La Notte della Repubblica   
From  http://www.greendayfactory.it/index.htm

                

 

 

Dalla crisi del centro – sinistra alla strategia della tensione

 

    Gli anni Sessanta in Italia venivano chiudendosi all'insegna di un duplice fenomeno: la radicalizzazione dello scontro sociale e la crisi del centro sinistra a cui, tuttavia, non si intravedeva alcuna alternativa.

     Le lotte studentesche e la grande offensiva operaia apertasi con l"'autunno caldo" crearono una crescente politicizzazione ed una domanda radicale di ampliamento dei margini di democrazia e di giustizia sociale; ma le risposte politiche rimasero parziali, incerte, frenate e condizionate dalla parte moderata dello schieramento politico, che all'interno del partito di maggioranza relativa vedevano il rafforzamento delle posizioni più conservatrici, rinvigorite dal netto spostamento a sinistra dell’elettorato italiano registratosi nelle elezioni politiche del 1968, che avevano punito i partiti di governo, in particolare il PSU, e favorito i comunisti.

     Si aprivano così scenari politici incerti ed una possibile accelerazione della situazione politica secondo una deriva greca era all’ordine del giorno.

     L’Italia era da sempre l’anello debole dell’Alleanza atlantica e nel 1969 lo era ancora di più. Le forze politiche, militari e dei servizi, che nel 1964 avevano bloccato le velleità riformatrici del centrosinistra, agitando l’oscura minaccia del “Piano Solo”, si attivarono di fronte alla nuova minaccia comunista, che si profilava nell’avanzata del Pci, operando secondo una nuova strategia di “guerra rivoluzionaria non ortodossa” su cui nel 1965 si era discusso nel famoso convegno romano dell’hotel “Parco dei Principi”, ad esso avevano  partecipato anche alcuni dei protagonisti delle trame eversive e stragiste, che avrebbero insanguinato l’Italia negli anni successivi.

     Sin dagli esordi del centro - sinistra i suoi avversari avevano operato per una diversa soluzione politica della crisi italiana determinata dalla fine del centrismo degasperiano. Essi si riconoscevano in un progetto presidenzialista di stampo gollista, simile a quello propugnato dal movimento Nuova Repubblica di Randolfo Pacciardi ed Edgardo Sogno, che sul finire degli anni Sessanta trovava nel Psdi e nel presidente della repubblica Giuseppe Saragat un possibile valido interlocutore e mentore.

     Per realizzare questo progetto, che avrebbe condotto l’Italia ad una seconda repubblica di stampo autoritario, venne messa in atto una nuova strategia, la cosiddetta “guerra rivoluzionaria non ortodossa”, conosciuta come “strategia della tensione” (di cui braccio operativo sarebbero stati Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale). Essa era volta a stabilizzare la situazione politica del paese, che stava sfuggendo al controllo delle forze moderate, attraverso una serie di attentati, molti dei quali da attribuire, in una logica di provocazione e depistaggio, ai gruppi di estrema sinistra al fine di innescare nel paese un’ondata di panico e di sdegno tale da giustificare una soluzione “gollista”, simile a quella avvenuta in Francia dopo le agitazioni studentesche e operaie del maggio 1968.   

     Così, a partire dal 3 gennaio 1969, si registrarono in Italia circa 145 attentati: dodici al mese, uno ogni tre giorni, in prevalenza ad essere colpite furono le sedi dei partiti e dei movimenti di sinistra (86).

     Era la strategia della tensione culminata poi con la strage del 12 dicembre del 1969. Ad avviare l’escalation del terrore furono le bombe alla Fiera campionaria di Milano e all'Ufficio Cambi della stazione centrale di Milano del 25 aprile, che solo per un concorso di circostanze favorevoli provocarono appena venti feriti.

     Poi, tra l’8 e il 9 agosto, dieci attentati su diversi convogli ferroviari in varie città d'Italia: 8 ordigni esplosero provocando danni ingenti e 12 feriti, ma ancora una volta fu evitata miracolosamente la strage. Sempre nell’agosto altri attentati dinamitardi furono compiuti  nell’ufficio istruzione dei tribunali di Milano e Torino.

     Intanto tra il settembre e il dicembre la questione operaia esplodeva con una forza che né gli imprenditori né il sindacato avevano previsto. Cominciava l’autunno caldo. In seguito ad agitazioni sindacali, occupazioni, scioperi imponenti e picchetti selvaggi davanti alle fabbriche si giunse il 30 ottobre a gravi incidenti a Milano e a Torino culminati il.19 novembre a Milano con lo sciopero generale per il rinnovo dei contratti durante il quale la polizia diede inizio ad un carosello fra i manifestanti e l’agente Annarumma vi perse la vita in circostanze mai chiarite.

     In quel clima arroventato il 9 dicembre si giunse alla firma del contratto tra i sindacati e l’Intersind, che raggruppava le imprese a partecipazione statale.

     Tre giorni dopo, il 12 dicembre, la situazione precipitò. Una bomba ad alto potenziale esplose nella sede della Banca dell'Agricoltura in Piazza Fontana a Milano. Ci furono 12 morti e 88 feriti. Contemporaneamente, a Roma vennero fatti esplodere due ordigni sull'Altare della Patria e alla Banca Nazionale del Lavoro, mentre un’altra bomba fu scoperta alla Banca Commerciale Italiana in Piazza della Scala a Milano.

     La coincidenza con le lotte sindacali non era casuale ma rientrava in quel disegno che prevedeva di creare con lo strumento degli attentati le condizioni per una svolta politica e sociale. In tale clima si concluse “l’autunno caldo”. Il 21 di dicembre, dopo quattro mesi di lotte, i sindacati e la Confindustria firmarono il contratto. In quell’occasione fortissime furono le pressioni del governo, che giunse fino a temere pericoli per l’ordine pubblico e la democrazia nel paese.

 

 

Obiettivi, esecutori e mandanti

 

     Gli attentati negli obiettivi degli autori della “strategia della tensione” dovevano condurre l’allora presidente del consiglio, on. Mariano Rumor, capo di un governo monocolore democristiano, a decretare lo stato di emergenza e a sciogliere le Camere nella prospettiva della formazione di un governo di centro-destra, che avrebbe condotto ad un "maggior controllo dei militari sulla vita del Paese".

     Scosso dalla risposta civile del paese, Rumor però non intraprese la strada che avrebbe spinto il paese verso un regime simile a quello instaurato dai colonnelli in Grecia, divenendo in tal modo il "responsabile" del fallimento di tutta la strategia.

     Sul suo ripensamento influì il grosso scontro istituzionale avvenuto immediatamente dopo la strage e che ebbe il suo epilogo qualche giorno prima di Natale, fra l'area che si riconosceva nelle posizioni del presidente della Repubblica Saragat, di stretta fedeltà americana, e quella guidata da Moro, l’altro prestigioso capo della corrente dorotea della Dc.

     In sostanza vinse quest’ultima, che aveva dalla sua la possibilità di mettere sul tavolo i primi risultati delle indagini delegate dal Ministro della Difesa Gui, molto vicino a Moro, al Sid e ai Carabinieri.

     Il giornale inglese l'Observer, portatore del punto di vista del Governo britannico, già in un articolo del 14 dicembre1969 non aveva avuto dubbi nell’indicare come "nera" la matrice della strage e nel ritenerla connessa ad un progetto di svolta autoritaria, mostrando di disporre di informazioni non di seconda mano (cfr. perizia del dr. Aldo Giannuli, f.142, Sentenza – Ordinanza, giudice Guido Salvini).  

     In realtà, quello non era un semplice commento giornalistico, ma una sorta di presa di posizione ufficiale ben comprensibile negli ambienti politico - diplomatici, che intendeva disapprovare la possibile destabilizzazione dell’Italia a seguito di un eventuale scioglimento delle Camere.

     Ciò era stato recepito, tanto è vero che Saragat aveva indotto il Governo ad una protesta diplomatica. Comunque, dal messaggio del giornale inglese, Moro, allora ministro degli esteri, aveva capito che non era isolato e al suo rientro precipitoso da Bruxelles, informato da Gui dei primi esiti delle indagini del S.I.D., che evidenziavano la responsabilità di gruppi di estrema destra, utilizzò quelle informazioni nello scontro politico.

     Rumor, che inizialmente faceva parte dell'area di più stretta osservanza americana, turbato dalla grande mobilitazione popolare per i funerali delle vittime, colto dai dubbi, si alleò con Moro e si rifiutò di decretare lo stato di emergenza e di sciogliere le camere.

     Ci si accordò perché non venisse sviluppata la pista riguardante l'Aginter Press e Avanguardia Nazionale, delineata nell'appunto del S.I.D. del 16.12.1969 e inizialmente portata avanti da alcune indagini del Nucleo di p.g. dei Carabinieri di Roma (in particolare nei confronti di Delle Chiaie) e di conseguenza avesse sviluppo solo la c.d. pista rossa o anarchica avviata in particolare dal Ministero dell'Interno.

     Per gli attentati di Padova, alla Fiera e alla Stazione centrale di Milano, sui treni, e contro i palazzi di giustizia di Milano e di Torino, vennero condannati dieci anni dopo i neofascisti Franco Freda e Giovanni Ventura.

     Per la strage di Piazza Fontana, dopo un lungo e tormentato iter investigativo e processuale, l’istruttoria milanese del giudice Guido Salvini (depositata nel marzo del 1995) fa luce sui principali “misteri” rimasti ancora insoluti e individua in Delfo Zorzi, esponente di Ordine Nuovo del Veneto e capo militare dell’organizzazione, oggi uomo d’affari con passaporto giapponese, l’esecutore materiale della strage e in Franco Freda, Giovanni Ventura, Guido Giannettini, Gian Adelio Maletti, l’Aginter Press, quelli che hanno guidato il commando ordinovista all’azione.

     Questo movimento sovversivo dall’impostazione nazi-fascista, si articolava su una direttrice veneta che faceva capo a Freda, nonché su un'altra romana che faceva capo a Stefano Delle Chiaie, esso aveva elaborato la sua strategia di base in una fondamentale riunione, tenutasi il 18 aprile 1969 a Padova, alla quale erano intervenuti Freda ed altri esponenti di rilievo della cellula eversiva veneta e di quella romana. In quella riunione si era concepito il programma della cosiddetta seconda linea o doppia organizzazione, secondo cui occorreva strumentalizzare, con opportune manovre di infiltrazione e di provocazione, i gruppi estremisti di sinistra, in modo da compromettere questi ultimi negli attentati e farli apparire come responsabili di una attività eversiva la cui reale matrice, invece, era di destra cosa che avvenne puntualmente dopo la strage del 12 dicembre con la cosiddetta pista anarchica.

     A tale gruppo possono essere certamente attribuiti ben ventidue attentati nel breve periodo intercorrente fra il 15 aprile e il 12 dicembre '69, finalizzati ad una tipica strategia di provocazione e colpevolizzazione della parte politica avversa, secondo gli schemi caratteristici della guerra rivoluzionaria, che aveva avuto nel convegno dell'istituto Pollio del 1965 il suo momento di ufficializzazione.

     A seguito delle indagini, che hanno portato al nuovo processo, iniziato il 16 febbraio del 2000, si è raggiunta la certezza della compartecipazione di Franco Freda e Giovanni Ventura alla strage di Piazza Fontana. Ormai assolti definitivamente essi non potranno però essere più processati.

     Carlo Digilio, collaboratore dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno e principale testimone nel nuovo processo sulla strage di Piazza Fontana, avrebbe raccontato che tra il '67 ed il '69 Delfo Zorzi acquistò a Venezia circa 200 candelotti di gelignite per una cifra compresa tra i 5 ed i 10 milioni di lire. L'esplosivo era dello stesso tipo dei 10 candelotti che il 12 dicembre '69 causarono la morte di 16 persone nella Banca dell'Agricoltura.

     Digilio avrebbe precisato che l'esplosivo fu venduto a Zorzi da Roberto Rotelli, morto negli anni '70, titolare di un'impresa del Lido di Venezia, che si occupava di recupero di navi affondate. Zorzi avrebbe poi sistemato la gelignite in un casolare nel mestrino, forse a Spinea, dove aveva sede una sua impresa di import - export. Ma ha anche rivelato che Zorzi gli confidò di aver partecipato personalmente alla collocazione della bomba nella banca milanese, aiutato dal figlio di un direttore di banca, che sarebbe risultato poi Giancarlo Rognoni, il presunto basista della strage di piazza Fontana, secondo quanto ha dichiarato a partire dal 1994 Edgardo Bonazzi, esponente dell’ala "dura" del M.S.I. di Parma, condannato ad una lunga pena detentiva per aver partecipato nel 1972 all’omicidio di un giovane aderente a Lotta Continua.

     L'esplosivo sarebbe stato portato da Mestre a Padova e poi verso Milano nella Fiat 1100 di  Carlo Maria Maggi, il responsabile operativo per il Triveneto di Ordine Nuovo alle dirette dipendenze di Sergio Minetto, capo rete di Verona dei servizi informazione FTASE della Nato.

     Le dichiarazioni rese da Tullio Fabris, l’elettricista collaboratore di Franco Freda, a personale del R.O.S. Carabinieri in data 16 e 17 novembre 1994 e 9.12.1994 (e dalla moglie, Maria Paola Bettella, in data 17.11.1994), successivamente confermate con ulteriori precisazioni in data 24.3.1995, hanno permesso poi di accertare in modo inequivocabile il ruolo di Freda nell’acquisto dei timers utilizzati per la strage del 12 dicembre 1969 a Milano e per gli attentati a Roma.

     Tullio Fabris solo nel novembre del 1994, prima di morire, si sarebbe deciso a confessare di essere stato materialmente lui ad acquistare una partita di timer di 50 pezzi presso la ditta Elettrocontrolli di Bologna, distributrice in Italia della Junghans Diehl, uno di questi, è certo, fu usato per l’attentato del 12 dicembre 1969, e ad istruire Freda e Ventura nell’innesco dei congegni elettrici, che furono utilizzati per la strage.

     Freda gli anticipò anche che nel mese di dicembre sarebbe accaduto “un evento importante” che “rappresentava l’attuazione del progetto di rivolgimento politico delle istituzioni del nostro Paese da realizzare con un colpo di Stato, conseguente alla destabilizzazione provocata dagli attentati”.

     Tacque a lungo per le minacce di morte. Non riferì nel primo processo a Catanzaro quanto accaduto anche per la mancata protezione da parte delle forze di polizia cui si era rivolto.

     Infine, gli attentati romani del 12 dicembre 1969, sempre secondo quanto ha dichiarato Edgardo Bonazzi, erano stati "curati da uomini di Stefano Delle Chiaie ", così gli aveva rivelato Nico Azzi, l’ordinovista autore dell’attentato sul treno Roma - Milano del 7 aprile 1973.

 

1970 –72 : la crisi dell’egemonia dorotea tra tentativi di golpe e svolta a destra

 

     L’egemonia dei dorotei nella Dc nei mesi successivi alla strage di Piazza Fontana entrò in crisi. Essi persero la maggioranza nel partito perché uno dei loro prestigiosi leader, Aldo Moro, persuaso della necessità in prospettiva di associare il maggior partito dell’opposizione, il Pci, a un lavoro comune di ristrutturazione del sistema politico, formò una propria corrente, che si alleò con quelle della sinistra interna e il nuovo segretario Flaminio Piccoli, designato dai dorotei, eletto da una minoranza, era destinato a durare una sola stagione.

     La conseguenza più diretta sul piano politico dello scontro interno alla Dc e dei nuovi equilibri, fu il ritorno al centrosinistra il 27 marzo del 1970 con il nuovo governo presieduto sempre dal doroteo Mariano Rumor, sostituito poi, nell’agosto dello stesso anno, da Emilio Colombo.

     Gli obiettivi di stabilizzazione autoritaria del quadro politico perseguiti dagli autori della strategia della tensione non erano stati quindi ancora del tutto conseguiti. La magistratura si era divisa sulla pista da seguire nelle indagini sulla strage piazza di Fontana (nera per gli inquirenti milanesi, rossa per quelli romani) mentre una parte cospicua dell’opinione pubblica nazionale non aveva accettato la versione ufficiale. Ma cosa ancora più importante era stata la reticenza di una parte della Dc ad imboccare la strada della svolta autoritaria, che aveva impedito la piena riuscita dell’operazione.

     In questa decisione forse aveva giocato la consapevolezza che ciò avrebbe segnato anche la propria fine politica, come era già accaduto per le elite liberali all’epoca dell’avvento del fascismo.

     Di qui la decisione da parte degli autori della “strategia della tensione” di proseguire nell’offensiva, che ebbe un momento centrale di aggregazione nel tentativo di colpo di stato del 7-8 dicembre 1970 guidato dall’ex comandante della X Mas nella Repubblica sociale italiana, Junio Valerio Borghese.

     La sigla “Fronte Nazionale”, sotto cui si raccolsero i gruppi clandestini militari e civili che dovevano sostenere il peso dell’azione in un primo momento, aveva iniziato l’anno prima a preparare il tentativo con riunioni segrete in vari centri della penisola. Il piano prevedeva: 1) l’occupazione del ministero dell’Interno, del ministero della Difesa, della Rai e degli impianti telefonici e di radiocomunicazione; 2) l’arresto e la deportazione dei deputati e dei senatori dell’opposizione; 3) la lettura di un proclama televisivo da parte di Borghese e l’intervento decisivo delle Forze Armate a sostegno del Fronte Nazionale.

     Ma, quando il “golpe” era in fase d'avanzata esecuzione, Borghese ricevette personalmente un ordine in base al quale il tentativo rientrò in poche ore. L’ex comandante della X Mas non rivelò neppure ai più stretti collaboratori chi gli diede l’ordine e per quali ragioni. 

     Il contrordine, secondo Fabio De Felice, uomo assai vicino a Licio Gelli, sarebbe giunto proprio da quest'ultimo, essendo venuta meno la disponibilità dell'Arma dei Carabinieri e non essendo stato assicurato l'appoggio finale degli Stati Uniti; Fabio De Felice, poi, aveva aggiunto che la mobilitazione non aveva una reale possibilità di riuscita e il fantasma di una svolta autoritaria era stato utilizzato da Licio Gelli come una sorta d'arma di ricatto. Ciò è quanto ha dichiarato Paolo Aleandri alla Commissione parlamentare d'inchiesta sulla Loggia P2, che riferisce l'interpretazione che ne era stata data da Fabio De Felice, uno dei protagonisti del golpe Borghese.

     Dai documenti ormai a disposizione appare con chiarezza che i servizi di sicurezza erano perfettamente al corrente del tentativo di “golpe” ma, come ha rilevato la Commissione stragi, “nessuna contromisura risultò però essere predisposta”.

     Indagini più recenti hanno indicato il coinvolgimento nel tentativo di Licio Gelli e di una parte della massoneria, oltre che di vertici delle Forze Armate.

     Si può pensare che ci si sia trovati di fronte a una minaccia portata fin quasi alle ultime conseguenze nei confronti di una classe politica di governo che, ad avviso dei gruppi raccolti nella congiura, non conduceva con sufficiente coraggio ed energia l’offensiva contro il comunismo che avanzava.

     O, come altri sostengono, ci fu “l’abbandono della ala più oltranzista del “partito del golpe” bruciato in una lotta intestina (…) ci fu chi prima facilitò ed alimentò la scelta golpista e poi cercò di goderne i risultati politici”. E qui appare l’ombra della scelta presidenzialista che sarebbe emersa qualche anno dopo nel “Piano di rinascita democratica” di Licio Gelli e della Loggia P2.

     È difficile scegliere tra le due ipotesi anche se la seconda si collega meglio a quello che avvenne negli anni successivi e individua uno scontro interno tra i sostenitori della svolta anticomunista autoritaria: da una parte chi riteneva che la soluzione greca, raggiunta con l’appoggio determinante della Cia, fosse quella più adeguata al caso italiano per la presenza di un partito comunista ancora forte e in ascesa ma dall’altra parte chi, ed erano sempre di più, riteneva che risultati simili si potevano ottenere con altri strumenti più flessibili e moderati.

     Una conferma indiretta della seconda ipotesi viene dall’evoluzione della situazione politica del paese, che portò nel 1971 all’elezione del candidato doroteo e della destra Giovanni Leone a presidente della Repubblica e sempre con la stessa maggioranza nel 1972 alla costituzione di un governo di centro - destra e dall’oscuro episodio della strage di Peteano del 31 maggio 1972.

     Nel 1971, quando ebbe termine il mandato presidenziale di Saragat e occorreva eleggere il successore, si fronteggiarono nella sostanza le candidature di Moro e Fanfani, i due leader messi da parte in tempi diversi dalla componente dorotea.

     Il leader aretino non riuscì a ottenere i voti di tutta la Dc né dei partiti del centro o del centro-sinistra sicché alla fine dovette ritirarsi e cedere il passo al candidato doroteo e della destra, il napoletano, ex presidente della Camera, Giovanni Leone, che andò al Quirinale con i voti determinanti del Movimento sociale - Destra nazionale di Giorgio Almirante.

     Intanto la crisi socialista indeboliva ulteriormente una prospettiva di apertura a sinistra e favoriva i progetti di un centro-destra coerente con la maggioranza che si era formata per l’elezione presidenziale di Leone.

     Le elezioni amministrative del 13 giugno 1971 registrarono una ripresa sensibile delle forze di destra, e in particolare del Msi di Almirante, attivo sulle piazze e a capo di una sempre più estesa «maggioranza silenziosa» che chiedeva anzitutto ordine.

     Scaturirono da questa situazione critica, oltre che dal dipanarsi di perduranti conflitti sociali di fronte a problemi irrisolti, le mosse successive del partito trasversale, che si opponeva al ritorno del centro-sinistra, o addirittura al coinvolgimento in una nuova maggioranza dei comunisti ipotizzato da Moro con la nuova "strategia dell’attenzione" verso il Pci. Esso tentò il varo di un centro-destra guidato da Giulio Andreotti.

     Ma il nuovo governo ottenne l’appoggio soltanto dei liberali e della Svp alto-atesina, sicché venne battuto al Senato e il presidente Leone sciolse anticipatamente le Camere e indisse la consultazione per il 7 maggio del 1972.

     Ma il nuovo governo ottenne l’appoggio soltanto dei liberali e della Svp alto-atesina, sicché venne battuto al Senato e il presidente Leone sciolse anticipatamente le Camere e indisse la consultazione per il 7 maggio del 1972.

     Non è un caso che contemporaneamente ripartì, dopo la relativa tranquillità dell’anno precedente, una girandola di attentati e atti violenti che videro in prima linea l’estremismo neofascista colluso con i servizi segreti.

     Le elezioni del 7-8 maggio, viceversa, se costituirono un discreto successo per la Dc, che raggiunse alla Camera il 38,7 per cento dei voti, non interruppero la marcia del Pci che, rispetto al 1968, conquistò lo 0,2 per cento in più alla Camera.

     La prova elettorale non apparve un successo per l’ipotesi di centro-destra ma la Dc decise, malgrado tutto, di cavalcarla e Andreotti formò il suo secondo governo con liberali, socialdemocratici, repubblicani e Svp.

     La seconda conferma indiretta viene dalla strage di Peteano compiuta il 31 maggio del 1972 nella quale trovarono la morte tre carabinieri e un quarto rimase gravemente ferito.

     Nel 1984 la responsabilità dell'attentato di Peteano fu rivendicata da Vincenzo Vinciguerra, capo della cellula di Ordine Nuovo di Udine. Egli affermò di confessare allo scopo di "fare chiarezza", avendo compreso che tutte le precedenti azioni della destra radicale, incluse le stragi, in realtà erano state manovrate da quello stesso regime che si proponeva di attaccare:

"Mi assumo la responsabilità piena, completa e totale dell'ideazione, dell'organizzazione e dell'esecuzione materiale dell'attentato di Peteano, che si inquadra in una logica di rottura con la strategia che veniva allora seguita da forze che ritenevo rivoluzionarie, cosiddette di destra, e che invece seguivano una strategia dettata da centri di potere nazionali e internazionali collocati ai vertici dello Stato. [...] Il fine politico che attraverso le stragi si è tentato di raggiungere è molto chiaro: attraverso gravi provocazioni innescare una risposta popolare di rabbia da utilizzare poi per una successiva repressione. In ultima analisi il fine massimo era quello di giungere alla promulgazione di leggi eccezionali o alla dichiarazione dello stato di emergenza. In tal modo si sarebbe realizzata quell'operazione di rafforzamento del potere che di volta in volta sentiva vacillare il proprio dominio”.

     Nel luglio 1987 Vincenzo Vinciguerra è stato condannato all’ergastolo dalla Corte d’assise di Venezia, insieme ad un suo complice, Carlo Cicuttini, sempre della cellula di Ordine Nuovo di Udine e segretario della sezione dell'Msi in un paese vicino Peteano; quest’ultimo era il proprietario della pistola con cui erano stati prodotti i fori nel cofano dell’auto imbottita di esplosivo e l’uomo, che aveva attirato con una telefonata i carabinieri nella trappola di Peteano.

 

1973: punire Rumor, fermare Moro

 

     La nuova maggioranza di centro destra, che si era formata in seguito alle elezioni politiche del 1972, era però debole e lo si vide subito. La situazione politica non si stabilizzò e quella economica non riusciva ancora a superare la crisi che si trascinava con alti e bassi dal 1971. Il suo fallimento dimostrò l'impraticabilità di una politica di scontro frontale con il movimento operaio. Le forti lotte sociali, culminate con la mobilitazione del marzo 1973 per il contratto dei metalmeccanici, rivelarono una eccezionale capacità di tenuta (il 9 febbraio 300.000 metalmeccanici sfilarono in corteo per le vie di Roma al culmine della nuova stagione contrattuale) e la maggior parte del mondo industriale dovette constatare l'impossibilità di realizzare risultati positivi nello scontro diretto col movimento sindacale e la necessità, invece, di una nuova strategia politica incentrata sulla ricerca di un "patto sociale" permanente.

     In quel clima teso si apriva agli inizi del 1973 il XII congresso della Dc. In esso emerse ancora una volta l’impossibilità di una maggioranza compatta. I dorotei erano al momento arbitri della situazione interna e, con l’abituale pragmatismo, si dichiararono disposti alla ripresa della collaborazione con i socialisti come richiedeva Moro e le correnti di sinistra, purché non si parlasse di ulteriori allargamenti di maggioranza ai comunisti (possibilità che era emersa negli interventi di Moro e di vari esponenti della sinistra).

     Fanfani e Moro, più volte contrapposti nella vita politica e nella Dc, in quel delicato momento conclusero un accordo diretto, che permise al primo di ritornare alla segreteria. I due leader democristiani si trovarono così a gestire con ruoli complementari il partito cattolico in una fase che si annunc iava particolarmente difficile per l’evidente declino della politica dorotea, che non poteva più utilizzare la stampella socialista in irrimediabile erosione di consensi a favore del Pci e la debolezza di un’ipotesi, che pure si realizzò nel luglio del 1973, di ennesima ripresa del centro – sinistra (quarto governo Rumor). 

    Tra il XII congresso della Dc e il varo del nuovo governo di centro – sinistra ci fu la strage del 17 maggio alla Questura di Milano, un segnale inequivocabile di avvertimento e di vendetta da parte dei gruppi eversivi responsabili della “strategia della tensione”, che non avevano gradito la svolta dorotea e intendevano con quell’attentato porre un limite invalicabile alla ripresa dell’esperienza di centro – sinistra.

     Nel cortile della Questura, in via Fatebenefratelli, si era da poco conclusa una cerimonia in ricordo del commissario Luigi Calabresi, ucciso un anno prima da ignoti killer, alla quale aveva partecipato il ministro dell’Interno Mariano Rumor.

     L’auto del ministro stava uscendo dal portone centrale, quando un ordigno, scagliato da qualcuno nascosto tra la folla, che si era assiepata davanti all’edificio, seminò il terrore: 4 morti e 52 feriti.

     L’attentatore venne subito individuato ed arrestato, risultò essere Gianfranco Bertoli, un sedicente anarchico individualista, seguace delle teorie di Steiner, ma stranamente in stretto contatto con alcuni neofascisti veneti e – lo si sarebbe scoperto in seguito – in rapporti con il Sid, il servizio segreto militare dell’epoca. Bertoli venne in seguito condannato all’ergastolo con sentenza definitiva.

    Appena giunto in Italia nei primi mesi del 1973, Bertoli era stato indotto dal dr. Carlo Maria Maggi, allora responsabile operativo per il Triveneto di Ordine Nuovo, a compiere un attentato a Milano. Gli fu consegnato molto denaro messo a disposizione dagli Americani e la bomba a mano per l'esecuzione della strage.

     Tra le farneticanti affermazioni di Bertoli all’indomani della strage, vi è un solo elemento rispondente a quanto emerso nelle risultanze istruttorie del giudice Salvini, laddove il sedicente anarchico dichiarò di aver lanciato la bomba a mano per vendicare la morte dell’anarchico Pinelli, morto nei locali della Questura di Milano nel corso di un interrogatorio per la strage di Piazza Fontana. In realtà, il gesto di Bertoli era sì di vendetta, ma con ben altro fine che non la gloria di Pinelli. La strage scaturì, viceversa, dal tentativo di eliminare il Ministro dell’interno Mariano Rumor, che, nel dicembre 1969, quando era Presidente del Consiglio, aveva rifiutato di decretare lo stato emergenza, rendendo impossibile la prevista presa di posizione dei militari e fatto fallire il disegno strategico/politico che stava dietro gli attentati del 12 dicembre1969.

     In un primo momento, per il gruppo ordinovista veneto, l’eliminazione di Rumor doveva avvenire in Veneto, dove il Ministro risiedeva; Carlo Maria Maggi e Delfo Zorzi avevano individuato in Vincenzo Vinciguerra il potenziale esecutore dell’attentato. Quest’ultimo, tuttavia, "si era rifiutato di prestarsi perché non riteneva corretto il progetto" e perché "sarebbe stata una carneficina". Venuta meno la disponibilità di Vinciguerra, il vertice della cellula veneta neofascista individuò in Gianfranco Bertoli la persona più adatta per compiere l’attentato.

Ha dichiarato a questo proposito Carlo Digilio:

     "I dirigenti di Ordine Nuovo ritenevano che l’on. Rumor, Presidente del Consiglio nel dicembre 1969, avesse fatto il ‘vile’ in quanto, venendo meno alle promesse fatte, non aveva attivato un certo meccanismo dopo gli attentati decretando lo "stato di emergenza" e mettendo in moto i militari che avrebbero saputo che sbocco dare alla crisi. Questa delusione mi fu espressa da Soffiati e da Maggi negli incontri […]che avvennero dopo gli attentati del 12 dicembre. […] In particolare Maggi era deluso e disse che di fronte alla reazione dell’opinione pubblica vi era stata una ‘ritirata’ di Rumor che aveva impedito un’immediata presa di posizione dei militari. Disse proprio "presa di posizione" e non "presa di potere" nel senso che sarebbe stato un primo intervento che avrebbe dato vita ad un maggior controllo dei militari sulla vita del Paese senza un vero e proprio colpo di Stato.

     Ciò avrebbe permesso comunque l’uscita allo scoperto dei Nuclei di Difesa dello Stato con funzione di appoggio e di propaganda in favore dei militari. In seguito il capitano Carret ( il referente della rete Cia – Sid, nda) mi confermò che quello era stato il progetto, ben visto anche dagli americani, e che era fallito per i tentennamenti di alcuni democristiani come Rumor. Mi spiegò anche che nei giorni successivi alla strage le navi militari sia italiane sia americane avevano avuto l’ordine di uscire dai porti perché, in caso di manifestazioni o scontri diffusi, ancorate nei porti potevano essere più facilmente colpite".

     La minaccia stragista se non raggiunse l’effetto sperato, colse però l’obiettivo politico che si era prefisso: quello di impedire ogni ulteriore possibile allargamento delle alleanze politiche, segnando il destino del nascente debole centro – sinistra di Rumor, che non fu in grado di affrontare né la crisi economica né quella sociale né la montante offensiva terroristica.   

 

La Dc tra declino politico e tentativo di rivincita referendaria

 

     Sul versante opposto il Partito Comunista giudicò negativamente i rischi di una ulteriore radicalizzazione dello scontro sociale e politico. Traendo spunto da una riflessione sul caso cileno (dove l'errore delle sinistre sarebbe consistito nel voler governare da sole senza ricercare l'alleanza con le forze democratiche di centro, esponendosi al sabotaggio da parte di queste ed al golpe fascista) Enrico Berlinguer, segretario del PCI, giungeva a lanciare la nuova strategia del "compromesso storico". Secondo questa ipotesi, non era sufficiente per le forze di sinistra raggiungere la maggioranza parlamentare per garantire la governabilità del Paese. In una situazione radicalizzata e polarizzata, le sinistre avrebbero avuto tutto da perdere, assumendosi in proprio la gestione di un potere che la destra avrebbe potuto facilmente destabilizzare e sabotare. Occorreva invece, concludeva Berlinguer, ricercare l'accordo - il più largo possibile - con le masse cattoliche (e con il partito Democratico Cristiano) al fine di garantire la più larga base di consenso ad una politica riformatrice.

     Si riproponeva, ancora una volta, nel sistema politico italiano l’unico movimento reso possibile dagli ostacoli interni, ma soprattutto internazionali, a una vera alternanza alla Dc: quello di un allargamento della maggioranza, piuttosto che di un suo rovesciamento, che vedeva sempre al centro della maggioranza il partito cattolico. Non mutava il gioco, dunque, salvo che per l’accento messo in luce sia da Berlinguer sia da Moro: l’alleanza come strumento per la legittimazione definitiva dei comunisti nel sistema politico italiano come forza di governo, oltre che di opposizione, e per il superamento di una situazione emergenziale per la crisi economico-sociale e l’offensiva terroristica.

     Senonché irrompeva nella politica italiana un avvenimento clamoroso e imprevisto: la decisione del segretario della Dc, Fanfani di puntare sul referendum contro la legge sul divorzio per sconfiggere le forze di sinistra e imporre, soprattutto sul piano della politica economica, le proprie condizioni per ogni eventuale futura alleanza con i comunisti.

     Che l’idea partisse da Fanfani non c’è dubbio. Ma contribuirono anche da una parte la caduta di credibilità della Dc di fronte all’opinione pubblica nazionale per l’esplodere dello scandalo dei petroli nel gennaio 1974 e l’inchiesta del giudice Giovanni Tamburino sulla «Rosa dei Venti», che metteva in allarme gli alti gradi militari e il rapporto tra essi e il partito tradizionale di governo.

     C’era il rischio, se si fosse andato avanti su quella strada e non ci fosse stata una chiara conferma dei consensi popolari alla Dc, di un declino rapido in presenza di conflitti sociali sempre meno mediabili e di una crisi energetica, che rivelava tutta la fragilità dell’economia italiana.

     “I risultati del referendum del 12 maggio 1974 – ha commentato Paul Ginsborg – mostrarono che sia Fanfani che il Pci avevano giudicato male l’elettorato: la legge sul divorzio, al di là di ogni previsione, trionfò con il 59,1 per cento. Il processo di modernizzazione della società italiana aveva trasformato anche le opinioni e i valori correnti […]. La destra cattolica era stata la prima a invocare l’istituto del referendum, ma questo gli si rivoltò contro in un modo del tutto inaspettato”.

     L’esito del referendum ebbe, di fatto, conseguenze importanti giacché incoraggiò nel popolo della sinistra la prospettiva di costruzione di un’alternativa anche elettorale in un vasto fronte laico e progressista.

     Nella Dc, invece, la sconfitta nel referendum, provocò la sostituzione alla segreteria di Fanfani con il moroteo Benigno Zaccagnini e l’aprirsi della prospettiva del "compromesso storico", mentre l’offensiva dei terrorismi cresceva d’intensità.

 

Il 1974: la stagione delle stragi e gli ultimi tentativi golpisti

 

     Per gli autori della “strategia della tensione” il 1974 fu l’anno decisivo, bisognava ad ogni costo impedire l’allargamento della maggioranza di governo ai comunisti e una loro legittimazione. A tale riguardo non potevano più contare sulla componente moderata dorotea all’interno della Dc, che dal 1969 aveva dimostrato tutta la sua inaffidabilità politica, pertanto bisognava puntare direttamente sulla fondazione di una seconda repubblica di stampo presidenzialista con una nuova elite politica di sicura fede anticomunista e atlantica attraverso un pronunciamento militare, che disponeva dei mezzi, delle strutture, degli uomini (la rete dei Gruppi di Difesa della Stato) e dell’appoggio dell’amministrazione americana.

     Non c’era più tempo, le indagini, riguardanti la rete organizzativa, che avrebbe dovuto realizzare il colpo di Stato, avevano già preso il via nell’ottobre del 1973, quando un medico ligure, Giampaolo Porta Casucci si era presentato alla polizia e aveva consegnato un piano di massima per la conquista del potere, completo di mappe e indicazioni per l'occupazione di edifici pubblici e strategici, e persino una lista di persone da eliminare.

     Con l'avvio delle prime investigazioni da parte del giudice padovano Giovanni Tamburino si comprese che la scoperta non era da sottovalutare: tra i congiurati vi erano il generale Francesco Nardella, che dal 1962 al 1971 aveva diretto l'Ufficio guerra psicologica presso il comando alleato FTASE della Nato, e il suo successore in quello stesso incarico, il tenente colonnello Angelo Dominioni. Vi era infine il tenente colonnello Amos Spiazzi, vice comandante del secondo gruppo artiglieria da campagna e capo dell'Ufficio "I" del suo reparto, arrestato il 13 gennaio del 1974.

     Nel marzo di quell’anno l'istruttoria fece un salto di qualità allorché cominciò a collaborare con il magistrato un giovane sindacalista, Roberto Cavallaro, che mediante coperture ad alto livello, presumibilmente al Sid, sarebbe stato inserito negli uffici della Magistratura militare a Verona senza averne alcun titolo.

     Alcune ammissioni del colonnello Amos Spiazzi e di Roberto Cavallaro consentirono al magistrato di cominciare a delineare la trama di un'organizzazione, la “Rosa dei Venti”, composta da civili e militari, che operavano all'interno delle organizzazioni di sicurezza della Nato e il cui simbolo era identico a quello della Cia. Essa rappresentava. il braccio armato di una strategia politica che perseguiva il passaggio dalla prima ad una seconda repubblica attraverso un progetto suddiviso in sei fasi.

     Le prime azioni dell'organizzazione, portate a termine secondo i canoni della controguerriglia, avevano provocato disordini di piazza e tentativi di far saltare treni e di provocare stragi, come quella del 28 maggio 1974 in piazza della Loggia a Brescia (otto morti e centotre feriti) e quella del treno Italicus esploso a San Benedetto Val di Sambro sulla linea Firenze - Bologna il 4 agosto dello stesso anno (dodici morti e quarantaquattro feriti).

     In tutto erano state programmate quattro stragi di cui una quella del Vaiano fallita all’ultimo momento il 21 aprile (centinaia di persone sarebbero perite nel deragliamento del treno Parigi – Roma e la quarta all’Arena di Verona durante le rappresentazioni liriche estive ma, a quanto pare, persino gli estremisti di destra, che l’avevano ideata la bloccarono pensando che avrebbe provocato un numero di morti così alto da diventare “ingestibile”.

     Per la tentata strage del 21 aprile le responsabilità sono da far risalire alla cellula toscana di Ordine nero diretta da Augusto Cauchi, collaboratore del Sid e amico di Licio Gelli.  

     La strage di Brescia, invece, secondo la testimonianza di Martino Siciliano, un esponente di Ordine Nuovo del Veneto e testimone nell’ultimo processo della strage di Piazza Fontana, sarebbe stata ideata dal gruppo di Carlo Maria Maggi tramite Marcello Soffiati, che avrebbe fatto pervenire l’ordigno ai neofascisti milanesi del gruppo “La Fenice”, una filiazione di Ordine Nuovo, i quali avrebbero collocato materialmente l’ordigno. La Corte di Assise di Milano - Sentenza 11.03.2000, ha emesso le seguenti condanne: ergastolo per Carlo Maria Maggi, Francesco Neami, Amos Spiazzi e Sergio Boffelli, 15 anni di reclusione per Gian Adelio Maletti, 10 anni di reclusione per Gilberto Cavallini, 6 anni e 6 mesi a Ettore Malcangi, 6 anni a Enrico Caruso, 6 mesi a Lorenzo Prudente.

     Nel 2005 la Procura di Brescia, dopo otto anni di indagini, ha deciso di chiedere l’apertura di un nuovo processo. Il terzo dopo quelli già inutilmente celebrati tra il 1979 e il 1989, conclusisi con un nulla di fatto. Un nuovo procedimento giudiziario certamente difficile dopo la sentenza di assoluzione della Corte di Cassazione sulla strage di Piazza Fontana.

     Alla sbarra compariranno Delfo Zorzi, condannato in primo grado all’ergastolo per la strage di Piazza Fontana e poi assolto; Carlo Maria Maggi, dirigente massimo di Ordine Nuovo nel Triveneto, già processato per la strage del 12 dicembre 1969 alla Banca Nazionale dell’Agricoltura e davanti la Questura di Milano (17 maggio 1973), sempre assolto per insufficienza di prove; Maurizio Tramonte, anch’egli di Ordine Nuovo ma anche confidente del SID con il nome in codice di “fonte Tritone”.

     Un’altra quindicina erano stati, in questa nuova inchiesta, gli indagati. Fra loro nomi eccellenti: Pino Rauti, il fondatore di Ordine Nuovo; Guerin Sèrac, ex-agente dell’organizzazione terroristica francese OAS, poi al servizio della CIA, attraverso la finta agenzia di stampa Aginter Press, con sede a Lisbona; l’ex-generale dei carabinieri Francesco Delfino, capitano del nucleo operativo di Brescia nel 1974.

     Due sono state le testimonianze che hanno accompagnato il lavoro di indagine dei sostituti procuratori di Brescia Roberto Di Martino e Francesco Piantoni: quella di Carlo Digilio, l’ex-artificiere di Ordine Nuovo, e quella di Maurizio Tramonte.

     A fornire l’esplosivo sarebbe stato Delfo Zorzi, Marcello Soffiati, capocellula di Verona, deceduto anni fa, lo avrebbe trasportato. Lo stesso Digilio, in una tappa del percorso lo avrebbe invece “messo in sicurezza”, impedendo che deflagrasse inavvertitamente lungo il tragitto.

     A Milano fu consegnato alle SAM (le Squadre d’Azione Mussolini) di Giancarlo Esposti, che si sarebbero materialmente incaricate di compiere la strage. Secondo Maurizio Tramonte fu invece Giovanni Melioli, il capo degli ordinovisti di Rovigo a collocare l’esplosivo.

    Infine, Mario Tuti, Luciano Franci e Pietro Malentacchi sono stati imputati di esser gli esecutori materiali della strage del treno Italicus sulla base delle dichiarazioni accusatorie di Aurelio Fianchini, al quale Luciano Franci, suo compagno di detenzione, avrebbe confidato di avere eseguito la strage indicando nel Tuti il gestore dell'esplosivo e nel Malentacchi colui che materialmente avrebbe sistemato l'ordigno.

     La quarta fase del progetto eversivo dispiegato attraverso la “Rosa dei venti” prevedeva il golpe e la quinta l'eliminazione di 1624 persone tra ministri, comunisti, socialisti e sindacalisti.

     Il governo tentò di dimostrare che il gruppo altro non fosse che una filiazione del Fronte nazionale, cioè un'organizzazione paramilitare fascista. E puntualmente si trovò il modo di togliere l'inchiesta al giudice Tamburrino e di coinvolgerla in quella romana sul golpe Borghese. Ma Tamburrino, poco prima di perdere l'inchiesta, arrestò il capo del Sid, Vito Miceli 'per aver promosso, costituito e organizzato un'associazione segreta di militari e civili mirante a provocare un 'Insurrezione armata".

     Ma la situazione era talmente grave che il ministro della difesa Giulio Andreotti incaricò il capo dell’Ufficio D, generale Maletti, di raccogliere e consegnargli un’adeguata documentazione sulle attività eversive degli anni precedenti. Poi il 15 luglio, venuto a conoscenza da un appunto del Sid dei piani dei golpisti, destituì improvvisamente una dozzina fra generali ed ammiragli allo scopo di prevenire un colpo di Stato previsto per il 10 agosto.

     Interrogato dal G.I. Luciano Violante, il ministro dichiarava che, controllata la documentazione fornita dal Sid, rilevato che "l'entità del pericolo esigeva iniziative immediate", aveva ordinato al generale Miceli di informare immediatamente Polizia e Carabinieri. In esecuzione di tali direttive, il capo del Sid il 10 luglio 1974 consegnava al Comandante generale dell'Arma dei Carabinieri, generale Mino, e ad Emilio Santillo, capo dell'Ispettorato Antiterrorismo, un appunto nel quale si informava dell'iniziativa eversiva e si comunicavano i nomi Ricci, Drago, Pacciardi, Sogno.

     Il generale Mino, interrogato il 22 ottobre 1974 dal G.I. Violante, confermava di aver inoltrato ai comandi territoriali due successive disposizioni con le quali si attuavano e poi, il 22 luglio, si incrementavano dispositivi di vigilanza che erano ulteriormente rafforzati nei giorni prefestivi e festivi e durante le ore notturne. Nell'interrogatorio, il generale Mino chiariva che l'ordine di rafforzare le misure di sicurezza, impartito il 22 luglio, fu emanato perché egli era stato informato "che i programmi eversivi che mi erano stati comunicati si stavano traducendo nei giorni successivi in azioni concrete".

     La situazione si presentava a tal punto grave che il 10 agosto il generale Igino Missori, comandante della divisione dei Carabinieri "Podgora", competente sull'Italia centrale e dunque su Roma, aveva impartito l'ordine di predisporre un ulteriore contingente armato per un eventuale impiego nei giorni festivi e nelle ore notturne. Il capo della Polizia Zanda Loy dispose un aumento del contingente armato di stanza nella tenuta presidenziale di Castelporziano e al Quirinale, scegliendo "guardie particolarmente addestrate alla difesa personale e al tiro con le armi".

     Il Ministro della difesa, Andreotti, infine aveva deciso di "operare subito qualche spostamento in punti cruciali per togliere eventuali collegamenti". Gli spostamenti avevano riguardato i generali Piero Zavattaro Ardizzi, Luigi Salatiello e Giuseppe Santovito.

     Nel settembre 1974 Andreotti impose poi al Sid (e per esso al nuovo direttore Casardi e a quello del Reparto “D”, Gian Adelio Maletti) di comunicare all'autorità giudiziaria le informazioni in possesso del servizio.

     Furono quindi inviate all’Autorità giudiziaria tre distinte memorie, che riguardavano rispettivamente il Golpe Borghese, la "Rosa dei Venti" e ulteriori fatti di cospirazione dell'estate 1974, a seguito delle quali fu infine esibito il materiale (che all'epoca si ritenne integrale) raccolto dal Reparto “D”.

     Già da questo materiale risultò evidente che il Servizio aveva seguito sin dalla nascita il Fronte Nazionale; risultano accuratamente descritti i contatti con i dirigenti di Ordine Nuovo; l'addestramento all'uso delle armi individuali; la preparazione del colpo di Stato; la disponibilità di armi e i collegamenti con settori delle Forze Armate (ivi compreso il ricorso alle caserme per l'approvvigionamento delle armi e munizioni in caso di necessità).

     Nessuna contromisura risultò però essere stata predisposta e il disvelamento della condotta del Servizio al suo interno portò all'allontanamento del suo Direttore generale Miceli e al rafforzamento di Casardi e Maletti.

     I documenti del Sid, che avevano permesso ad Andreotti di reagire, trasferendo subito gli altri ufficiali implicati nel golpe, furono poi trasmessi da Andreotti al giudice Violante a Torino, che avviò l’indagine giudiziaria conclusasi nel maggio 1976 con l’arresto di Sogno, del suo collaboratore Luigi Cavallo, di Pacciardi e di molti altri coinvolti nella trama golpista..

     Fu questo l’ultimo tentativo di colpo di Stato in Italia. Il progetto golpista non si differenziava molto dai precedenti ed utilizzava molti degli uomini che avevano partecipato al tentativo di Borghese.

     Ma questa volta i golpisti ritenevano più prudente presentare una facciata per così dire democratica, puntando ad ottenere il consenso del presidente Leone a sciogliere le Camere e incaricare del nuovo governo Randolfo Pacciardi.

     Il piano eversivo sarebbe dovuto scattare tra il 10 e il 15 agosto 1974. Angelo Sambuco, all'epoca segretario particolare del Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia Lino Salvini, dichiarò al giudice Vella che nell'estate del '74 il Gran Maestro gli aveva confidato di non ritenere opportuno allontanarsi da Firenze, in quanto era stato informato da Gelli dell'eventualità di possibili soluzioni politiche di tipo autoritario.

     La rovinosa caduta di Nixon per lo scandalo del Watergate, insieme alle iniziative del ministro della Difesa Andreotti volte sia a mettere in allarme i settori del Sid vicini al generale Maletti, sia a trasferire alcuni generali, consigliarono i congiurati a rinviare la data del golpe.

     Fu fissata, allora, una nuova data in autunno, ma ormai le condizioni politiche, anche internazionali, erano cambiate e l'iniziativa non fu più ripresa. D'altro canto, lo stesso progetto era ormai portato avanti, con metodi meno violenti ma non meno efficaci, dal Piano di Rinascita Democratica di Licio Gelli, ed infatti negli anni successivi la loggia P2 fu ristrutturata e potenziata per poter far fronte ai nuovi più impegnativi compiti.

     Il "golpe bianco", così come lo aveva delineato Luigi Cavallo, collaboratore di Edgardo Sogno, avrebbe dovuto essere "un golpe di destra con un programma avanzato di sinistra che divida lo schieramento antifascista e metta i fascisti fuori gioco". Doveva essere organizzato "con i criteri del Blitzkrieg: sabato, durante le ferie, con le fabbriche chiuse ancora per due settimane e le masse disperse in villeggiatura". Il piano prevedeva lo scioglimento del Parlamento, la costituzione di un sindacato unico, la formazione di un governo provvisorio, espresso dalle Forze Armate, che avrebbero dovuto attuare un "programma di risanamento e ristrutturazione sociale del Paese", una riforma elettorale - costituzionale da sottoporre a referendum, l'attuazione di una politica sociale avanzata che consentisse "il rilancio dello sviluppo economico".

     Informazioni simili provenivano dal Reparto "D" del Sid, attraverso il rapporto del colonnello Romagnoli e del capitano Antonio Labruna consegnato al ministro della difesa Giulio Andreotti. In esso si precisava che nel periodo compreso tra il 10 e il 15 agosto si sarebbero realizzati "atti eversivi non meglio precisabili tra i quali però sarebbero rientrati: un'azione di forza in direzione del Quirinale; imposizione al Presidente Leone di profonde ristrutturazioni delle istituzioni dello Stato e formazione di un governo di tecnici con a capo Randolfo Pacciardi. L'azione verso il Quirinale dovrebbe essere capeggiata da tale Salvatore Drago, che potrebbe personalmente contare anche su un consistente gruppo di appartenenti alla PS; gli atti eversivi dovrebbero determinare come scopo finale l'intervento di imprecisati reparti militari favorevoli all'eversione. Ideatore e pianificatore di quanto sopra, secondo le medesime fonti, sarebbe lo stesso dr. Drago, in contatto a tal fine con il generale di Brigata Ugo Ricci, a sua volta in rapporto diretto, anche per sollecitazione di Pacciardi, con Edgardo Sogno, disponibile allo scopo attraverso la sua organizzazione denominata ‘Centro di Resistenza Democratica".

     Il 5 maggio 1976 il Giudice Istruttore Violante firmava i mandati di arresto per Edgardo Sogno e Luigi Cavallo "per essersi associati con Borghesio Andrea, Pacciardi Randolfo, Ricci Ugo, Drago Salvatore, Pecorella Salvatore, Pinto Lorenzo, Orlandini Remo, Nicastro Maria Antonietta, Pagnozzi Vincenzo e con altre persone non identificate al fine di mutare la Costituzione dello Stato e la forma di governo con mezzi non consentiti dall'ordinamento costituzionale…”

     Dopo un lungo e tormentato iter processuale la sentenza della Corte Costituzionale del 12 settembre 1978 dichiarava non doversi procedere nei confronti di tutti gli imputati "perché il fatto non sussiste".

    In questo contesto di successive mobilitazioni nell'ambito di un unico progetto eversivo va collocata anche l'attivazione della Rosa dei Venti, anche se la decisione della Cassazione di trasferire l'istruttoria a Roma, ha vanificato la possibilità che il giudice Tamburino potesse chiarirne i legami e le connessioni.

     Sul fallimento del disegno golpista hanno pesato oltre che l’azione della magistratura inquirente e le misure adottate dal ministro della difesa Andreotti, le già ricordate dimissioni del presidente Nixon per lo scandalo Watergate e il notevole cambiamento della situazione politica a livello internazionale. Crollarono quasi contemporaneamente la dittatura portoghese salazarista (aprile) e quella greca dei colonnelli (luglio) ambedue sostenute fino a quel momento dagli Stati Uniti. In ultimo, ma non meno importante, va ricordato anche l’effetto negativo delle stragi di Brescia e dell’Italicus sull’opinione pubblica italiana.

 

Il terrorismo  rosso e gli strateghi della tensione

 

     Nonostante questa battuta di arresto o forse proprio grazie a questa, gli autori della “strategia della tensione” da quel momento accantonarono la via golpista e stragista e preferirono perseguire le stesse finalità di conservazione e stabilizzazione del potere attraverso il terrorismo e i metodi meno violenti ma non meno efficaci delineati nel “Piano di Rinascita Democratica” di Licio Gelli. Infatti, negli anni successivi la loggia P2 fu riorganizzata e potenziata per poter far fronte ai nuovi compiti che doveva ricoprire nella compagine di governo e negli apparati statali di sicurezza e di repressione.

     Secondo la Commissione parlamentare, che ha indagato sulle stragi, nella prima fase del terrorismo “rosso” ci fu un “carattere di stop and go nella risposta istituzionale”. E se si accetta un simile giudizio occorre dedurre l’esistenza di una volontà politica da parte delle forze di governo di allora, che probabilmente intendevano utilizzare le imprese di un terrorismo, che è nell’”album di famiglia” della sinistra comunista in Italia, per stabilizzare una situazione politica sempre più compromessa e che stava sfuggendo al controllo delle forze moderate e conservatrici.

     Dall’altro la percezione di tendenze golpiste presenti anche in apparati istituzionali dello Stato, aveva spinto le tensioni sociali che alimentavano la protesta di sinistra ad assumere più intensamente forme eversive e rivoluzionarie.

     Stando così le cose, c’è da chiedersi innanzitutto se il nuovo terrorismo è una prosecuzione sotto altra veste della “strategia della tensione” o se si tratta di un fenomeno diverso che con quella strategia ha poche o nulle parentele. A favore della prima ipotesi ci sono iniziative come l’operazione CHAOS della Cia o come la circolare del generale Westmoreland.

     L’accenno all’uso diretto o indiretto dell’estremismo rosso si ritrova con espressioni analoghe in un altro documento, sequestrato nel 1974 a Lisbona nella sede dell’Aginter Press.

     I tre documenti che abbiamo citato sembrano convergere in un progetto univoco: dopo il parziale fallimento dell’eversione di destra subalterna ai servizi di sicurezza e dei colpi di stato in senso autoritario, mutata la situazione internazionale ed accantonata l’ipotesi di insediare in Italia un regime come quello greco, si punta più nettamente a una stabilizzazione in senso moderato (di cui il “golpe bianco” è stato una sorta di prima anticipazione) sfruttando contro i comunisti e la sinistra, che vi si allea un’opera di infiltrazione nei gruppi estremisti puntando a conquistarne la guida o almeno a sfruttarne l’azione ai propri fini.

     Ed è, a nostro avviso, soprattutto la seconda possibilità a realizzarsi nella vicenda che connota in Italia il terrorismo “rosso”: allo stato almeno delle fonti a disposizione sembrerebbe fondata l’ipotesi interpretativa che accredita una certa autonomia alle organizzazioni terroristiche, che si richiamavano al comunismo e alla sinistra, senza peraltro escludere infiltrazioni e successive anche pesanti strumentalizzazioni.

     Il generale Dalla Chiesa, infatti, non ebbe difficoltà a infiltrare nel vertice delle Br padre Girotto, giungendo nel 1974 all’arresto di Curcio e Franceschini, i due capi storici dell’organizzazione, mentre Moretti fortunosamente sfuggiva all’arresto.

     A questo punto le Brigate Rosse entrarono in una crisi profonda. Il gruppo di comando, se si esclude Moretti, era tutto in carcere; il numero dei clandestini “regolari” era inferiore, per quanto si sa, a quindici unità. Sarebbe stato dunque per gli apparati repressivi il momento opportuno per scatenare un’offensiva finale, allargare la tecnica dell’infiltrazione e distruggere quel che era rimasto della prima organizzazione terroristica.

     Ma, invece, nulla di ciò fu fatto, anzi, proprio nel 1975 si decise lo scioglimento del nucleo antiterrorismo comandato dal generale Dalla Chiesa. E, secondo una testimonianza resa proprio allora da uno dei massimi responsabili dei servizi di sicurezza, il generale Maletti, c’era ”sentore di un tentativo di riorganizzazione e rilancio sotto forma di un gruppo ancora più segreto e clandestino e costituito da persone insospettabili anche per censo e cultura con programmi più cruenti (...) Questa nuova organizzazione partiva con il proposito esplicito di sparare, anche se non ancora di uccidere (…) Arruolavano terroristi da tutte le parti e i mandanti restavano nell’ombra, ma non direi che si potessero definire di sinistra.”

     Maletti dichiarò in una successiva intervista di aver inviato un rapporto all’allora ministro dell’Interno on. Gui ma senza alcun risultato.

     Elementi come questi sembrano confermare indirettamente quanto sopra affermato sul piano dell’interpretazione storica. Ultimo elemento di prova a sostegno di questa tesi è il sequestro e l’assassinio dell’on. Aldo Moro, proprio alla vigilia del varo del primo governo con il Pci nella maggioranza ad un passo dalla. nenniana “stanza dei bottoni”.

 

L’ultimo atto: la strage di Bologna

 

     Rimane da capire l’ultima strage, quella compiuta il 2 agosto del 1980 alla stazione di Bologna con i suoi 85 morti e 200 feriti. Una strage che in qualche modo chiude la stagione della strategia della tensione, anche se non sembra appartenervi. 

     Il senatore Giovanni Pellegrino, presidente della Commissione stragi, in merito. Dice: «La situazione dell'Italia del 1969 e la situazione dell'Italia del 1980 erano completamente diverse. Da un lato eravamo già entrati in una fase di stabilizzazione politica con la fine del Governo della solidarietà nazionale. Poi al Quirinale c'era una figura come Pertini... Se è vero che negli anni '69-'80 si pensava di sequestrare il presidente della Repubblica o comunque di condizionarlo, non era realistico pensare che questo potesse avvenire con una figura come Sandro Pertini, soprattutto per l'estrema popolarità di cui godeva. Però, ecco, con il tempo, che cosa volevano nascondere i depistaggi che hanno riguardato piazza Fontana o il Fatebenefratelli siamo riusciti a capirlo. E invece per la strage di Bologna non è così. Noi registriamo le intensità e la forza dei depistaggi, riusciamo a leggerli in quanto riusciamo a capire chi ne sono gli autori: la P2 e il Servizio segreto militare. Però che cosa c'era che quei depistaggi non volevano fare apparire circa le motivazioni politiche della strage, cioè come quel gesto politico - perché le stragi sono gesti politici - si inseriva nella situazione italiana e internazionale del periodo, questo francamente non siamo riusciti a capirlo».

     E allora proviamo ad avanzare un’ipotesi o forse una possibile spiegazione, anche se per questo dobbiamo partire da più lontano, dalla fine del 1977 quando Michele Sindona aveva consegnato alla Banca d’Italia documenti, che dimostravano le operazioni irregolari di Roberto Calvi, il presidente del Banco Ambrosiano, che si era rifiutato di aiutarlo nel tentativo di salvataggio delle sue banche.

     Licio Gelli, capo della P2, aveva cercato di mettere pace tra i due, ma Calvi non aveva i soldi necessari per salvarlo, era già troppo esposto su due fronti: quello dell’acquisizione del gruppo Rizzoli – Corriere della Sera su cui aveva messo le mani la P2  e quello del sostegno allo Ior, la banca del Vaticano.

     In seguito alla denuncia anonima di Sindona, il 17 aprile del 1978 dodici ispettori della Banca d'Italia entrarono nella sede dell'Ambrosiano. Ci restarono sette mesi e rilevarono una serie enorme di irregolarità, che registrarono in un rapporto di 500 pagine, che consegnarono a un magistrato, Emilio Alessandrini. Ma il giudice Alessandrini non fece quasi in tempo a esaminarlo perché cinque mesi dopo, il 29 gennaio 1979, venne ucciso da un gruppo di fuoco di Prima Linea. Il fascicolo passò nelle mani di due altri magistrati, Giuliano Turone e Gherardo Colombo, che dovettero ripartire da zero.

     Andò poco meglio ai vertici della Banca d'Italia che avevano inviato l'ispezione al Banco Ambrosiano. Il 24 marzo 1979 il governatore Paolo Baffi e il capo dell'Ufficio vigilanza Mario Sarcinelli vennero arrestati per ordine dei magistrati romani Luciano Infelisi e Antonio Alibrandi.

     Le accuse di aver nascosto alcune prove relative a un altro scandalo finanziario si riveleranno presto completamente infondate, assurde addirittura per due uomini dell'integrità di Baffi e Sarcinelli. Un clamoroso errore giudiziario che si sarebbe cancellato soltanto nel 1983, quando Baffi e Sarcinelli vennero completamente prosciolti, ma.che allora li tenne fuori dal gioco.

     La bufera era superata, ma l'impero di Calvi ne incontrò altre. Una prima crisi di liquidità a cui fece fronte con i 140 milioni di dollari, che arrivarono dall'Eni e dalla Banca nazionale del lavoro, grazie anche agli amici della P2, che si trovavano nei consigli di amministrazione.

     Una seconda crisi nel 1980, risolta ancora tramite un finanziamento dell'Eni di 50 milioni di dollari. Per quel favore ci fu una tangente da pagare, sette milioni di dollari su un conto, che si chiamava «Protezione», di cui era titolare Silvano Larini per conto degli esponenti del Psi Claudio Martelli e Bettino Craxi, siamo alle origini di quello che un decennio dopo diede inizio allo scandalo di “tangentopoli”. Neanche della protezione degli altri politici si poteva fare a meno e Roberto Calvi lo sapeva perché fece piovere 80 miliardi, miliardi degli anni Settanta, su tutti i partiti di governo.

     Ma non bastò. C’erano nuove leggi che controllavano i movimenti finanziari, soprattutto con l'estero, e c’erano due persone che volevano vederci chiaro.

     Uno si chiamava Beniamino Andreatta, ed era ministro del Tesoro. Beniamino Andreatta era una brava persona, una persona perbene, molto indipendente. Alla presidenza della Consob, l'organismo di controllo della Borsa, il ministro Andreatta aveva nominato un'altra persona che voleva vederci chiaro, e che si chiamava Guido Rossi. Il Banco Ambrosiano era una delle maggiori banche del Paese e non era ancora quotato in Borsa, cosi Rossi chiese a Calvi di farlo, ma questo avrebbe comportato altri controlli, che a lui facevano paura.

     Il 14 luglio 1980, Roberto Calvi ebbe il primo colpo. Giuliano Turone e Gherardo Colombo, i magistrati, che avevano sostituito il giudice Alessandrini, arrivarono alle stesse conclusioni della Banca d'Italia e intanto gli fecero ritirare il passaporto. Calvi era protetto dalla P2 di Licio Gelli, che tramava per lui, ma a questo punto arrivò il secondo colpo.

     C'era un uomo che si chiamava Joseph Miceli Crimi, pesantemente coinvolto nel caso Sindona e c'era un particolare che interessava i magistrati: mentre aiutava Sindona a fuggire, Miceli Crimi si era fermato ad Arezzo. Perché? Perché era andato dal dentista, disse Miceli Crimi, ma nessuno gli aveva creduto. Perché doveva incontrare un altro massone e chiedergli consiglio. Quale massone? Licio Gelli.

    Alcune settimane dopo, il 2 agosto, ci fu la strage alla stazione di Bologna. Uno degli attentatori era Giusva Fioravanti, un militante dei Nar, autore materiale dell'omicidio del giornalista Mimo Pecorelli. Secondo i giudici di Perugia, che formalizzarono quest'accusa nel 1982, il mandante di quel delitto era Licio Gelli, capo della loggia P2.

     Bologna in quel periodo era diventato il crocevia di importati inchieste e processi riguardanti l’eversione di destra (strage del treno Italicus, Ordine nero), sembrava, quindi, il bersaglio ideale per lo “spontaneismo armato” della destra eversiva, ma fu probabilmente anche e soprattutto un segnale lanciato ad una parte del mondo politico e istituzionale, quella che si opponeva all’ascesa della P2 nel mondo degli affari. Erano di allora, infatti, la scalata di Gelli al gruppo Rizzoli, attraverso il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e tramite questi al Corriere della Sera, il più prestigioso giornale italiano.

     Una resistenza che stava mettendo in grandissima difficoltà Licio Gelli e il suo ambiente alla disperata ricerca di fondi per ripianare i costi di quelle operazioni finanziarie.

     Significativo in tal senso fu la vicenda dello scandalo Eni – Petromin emerso nel 1979 quando in piena crisi petrolifera uomini della loggia tentarono di utilizzare le tangenti connesse con il contratto di fornitura di petrolio tra l'ENI e la Petromin per acquisire adeguati mezzi finanziari destinati a colmare il deficit della gestione del gruppo Rizzoli, ma il tentativo fallì, anche per la ferma opposizione di alcuni esponenti socialisti.

     Licio Gelli, inoltre, doveva guardarsi anche dall’inchiesta giudiziaria sul Banco Ambrosiano, che stava per giungere alla scoperta della sua loggia segreta Propaganda 2.

     Cosa che infatti avvenne il 17 marzo del 1981 quando i magistrati milanesi Giuliano Turone e Gherardo Colombo si recarono ad Arezzo e fecero perquisire la villa di Gelli e la fabbrica che possedeva.

     Negli uffici di questa trovarono una valigia di pelle marrone. Dentro c’erano i documenti della P2, con un elenco di 962 nomi, tutti molto importanti. Scoppiò lo scandalo P2, Gelli fuggì all'estero, e Roberto Calvi si ritrovò scoperto. Il 20 maggio 1981 venne arrestato per reati valutari. Nove giorni dopo si aprì il processo e nella notte tra il 17 e 18 giugno del 1982 Roberto Calvi fu trovato impiccato sotto il ponte di Blackfriars (dei frati neri), a Londra.

     Ci furono molti depistaggi nelle indagini sulla strage alla stazione di Bologna, ma quello che ci riguarda in modo particolare avvenne il 13 gennaio 1981. In uno scompartimento di seconda classe dell'Espresso 514 Taranto - Milano, i carabinieri trovano una valigia sospetta.

     Dentro c’erano un mitra Mab con due caricatori, un fucile da caccia calibro 12, due passamontagna di colore blu, due guanti di gomma e soprattutto otto lattine piene di esplosivo. Quello però non era un esplosivo qualunque: una miscela di gelatinato più tritolo e T4, il Compound B, identica a quella che aveva fatto saltare la stazione di Bologna.

     I carabinieri non c’erano andati per caso su quel treno. Avevano seguito una serie di informative che erano iniziate quattro giorni prima, il 9 gennaio, quando il generale Santovito e Francesco Pazienza avevano consegnato al generale Musumeci, vicecapo del Sismi, (tutti uomini della P2) un rapporto che si chiamava Terrore sui treni. Nel rapporto c'era scritto che sarebbero iniziati una serie di attentati alle linee ferroviarie, organizzati da neofascisti italiani e terroristi francesi e tedeschi.

     Tutte le questure, i comandi dei carabinieri e gli uffici di polizia ferroviaria si allarmano. L'indomani e il giorno dopo ancora, nuove informative del Sismi. I terroristi francesi e tedeschi erano due, il primo si chiamava Raphael Legrand, il secondo Martin Dimitris. C'era anche la descrizione, uno era grosso e l'altro era un po' calvo.

     Informazioni incredibilmente precise, e infatti, insieme alle armi e all'esplosivo, nella borsa si trovarono anche due giornali francesi e uno tedesco, addirittura i biglietti aerei, intestati proprio a Raphael Legrand e Martin Dimitris.

     Il giudice Mancuso, pubblico ministero nella prima istruttoria del processo sulla strage di Bologna. Dice: «Quest'ulteriore vicenda rimase senza responsabili fino al 1984, quando si accertò che a mettere quell'esplosivo era stato materialmente un sottufficiale dell' Arma dei carabinieri che era stato avvicinato dagli agenti del Sismi e dai suoi superiori, che erano il maresciallo Sanapo e il generale Musumeci».

     A contattare il sottufficiale fu un colonnello del Sismi, Giovanni Belmonte, che aveva agito per conto del suo superiore, il generale Pietro Musumeci, vicecapo del Sismi. Tutti e due erano nella P2 di Licio Gelli.

     In questa ragnatela di piste, che facevano correre i magistrati in tutte le direzioni, le indagini sulla strage alla stazione di Bologna rischiavano di perdersi.

     Poi l'11 dicembre 1985 ci fu la svolta. Su richiesta dei pubblici ministeri Libero Mancuso e Attilio Dardani, i giudici istruttori Vito Zincani e Sergio Castaldo emisero una serie di mandati di cattura.

     Il 14 giugno 1986 vennero rinviati a giudizio per associazione sovversiva Licio Gelli, Francesco Pazienza, il vicecapo del Sismi, generale Pietro Musumeci, e il suo braccio destro, colonnello Giuseppe Belmonte. Per i magistrati sarebbero stati a capo di un gruppo che aveva il compito di sovvertire l'ordine democratico con attentati commissionati a gruppi di estrema destra. Anello di congiunzione tra la testa dell'associazione, Licio Gelli, i Servizi segreti deviati, il Supersismi e i gruppi neofascisti sarebbero stati Fabio De Felice, Paolo Signorelli, Roberto Rinani e Massimiliano Fachini, esperto di esplosivi, che secondo la Procura avrebbe fornito la bomba che aveva fatto saltare la stazione. Presenti sul posto, alla stazione, il 2 agosto 1980, Sergio Picciafuoco e Luigi Ciavardini. Poi Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, gli autori materiali dell’attentato.

     L'11 luglio del 1988, la seconda Corte d'assise di Bologna condannò all'ergastolo per strage Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Massimiliano Fachini e Sergio Picciafuoco. A dieci anni per calunnia pluriaggravata - il depistaggio - Licio Gelli, Francesco Pazienza, il generale Musumeci e il colonnello Belmonte. Luigi Ciavardini era minorenne e di lui si occupò un altro processo.

     Il 12 luglio 1990 la Corte d'assise d'appello annullò tutti gli ergastoli per strage, annullò la condanna a Licio Gelli e abbassò le condanne per il depistaggio.

     Il 12 febbraio 1992 la Corte di cassazione ritenne la sentenza illogica e priva di fondamento, «tanto che in alcune parti i giudici hanno sostenuto tesi inverosimili che neppure la difesa aveva sostenuto». Sì rifece tutto da capo. Dal processo uscirono definitivamente Stefano Delle Chiaie, Paolo Signorelli e Fabio De Felice, che non vennero rinviati a giudizio.

     Il 16 maggio 1994 la prima Corte d'assise d'appello condannò nuovamente all'ergastolo per strage Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Sergio Picciafuoco. Assolse Massimiliano Fachini e Roberto Rinani. Condannò per calunnia aggravata da finalità di terrorismo - il depistaggio - Licio Gelli, Francesco Pazienza, il generale Musumeci e il colonnello Belmonte.
     Il 4 aprile del 2002 Luigi Ciavardini, dopo essere stato assolto in primo grado, venne condannato in appello a trent'anni per strage. Il 17 dicembre 2003, la prima sezione penale della Corte di cassazione annullò la condanna e rinviò Luigi Ciavardini alla Corte d'assise d'appello per un nuovo processo.

     Il giudice istruttore Grassi nell’ultima istruttoria sulla strage alla stazione di Bologna ha notato come “le stragi abbiano avuto due diverse funzioni: una operativa, cioè di condizionamento delle istituzioni verso uno sbocco autoritario, e l’altra invece di cruento strumento di comunicazione di messaggi rivolti sia all’opinione pubblica che all’interno della stessa area della destra; e come nel tempo la prevalenza sia passata dalla prima funzione (che è preminente nella strage di piazza Fontana) alla seconda”.

     Di qui la convinzione del giudice, come di alcuni studiosi, sulla matrice di destra della strage di Bologna.

     Si è parlato non a torto per le azioni del terrorismo nero di “spontaneismo armato” per contrapporlo e distinguerlo dalla prima fase di quel terrorismo, che aveva agito in stretta collaborazione con servizi di sicurezza italiani e stranieri.

     Ma sono emersi dei fatti nelle indagini che fanno pensare a rapporti che anche in questa fase probabilmente ci furono tra la destra radicale, la loggia massonica P2 di Licio Gelli e la criminalità organizzata e mafiosa, come fu ampiamente accertato in seguito nella strage sul Rapido 904 del 23 dicembre 1984, che costò la vita a 15 persone e fece 139 feriti. Infatti, in quell’attentato, si legge nella "Relazione sui rapporti tra mafia e politica" della Commissione Antimafia istituita nella XI legislatura:

     "Pippo Calò (il cassiere della mafia, legato alla banda della Magliana, nda) non ebbe difficoltà, previa informazione alla Commissione provinciale di Cosa Nostra, a contattare ambienti del terrorismo di estrema destra e della camorra per organizzare l’attentato al rapido 904 al fine di deviare dalla mafia l’attenzione dei mezzi di informazione, dell’opinione pubblica e delle forze di polizia.

     Nelle settimane precedenti alla strage, grazie alle dichiarazioni di Buscetta e di Contorno, e al preciso lavoro degli uffici giudiziari di Palermo, erano stati emessi ed eseguiti molti mandati di cattura. Cosa Nostra risponde con la strage per distogliere dalla mafia l’attenzione dell’opinione pubblica”.

 

 

<>Franco D’Arco 8 - 12 agosto 2006






Goto Unico