si coltivava il 24% della produzione nazionale.

Già nel censimento del 1871 le concessioni si estendevano su un totale di oltre sei milioni di Km. per un totale di 40 comuni e, benché ancora non si pensasse alla produzione del tabacco come unica coltura di questa provincia, tuttavia l'attenzione alla sua produzione e trasformazione fu, negli anni avvenire, crescente. In realtà, la coltivazione del tabacco permetteva l'identificazione tra il titolare della concessione ed il grande proprietario terriero, che avrebbe utilizzato la colonia per la coltivazione e le grandi, docili, masse femminili per la lavorazione delle foglie, già all'interno dell'azienda, sicuro sempre dell'acquisto da parte dello Stato. Così "La Direzione Generale delle Gabelle affidò (1891) al Prof. Orazio Comes, oriundo pugliese, docente presso il rinomato Istituto Superiore Agrario di Portici, l'incarico di istituire tre campi sperimentali. Gli esperimenti interessarono i circondari di Lecce, (presso la Regia Scuola Agraria), a Poggiardo e ad Alessano; i risultati ottenuti furono tanto incoraggianti che nel 1897 si avviò la fase produttiva nella Manifattura del capoluogo salentino...". Nel 1893, il Governo aveva istituito la Direzione generale delle Privative, che decise nel 1898, la concessione di 20.500.000 piante di tabacco orientale distribuite per tutto il Salento Ben 8.500.000 di piante della qualità Xanti YaKà, furono concesse ai comuni di Diso, Poggiardo, Specchia, Tricase, Calimera, Lecce e Sternatia.

All'inizio del nuovo secolo, il tabacco fu considerato come la coltura che sola poteva da una parte accrescere il reddito, ancora così basso delle popolazioni salentine, e dall'altra dare un input potente alla modernizzazione dei metodi lavorativi delle campagne. In realtà, il concentrare tanta mano d'opera negli opifici e nelle Manifatture contribuì alla crescita professionale di masse contadine e soprattutto di masse contadine femminili, ma contribuì soprattutto, a far entrare in contatto i lavoratori di ambo i sessi con un'organizzazione del lavoro di tipo industriale sino ad allora quasi sconosciuta. Le maestranze leccesi furono così altamente professionalizzate da essere utilizzate anche all'estero quando si doveva impiantare una nuova Manifattura Tabacchi. I risultati furono Però, abbastanza deludenti e si notò una profonda discrepanza tra l'enorme quantità di lavoro richiesta dalla nuova coltura e la sua reale capacità remunerativa. Nonostante questo, la nuova coltura si diffuse e si impose su tutto il territorio salentino e dal 1904 in poi si diffusero le Concessioni speciali, che, inizialmente presenti solo nel Capo di Leuca, si estesero nei decenni successivi in tutta la Terra d'Otranto.

2. Nascita delle organizzazioni femminili e le lotte del primo dopo-guerra.

Gli anni che seguirono la prima guerra mondiale, avevano fatto sperimentare alle donne italiane, con i licenziamenti di massa della mano d'opera femminile, per far posto agli uomini che tornavano dal fronte, la loro triste condizione di "esercito industriale di riserva".

Nelle campagne, la miseria e la fame, spinsero le masse contadine, soprattutto nel Mezzogiorno, all'occupazione delle terre. Le donne ebbero in queste occupazioni, un ruolo fondamentale. È a questi due primi momenti di partecipazione alle lotte operaie e contadine, (la lotta contro la disoccupazione industriale al Nord e l'occupazione delle terre al Sud), che bisogna far risalire i primi tentativi di organizzazione delle masse femminili italiane. Da qui nasce anche l'attenzione che i partiti della sinistra ebbero per le donne ed il loro lavoro: nel 1922 Ordine Nuovo, la rivista fondata da A. Gramsci, dava spazio ai temi dell'emancipazione femminile ed il 10 febbraio vi apparve il manifesto del II Congresso dell'Internazionale Comunista alle lavoratrici di tutto il mondo.
Camilla Ravera fu incaricata da Gramsci di curare la pubblicazione settimanale di una "Tribuna delle donne". Il 24 febbraio la "Tribuna" uscì con un comunicato del Comitato Esecutivo dell'I.C. che annunciava la costituzione del Segretariato Internazionale Femminile, diretto da Clara Zetkin; e raccomandava ai partiti comunisti la creazione di Comitati nazionali per il lavoro fra le donne. Nel 1924, la Rivista "Compagna", nata come Organo del Partito Comunista d'Italia per la propaganda fra le donne, e poi Quindicinale per la propaganda tra le donne, dà notizia della difficoltà estrema di organizzazione fra le donne a Lecce. Un articolo nel n.5 del 1 dicembre 1924, a firma Santa A. scrive: "In tutta la mia Federazione non vi sono altre iscritte al Partito all'infuori di me che milito nelle file dell'organizzazione rivoluzionaria da molti anni". Ma tra quali donne e con quali mezzi si sta svolgendo quest'opera di propaganda? Ecco spuntare le tabacchine: "In modo particolare questo lavoro di propaganda e di organizzazione è fruttuoso fra le operaie del tabacco e le contadine del Salento, contadine salariate e in condizioni di lavoro e di salario tristissime".

Un anno dopo, nel 1925, la stessa rivista dà grande spazio alle lotte delle tabacchine salentine, con un articolo dal titolo: "la Lotta delle operaie del tabacco nel Salento". In questo articolo si riportano le condizioni di vita e di lavoro delle operaie.
"I concessionari nei loro stabilimenti si servono quasi esclusivamente di mano d'opera femminile. Nel Salento circa 30.000 donne sono impiegate nella lavorazione del Tabacco per sei mesi all'anno e 10.000 vi sono occupate per l'intero anno. Esse ricevono un salario che va da un minimo di lire 3,50 giornaliere a un massimo di lire 6".

Ma alla crescente povertà e disperazione delle tabacchine, si contrapponeva un'altrettanto potente mancanza di organizzazione e di coesione all'interno della categoria, anche perché il trattamento risultava diverso all'interno dei vari stabilimenti. Nello stesso articolo già citato p. es. si dà notizia delle tabacchine del capoluogo leccese che percepivano quasi il doppio del salario giornaliero ed usufruivano di ferie, varie assicurazioni, ed addirittura di pensioni e di speciali indennità nel caso di malattia o di parto. Le conquiste delle operaie leccesi ottenute con grandi agitazioni e scioperi furono di stimolo per l'organizzazione delle tabacchine del resto del territorio, anche se spesso gli scioperi, spontanei e privi di grande efficacia, venivano repressi duramente e si risolvevano quasi sempre con qualche minima concessione salariale e con il licenziamento delle più attive e consapevoli.

Nonostante le sconfitte, e le difficoltà organizzative, le agitazioni e gli scioperi furono costanti per tutto il periodo fascista e ripresero nuovo vigore durante la guerra di liberazione fino al secondo dopoguerra.

3. Dalle lotte contro il carovita alle rivendicazioni per una migliore qualità della vita.

Dal 1944, nel Salento, lotte durissime contro il carovita di quel tragico secondo dopoguerra, interessarono soprattutto le donne. Esse si combatterono soprattutto a Nociglia, Squinzano, Campi Salentina, Martano e Lecce. Tutte zone con forti presenze di tabacchine, che venivano organizzate soprattutto dalla Federterra. Alla fine del '46, le tabacchine in lotta sono ben 45.000, solo nella provincia di Lecce. Il loro salario è di 200 - 250 lire al giorno, (mentre il salario maschile corrispondente era almeno il doppio), con 8-10 ore di lavoro, svolto in locali malsani ed antigienici, con scarsissima assistenza e quasi nessun diritto. Nel 1947, le rivendicazioni delle tabacchine di Lecce, Copertino, Galatina e Tricase contengono oltre alla richiesta di un sussidio straordinario di disoccupazione, anche quella della presenza di un proprio rappresentante nel Comitato Interministeriale per la Disoccupazione. La richiesta fu respinta per più volte e si dovette arrivare allo sciopero generale delle tabacchine per ottenere che entrasse a far parte del Comitato un rappresentante della categoria. si ottennero inoltre altri 2 miliardi di sussidio di disoccupazione da distribuire ad oltre 65.000 lavoratrici della provincia di Lecce.

L'esito positivo della trattativa spinge tutta la categoria a non diminuire la pressione per ottenere, finalmente un contratto nazionale. Fu così che nel mese di luglio dello stesso anno, l'Apti (Associazione produttori tabacchi italiani), fu costretta ad aprire le trattative che si conclusero tre mesi dopo con la sigla presso il ministero del lavoro, il 1° novembre 1947 del Contratto nazionale della categoria. E benché la firma del Contratto fosse la rivendicazione principale, si riuscirono ad ottenere anche miglioramenti salariali.

Cresce da qui la capacità di organizzarsi, la consapevolezza di sé e del valore del proprio lavoro, la certezza di lottare per i propri diritti ma anche per una crescita di conseguenza di tutta la comunità. Nasce anche a Lecce in questo periodo la prima vera organizzazione femminile, l'U.D.I. (Unione Donne Italiane), ancora legata fortemente al Pci ed al Psi, ma con una forte spinta all'autonomia già nei primi anni di vita dell'organizzazione. Ne fecero parte Anna e Teresa Rocci e Rosetta Buonatesta che fu alla testa delle lotte delle tabacchine leccesi di quegli anni.

Cresce così anche grazie alle organizzazioni femminili la capacità di riflettere su una propria "specificità", di vita e di lavoro e la capacità di elaborare piattaforme che rivendichino non più, o non soltanto richieste legate al lavoro, ma anche al miglioramento delle condizioni generali di vita, o come diremmo oggi alla "qualità della vita". Fu così che al III Congresso della Federterra, il segretario uscente Giuseppe Calasso, dà notizia delle richieste che le tabacchine fanno nella loro piattaforma rivendicativa: "...mense aziendali, per tutte le tabacchine della città e della provincia, asili nido per i loro bambini e l'attrezzatura igienico-sanitaria nelle fabbriche; nonché le cucine per la confezione del pasto caldo".

Dagli anni '50 in poi comincia, per quanto riguarda il lavoro femminile, una vera e propria inversione di tendenza; e questo sarà tanto più evidente per il lavoro delle tabacchine. La nuova ristrutturazione delle campagne portò infatti ad una drastica riduzione dell'etteraggio coltivato a tabacco, che dai 18.060 ettari del '47 era passato ai 13.337 del '52. A questo si aggiunse una grave crisi vinicola ed olearia, che insieme alla violazione da parte degli agrari e dei concessionari di tabacco, dei contratti di lavoro e delle leggi che regolavano i rapporti sanciti da quei contratti, e il perdurare di condizioni di vita disumane che persistevano nelle campagne e nelle fabbriche di tabacco, resero di nuovo difficile la crescita delle organizzazioni delle donne e le loro rivendicazioni. Comincia, inoltre proprio in quegli anni a diffondersi il lavoro a domicilio, che disgregando la comunità di fabbrica, fa ritornare le donne a casa. Bisognerà attendere il nuovo movimento di contestazione degli studenti del '68 per poter di nuovo rivedere un movimento femminile rinnovato nello stile e nei contenuti.

Localizzazione delle ditte

ZONA III XANTI YAKA.
Arnesano6
Campi3
Carmiano9
Copertino14
Galatone3
Guagnano -
Leverano3
Monteroni6
Nardò12
Novoli9
Salice1
Veglie1
ZONA IV ERZEGOVINA
Calimera5
Carpignano1
Caprarca2
Castrì1
Castrignano dei Greci 5
Cavallino8
Lecce21
Lequile4
Lizzanello4
Martano2
Martignano1
Melendugno2
San Cesario9
San Donato1
San Pietro5
Squinzano2
Surbo-
Trepuzzi3
Vernole-
ZONA V PERUSTITZA
Alezio1
Alliste3
Aradeo5
Casarano3
Collepasso4
Cutrofiano6
Gallipoli2
Matino1
Melissano1
Neviano4
Parabita3
Racale1
San Nicola1
Seclì-
SoglianoCavour 5
Taviano-
Tuglie2
Uggiano2
ZONA VI ERZEGOVINA
Acquarica d.Capo 2
Corigliano5
Galatina13
Maglie3
Melpognano1
Presicce1
Ruffano3
Soleto4
Sternatia4
Supersano2
Scorrano5
Specchia4
Taurisano4
Zollino2
ZONA VII ERZEGOVINA
Alessano7
Andrano4
Bagnolo1
Cannole1
Castrignano del Capo 2
Corsano2
Cursi3
Diso2
Gagliano2
Giuggianello2
Giurdignano-
Miggiano-
Montesano1
Morciano1
Minervino1
Muroleccese6
Nociglia1
Ortelle4
Otranto2
Palmarigi1
Poggiardo6
Patù2
Salve3
Sanarica1
S.Cesarea-
Spongano3
Surano-
Tiggiano1
Tricase9
Uggiano la Chiesa2
PAESI DA INSERIRE NELLE ZONE
Barbarano1
Botrugno2
Casamassella 1
Castiglione2
Castro2
Depressa2
Cocumola1
Galugnano2
Giuliano1
Collemeto2
Lucugnano1
Marittima3
Merine1
Montesado4
Magliano1
Pisignano1
Ruggiano1
S.Cassiano2
Serrano1
Vaste2
Vignacastrisi3
Vitigliano2
TOTALE348


Bibliografia:

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6.5 Saluto del prefetto di Tirana, dott.ssa Makbule Ceço


Vorrei salutare il Comitato direttivo dell'AWMR, la presidente Yana Mintoff Bland, la segretaria generale Ninetta Kazantzis, tutte le organizzatrici di questa conferenza e particolarmente Ada Donno per la piacevole ed interessante organizzazione e per l'accoglienza a noi offerta.

Noi albanesi siccome siamo un popolo accogliente, sentiamo molto questo affetto, particolarmente in questo periodo difficile che ci fa spendere moltissime energie durante questo passaggio alla normalità, dopo la crisi dell'anno scorso e di fronte al rischio del attuale in Kossovo. Qui, tra l'altro, la situazione della donna è troppo difficile. Migliaia di famiglie e donne del Kossovo sono costrette a fuggire dalle loro case. Invito questa conferenza a sostenere la loro causa, per assicurare una pace stabile nei Balcani, nel Mediterraneo ed oltre.

Apprezzo le finalità di questa conferenza che mette al centro dell'attenzione i vari problemi della donna nella regione mediterranea, gli sforzi in direzione di una giusta soluzione dei problemi e di una sensibilizzazione delle nostra società all'aspirazione ad uno sviluppo ed una civiltà di giustizia e di pace.

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6.6 Per una soluzione costruttiva della crisi del Kossovo
di Iola Kurtiqi (Wilpf-Albania)


Desidero portare a questa conferenza i saluti della Wilpf-Albania e delle donne e ragazze albanesi. Noi viviamo in una situazione difficile e stiamo seguendo con ansia gli sviluppi del conflitto in Kossovo che rischia di coinvolgere i Balcani e tutta la regione mediterranea. Siamo contrarie all'espansione della guerra del Kossovo e desideriamo che la soluzione di questo conflitto sia sottoposta ad un processo politico e di pace. Sia fermata la violenza ed il terrore che si pratica sulle donne ed i bambini del Kossovo.

Desideriamo anche che la crisi in Kossovo via trattata senza deformazioni nazionalistiche, con realismo ed in una maniera costruttiva, in direzione della prosperità democratica e convivenza pacifica anche nei Balcani movimentati. Per questo pensiamo che sia necessario prima di tutto un largo respiro democratico anche dentro la Serbia per una soluzione veramente pacifica della questione del Kossovo. Il regime di Milosevic dovrà rispettare i diritti umani fino all'autodeterminazione del popolo kossovaro e dovrà rinunciare alla violenza al terrore esercitato sia contro gli albanesi che costituiscono il 90% della popolazione, sia contro la popolazione serba nel Kossovo.

Si dovrà trovare il modo di allontanare gli ostacoli opposti ai rappresentanti di organizzazioni ed Ngo umanitarie internazionali che desiderano aiutare il popolo kossovaro. Siamo contro ogni forma di violenza politica e sociale presente attualmente in Kossovo, specialmente contro le donne ed i bambini.

Vi invito ad unire la voce e tutte le nostre forze per una giusta e pacifica soluzione della questione del Kossovo. Invito questa conferenza dell'Awmr ad approvare la nostra proposta di formulare una risoluzione comune su questa causa.

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7. Risoluzioni

Risoluzioni

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7.1. Risoluzione sull'Algeria
presentata dalle partecipanti algerine


Noi partecipanti alla 7a conferenza annuale dell'Awmr che ha affrontato il tema Donne e lavoro nel Mediterraneo ed ha esaminato la situazione in Algeria oggi, chiediamo:
  1. Il rispetto dei trattati internazionali, segnatamente la Piattaforma d'azione di Pechino, che riafferma la parità di diritti tra i generi e la Carta africana dei diritti umani, completamente approvate dallo stato algerino;

  2. l'abolizione delle restrizioni operate dallo stato algerino relativamente alle convenzioni internazionali e segnatamente le disposizioni di:

    • l'articolo 2 della Convenzione internazionale del 1979 sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne

    • l'art.15, paragrafo 4 della Convenzione, che conferisce alle donne parità di diritti riguardo alla circolazione e alla scelta della residenza.

  3. il rispetto delle disposizioni della Costituzione algerina del febbraio 1989 relative alla parità tra i sessi, che essenzialmente contraddice le disposizioni del Codice della famiglia in vigore dal giugno 1984.

  4. l'introduzione di strutture di alto livello a favore di un'iniziativa coerente ed efficace relativa a donne e bambini

  5. l'accesso delle donne al sistema dell'informazione che consenta loro di acquisire diretta conoscenza dei loro diritti e consapevolezza della realtà dei loro problemi, mettendole in condizioni di affrontarli.

  6. l'istituzionalizzazione di misure a favore di una comunicazione armoniosa tra i generi, soprattutto attraverso:

    • un contatto costante più profondo nell'ambito dell'istituzione scolastica, le università ed i luoghi di lavoro

    • la creazione di luoghi di scambio

    • l'elaborazione di manuali scolastici che eliminino l'immagine della donna esclusivamente dedita al suo ruolo domestico.

  7. la creazione di un ambito di riflessione in prospettiva di un'istruzione adeguata che sia soddisfacente per le donne consenta loro di penetrare nei vari settori socio-economici. In questo ambito, è necessaria l'instaurazione di un sistema di promozione che garantisca la parità di genere.

  8. realizzazione di misure specifiche che diano alla donna la possibilità di svolgere armonicamente i loro obblighi familiari e professionali, quali:

    • libero accesso agli asili, luoghi di divertimento ed istruzione per i bambini

    • orario di lavoro adeguato alle esigenze delle donne

    • revisione, in particolare, della durata del congedo di maternità, in modo da conformarlo alle regole internazionali e garantire il benessere della madre e del bambino.

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7.2. Risoluzione sul conflitto israele-palestina

Cinque anni sono passati da quando 6 stato firmato il cosiddetto accordo di pace, noto col nome di Accordi di Oslo, e l'AWMR continua ad essere preoccupata per l'andamento del processo.

Osservando i negoziati sull'accordo per lo status definitivo, la prospettiva dell'instaurazione di uno stato palestinese vitale e sovrano appare più lontana che mai.

Guardando al maggio 1999, quando l'accordo definitivo dovrà essere sottoscritto, lo scenario è che Israele intende restituire ai palestinesi non più del 40-45% della Cisgiordania. Questo territorio è diviso chiaramente in tre cantoni separati con la quello maggiore, Gerusalemme, come cuscinetto. Bisogna rilevare che le speranze di una migliore riuscita tramite una vittoria del Labor Party nelle elezioni sono senza fondamento. Il Labor adotta una concezione della sicurezza secondo cui Israele ha bisogno del 50% della Cisgiordania per difendersi. In più, è stato proprio il Labor a costruire la piattaforma di Oslo per allargare le possibilità di uno stato palestinese sovrano.

Uno sguardo più approfondito ai tre principali punti che sono stati rinviati negli accordi di Oslo all'ultima fase: Gerusalemme, insediamenti e profughi (vedi la nostra risoluzione del 1996 e 1997) mostra che essi restano irrisolti.

Gerusalemme: preparando i colloqui sullo status definitivo, gerusalemme sta costruendo freneticamente a Gerusalemme. Altra grande preoccupazione è il tentativo d'israele di ribaltare la situazione demografica di Gerusalemme Est. Migliaia di abitanti sono stati spinti alla periferia di Gerusalemme a causa della mancanza di abitazioni nel centro. (Israele deliberatamente non ha costruito per i palestinesi a Gerusalemme Est). Allo scopo di trattenere gli israeliani, li spinge a prendere la cittadinanza israeliana. Questi passi avrebbero le loro implicazioni sul futuro equilibrio demografico di Gerusalemme poiché i palestinesi che hanno preso la cittadinanza sono conteggiati come cittadini israeliani.

Insediamenti: continuano l'espansione degli insediamenti esistenti e la confisca delle terre. Israele sta preparando le infrastrutture per una ermetica divisione tra israeliani e palestinesi nella Cisgiordania attraverso la costruzione di strade by pass, tutto a spese del territorio palestinese. Nell'area di Ma'ale Admin 12mila dunams stanno per essere annessi alla città, che sarà infine unita a Gerusalemme.

Profughi: la questione dei profughi è stata espunta dall'ordine del giorno dei negoziati da Israele con tacito consenso dei palestinesi. Questo significa che due terzi dei palestinesi sono fuori causa e ad essi viene negato il diritto di essere presi in considerazione per qualsiasi soluzione. Il loro incerto status nella Diaspora può dar luogo ad ulteriori espatri se si verificheranno in futuro tumulti nella regione.

L'Awmr conclude che nei tre punti in esame del processo di Oslo si è mancato di offrire soluzioni e di costruire una giusta piattaforma per una futura durevole pace.

Mentre i principali temi politici attraggono l'attenzione nazionale ed internazionale, non possiamo sottacere il tirannico e corrotto regime che opera nei Territori autonomi, retate, torture a morte, sistematica repressione della libertà di stampa sono diventati la seconda natura dell'Authority palestinese. Dicendo questo, non intendiamo Israele dalla sua violazione dei diritti umani e dalla sua responsabilità nell'aver ridotto l'Authority palestinese a gendarme locale del suo stesso popolo.

Come donne siamo preoccupate per la militarizzazione della società palestinese. Questa tendenza sta bloccando il cammino verso la crescita di istituzioni democratiche e della società civile, che è la sola garanzia di sviluppo per le donne e la società intera.

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7.3. Risoluzione su Cipro.
Presentata dalle partecipanti cipriote e turche


L'Awmr nella sua 7a conferenza annuale tenuta a Gallipoli (Italia) l'8-12 luglio 1998, sul tema "donne e lavoro nel Mediterraneo":

1. esprime la sua solidarietà con il popolo di Cipro intero - Greco e Turco - che da 24 anni subisce un'inaccettabile divisione, dal colpo di stato turco del1974.

2.Chiede l'applicazione delle risoluzioni delle NU su Cipro che reclamano il rispetto dell'indipendenza, sovranità ed integrità territoriale della repubblica di Cipro, il ritiro dall'isola delle truppe straniere, delle forze di occupazione e degli insediamenti turchi e la garanzia dei diritti umani per tutti i ciprioti, compreso il diritto dei profughi a ritornare alle loro case e proprietà in condizioni di sicurezza e di pace.

3. Chiede ai governi, specialmente a quello degli Usa, di esercitare la loro influenza sulla Turchia affinché il governo turco rispetti le risoluzioni delle NU su Cipro ed accetti la riunificazione dell'isola.

4. Chiede ai governi di Grecia, Turchia e Cipro e al leader turco-cipriota signor Denktash di consentire alle donne cipriote d'incontrarsi liberamente per discutere i loro comuni problemi ed il futuro comune dell'isola di Cipro, senza restrizioni, proibizioni e pressioni. È solo attraverso la comprensione e ricostruzione di fiducia tra le due comunità che Cipro può risolvere i suoi problemi.

5. Dichiara che il diritto delle donne al lavoro può essere assicurato solo a condizione che ci sia una giusta e durevole soluzione del problema del popolo cipriota, la cui soluzione assicurerà tutti i fondamentali diritti umani.

6. Dichiara di essere pronta a cooperare con tutte le forze amanti della pace e della libertà nella ricerca di una giusta e durevole soluzione del problema di Cipro che assicuri pace e prosperità a tutti i ciprioti, sia di etnia greca che turca.

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7.4. Risoluzione sulla Grecia
presentata dalle partecipanti greche


Nonostante tutte le organizzazioni femminili abbiano preso posizione contro la proposta del Ministero della difesa per un servizio di Difesa civile, il governo continua a perseguire l'iscrizione obbligatoria delle donne nei gruppi di milizia locale. Se la legge passa, la Grecia sarà il primo paese in Europa ad arruolare forzatamente le donne nel servizio militare.

Le donne hanno rigettato la proposta di coscrizione del governo nei primi anni '80 sulla base soprattutto del carico addizionale di compiti per le donne in una situazione già impari di responsabilità tra uomini e donne. Essa fu anche respinta in quanto ulteriore passo verso la militarizzazione della società. Gli stessi argomenti valgono tuttora, anzi ce ne sono di altri. La violenza crescente nel mondo è a svantaggio delle donne, poiché esse sono le prime vittime. Ed il processo di globalizzazione ha creato il bisogno di accordi internazionali sui conflitti, un impegno sul quale le forze di difesa civile possono lavorare insieme. Nello stesso momento in cui il governo chiede alle donne di fare più figli affinché i costi economici di una popolazione che va invecchiando non ricadano su una piccola minoranza, è strano, quanto meno, che si creino ulteriori ostacoli alle possibilità procreative delle donne.

Chiediamo al Ministro della Difesa, ai politici, ai funzionari del Pentagono e al governo di esporre in un linguaggio chiaro ed intelligibile le ragioni ed i motivi della proposta di coscrizione civile, soprattutto riguardo alle donne. Solo se ci sono ragioni valide, allora chiediamo ai nostri rappresentanti in Parlamento di prenderle in considerazione.

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7.5. Risoluzione sul Kurdistan
Presentata dalla partecipante Kurda


Alfine di portare la questione del popolo e delle donne curde all'attenzione dell'opinione pubblica mondiale, proponiamo qui la creazione di un gruppo d'azione e ricerca che si concentri su:
  1. Rispetto dei diritti umani ed in particolare delle donne curde

  2. Completa emancipazione delle donne nella famiglia e nella società, e liberazione del popolo curdo.

  3. Pressione per la riforma del sistema carcerario in Turchia

  4. Informazione sugli orrori perpetrati ai danni del popolo curdo, sul corpo e la mente delle donne curde

  5. Continua attenzione al caso di Leyla Zana

  6. Organizzazione di momenti d'incontro e dialogo fra il popolo curdo ed il popolo turco che passino per il tramite delle donne per la costruzione di un futuro di pace

Solidarietà, uguaglianza e rispetto reciproco fra i popoli e gli uomini e le donne della regione.

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7.6. Richiesta di azione in favore di Abraham Serfaty
Presentata da Patrizia Sterpetti, Italia


L'associazione delle donne della Regione Mediterranea chiede al governo e alle altre autorità del Marocco di consentire alla popolazione marocchina di organizzarsi liberamente in sindacati in condizioni di reale democrazia.

Nello stesso tempo chiede al governo del Marocco di consentire ad Abraham Serfaty di ritornare in Marocco come libero cittadino per poter vivere nel suo paese.

(Da inviare al governo, al ministro della giustizia del Marocco, a tutti i governi del Mediterraneo e alle Nazioni Unite)

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7.7. Risoluzione sui matrimoni misti nei paesi della ex Jugoslavia
Presentata da Maya Kandido Yaksic


Dato che sussiste una eccezionale ed insopportabile situazione per donne, uomini e bambini nati da matrimoni misti (uno su sei matrimoni celebrati) negli stati della ex Jugoslavia, chiediamo che le famiglie possano liberamente farsi visita reciproca e sostenere i loro diritti di proprietà.

Pertanto decidiamo di rivolgere una forte sollecitazione all'Unione Europea a livello della regione di considerare i modi per eliminare questa ingiustizia.

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7.8. Appello alla conferenza di Roma sul tribunale internazionale
Presentata dalla delegazione romana presente a Gallipoli


Si chiede che la Conferenza che a Roma in questi giorni dovrà istruire il Tribunale penale internazionale permanente ponga al primo posto dell'agenda l'esigenza delle donna di ottenere il rispetto dei diritti umani anche all'interno degli stati dove essi vengono permanentemente violati.

Con ciò non riteniamo che venga violato il diritto alla sovranità degli stati perché il rispetto dei fondamentali diritti umani va oltre i confini dei singoli paesi.

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7.9. Risoluzione sul Kossovo
Presentata dalle partecipanti albanesi e serbe congiuntamente


Discutendo la situazione del Kossovo oggi esprimiamo il nostro sostegno ad una soluzione politica e non violenta del conflitto attraverso negoziati tra i rappresentanti ufficiali delle due parti - Serbia e Kossovo - sotto l'egida di appositi organismi della comunità internazionale.

Chiediamo la soluzione della crisi nel Kossovo in una maniera realistica, costruttiva e democratica senza ricorso a rivendicazioni nazionalistiche.

Chiediamo che si ponga rapidamente fine alle sofferenze di tutti i civili nel Kossovo, specialmente donne e bambini, con passi immediati per facilitare l'aiuto internazionale umanitario e l'attività delle NGO locali, specialmente pacifiste e femminili, e per favorire un'informazione veritiera da parte dei mass media.

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7.10. Risoluzione su Silvia Baraldini
Presentata dalla delegazione italiana


La cittadina italiana Silvia Baraldini è detenuta da 16 anni negli USA, nel carcere di Danbury - Connecticut, condannata ad una pena complessiva di 43 anni.

L'Associazione delle Donne della Regione Mediterranea ricorda la mancata applicazione della Convenzione di Strasburgo per Silvia Baraldini che sarà all'esame del Comitato per gli affari penali del Consiglio d'Europa.

Silvia Baraldini non è stata condannata per azioni armate ma per "concorso in un'evasione incruenta" e per "associazione cospirativa". Si è ammalata di cancro ed ha tuttora bisogno di cure mediche.

Facciamo appello per il rimpatrio in Italia di Silvia Baraldini chiamando all'impegno tutte le donne di buona volontà, le istituzioni, le amministrazioni ed i governi europei.


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7.11. Risoluzione sul Sudan
Presentata da Fatima Ahmed Ibrahim


L'Awmr sostiene la lotta delle donne sudanesi per rovesciare il regime militare dei fondamentalisti islamici che opprime e discrimina donne e uomini. Tale regime vieta i sindacati e le organizzazioni femminili, aggredisce le donne per le strade, scaccia migliaia di donne dal lavoro, sequestra i loro figli per mandarli a combattere nel Sud. La guerra civile nel Sud significa per donne e bambini dover affrontare la morte ogni giorno, per la maggior parte della popolazione la deportazione e la fame.

Ci appelliamo al Segretario generale dell NU, alla Commissione per i diritti umani delle NU, al Parlamento europeo, all'Organizzazione per l'Unità africana e alla Lega Araba del Cairo affinché esercitino la loro influenza ed il loro potere per far cessare questa drammatica situazione.

(Da inviare agli organismi sopra citati, alle Ambasciate sudanesi nei paesi del Mediterraneo, ai governi del Mediterraneo, ai mezzi d'informazione e al Tribunale sui Crimini di guerra di Roma.

Fatima si appella anche agli italiani per aiutarla ad organizzare una Carovana di Pace in Italia a sostegno del popolo sudanese e all'associazione italiana degli avvocati per aiutarla a a raggiungere il Tribunale per i Crimini di guerra a Roma.

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7.12. Mozione presentata dalle partecipanti italiane che lavorano nelle ong di sviluppo


Come donne del Mediterraneo appartenenti all'Unione Europea sentiamo la responsabilità di richiamare i Parlamenti italiano ed europeo ed i governi dei Paesi dell'UE al pieno rispetto dei principi di solidarietà ed equità sociale espressi nel trattato di Amsterdam (che recepisce i principi della Convenzione di Ginevra).
  1. In particolare ci preoccupano le violazioni della legalità e dei diritti umani perpetrate con la negazione del diritto di non refoulement ai profughi dell'area mediterranea, che li consegna di fatto nelle mani dei mercanti di carne umana (soprattutto con la tratta di donne e bambine/i).

  2. Ci preoccupa l'applicazione a senso unico del trattato di Schengen, con la negazione del visto a donne e uomini di paesi dell'area mediterranea e dei paesi "poveri", pur in possesso di regolare invito. Il trattato di Schengen è la fortezza in cui l'Europa si è chiusa, negando nei fatti alle donne e agli uomini dei paesi fin qui sfruttati e colonizzati dall'Occidente ricco e liberale di fuggire dalla fame, dalla miseria, dalla guerra e dalle persecuzioni politiche che il nostro sfruttamento ha provocato in quei paesi.

  3. Ci allarma, infine, il congelamento di tutti i finanziamenti comunitari per i programmi di lotta all'esclusione sociale, tra cui:

    1. il programma "Povertà 4" per la lotta alla povertà nei paesi dell'UE;
    2. tutti i programmi di cooperazione internazionale, compresi i programmi MEDA nati dalla conferenza di Barcellona sul partenariato euro-mediterraneo;
    3. tutti i programmi di lotta contro il razzismo e per l'integrazione degli immigrati.
Le donne, che portano sulle loro spalle il peso maggiore dei costi dell'Unione monetaria, vogliono che i loro soldi vengano spesi per un'Europa sociale e giusta.

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7.13. Risoluzione Finale


L’Associazione di Donne della Regione Mediterranea, nella sua settima conferenza annuale tenutasi a Gallipoli (Italia) dall’8 al 12 luglio 1998, ha discusso approfonditamente il tema “Donne e lavoro nel Mediterraneo” ed ha analizzato quello che le donne possono fare insieme per affermare il loro diritto a lavorare in parità, a vivere in pace, a costruire un’economia di giustizia.

Molti cambiamenti intervenuti nello scenario internazionale, direttamente o indirettamente, hanno colpito le donne. Nonostante che in alcune aree o paesi siano stati introdotti sistemi politici di democrazia formale (come nell’Est europeo o in Algeria), a ciò non si è accompagnata la giustizia economica o la crescita di partecipazione sociale e politica.

Le politiche economiche imposte dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale comportano l’indebolimento delle politiche sociali ed occupazionali favorendo disoccupazione e povertà. In testa alla lista dei poveri e dei disoccupati ci sono le donne. La povertà è oggi un fenomeno globale che colpisce soprattutto le donne, i giovani e le famiglie mono-parentali. Il 70% dei poveri del mondo sono donne.

La globalizzazione, nella sua forma presente di movimento massiccio di capitali in cerca di massimo profitto e di movimento de-regolato di capitale speculativo, destabilizza le economie, diminuisce i salari reali, aumenta la disoccupazione e costringe alle migrazioni di massa.

Molti accordi politici e i cosiddetti processi di pace nel Mediterraneo sono attualmente un preludio alla penetrazione del capitale privato e alla estensione della dominazione capitalistica statunitense. Privatizzazioni, distruzione dello stato sociale, lavoro in appalto stanno causando ulteriore disoccupazione e aumentando la povertà delle donne.

Nella Regione Mediterranea sussistono grandi ineguaglianze nelle economie e nelle società: il Mediterraneo settentrionale diventa sempre più ricco, quello meridionale sempre più povero. Le donne nelle società tradizionali continuano ad essere considerate “cittadine di seconda classe” e il loro diritto a lavorare e ad essere indipendenti viene messo ancora in questione sia nella famiglia che nella società.

Chiediamo una maggiore cooperazione nella Regione Mediterranea affinché, nel rispetto delle differenti identità, siano ridotte queste disuguaglianze.

Condizioni minime necessarie per la salvaguardia del diritto al lavoro delle donne sono:
Poter lavorare con dignità e sicurezza, libere da molestie sessuali
E’ responsabilità degli Stati favorire le opportunità di lavoro per le disoccupate
Avere diritto ad organizzarsi in sindacati indipendenti e alla trasparenza dei bilanci delle imprese
Avere garantiti i sussidi di disoccupazione in caso di mancanza di lavoro
Avere diritto alla giornata lavorativa di massimo 8 ore
Sia stabilito un adeguato salario minimo e massimo
Siano assicurati uguali salari per uguale lavoro e pari opportunità di lavoro, formazione e carriera, senza distinzione di età, etnia e genere
Sia garantito il diritto di tutte le lavoratrici, comprese le casalinghe, le lavoratrici agricole e le collaboratrici domestiche, alla pensione e ai sussidi a proprio nome
Siano assicurati dai governi e dai datori di lavoro pari diritti alle lavoratrici migranti e profughe
Siano promosse e integrate politiche sociali e occupazionali
Sia garantito il diritto al congedo di maternità e alla cura dei figli in età scolare e prescolare durante la giornata lavorativa
Siano totalmente eliminati il lavoro minorile e la schiavitù sessuale

Gallipoli (Italia), 11 luglio 1998


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8. Post-fazione


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8.1. Progetto mediterraneo
Ada Donno


Riflessione a più voci sui risultati della conferenza delle donne del Mediterraneo tenutasi a Gallipoli lo scorso mese di luglio e sulle prospettive che essa ha aperto
(da Pietre - Speciale donne, marzo 1999)
"Non erano contenti là dove stavano?"
"Non si è mai contenti dove si sta" - disse il controllore.

(da Il piccolo Principe, di Saint Exupery)


Lo scorso luglio abbiamo tenuto a Gallipoli la settima conferenza internazionale dell'Associazione delle donne della regione mediterranea. Il tema era "Donne e lavoro" e, come risulta dalle registrazioni, vi hanno partecipato oltre cento donne: una quarantina provenienti da 14 paesi dell'area, le altre da ogni parte d'Italia.

Realizzarla non è stata impresa facile, ma sono convinta che il beneficio di quella fatica ci seguirà ovunque, me e le donne che l'hanno condivisa, nelle relazioni con le altre donne, con il territorio, con le istituzioni. Abbiamo condiviso l'entusiasmo, ma anche alcuni momenti di sconforto. Nessuna di noi aveva grandi abilità organizzative e ogni momento, fino all'ultimo, sorgeva una nuova difficoltà imprevista.

Nella fretta e l'ansia delle cento cose da fare ho spesso dimenticato di dire loro grazie. Lo faccio ora.

Non è stato facile. Smaltita la fatica del lavoro organizzativo, che ci ha coinvolte talvolta fino all'abbrutimento, abbiamo conosciuto lo scoramento che prende di fronte a quella che ci pare l'insensibilità o l'indifferenza altrui; a quello che ci pareva l'inaridimento del pensiero creativo, travolto dalle cose organizzative;; l'avvilimento di sottoporsi a quello che ci pareva l'ignobile atto di cercare soldi (salvo sentire poi capire la nobiltà dell'atto di avere spostato risorse pubbliche verso la politica delle donne).

Qualunque sforzo vale la pena, se si può dire che si è realizzato un progetto che ci appassiona. Credo che non si possa dire di "fare politica" finché non si è portato sulle spalle il peso, anche organizzativo, di un'impresa, mettendosi in gioco totalmente.

Ora che stiamo curando la pubblicazione degli atti, rileggendo gli interventi e le relazioni, possiamo meglio renderci conto della portata del confronto avviato: la risoluzione finale e gli atti potranno essere base sulla quale costruire elaborazione e azione politica futura, riguardo alle politiche del lavoro, ma non solo.

Si tratta ora di ragionare sui risultati e trovare il modo di dare continuità al progetto.

Quel meeting non nasceva dall'oggi al domani, naturalmente. Era parte importante di un'idea a cui con le donne dell'Awmr personalmente lavoro da quasi dieci anni e che ha costituito un percorso con passaggi e approdi precedenti.

Gallipoli è stato, da una parte, lo scalo indispensabile di un itinerario di navigazione tracciato dalle donne dell'Awmr: dall'altra era anche punto di approdo di quello che abbiamo chiamato "progetto mediterraneo", frutto di relazioni consolidatesi qui nel Salento, senza le quali esso non si sarebbe potuto fare.

Progetto Mediterraneo nasceva con l'intento di collegare quante considerano prioritario che le donne del Mediterraneo unite dicano la propria parola sui piani di sviluppo previsti nell'ambito delle politiche economiche che regolano i rapporti nord-sud e che si creino le condizioni perché, nel rispetto delle differenti identità, siano ridotte le disuguaglianze fra i soggetti diversi.

Solo per limitarci alla questione che abbiamo fatto oggetto del nostro confronto l'estate scorsa, il lavoro, è perfino superfluo ripetere che per le donne lo stato di generale difficoltà è aggravato da una serie di fattori che, limitando il loro accesso alle risorse economiche ed alla partecipazione politica, impongono una divisione del lavoro in cui ai settori femminili della popolazione vengono riservati i compiti più gravosi e meno remunerati.

Ma fino a che punto le ragioni dell'Awmr (di cui sono stata tramite) e quelle delle altre qui si sono incontrate?

Sarebbe un errore sottovalutare che da parte di buona parte delle donne salentine che "storicamente" appartengono ai luoghi della produzione intellettuale e politica, che ho anche praticato, non c'è stata una partecipazione molto significativa. Non sono scattati quei meccanismi ampi di sostegno che per iniziative come queste è indispensabile attivare. Ci siamo spesso dette della necessità che ad iniziative di donne che muovono i passi su un terreno poco favorevole, quale quello del confronto con le istituzioni, le altre assicurino la cosiddetta "area di protezione". Vogliamo capire perché ciò non è avvenuto nel nostro caso, visto che non possono essere intervenuti meccanismi di concorrenzialità, dal momento che il nostro progetto mediterraneo non si sovrapponeva ad altre iniziative simili. Ci sono state chiusure nostre? Conviene pensarci e indagare perché proprio dalle più lontane c'è stata maggiore rispondenza.

Capire le dinamiche che siamo riuscite o non siamo riuscite ad attivare serve comunque a trovare la strada della continuità.

Per riannodare i fili del discorso, sento la necessità di fare riferimento a due momenti: (numero uno) alle assolate giornate di fine agosto 1991 in cui ci riunimmo in un seminario leccese sulla "mediterraneità come luogo politico di donne" e (numero due) a quanto scrissi in occasione del convegno "Saperi di donne e trasmissione", sempre a Lecce, nel febbraio '96. Là dove, nell'accingerci a ripartire per una nuova impresa di donne, ciascuna esaminava il proprio bagaglio, dicevo di portare con me, fra le altre cose, il "desiderio di restare dentro le reti di relazioni forti, già tessute con pazienza, attraverso la Federazione democratica internazionale delle donne e la Women's international league for peace and freedom, nell'area mediterranea (e qui il riferimento è all'Association of women of the mediterranean region che ho contribuito a far nascere e crescere), in Europa e in altri continenti, in molti anni di vita".

Non a caso, in tutti e due i momenti era presente Nadia Gambilongo che nel discorso mediterraneo è stata e continua ad essere mio riferimento solido. Con lei ho condiviso la consapevolezza della necessità e, qualche volta, i sentimenti della solitudine di abitare, stando in una città del sud d'Italia, luoghi organizzati internazionalmente. Fino alla conferenza del luglio scorso e, spero, oltre.

La nostra ipotesi di partenza, un viaggio attraverso il genere tra sviluppo e sottosviluppo, tra contraddizioni strutturali e specificità culturali, ci appassiona ancora. Ci appassiona più che mai l'idea di costruire una rete, che agisca inserita nelle dinamiche internazionali che sempre più investono la nostra vita quotidiana.

Coinvolgere le donne salentine in collegamenti internazionali, sì che possano partecipare al tavolo delle trattative sulle grandi questioni in gioco; uscire dal limite angusto della propria microrealtà di strettezze e di privilegio; non è più possibile predisporre piani per le pari opportunità nel campo del lavoro senza tener conto della dimensione globale che l'appartenenza al genere femminile determina a seconda se si abita a sud o a nord, ad est o ad ovest.

Né, come dice Nadia, possiamo più far finta di non avere gli strumenti per affrontare il problema.

Mentre rifletto su quest'esperienza straordinaria vissuta con le donne dell'Awmr e con un certo numero di donne salentine, sento infine pressante anche il bisogno di tornare sulle ragioni che mi hanno motivata a volere che essa si facesse a Gallipoli, darmi questo luogo nella mia città.

Non parlo qui del rapporto (mancato) con le donne e le istituzioni di Gallipoli. È un altro discorso che va fatto, ma in un altro momento. Non è questione di ricercare radici. Sono d'accordo con Nadia quando dice che in un discorso di nomadismo intellettuale qual è il nostro, è preferibile il termine "posizionamento" a quello di "radicamento". La scelta di Gallipoli è stata di posizionamento e, nel percorso dell'Awmr è stata solo una "porto di scalo". Naturalmente appartiene ai miei desideri che possa diventare qualcosa di più e d'altro, ma le politiche delle donne hanno tempi lunghi e, come dice la presidente delle pari opportunità Silvia Costa, per altre vie conquistata alla causa euro-mediterranea, le donne mediterranee hanno nel sangue la pazienza di Penelope ed il coraggio di Antigone.

Sento infine il bisogno di ri-dichiarare la prospettiva nella quale intendo continuare a muovermi, e cioè un confronto tra donne mediterranee, in un luogo politico, il Mediterraneo appunto, che immagino alternativo al progetto della "fortezza Europa" che altrove si sta realizzando con gran rumore. Ma distinto anche dal progetto Euro-mediterraneo che dalla conferenza di Barcellona in poi sta muovendo notevoli risorse a livelli istituzionali e di Ong. Non voglio mettere in dubbio che chi ci lavora abbia le migliori intenzioni. Voglio solo dire che l'ambizione dell'Awmr è di agire un luogo interamente mediterraneo, non un Mediterraneo proiezione delle buone intenzioni dell'Europa. Anche a costo di qualche ritardo.

Considero illusorio e semplicistico pensare ad un processo di graduale inarrestabile estensione dei diritti civili alle donne dell'area mediterranea, nel quale all'Europa culla di civiltà spetti la funzione di guida (in questo senso ho sentito stonato l'intervento della Commissaria Bonino al convegno delle Mediterranee a Napoli, qualche giorno fa). Troppe cose intorno a noi ci dicono che il processo non è così pacifico. Tutt'altro.

Considero perciò ineludibile per noi il problema, da una parte, della inadeguatezza dell'azione politica delle donne nei confronti di dinamiche internazionali che ci coinvolgono e ci collocano, ci piaccia o no, in un sistema di privilegio e di dominio nei confronti di paesi e popoli di là dal mare; dall'altra, della necessità di definire un'azione politica di donne che non sia di un unico segno.

Mi sono sempre interrogata sulle resistenze che molte donne mostrano ad occuparsi di quelle questioni della cosiddetta macropolitica economica e la loro preferenza verso le piccole dimensioni del quotidiano, dove il "partire da sé" sembra più immediatamente praticabile, insieme al desiderio di agire la realtà con metodi diversi dagli uomini; resistenze che si accompagnano al rifiuto da parte di molte di darsi, in nome della pratica diretta delle donne, forme organizzative ampie.

E mi sono detta che partire da noi stesse ha senso se poi arriviamo a misurarci col contesto di queste enormi contraddizioni.

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8.2. Per arrivare a condividere passioni
di Marina Visciòla


Come in un film, inizio dall'ultima scena. Il mattino del 13 luglio'98, l'aeroporto Casale di Brindisi, mentre dico addio alle ultime donne che partono per i loro paesi di destinazione.

Si è conclusa la settima conferenza internazionale dell'Associazione delle donne della Regione Mediterranea che si è svolta a Gallipoli, nell'Italia del sud.

Una conferenza internazionale non è un impegno da poco. Con pochi mezzi, umani ed economici, diventa una voragine che ti risucchia, ti impedisce di pensare ad altro se non agli aspetti organizzativi.

Il tema della conferenza - donne e lavoro nel Mediterraneo - era particolarmente interessante. Oltretutto sembrava capitare in un momento opportuno. Non sono una studiosa del settore, ma l'argomento era già al centro di letture e confronti con altre donne della mia città. Inoltre, da qualche tempo, attraverso Ada Donno, avevo iniziato ad accostarmi alle forme di associazionismo femminile internazionale. Mi affascinava l'idea di incontrare altre donne a cui l'appartenenza ad un'area geografica mi accomunava, il sud del mondo, ma che vivono realtà politiche, economiche e sociali molto diverse dalle mie. donne che si confrontano con un quotidiano difficile, spesso duro, con bisogni e necessità di parola differenti da quelli con cui si pone l'attivismo femminile in Italia. Uscire dall'autoreferenzialità di un confronto tutto racchiuso in codici linguistici spesso elitari, per trovare un denominatore comune, forse anche in radici storiche, per arrivare a condividere passioni.

Tuttavia, quando Ada ci propose di organizzare la conferenza a Gallipoli, non esitai a dire che trovavo l'idea estremamente impegnativa. Potevo comprendere la sua scelta, determinata in parte da ragioni esterne alla sua volontà, ma anche dettata dal desiderio di rispondere al legame e responsabilità verso le donne della rete internazionale.

Il punto era proprio questo. L'assunzione di un impegno così grosso poteva esistere a condizione di condividere la stessa passione. Il mio interesse era esclusivamente intellettuale, rispondere alla richiesta di Ada significava pensare e mettere in gioco i miei desideri, le energie, il mio tempo. La mia reticenza era determinata anche da altri timori, legati alla capacità di coinvolgimento umano ed economico del mio territorio.

L'organizzazione di una conferenza, per di più internazionale, svolta con forme di volontariato, richiedeva di affidarsi, dar fiducia, ai desideri ed energie di altre donne. La storia delle donne del mio territorio ha un percorso lungo e difficile, come tutte le storie fatte di passioni forti. Era un banco di prova impegnativo.

E ancora. Per ragioni legate a precedenti esperienze, da tempo avevo scelto di non voler più entrare in contatto con i luoghi di gestione politica ed economica, sia pubblici che privati. La circostanza dell'organizzazione della conferenza mi poneva nuovamente di fronte a questo confronto. Sentivo pesante l'impegno di espormi per chiedere che fosse fatto proprio un progetto di donne, che venisse patrocinato e sponsorizzato. Non ero sicuramente attirata dall'idea di dovermi confrontare con interlocutori - quasi sempre uomini - le cui logiche di scelta rispondono ad esigenze di mercato e ritorni utilitaristici. Dover trattare, io per prima, un desiderio come merce di vendita o scambio. Non c'è mediazione in questi contatti, spesso ti senti più debole perché hai la netta percezione di non poter o voler mettere sulla bilancia della contrattazione l'equivalente, in termini di peso politico e contrattuale.

Alla fine, l'ostinazione di Ada mi ha costretta ad abbandonare ogni remora. Ho fatto appello a quel senso di corresponsabilità e condivisione dei desideri, che ritengo fondante l'agire fra donne, per entrare nel suo mondo politico e di relazioni e portare l'esperienza a compimento.

Non è stata una scelta facile ed inizialmente ero forse un pò irritata, ma il significato è emerso lentamente, nel corso dei lavori di organizzazione e fino alla fine della conferenza.

Confrontarsi con i limiti imposti dalle procedure burocratiche, dai condizionamenti politici, se da un lato suscita un senso di profondo fastidio e noia, dall'altro ti dà conferme sulle scelte finora compiute.
La richiesta dei VISA per le donne non europee. Quanta burocrazia, e discriminazione ed emarginazione. Senti sulla pelle l'umiliazione di chi, vivendo in stata cui non è riconosciuta lo statuto di paesi economicamente evoluti, non ha riconosciuto il diritto di essere libero cittadino del mondo e deve aspettare l'occasione di inviti ufficiali per poter uscire dai propri confini. Ma che sia ben chiaro lo scopo e la durata!

La conferenza internazionale era il luogo politico che ci esponeva per scelte ideologiche e culturali. Esporsi vuol dire anche fare esporre gli altri, metterli nella condizione di essere giudicati per le proprie modalità e scelte. Lavorare per la conferenza stava capovolgendo la mia ottica di partenza.

Confrontarmi con le logiche politiche ed economiche mi ha dato più potere, perché ho potuto misurare i luoghi istituzionali e le persone con cui mi relazionavo, e ho espresso giudizio politico. Agire nei luoghi politici, creare momenti di confronto vuol dire acquisire visibilità, mette nella condizione di esprimere giudizio politico, modalità che dà potere rispetto ai luoghi misti ed istituzionali.

I lavori di organizzazione erano ormai diventati un ingranaggio inarrestabile, impedendo qualsiasi possibilità di produrre una riflessione teorica o politica sull'argomento. Il mio agire pratico, i contatti e le relazioni che i lavori producevano stavano diventando la mia riflessione politica.

L'impossibilità di seguire da vicino i lavori del convegno, fagocitata dagli aspetti organizzativi, non mi ha impedito tuttavia di sentire la bellezza ed il valore di aver dato un luogo d'incontro per tante voci, di aver creato la possibilità di nuovi scambi e successivi momenti di incontro. Sono state giornate ricche di movimento, di generose presenze. Ma anche di assenze. E queste ultime hanno agito come vuoti, buchi nella rete di donne che, con fatica, si cerca di tessere per tenere assieme le molteplici e belle presenze, le energie, i pensieri che coesistono in questo angolo di meridione.

Per qualche giorno abbiamo racchiuso, nel pezzetto di territorio dove vivo, un piccolo mondo di realtà così diverse, spesso dolorose, ma tutte esprimevano la gioia di esserci, di essere lì donne che potevano dichiarare, ad altre donne pronte ad ascoltarle, il senso della propria vita, delle proprie scelte.

Entrare a far parte di un'associazione internazionale di donne impone alle riflessioni teoriche e all'agire politico uno spostamento verso questioni meno speculative, maggiormente legate a problematiche che investono diritti basilari della vita sociale e politica. È una scelta che rischia di imprimere dei cambiamenti nelle relazioni fra donne dello stesso luogo, ma consente anche di trovare nuove e più salde forme di relazione.

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8.3. Mediterraneo è stare qui
di Anna Rita Merico


La conferenza di luglio e la sua fase preparatoria mi hanno dato modo di avvicinarmi ad una realtà politica femminile di cui non mi erano chiari né i contenuti né la presenza. Ragionare di sud, di presenza femminile al sud ed intendere, per sud, l'intera area mediterranea, è stata un'esperienza che mi ha dato la possibilità di ascoltare il confronto fra voci di chi, dal Mediterraneo, ha portato nostalgie, progetti di cooperazione, intenti, denunce. Mi è stato difficile seguire l'intero svolgersi dei lavori in quanto, all'interno delle quattro giornate, ho contribuito a seguire organizzativamente il lavoro di accoglienza-registrazione delle donne.

Dunque, sono stati due i piani della mia partecipazione alla conferenza.

Durante il lavoro di organizzazione della conferenza ho vissuto momenti di difficoltà legati alle contraddizioni interne che si generano allorché occorre tenere insieme lavoro organizzativo e lavoro di discussione teorica. La sfida è stata quella di poter tenere in piedi entrambe le dimensioni a partire da una inesperienza, sul piano organizzativo. Apprendere l'importanza del lavoro organizzativo, questa è stata la mia personalissima esperienza. Nello scrivere questo, dico quanto, come, proponendosi come soggetti con una propria visibilità pubblica possa apparire scontato occuparsi ed essere nella parola, nel dibattito, tralasciando "quanto" la gestione economica, i rapporti con le istituzioni, abbiano un peso determinante allorché si intende far circolare parola politica femminile.

Un altro punto è, per me, da sottolineare. La socializzazione delle donne, in questi ultimi anni, a Lecce, ha visto l'alternarsi di momenti di discussione legati ai mutamenti delle forme politiche del produrre.

Durante lo scorso anno, all'interno del Centro delle donne di Lecce, Ada ha illustrato il progetto sotteso all'organizzazione della conferenza di luglio. Sia in quella occasione che in seguito alla partecipazione al convegno di Rende, ho colto l'importanza della tematica di lavoro proposta da Ada e le relazioni politiche, i contenuti politici che questo tipo di impegno implica. La difficoltà da me vissuta durante le fasi organizzative della conferenza e all'interno dei momenti gestionali della conferenza stessa, mi è stata difficile da comprendere, inizialmente.

Il punto è stato, per Ada, iniziare a proporre questo aspetto della politica alle donne della città interessate. Socializzare un piano della politica che, a Lecce, è stato sino ad ora agito solo attraverso la sua personale passione ed impegno e, dall'altro, consentire ad altre donne di poter condividere relazioni e senso d'intenti con donne distanti per storia, cultura, contesti sociali d'appartenenza.

La conferenza avrebbe potuto restare un avvenimento tra altri della politica delle donne o divenire punto concreto d'inizio di una condivisione di tematiche legate al lavoro, alla cultura di pace ed alle progettualità femminili nel Mediterraneo. Al termine della conferenza, questo è stato il punto di confusione che mi sono portata via. Un punto di confusione che riguarda le prospettive di questo lavoro politico e le forme di accesso ad esso a partire dal fatto che il conoscere e l'agire queste tematiche passa attraverso la vita politica di Ada e le forme della sua pratica politica. I passaggi da gestire mi sembrano dunque orientati verso una doppia direzione: da un lato ciò che Ada agirà per mettere in contatto queste donne del Mediterraneo con la realtà politica leccese a partire dal fatto che lo sfondo (Awmr) è altro dalla dimensione politica delle donne nella città; dall'altro le pratiche che le donne leccesi interessate agiranno per lavorare politicamente con questa realtà di cui Ada è portatrice.

In gioco, dunque, sono le pratiche politiche capaci di produrre progettualità, atti di partecipazione, scambio, a partire dalla tematica del lavoro femminile e dalle situazioni culturali e sociali riguardanti la presenza femminile nel Mediterraneo.

Credo sia possibile aprire su questi spazi e in questo contesto allargato (il Mediterraneo). Non sono, forse, un terreno tutto da conoscere, per noi, le ripercussioni sulla vita delle donne, oggi, di tutti i mutamenti legati a cambiamenti di ruolo nella famiglia, nel lavoro, nelle istituzioni qui, nel Salento? Il Mediterraneo non è un altrove storico, culturale, sociale, è uno stare qui e, da qui, allargare le possibilità di comprensione.

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8.4. Organizzare significa pensare
di Marilena Cataldini


Non mi sono sembrati così distanti fra di loro questi due concetti, organizzare e pensare, quando nello scorso luglio si è tenuta a Gallipoli la conferenza internazionale dell'AWMR su "Donne e Lavoro nel Mediterraneo".

Qualche tempo prima Ada Donno, rappresentante nel meridione d'Italia dell'AWMR, mi aveva inviato una lettera circolare sul progetto di massima di questa conferenza. L'argomento mi sembrò fondamentale, perché nell'epoca della globalizzazione dei mercati si sarebbe dibattuto su altre questioni speculari al mercato globale dei prodotti: chi erano i soggetti femminili della produzione, in quali differenti territori di povertà e/o benessere si muovevano e poi, o soprattutto, se meridione del mondo dovesse necessariamente significare emarginazione e povertà del territorio.

Soprattutto importante mi sembrò che sede di questo meeting dovesse essere Gallipoli, ridente cittadina del basso Salento. Dove quel "ridente", in cui ambiguamente si nasconde un carattere spiccatamente occidentale, si sovrappone alle problematiche occupazionali ed economiche della nostra provincia, mediterranea e appartenente alla geografia più vasta dei meridioni del mondo.

Apparve subito chiaro che le energie per l'organizzazione non sarebbero state mai sufficienti.

Nell'organizzare ciascuna mette di suo quello che sa fare. Si parte da questo dato. Poi, in realtà ci si accorge che non è così. Si arriva a un punto in cui ciò che si va organizzando richiede qualcosa di più di ciò che si sa fare o si può dare o si vuole dare. Questo perché si agisce per attivare e collegare contesti e situazioni che diversamente se ne starebbero ciascuno per i fatti suoi.

Si spostano interessi di vario tipo per convogliarli tutti in un unico luogo, dentro ad un progetto. Il lavoro è grande e mette a dura prova la capacità di rapportarsi con realtà a volte confliggenti e persone con aspettative varie. Ancora più faticoso se si devono far convergere energie per problematiche che riguardano la realtà femminile. Non è raro che per progetti di ampio respiro anche il rapporto interno fra chi organizza, viene provato.

Poi le domande vengono in modo quasi naturale: quanto l'organizzare è una capacità, un abito mentale non estraneo alla realtà delle donne? Quanto e in che modo le problematiche dell'organizzazione sono entrate a far parte della pratica politica delle donne? Perché in questo spostare energie di varia natura, economiche, politiche, umane, culturali, c'è senz'altro un oltrepassare un guado, il compimento di un lavoro non certo indifferenziato, si parte da alcune scelte che strada facendo si è chiamate a confermare. Una divagazione, poiché mi si affaccia alla mente questo pensiero: anche Penelope organizzava quando disfaceva la tela?

Organizzare significa pensare, non solo perché ha consentito a donne di vari paesi, con diversa lingua e cultura, di ritrovarsi e confrontarsi sulle tematiche del lavoro, ma la tessitura stessa di tutta l'organizzazione non è possibile se non ci sono "pensieri" di base che facciano da motore trainante della macchina dell'incontro. Infine, anche dopo la conclusione del Convegno vengono spese energie di organizzazione, tese alla soluzione di problemi amministrativi, alla raccolta dei materiali prodotti che produrranno altri pensieri che potranno radicarsi sul territorio, spostando altre energie.

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9. Partecipanti

Albania

Makbule Ceço, Prefetto di Tirana
Drita Ibro, Prefettura di Tirana
Tania Kosti, Wilpf Albania, Tirana
Tatjana Kurtiqi, Wilpf Albania, Tirana
Jola Kurtiqi,Wilpf Albania, Tirana
Liri Jani, Wilpf Albania, Tirana

Algeria

Amhis Djouer, Awmr, Ibydra
Aicha Bouabaci, Awmr, Algeri/Francoforte

Bulgaria

Eugenia Kiranova, Women for Dignity, Sofia
Neli Dentcheva, Women for Dignity, Sofia
Fania Kadijska, Women for Dignity, Sofia

Cipro

Ninetta Pourou Kazantzis, Awmr, Limassol
Maroulla Vassiliou, Awmr, Nicosia

Grecia

Lida Peppe, Awmr, Atene
Olga Valmpouru, Awmr, Atene
Dina Vardaramatou, Awmr, Atene

Israele

Shadia Amal, Movement of Democratic Women in Israel, Nazareth
Roni Ben Efrat, Organization of Democratic Action, Jerbalon
Nava Elyashar, Bat Shalom, Jerusalem
Yael Fferman, Bat Shalom, Kfar Meishar
Hanna Zand, Movement of Democratic Women in Israel, Tel Aviv

Italia

Cesarina Asioli, Spazio Pubblico di donne, Bologna
Mariangela Barbieri, Cooperazione internazionale Sud-Sud (CISS), Gaza-Palermo
Stella Bertuglia, CISS, Palermo
Charito Basa, Filipino Women’s Council, Roma
Katia Bellillo, Vice-Presidente della Provincia di Perugia
Karina Belzer, Urupia, Francavilla Fontana (Brindisi)
Patrizia Calasso, Lecce
Anna Calignano, Lecce
Franca Cammarota, Donne del Sud e nel Sud, Cisternino (Brindisi)
Annalaura Casadei, Federazione Sindacale Mondiale c/o FAO, Roma
Marilena Cataldini, Awmr, Gallipoli (Lecce)
Stefania Ciocchetti, Comitato Pari Opportunità del Consiglio Ordine Avvocati, Bari
Cesarina Clemente, Comitato Pari opportunità Regione Puglia, Bari
Isabella Colonna, Associazione per la pace, Mola di Bari
Nella Condorelli, Rete giornaliste del Mediterraneo, Catania
Tiziana Conte, Lecce
Mirella Converso, Donne in transito/Paese delle donne, Roma
Carmen Cordaro, Associazione Dina e Clarenza, Messina
Bettina Corke, International Forum for the Advancement of Women c/o FAO, Roma
Maria Luisa De Cristofaro, Università di Bari
Ada Donno, Awmr Board, Lecce
Maria Grazia Donno, Aracne, Bari
Silvana Donno, Aracne, Bari
Gabriela Fabiani, International Documentation and Communication Center, Roma
Maria Rosaria Fasano, Awmr, Lecce
Gabriella Ferilli, Salve (Lecce)
Angela Firulli, Gioia del Colle, Bari
Marisa Forcina, Università di Lecce
Sonia Fortunato, Comitato PO Consiglio Ordine Avvocati, Bari
Sancia Gaetani, Wilpf-Italia/ Forum Donne Prc, Roma
Nadia Gambilongo, MEDiterranean Media, Rende (Cosenza)
Angela Genchi, Comitato PO Regione Puglia, Bari
Caterina Gerardi, Awmr, Lecce
Ana Alejandra Germani, Ministero del Lavoro, Direzione provinciale di Roma
Tommaso Germano, Università di Bari
Loretta Guario, Associazione per la pace, Noicattaro (Bari)
Luisella Guerrieri, Lecce
Adriana Ippoliti, Peveragno (Cuneo)
Maria Mancarella, Università di Lecce
Elena Mancusi Materi, Society for Internationale Development, Roma
Cristina Mangia, Lecce
Serena Marcenò, CISS, Palermo
Giovanna Martelloni, Lecce
Maria Anna Martina, Lecce
Paola Martino, Centro Studi Oservatorio Donna, Lecce
Annamaria Mastantuono, Donne del Sud & nel Sud, Ceglie Messapica (Brindisi)
Ida Mastromarino, Progetto “Occhi di donna”, TELENORBA, Bari
Virginia Meo, Unicef, Lecce
Anelide Michelsanti, Ufficio PO Provincia di Perugia
Maria Celeste Nardini, Deputata del Prc, Bari
Ileana orlando, Università di Messina
Anna Maria Passaseo, Università di Messina
Donatella Pedace, Wilpf Italia, Roma
Valentina Pellizzer, Centro Regionale d’Intervento per la Cooperazione, Reggio Calabria
Maria Cristina Pino, Associazione Dina e Clarenza, Messina
Alexandra Poeder, GVC, Villa Aldini (Bologna)
Carla Ravaioli, Awmr, Roma
Daniela Rollo, Lecce
Claudia Romanelli, Comitato PO Consiglio Ordine Avvocati di Bari
Alba Russo, Associazione per la pace/ICS, Bari
Marilena Rybcenko, MEDiterranean MEDIA, Napoli
Milena Sabato, Gallipoli (Lecce)
Antonia Sani, Wilpf Italia, Roma
Anna Santoliquido, Sindacato Nazionale Scrittori, Bari
Gabriella Sanvito, Comitato PO Consiglio Ordine Avvocati, Bari
Anna Schiavoni, COCIS, Roma
Giovanna Serra, Lecce
Marialuisa Serrano, Università di Lecce
Renate Siebert, Università della Calabria, Arcavacata/Rende (Cosenza)
Valentina Signore, Lecce
Paola Spagnolo, Awmr, Lecce
Patrizia Sterpetti, Wilpf Italia, Roma
Angela Tortorella, Lecce

Jugoslavia

Nadezda Cetkovic, Beogradski Zenski Lobj, Belgrado
Maya Kandido-Jaksic, Awmr, Belgrado
Vera Litricin, SOS Hotline/Center for Girls, Belgrado
Vesna Stanojevic, Counceling Center for Women Victims of Violence, Belgrado

Kurdistan

Rojin Tanrikulu, YAJK & ERNK, Roma

Malta

Yana Mintoff Bland, Awmr, Malta/Usa

Palestina

Victoria Katan, Eco Peace/Middle East Envoronmental WGO Forum, East Jerusalem

Sudan

Fatima A. Ibrahim, Sudanese Committee against Violation of Women’s & Youth’s Human Rights, London

Tunisia

Emna Soula Atallah, Rete giornaliste del Mediterraneo, Tunisi


Turchia

Yildiz Ecevit, Middle East Technical University, Ankara

Usa

Valentine Moghadam, Illinois State University, Usa/Iran
Genevieve Vaughan, Center for the Study of the Gift Economy, Kyle (Texas)



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documento elaborato con Linux e OpenOffice.org da:
AWMR Italia - Associazione Donne della Regione Mediterranea
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