WD-M2010: Agosto 2009-Agosto 2010

(A)              Presentazione

Narrazione di quanto accaduto nel piccolo paese in cui soggiornammo da agosto 2009 fino ad agosto 2010: i malintesi, le dicerie e i comportamenti della gente e delle autorità che ci impedirono di risollevarci economicamente ed inserirci nel tessuto sociale. In fondo, negli aspetti generali, spieghiamo cosa ha determinato la situazione di stallo delle nostra situazione e stiliamo le conclusioni.

 

(B)             Narrazione dei fatti

 

                         (i)      Premesse

Prima di raccontare quanto successo spendiamo qualche parola per descrivere la situazione in generale. Chi già la conosce può saltare questa parte e passare immediatamente ai “fatti accaduti nel paese”.

Dal 2001 vivevamo una vita totalmente indipendente, staccata dalle famiglie d’origine, avevamo un lavoro entrambi nella stessa azienda, una casa, un’auto e una vita pressoché normale come quella di numerosi cittadini. Nel 2004 l’azione di uno stalker fece fallire l’azienda in cui lavoravamo e ci trovammo entrambi senza lavoro. La crisi economica generale ci impedì di trovare un altro lavoro simile. Il comune dove eravamo residenti non si impegnò ad aiutarci e perdemmo l’auto e la casa. Finimmo poi a uscire dalla nostra regione e tentammo di rifarci una vita dove le cose sembravano poter andare meglio. Passammo dal 2005 al 2009 a spostarci dove riuscivamo a trovare accoglienza e lavoro, ma non riuscimmo mai a uscire completamente da quella situazione fatta di lavori stagionali che normalmente fanno gli stranieri. I nostri connazionali più di qualche volta ci lasciarono alla porta, preferendo manovalanza straniera, e noi ci dovemmo accontentare per vari periodi di vivere al bordo della società. Finiti in questi ambienti lavorativi non si riuscì più a emergere, complice una legge malsana e inadatta al nostro caso, persone poco propense ad aiutare, spesso anche ignoranti dal punto di vista giuridico, e la legge sullo stalking completamente assente nel 2004.

In luglio 2009 dovevamo iniziare un nuovo lavoro con vitto ed alloggio, che non è partito per il verso giusto, a causa delle insufficienti prenotazioni. Così nell’estate 2009 finimmo senza un tetto e senza un soldo. Da qui partono i fatti accaduti in questo paese della riviera.

 

                       (ii)      I fatti accaduti nel paese

 

a)       Arrivo nel nuovo comune della riviera

Nella seconda settimana dell’agosto ‘09 sbarcammo in un nuovo comune in riva al mare, lontano circa 15 km dal capoluogo e situato tra due più importanti e rinomati luoghi turistici; arrivammo senza lavoro e soldi e dopo aver inutilmente cercato per una settimana una sistemazione d’emergenza nel capoluogo o un lavoro con vitto e alloggio. Arrivati di sera, il parroco ci diede la possibilità di dormire al coperto ponendo un materasso e qualche cuscino nella stanza di lavoro degli scout, situata all’interno dei locali della chiesa. Nelle altre stanze vi erano ospitati degli stranieri che lavoravano presso alcuni alberghi. Il parroco ci offrì la colazione, qualche panino per mezzogiorno e qualcosa la sera. Alla sera avemmo la possibilità di fare conversazione con lui. All’inizio ci furono concessi solo due giorni nella stanza degli scout, ma poi si protrassero di giorno in giorno fino a una settimana, quando, in concomitanza dell’arrivo del vescovo, al parroco venne l’idea di spedirci in una piccola stanza, usata saltuariamente come magazzino e situata all’interno di un condominio. All’epoca non ci chiese nessun documento, sapeva i nostri nomi e la provincia donde provenivamo, ed altre informazioni che avevamo scambiato amichevolmente a cena, come alcuni modi di dire in dialetto veneto. Il prete ci raccontò che se la passava discretamente, i soldi non gli mancavano e aveva molti amici e contatti sociali.

Il prete sapeva che eravamo messi male economicamente: a volte non lo nascondevamo nemmeno quando cercavamo lavoro, spiegandone l’urgenza ad eventuali datori di lavoro, almeno quelli che ci sembravano più alla mano. E non fu sbagliato: solo che ormai la stagione volgeva al termine, così qualche albergatore di buon cuore, non potendo darci lavoro, ci offrì della pasta fresca. La accettammo volentieri, pensando di portarla in parrocchia. Quella sera il prete ci lasciò preparare la cena, anche per lui ovviamente, con quella pasta arrivata per vie provvidenziali e con quanto recuperabile in loco. Da quella volta abbiamo avuto libero accesso alla cucina. Con il prete si discuteva un po’ su tutto.

Il prete diceva :-“ Qua siamo come da voi, al Nord”, perché aveva vinto il partito della Lega Nord, e non rappresentanti di sinistra.

“Va meglio o peggio?”, gli chiedevamo, perché a nostro parere, indipendentemente dal partito vincente, non notavamo segni di grande miglioramento. Il prete, amareggiato, constatava che “qualunque colore andasse su, è tutto lo stesso, c’è poco da sperare”. Tante cose venivano lasciate alla buona volontà della gente.

Così ci raccontò che ospitava vari stranieri, non solo quelli presenti in canonica, ma anche famiglie in appartamenti, gente non in regola con il permesso di soggiorno. Con la nuova legge che andò approvata in quel periodo egli stesso diventava “fuori legge”, ed aggiungeva:- “Ma sapete che mi possono dare qualche anno di carcere? … che esagerazione…. per dare un po’ di ospitalità a gente con permesso di soggiorno non in regola”. Però il prete era tranquillo: si sa che in Italia la legge viene applicata con un po’ di manica larga: soprattutto se si vuole mandare via qualcuno o punirlo o “rompergli le scatole”, allora si applicherà ogni legge possibile.

Su una cosa eravamo tutti concordi: l’Italia era proprio un paese nel caos.

Il prete diceva che “—qua da noi gli italiani stanno bene, ma gli stranieri hanno tanto bisogno …. Infatti gli appartamenti della parrocchia gli ho dati a loro, agli albanesi. Però quella è proprio la razza più terribile, mi sa che non trovo di peggio”.

 

Doveva essere vero che il prete aiutasse gli stranieri. Per l’appunto arriva lì, nella cucina, un giovane ceco (o slovacco), ed il prete, con grande confidenza gli chiede come sia andata la giornata e gli offre entusiasta un po’ di pasta che avevamo preparato (le sue cuoche non gli preparavano mai pasta fresca con sugo di salame e pendolini, ma spaghetti con pomodoro preconfezionato….).

Il ragazzo accetta poco convinto, il prete li dà una pacca sulla spalla e continua:-“Questo ragazzo è proprio fortunato, ha incontrato me. ….. ti ho accolto come un figlio, ti ho dato da mangiare e da dormire, la bicicletta per andare al lavoro, il mio computer ed Internet e tutto quello che ti serve…. Ti ho trovato anche il lavoro….”.

—“Eh, no, il lavoro me lo sono trovato io”— sbuffò il ceco innervosito.

“—Già, ma poi hai litigato con i padroni, e se non mi mettevo in mezzo io, lì non ci andavi più.”

E via con questo discorso, scoprimmo che questi padroni erano accusati di preparare un menù a parte per i dipendenti, diverso dagli ospiti: dei “tirchi” secondo il cameriere, “lo fa per la vostra salute” secondo il prete.

Poi arrivò il fratello di questo, un ragazzo con gli occhi sorridenti. Ed il prete a noi:”—Non vi fidate delle apparenze, sembrano buoni ragazzi, vero? Appunto,…. sembrano…”. Era vero, sembravano…

Il signor “occhi dolci” era il più spietato.

Da contrasto questi figlioli arrivavano alle 6:30 del mattino a prendersi la camicia perfettamente bianca, nella stanza degli scout, che era nostra stanza da letto e loro stanza per stendibiancheria. Non so quante lavatrici facessero al giorno…. Ma guai toccare il bagno….

 

Invece ai piani inferiori era tutto perfetto, se ne occupava un gruppetto di anziane signore che pulivano e facevano da mangiare. Una era molto pittoresca: puliva il bagno dove si facevano la doccia gli ospiti con grande vigoria e precisione, e poi ti arrivava con il mocio grondante di acquaccia nera, sul lavello della cucina, e con lo stesso impegno lo lavava ….. scansando piatti e bicchieri.

Un collaboratore del prete la guardava inorridito e la richiamava, ma questa un po’ ascoltava e un po’ proseguiva.

Ogni tanto arrivava qualche persona a chiedere cibo e soldi: ci pensavano le signore presenti, ti poteva andare bene o male, a seconda della generosità di chi apriva la porta. Per i soldi no, non si davano: quelli li dovevano chiedere direttamente al prete.

La domenica ed i giorni di festa poi in canonica vi era la rivoluzione: le donne che gestivano la canonica, quelle di altre attività, quelli del consiglio pastorale, le suore…: tutti gestivano tutto. Il prete non aveva certo tempo: i giorni di festa aveva 6 messe in scaletta, perché in estate si aprivano anche le chiese piccole nelle frazioni, ed in più faceva la messa delle 21:00 ogni sera….visto che la gente arrivava.

Insomma, in parrocchia, almeno in estate, si era come in un grande circo.  

 

b)       Arrivo nella stanza indipendente

La stanza che ci assegnò il prete, pur misera perché non fornita del benché minimo mobile eccetto tre sedie e uno scaffale in ferro, divenne la nostra speranza di un ritorno ad una condizione normale. Ci affidò a dei parrocchiani che gestivano quelle stanze. I parrocchiani ci diedero due materassi che trasportammo sulla nostra testa facendo la sfilata per il paese: li ponemmo sul pavimento, e quella divenne la nostra casa.  Per mangiare o qualunque altra necessità dovevamo arrangiarci e quelli erano i patti.

Il parroco era molto indaffarato tra messe e contatti sociali ed era poco propenso a trattare con le coppie, perché a suo dire litigavano spesso e causavano problemi maggiori[1].

La nostra stanza era piccola, non avevamo l’acqua calda[2] e nemmeno la doccia o la vasca in compenso avevamo la toilette, il bidè e il lavandino. La stanza non era del tutto rifinita oltre a mancare i mobili mancava anche lo specchio in bagno, mancavano i lampadari, qualche lampadina, porta sapone e cosi via: lo stato dell’immobile lasciava pensare che fosse stata usata molto poco o per nulla.

Cominciammo quindi a vivere una vita separata dalla chiesa e dunque non più ad aspettare la sera per entrare o lavarsi[3]…o un po’ di colazione la mattina; la prima parrocchiana la rivedemmo sette giorni dopo, nel locale adiacente al nostro. Le due stanze, entrambe della parrocchia, erano fornite di ingresso indipendente e separata una dall’altra da un muro di panforte e cartongesso e non erano comunicanti tra di loro. Dall’esterno la stanza si poteva aprire solo con la chiave. La stanza accanto serviva operativamente per riunioni ed altre attività simili e la usavano varie volte al mese una compagnia di tre o quattro persone adulte per giocare, ad uso personale, un gioco di guerra. Vi era dunque, oltre al prete, una serie di persone con le chiavi per entrare nelle due stanze (compresa la nostra). Noi invece possedevamo solo la chiave per la nostra stanza e una copia di chiavi soltanto.  

 

Fin dall’inizio avevamo chiesto ai parrocchiani, e successivamente al sacerdote, l’aiuto per ottenere un telefono cellulare e quella era l’unica richiesta che ci eravamo permessi di fare in parrocchia, per il resto, sebbene non avessimo il benché minimo soldo, riuscimmo a tirare avanti in maniera indipendente, cercando il cibo, la carta igienica e  il sapone tra i numerosi alberghi e ristoranti nel raggio di vari km. Cercammo soluzioni per il telefono anche tra persone con le quali eravamo riusciti ad avere maggiore confidenza, come alcuni titolari di supermercato o qualche albergo, ma senza risultati positivi, riuscimmo però ad avere delle lenzuola, le reti del materasso, dei vestiti…., ma sempre per iniziativa privata, con discrezione e fuori dal paese.

 

Speravamo di uscire presto da quella situazione —che non garantiva tutti i giorni il mangiare e nemmeno le cose essenziali di cui uno aveva bisogno— ma non fu così, perché il telefono non arrivò mai, e con esso nemmeno i piccoli lavoretti che potevano darci una mano per passare con il tempo a qualcosa di meglio[4].

 

Mettemmo anche un annuncio in qualche bacheca del paese del tipo “famiglia bisognosa cerca piccolo fornello elettrico o a gas, qualche pentola e un telefonino anche usato”: nessuno rispose all’indirizzo e-mail scrittovi sopra, nessuno lasciò messaggi sulla bacheca, e in qualche caso il biglietto ci fu pure strappato.

 

c)       Gossip

Tornando al discorso principale, dopo l’arrivo nella stanza, in aggiunta al problema della fame, dei soldi e del telefono ne arrivò velocemente un altro. Alcuni parrocchiani desideravano utilizzare la nostra stanzetta per i loro scopi e si misero in combutta con i condomini[5] per farci andare via. Così fin da subito, invece di ottenere misericordia ricevemmo ostilità e isolamento. Nel villaggio tali persone crearono, attraverso delle chiacchiere sul nostro conto, un clima insostenibile: la cosa non era difficile, per i pregiudizi dei piccoli paesi come quello dove eravamo arrivati. Per esempio i parrocchiani, già al secondo incontro, una settimana dopo il nostro arrivo nella stanza, ci espressero la convinzione secondo la quale le persone aiutate dal prete erano in genere poco raccomandabili o criminali, ovviamente noi inclusi, ma alleggerivano il discorso dicendo che bisognava essere superiori a queste cose.

Vedemmo alcuni parrocchiani anche le settimane successive. Ma  non era persone di cui fidarsi: il giorno prima ti dicevano che certamente non vi sarebbe stata alcuna riunione nella stanza accanto, e poi il giorno seguente, non solo la riunione si teneva, nel locale accanto il nostro, ma arrivava anche gente nella nostra stanza, aprendola con le loro chiavi, senza bussare.

Entrò appunto uno dei giocatori, che rimase sconvolto nel trovarci lì dentro la stanza: uscì immediatamente, avendo solo intravisto le nostre scarpe e parte del locale. Appena quindici minuti dopo arrivò pure il prete con aria indagatrice, che controllò lo stato del locale[6]. Non trovò nulla di strano e ci permise di rimanere senza problemi, senza chiederci niente, nemmeno i documenti.

I parrocchiani  non erano persone di cui fidarsi, a parte quanto suddetto, sparlavano di tutto e di tutti, in più creavano contrasti con i condomini.

Ad esempio, lasciavano cartacce sul portone d’ingresso; ci portarono due coperte bagnate, e le lasciarono sulla ringhiera del condominio. Non si poteva mettere panni sulla ringhiera,  i condomini erano infuriati: ma che potavamo farci noi? Tra l’altro non avevamo nemmeno capito che le coperte erano per noi: non vi avevano messo alcun biglietto, pensavamo fossero dei vicini, e rimasero là per un po’.

Cominciammo cautamente ad evitarli: se sapevamo del loro arrivo nella stanza accanto, partivamo presto in modo da non incontrarli. Se tornavamo e notavamo la loro presenza, preferivamo non entrare: d’altra parte, essendo le stanze divise da una parete molto sottile, sentivamo tutto quello che dicevano, e non era corretto ascoltare i fatti degli altri.

 

Siccome la stanza era accessibile a vari parrocchiani e non avevamo nessun armadietto per chiudere le cose personali, ci muovevamo sempre con i nostri zaini con all’interno le cose più importanti.

I nostri zaini alle spalle e il fatto di evitare alcuni parrocchiani, fece aumentare i sospetti sulle nostre persone, e cominciarono a girare le chiacchiere più svariate tra le quali l’idea che facevamo dei traffici illeciti, che portavamo persone all’interno della stanza, e soprattutto che ci nascondevamo alle autorità. Si era sparsa la voce che eravamo pure stranieri, e non italiani come avevamo detto, e così via… Il prete non fece nulla per bloccare tali pettegolezzi o la lingua inopportuna di alcuni suoi parrocchiani: sarebbe stato opportuno invece che ci presentasse fin da subito ai vicini, come quello che realmente eravamo cioè una famiglia, stroncando fin da subito le immancabili dicerie, ma questo non successe.

Addirittura ci fu qualcuno della zona che con la scusa di chiederci informazioni sull’ubicazione di una qualche via ci fermò per vedere come rispondevamo: sapevamo che tale persona era della zona e non un turista spaesato, perciò ci guardammo in faccia chiedendoci se ci stesse prendendo in giro. Non ottenendo una nostra pronta risposta, senza aspettare, disse egli stesso a voce alta mentre se ne andava “-Eh si, sono proprio stranieri!”. La gente si mise dunque in testa le idee più disparate e strane, quel paesetto aveva un carattere veramente chiuso. Per noi fu impossibile contrastare tale chiusura, occorreva che intervenisse una terza parte, una specie di “garante”,  come avvenuto per altra gente, in modo che si fosse introdotti nel paese alla loro maniera, una specie di presentazione, anche ufficiosa.

In questo senso il prete era assente, non ci aveva presentato correttamente ai suoi parrocchiani, i quali, come capimmo molto più tardi, credevano che il prete avesse dato la stanza a dei perfetti sconosciuti incontrati appena la mattina medesima: non sapevano che eravamo arrivati da una settimana  in parrocchia e che dunque  il prete aveva avuto un po’ di tempo per conoscerci e valutarci. E sarebbe stata cosa giusta che non fossero entrati con tanta disinvoltura.

 

Alcuni parrocchiani e condomini, un po’ per le chiacchiere, un po’ per loro interessi economici, fecero pressioni sul prete[7] perché ci cacciasse.

 

d)      Prevenendo il peggio

Già in settembre ‘09, prevedendo problemi con il prete causati dai pettegolezzi nati fin da subito, descrivemmo la situazione ai carabinieri di un posto dove avevamo vissuto tempo prima, che in passato ci avevano aiutato e che già conoscevano la nostra storia: speravamo che ci tirassero fuori da quella brutta situazione di fame e solitudine.

Cominciando ad evitare sistematicamente i parrocchiani apertamente ostili e questi si autoconvinsero  ancora di più che eravamo gente delinquente, come essi avevano ipotizzato  fin dall’inizio. Un mattino presto si presentarono  davanti il cancello sicuri questa volta di trovarci[8]. Volevamo evitarli a tutti i costi, ma quella volta dovemmo necessariamente affrontarli, perché minacciarono di chiamare i carabinieri, ma questo per noi non era un problema. Il problema veramente grave fu la minaccia di cambiare la serratura della porta. Ci gridarono che eravamo persone senza educazione e che non volevamo farci aiutare[9]. Rispondemmo che i carabinieri li avevamo già avvertiti noi e non vi era motivo di sollevare ulteriori questioni.

Invece dei carabinieri chiamarono il prete, e rivolgendosi a questi dissero:- “Chissà quali persone fanno entrare nella stanza!”. Dalle loro parole sembrava che utilizzassimo la stanza per traffici illeciti, e che ospitassimo altra gente. Tuttavia il prete abbassò la comunicazione su  toni più normali e rimanemmo a parlare solo con lui.

 

Inizialmente il prete voleva che lasciassimo la stanza, nel giro di due o tre giorni: sembrava non ricordarsi nemmeno che eravamo veneti, eppure noi gli facemmo tornare alla mente i discorsi fatti in precedenza, quando cenando assieme gli avevamo riportato alcuni detti delle nostre parti. Forse i parrocchiani lo aveva stressato così tanto da non ricordarsi più le informazioni. Il prete ci disse che non ci aveva trovato nella stanza e dunque parlando della situazione con una bottegaia gli era stato suggerito di metterci una lettera[10]. Noi spiegammo che tale lettera non l’avevamo letta, perché per noi era opera dei suoi parrocchiani. Noi spiegammo i motivi per cui evitavamo alcuni parrocchiani ostili, indicandoli come  persone curiose e troppo propense al pettegolezzo, le cose mutarono di aspetto. Il prete allora ci raccontò altri particolari: -“Dovete sapere che  i condomini si sono lamentati che non erano state prese informazioni su di voi” ci disse il prete, dunque per tutela di tutti, doveva mandarci via.

Ci disse che i vicini ci  avevano visto pure saltare il cancello[11].

Spiegammo che non eravamo persone così sconosciute e che addirittura avevamo informato di nostra iniziativa i carabinieri della  situazione che stavamo vivendo[12] , a tali parole non ci chiese spiegazioni ulteriori, e soprattutto non ci chiese chi fossero tali carabinieri, ma mutò la sua opinione e ci disse che per rimanere ancora dovevamo dargli  i nostri documenti, e andare insieme con lui dai vigili a fare la cessione del fabbricato, sperando che questi chiudessero un occhio e ci permettessero di restare anche se la stanza non aveva l’abitabilità. Si rimandava tutto alla settimana successiva.

 

e)       Il fax di dicembre

La settimana successiva non vedemmo il prete, noi non ci recammo da lui e lui non si recò da noi. Noi nel pomeriggio di lunedì non vedendo arrivare il prete andammo di nostra iniziativa dai vigili per tastare il terreno: eravamo partiti con l’idea di spiegare la situazione ma una volta entrati nell’ufficio comunale ci rendemmo conto che non erano persone in grado di valutare correttamente la nostra posizione, così chiedemmo solamente informazioni su come si doveva procedere nel caso volessimo ospitare delle persone nella nostra casa, e ci diedero i moduli per la cessione del fabbricato. I giorni successivi pur rimanendo nella stanza tutte le mattine non ricevemmo la visita del prete, ma il fine settimana eravamo preoccupati che la situazione volgesse al peggio, così decidemmo di scrivere un fax ai carabinieri raccontando gli ultimi fatti. Ecco grosso modo un passaggio del fax:

«premesso che da alcuni mesi riceviamo l’aiuto del parroco…  improvvisamente ci ha comunicato che dobbiamo lasciare la stanza, su pressione di alcuni parrocchiani, poiché su di noi non sono state raccolte informazioni. Su questi presupposti il prete ci ha chiesto i dati completi……

Riteniamo non vi sia motivo che il sacerdote entri nella nostra vicenda; per quanto riguarda gli obblighi di legge relativi alle dichiarazioni delle generalità delle persone, chiediamo come possiamo risolvere la questione, senza far transitare i dati per la parrocchia…»

Noi evidentemente eravamo preoccupati che non appena il prete prendesse informazioni al nostro parroco o al comune, lo stalker venisse a sapere la nostra posizione. Noi spedimmo il fax non solo per informare i carabinieri ma anche per avere nelle nostre mani una ricevuta che confermasse le nostre parole, da mostrare all’occorrenza a titolo di prova.

 

I due problemi principali strettamente correlati che si vennero a creare in dicembre erano dunque: primo che il parroco spinto dai parrocchiani voleva ora tutti i nostri dati per informarsi (mentre nei mesi precedenti non ci aveva chiesto nulla). Secondo, il prete poteva anche capire, ma i parrocchiani non li potevamo fermare in indagini indiscriminate, e lì “tutti gestivano tutto”. Perciò non volendo fornire i nostri dati ai parrocchiani, alimentavamo le loro convinzioni, cioè di essere criminali. Inoltre ci sembrava grave che un prete della sua età, già esperto, andasse a chiedere consiglio ai bottegai: altro che presentazione al paesetto, la storiella di due persone sconosciute fece il giro del paese di bocca in bocca alimentando le più svariate fantasie…

 

Ci trovavamo dunque in una situazione difficile e pensammo di chiamare in causa i carabinieri, magari sperando che facessero da intermediari, e lo facemmo appunto con il fax sopra descritto. Il fax aveva dunque aveva l’obiettivo di distruggere il fondamento che eravamo persone che si nascondevano all’autorità, e di poter saltare una procedura burocratica come quella della “cessione del fabbricato”, che nel nostro caso ci avrebbe solamente posto in pericolo. Visto che comunque una delle finalità di tale dichiarazione era per questioni legate a controllo del territorio e antiterrorismo, avendo segnalato la nostra posizione ai carabinieri avevamo già adempiuto in altra maniera a tale finalità: avevamo trovato dunque un modo per salvaguardare noi e la legge, e indirettamente anche le mancanze del prete[13]. Inoltre con tale operazione potevamo rassicurare il prete e annullare il suo problema di non sapere i nostri dati: lui faceva il prete e ci aiutava secondo i principi cristiani, e i carabinieri indagavano e mantenevano l’ordine pubblico, ognuno con il suo compito.

 

f)        Alcune lumi sui pensieri dei parrocchiani

Come abbiamo scritto sopra, i parrocchiani  e i vicini volevano espellerci dal condominio e fecero pressioni sul prete. Alcuni lumi su tale comportamento si accesero a metà dicembre ‘09, quando per caso mentre rientravamo, sentimmo attraverso il muro alcuni discorsi tra persone, riunite nella stanza accanto. Una persona chiedeva ad un’altra  se vi fossero belle notizie, ossia se si era riuscito a farci andare via: tale persona con rammarico rispose di no, confidando però di farci recapitare a proposito “una letterina ben fatta”, con la quale ci saremo tolti dai piedi. Sentimmo che volevano utilizzare la nostra stanza, e quello era il motivo di tanta solerzia nel farci sloggiare, e non il fatto che fossimo persone sospette! 

Quella sera eravamo entrati poco prima della mezzanotte, e gli ospiti della riunione nella stanza accanto andarono via subito dopo, senza che nessuno si accorgesse di noi. Sabato due delle famiglie di condomini che si erano lamentate con il prete, si diedero a gara per consegnarci tale lettera sopra citata: cosa veramente inopportuna perché una copia della lettera era già stata posta all’interno della nostra stanza. E cosa ancora più triste è che nell’opera si cimentarono famiglie albanesi: reputiamo veramente inopportuno tirare dentro alla questione degli stranieri, per giunta ospitati pure loro dal prete e ancora da prima che noi arrivassimo.

Eravamo sicuri che la decisione di mandarci via non era dettata solo e direttamente dal prete.

Le relazioni divennero ancora più fredde con i vicini  ai quali chiedemmo di restare fuori dalla questione. Questi non smisero tuttavia, perché li sorprendemmo ad origliare alle finestre, sempre pronti a passare davanti alle nostre porte e finestre appena aprivamo per far prendere aria. Nonostante le lettere non fummo sbattuti fuori e pensammo che forse i carabinieri avevano contattato il prete dopo il fax di dicembre, facendogli capire che non eravamo persone così pericolose. Ma soprattutto incontrammo il prete per strada varie volte, e pur riconoscendoci dall’interno della sua Panda, non si fermò una volta per parlarci, segno per noi che le cose si erano sistemate e che il problema era solo con i soliti parrocchiani ostili.

 

Passammo i mesi tentando di non farci vedere dai vicini quando entravamo ed uscivamo, perché si erano messi d’accordo e riferivano i nostri spostamenti. Noi come sempre e come già spiegato al prete dovevamo difenderci da tali persone, e un modo era quello di non incontrarli e non subire le loro dichiarazioni sul nostro conto. Passammo quei mesi al gelo, senza riscaldamento, senza una stufa, senza cose calde da mangiare e bere, ma il gelo più grande era rappresentato dalla gente del paese, dai vicini, dai condomini. Passare mal di gola, febbre e raffreddore in quelle condizioni fu una cosa da andare fuori di testa. A Natale fu molto dura. Noi non trovammo mai qualche soldo o qualcosa da mangiare proveniente dal prete e dai parrocchiani. Ci trovammo solo lettere per farci sloggiare. Come aprivano la porta per appiccicare le lettere alla porta potevano pure concederci, almeno a Natale qualche cestino con qualche panettone o il tanto sospirato telefono[14].

 

g)      I giocatori adulti

Prima di affrontare altri fatti occorre approfondire alcuni aspetti…

Tra i parrocchiani ostili c’erano degli uomini che venivano a giocare nella stanza accanto. Si radunavano a volte in due a volte in tre o quattro e giocavano una volta ogni una o due settimane circa, un gioco di guerra che durava quattro o cinque ore. L’organizzatore del gioco aveva le chiavi anche della nostra stanza. Il primo impatto fu ancora in settembre, quando come già raccontato, entrò senza bussare nella nostra stanza: vistala occupata chiamò il prete come se ignorasse completamente che fossimo lì dentro. Non vi era ragione che entrasse da noi, egli utilizzava la stanza accanto.

 Capitò poi un giorno, dopo che ci vide uscire insieme, ci trovammo a lato della strada una pattuglia dei carabinieri che frenò proprio nelle nostre prossimità e scese dalla macchina: noi proseguimmo per i fatti nostri, vedemmo che guardavano nella nostra direzione ma non ci dissero di fermarci: ci sembrò una cosa molto strana. Pensammo: se la volta prima lo stesso tizio chiamò il prete vuoi vedere che questa volta ha chiamato i carabinieri?.

Quando si riunivano per giocare noi uscivamo  per non ascoltare i loro discorsi visto che il muro che divideva le due stanze era fatto di un pannello di panforte sottile. Sapevamo, dalle parole di tizio, che tale gioco lo facevano anche i militari alti in carriera. A volte iniziavano il gioco verso le nove di sera, e noi in quel momento non ci eravamo quasi mai; quando però tornavamo se vedevamo la luce accesa aspettavamo per entrare fino a quando se ne andavano via.

Giocavano anche per cinque ore di seguito: alcune volte siamo rimasti nella stanza, ma era da diventare matti a sentir parlare per tutto quel tempo di numeri, conti, soldi per comprare mitragliatori, conteggio di morti nelle ritirate, mezzi blindati che si bloccano nel fango, e le astuzie per comprare un mortaio usato….

Poi alle sue azioni militari il giocatore, quello delle chiavi per intenderci, faceva corrispondere esempi di azioni militari storiche, come i carri armati nelle battaglia di Fassino, durante la seconda guerra mondiale. Aveva letto non so quanti libri su questo argomento: sembrava uno stratega militare.

Successivamente portò una nuova “recluta” anche il pomeriggio —un ragazzo, più giovane del target, il quale non essendo ancora completamente edotto doveva essere istruito a parte prima di inserirsi nel gruppo a pieno titolo. Infatti a casa dovevano anche studiare un vero manuale di regole. Venimmo a sapere, attraverso il muro, che tizio era esperto di tecniche di autodifesa. Da “ganzo” raccontava alla nuova recluta che conosceva pure metodi per bloccare le risse, imparati nei corsi di autodifesa. Il giocatore per quanto a noi risulta, non ci vide mai in faccia.

Lo stesso uomo tempo dopo tentò di entrare ancora nella stanza, senza bussare: non ci riuscì perché nella serratura vi era la nostra chiave inserita dall’interno. La cosa strana è che tale persona non bussò e non suonò il campanello, tentò solo di entrare e non riuscendoci andò via senza proferire parola, come se fosse convinto che non ci fosse nessuno dentro, e che il suo tentativo era andato fallito perché convinto che avessimo cambiato la serratura[15].  Ecco cosa capitò una di quelle sere pochi giorni dopo che tizio tentò di entrare nella nostra stanza come raccontato sopra:

 

h)      La pattuglia dei carabinieri di febbraio 2010

«E’ da poco passata la mezzanotte, dalla strada notiamo che vi è la luce accesa nella stanza accanto alla nostra. A quest’ora possono essere solo i giocatori: mentre camminiamo qualcuno di loro sta guardando fuori e probabilmente ci ha visto in lontananza. Noi proseguiamo diritti fino al sottopassaggio del treno. Aspettiamo un po’ dall’altra parte e ritorniamo a controllare se se ne sono andati. Controlliamo spesso, camminiamo anche per scaldarci. Mentre siamo nel sottopassaggio arriva una pattuglia dei carabinieri e ci blocca proprio come si fa con i criminali. Noi siamo agitati, i carabinieri non ci conoscono e vogliono sapere chi siamo, ci hanno detto che sono stati chiamati a intervenire. Intervenire per cosa? Non siamo ubriachi e nemmeno facciamo fracasso. Diamo i documenti. Ci chiedono se sono veri: una domanda che reputiamo veramente insolita. Capiamo dalle loro domande e dal loro comportamento che sono stati investiti in qualche maniera dalle diffamazioni sul nostro conto, così spieghiamo un po’ la nostra situazione e li invitiamo a prendere informazioni su di noi da dei loro colleghi fuori regione. Mentre uno di loro chiede l’autorizzazione per mettersi in contatto, l’altro ci fa delle domande precise: capiamo dai discorsi che fanno che hanno varie informazioni su di noi, sanno ad esempio che siamo delle persone ospitate dal prete. Parlando dei motivi per cui abbiamo sempre i zaini spieghiamo che è per il fatto che i parrocchiani hanno le chiavi della nostra stanza, e non possiamo lasciare documenti incustoditi. Il carabiniere ci fa ripetere la frase davanti al suo collega, per fargli sentire la questione delle chiavi[16]. Appena ottenuta l’autorizzazione e posto il contatto con i loro colleghi fuori regione, vengono informati sul nostro caso dal collega che ci porta i suoi saluti, ci informa che anche l’ultimo fax è arrivato, e ci invita a telefonargli se ci sono problemi. »

Tra le altre cose apprendemmo che non si trattava di una pattuglia dei carabinieri del paese, ma di una di quelle del paese vicino al quale la locale stazione fa capo, e ci spiegano che sono  competenti a intervenire in caso di chiamata del 112 anche nel paese dove abitiamo.

 

Quella sera i giocatori rimasero fino a circa le due di notte, tentavano di capire se saremmo tornati, e noi entrammo più tardi. Forse era stato proprio uno di loro a chiamare la pattuglia, o forse qualche altro parrocchiano. Qualcuno aveva pur chiamato i carabinieri quella sera e avrà dovuto dare delle spiegazioni per chiederne l’intervento! Forse tizio non riuscendo a entrare nella nostra stanza una settimana prima  pensando che avessimo cambiato la serratura, e preoccupato, appena ci vide dalla finestra chiamò il 112 segnalandoci come persone pericolose. Ma queste cose le sanno precisamente solo i carabinieri e non noi, a noi fu solo detto che erano intervenuti subito in seguito a chiamata.

 

Dopo l’intervento dei carabinieri non ci arrivarono più le letterine e speravamo che la cosa si fosse risolta anche con il giocatore: ipotizzavamo dunque che i carabinieri avevano ricontattato il prete e tizio spiegando la nostra situazione, oppure che li avevano tranquillizzati, seppur ufficiosamente, da chi ci riteneva così pericolosi.

Il prete lo incontrammo altre volte in giro per il paese, ma non si fermò mai per parlarci e per noi era segno che era tutto a posto.

 

i)         Le letterine di maggio

Verso fine maggio ‘10,  ritornarono a presentarci le “letterine” nella nostra stanza. Giorni dopo  trovammo il prete che guidava a passo d’uomo a fianco a noi: ci fermammo, sembrava che ci avesse visto e quindi ci aspettavamo che si fermasse per parlarci, invece questi girò l’auto e proseguì, come altre volte. Pensammo dunque che anche queste ultime lettere erano i soliti personali tentativi dei parrocchiani ostili per mandarci via. Questa volta invece i parrocchiani non si fermarono alle letterine, ma cambiarono target E CONVINSERO IL PRETE AD ANDARE DAI CARABINIERI PER FARCI SPEDIRE VIA.

 

j)        La pattuglia dei carabinieri inviataci all’inizio di giugno:

All’inizio di giugno  verso le ore  2:30 della notte, si presentò una pattuglia dei carabinieri della locale stazione, composta da due carabinieri, i quali si mettevano a suonare il campanello ripetutamente e  picchiare violentemente sulla porta e sulle tapparelle. All’inizio ancora pieni di sonno, non capendo di chi si trattasse cautamente non rispondemmo, ma essi continuando con maggiore insistenza, svegliarono parte del vicinato: sembrava volessero buttare giù la porta. Noi subito pensammo fossero i soliti albanesi o i parrocchiani, che non erano nuovi a fare queste scenate di giorno: eravamo impauriti e senza un telefono per chiamare aiuto, ci sentivamo in gabbia. Furono momenti di grande paura e di indecisione sul da farsi. Aprimmo solo dopo aver visto la macchina di servizio dei CC dallo spioncino della porta con il lampeggiante acceso[17]. I CC volevano assolutamente entrare, erano pure convinti che all’interno ci fosse un’altra persona oltre a noi. Dopo il baccano iniziale e la violenza insita in un’azione che poteva apparire portata avanti contro dei criminali in flagranza di reato, e non contro dei cittadini che stavano dormendo, le cose a forza di spiegazioni si calmarono. Ci dissero che dovevamo liberare la stanza, per decisione del parroco che aveva chiesto il loro intervento. “Il parroco non sa nemmeno chi sta ospitando” ci dissero e “dunque siamo venuti anche con l’obiettivo di identificarvi”. Dunque ci comunicarono che era stato il parroco a chiedere il loro intervento.

Noi mostrammo i passaporti, ed erano così convinti che fossimo dei poco di buono che ci chiesero addirittura se tali documenti erano falsi. Riferimmo di chiedere informazioni su di noi a dei loro colleghi fuori regione o perlomeno ai carabinieri intervenuti in febbraio, che fanno parte della loro tenenza, che già conoscevano la nostra identità e la nostra situazione. Facemmo vedere alla pattuglia  pure il fax spedito ai loro  colleghi in dicembre. Tutto questo per fare capire loro che non eravamo perfetti sconosciuti o persone che si nascondevano come era stato loro riferito. I carabinieri ascoltarono e trascrissero i nostri nomi e alcuni dati, dunque ci invitarono a presentarci in caserma la mattina dello stesso giorno, per parlare con il loro comandante, a proposito della nostra posizione. Videro con i loro occhi il posto e constatarono di persona che non ospitavamo nessuno nella stanza.

 

Ritenemmo che l’azione di intervento dei CC fosse stata un po’ troppo pesante nei nostri confronti: da collasso o infarto, e credemmo che il loro modo di agire fosse stato viziato da grossi malintesi a nostro danno che pensavamo già risolti con i CC della tenenza a cui facevano capo. Ritenevamo dunque opportuno questa volta mettere per iscritto alcuni tratti dell’intera vicenda occorsa, spiegandone l’evoluzione da quando arrivammo nel paese. Nel caso in cui i carabinieri o il prete ci rimettessero in strada, come ci era stato palesemente annunciato dalla pattuglia, indicammo per iscritto che non saremmo stati in grado di trovare altre soluzioni abitative, ed era altresì difficile che altre parrocchie ci aiutassero.

 

Quanto comunicatoci dai carabinieri  di “lasciare la stanza” andava in contrasto anche con il suggerimento dei carabinieri già intervenuti in  febbraio 2010, i quali ci avevano consigliato al contrario di  restare nella stanza.

 

k)      La consegna della lettera al comandante

Prima di andare a parlare con il comandante pensammo fosse meglio andare a sentire i carabinieri della tenenza con i quali eravamo entrati in contatto in febbraio. Questi ci rimandarono a parlare con il comandante della stazione locale, ma ormai era tardi e lasciammo passare l’appuntamento[18]. Reputammo comunque conveniente presentarci al comandante con qualcosa di scritto, che potesse lasciare una traccia dunque cominciammo a scrivere una lettera, fuori casa e in santa pace fino a quando non la finimmo verso le quattro del mattino. Evitammo così anche lo stress che venissero a farci un’altra scenata notturna, come tra l’altro ci era stato promesso se non ci fossimo presentati dal loro comandante.

Giunti presso la sede locale, il comandante si mise a urlare, tanto che lo sentirono tutti i presenti: era evidente che le persone del paese avevano riversato tutta la loro rabbia sul prete e questi sul comandante, il quale era stato interpellato dal prete per sbatterci fuori. Il comandante all’inizio dichiarò che non voleva nemmeno leggere la lettera, perché non gli interessava la nostra storia; aveva solo il compito di “consigliarci di andare via” e se non fossimo andati via di nostra volontà, il prete e il sindaco[19], che era un avvocato (che noi non conosciamo), ci avrebbero fatto uno sfratto legale, e messa la nostra roba fuori, e nel caso di danni fattaci causa legale e spedito tutto al magistrato. Giovanna consegnò la lettera e lo invitò vivamente, prima di compiere qualsiasi operazione, a chiamare i suoi colleghi carabinieri per verificare quanto da noi detto e per prendere  informazioni fondamentali, ma egli non ne volle sapere al momento. Il comandante non abbassò i toni e continuò a urlare, Giovanna comunque chiese con cortesia di leggere la lettera appena avesse avuto del tempo e avrebbe voluto riparlarne, ed uscì.

 

Nella lettera sottolineammo l’inopportunità di un intervento di una pattuglia in piena notte, il fatto che noi non eravamo persone sconosciute: eravamo già in contatto con i carabinieri di un’altra regione  ed con quelli ai quali loro fanno capo che avevamo incontrato in  febbraio. Inoltre i CC avevano già provveduto a prendere i nostri dati e informazioni in proposito, e ci avevano consigliato a rimanere nella stanza della parrocchia[20]. Scrivemmo che era scioccante essere spaventati in piena notte[21] per delle questioni che noi intendevamo già risolte. Se i loro superiori non gli avevano avvertiti avranno avuto le loro ragioni, non era certo colpa nostra.

 

Scrivemmo pure che eravamo fermamente convinti che i rapporti con il parroco avrebbero potuto essere sanati dai malintesi accorsi a causa di ingiurie e diffamazioni, poste in giro per il territorio, e che quindi credevamo fermamente in una loro azione di intermediazione per spiegare appieno al Parroco e ai parrocchiani il nostro comportamento. Chiedemmo anche di consultare i colleghi fuori regione che avevano una visione aggiornata e storica dell’intera nostra vicenda. La lettera terminava indicando la decisione di  mettere per iscritto quanto vissuto nel paese per due motivi: primo, per fare chiarezza, perché il danno di tutte queste chiacchiere e di tanto odio ci stava distruggendo la possibilità di tornare a una vita decente. Secondo, tale documento all’occorrenza poteva essere inviato come integrazione ai magistrati.  La lettera la firmammo solo con i nomi senza cognomi per dare modo ai CC di poterla fare leggere al prete senza che venisse a conoscenza dei nostri dati completi.

 

Per la comprensione è utile precisare:

il parroco godeva della massima fiducia da parte del comandante e dunque qualsiasi parola del medesimo nei nostri confronti fu presa come verità assoluta, senza nemmeno ci potesse essere il minimo dubbio da parte del comandante, e senza che questi si preoccupasse di sentire la nostra versione. Purtroppo il prete nel chiedere l’intervento dei CC si espresse probabilmente con termini non appropriati e creò indirettamente una falsa apparenza dei fatti. Ad esempio il prete raccontò di ospitarci in un monolocale e che la comunità ci aveva pagato le bollette, ed il carabiniere era pure convinto che mangiassimo a loro spese: cioè che la parrocchia si fosse completamente presa carico della nostra situazione. Il comandante ancora prima di vederci era del pensiero che eravamo persone ingrate e che volevamo approfittare della situazione continuando a vivere sulle spalle del prete. Era pure convinto che tale “monolocale” serviva ora a altre famiglie bisognose del paese e ci elencò, seppur non conoscendoci, come persone meno bisognose di altre perché non aventi figli.

In realtà quello che il prete chiamava monolocale era una piccola stanza che prima del nostro arrivo era utilizzata da sgabuzzino, non era certo ammissibile mettere in quel posto una famiglia. Inoltre non era corretto sostenere che ci pagavano luce, acqua e gas. In realtà non ci fu mai dato il gas: noi vivemmo sempre senza riscaldamento e senza acqua calda. Al di là dei particolari la terminologia usata dal prete e i termini specifici “monolocale” e “luce/acqua/gas” avevano dunque indotto a pensare che vivevamo in un appartamento con tutto il necessario per condurre una vita decente: non era così,  mancavano tutte le cose essenziali e noi per sopravvivere dovemmo farlo di nostra iniziativa.  Come già spiegato fu una vita indescrivibile che non ci permise mai di poter rialzarci da quella situazione. In pratica, a parte la concessione della stanza, eravamo stati lasciati soli dalla comunità e non aiutati. Tutte queste cose il comandante non le sapeva.

 

l)       I giorni successivi all’intervento dei carabinieri

Non sapevamo come i carabinieri e il parroco avrebbero reagito alla nostra lettera, potevamo aspettarci sia di poter restare altro tempo o di trovarci sfrattati da un momento all’altro con la nostra roba fuori. Ci caricammo sugli zaini qualche documento in più, per non lasciarlo nella stanza. Noi continuammo ad avere il problema di trovare da mangiare e non avevamo altre possibilità di reazione, perché non avendo soldi né per prendere il treno né per telefonare, eravamo impossibilitati a fuggire da quella brutta situazione come pure cercare altre soluzioni. Non avevamo  nemmeno tante energie per tentare strade nuove. Volevamo informare tramite un fax o una lettera i carabinieri fuori regione degli ultimi fatti ma in quei giorni non avevamo soldi per compiere tale operazione. Se ci avessero buttati fuori saremmo andati probabilmente a piedi nei paesi confinanti, l’esperienza ci ha già insegnato come i paesi limitrofi si allineino tra loro, ossia se  nel paese i malintesi avevano coinvolto carabinieri, sindaco e parroco era ragionevole pensare che questi potessero influenzare negativamente qualsiasi ipotesi di aiuto esterna. Noi dunque avremmo desiderato lasciare il comune il prima possibile, ma non vi erano alternative.

 

Nessuno rispose alla nostra lettera e nessuno arrivò con segni di pace, con qualche proposta di lavoro, con un telefono per noi, o con almeno un biglietto del treno: insomma la gente rimase fredda come prima segno tangibile che non ci volevano tra i piedi e che cercavano solo che ce ne andassimo quanto prima. Il paese tra l’altro pur essendo località di mare e  trovandosi in mezzo tra due importanti posti turistici era rimasto di mentalità prevalentemente agricola, gente poco aperta, e per certi aspetti rimasta più indietro dei suoi vicini. Insomma gente con soldi, attaccata alla roba ma con poco amore per gli altri e non a caso il mangiare lo avevamo trovato quasi esclusivamente fuori dal luogo.

 

Insomma seppur la nostra lettera riportava l’intera questione a un grosso malinteso e apriva dunque la strada per una possibile riappacificazione, l’occasione non fu raccolta dalla controparte.

 

 

m)    Tornando all’inizio

 

Prima di sbarcare in questo paese tentammo inutilmente di ottenere un aiuto nel capoluogo. Riuscimmo a trovare solo la possibilità di mangiare alla mensa dopo essere stati schedati. Posti da dormire non ce ne stavano e nessuno ci aiuto a trovare una soluzione altrove, ci lasciarono in strada. Passammo sette giorni terribili durante i quali passammo a scandagliare le varie parrocchie del capoluogo senza trovare soluzioni e senza trovare intermediari. Mettemmo dunque a conoscenza le autorità del capoluogo della situazione in maniera ufficiale, ma non si mosse nessuno: potevamo benissimo schiattare[22]. Ci spostammo poi nel primo paese a sud e anche là non riuscimmo a trovare soluzioni ma una signora ci indicò di rivolgerci al parroco di questo paese, che aiutava tutti. Il parroco fu l’unico ad accoglierci, ma poi capitò quanto narrato all’inizio.

 

n)      La lettera di metà luglio

Un giorno verso metà luglio tornammo la notte sul tardi e trovammo in stanza una lettera:  pochi giorni prima avevamo visto il prete passare in macchina sul lungomare, il giorno prima ci eravamo visti mentre era seduto su un hotel: in entrambi i casi non fece cenno di volerci parlare e continuammo per la nostra strada. Insomma, il fatto che il prete non si fermava se ci incontrava, unito alla consegna della lettere ci faceva sentire fortemente presi in giro!

La lettera  riportava, a differenza delle precedenti, l’indicazione nella busta dei nostri nomi e cognomi, dunque  questo voleva dire che i parrocchiani  alla fine riuscirono ad ottenere i nostri dati, cioè quello che volevano.  Questo dunque rese vano il nostro sforzo precedente di non far transitare i dati per la parrocchia come avevamo indicato nel fax inviato ai carabinieri fuori regione in dicembre ’09:

«….Riteniamo non vi sia motivo che il sacerdote entri nella nostra vicenda; per quanto riguarda gli obblighi di legge relativi alle dichiarazioni delle generalità delle persone, chiediamo come possiamo risolvere la questione, senza far transitare i dati per la parrocchia…»

 

Ricordiamo che noi spedimmo il fax non solo per informare i carabinieri ma anche per avere nelle nostre mani una ricevuta da mostrare al prete, che lo ponesse in tranquillità e che gli desse la certezza che le autorità conoscevano la nostra situazione; in questo modo lui poteva aiutarci svolgendo un’azione caritatevole senza preoccuparsi di dover fare l’investigatore sul nostro conto, lasciando tale compito a chi era già preposto per legge.

 

o)      ultimi fatti prima di essere buttati fuori

Verso fine luglio  incontrammo un manipolo dei parrocchiani “ostili” per strada, noi eravamo a piedi e loro procedevano in bicicletta molto lentamente. Ci guardammo negli occhi, compresero che eravamo noi, ma ci ignorarono completamente. Se volevano parlarci lo potevano fare benissimo, anzi noi siamo rimasti fermi attoniti dal fatto che non ebbero nessuna reazione. Eppure avrebbero avuto tutte le ragioni per parlarci, visto che molte lettere le aveva appiccicate loro su per nostra porta. I parrocchiani e il prete avevano gli stessi comportamenti: raccontavano che non ci trovavano mai (come hanno fatto ai carabinieri) ma in realtà se ci trovavano per strada ci ignoravano. Un comportamento alquanto bizzarro. Noi effettivamente uscivamo dalla stanza, ma non così spesso da non esserci mai.

p)        la soluzione finale

 

Ci aspettavamo una risposta prima o dopo attraverso i carabinieri contattati, al peggio, uno sfratto come li stessi carabinieri ci avevano prospettato, nel caso non ci fossimo accordati con il prete, capitò un evento del tutto diverso: ci sbatterono fuori, senza sfratto facendosi aiutare da alcuni loro amici che portavano la divisa.

Ci presero materialmente la chiave dalle mani, ci portarono fuori e non potemmo più entrare. Si avvalsero della scusa che eravamo poco di buono, a detta dei parrocchiani, e meritavamo tutto questo. Era una scusa, perché non avvalorata da reati o riscontri oggettivi.

 

 

 

(C)             ASPETTI GENERALI riscontrati

                         (i)      Le strutture della provincia

Il 3 giugno il comandante dei CC del paese ove avevamo la stanza, ci aveva riferito quanto dettogli dal prete: non potevamo continuare a vivere a spese della comunità del paese. Visto che la stanza che usavamo non era adibita a nessun altro uso, le uniche spese della comunità erano quelle sostenute per la luce e l’acqua che non crediamo tanto elevate (la corrente elettrica per due lampadine e  per giunta non c’è doccia o vasca da bagno, si usa l’acqua fredda). Di costi non ve ne erano altri. Per il comandante dovevamo dunque cercare un’altra soluzione in un’altra parrocchia e in un altro paese, non considerando però la situazione specifica e generale. Se con una piccola spesa potevamo continuare a vivere in quella stanza, non avremmo potuto fare altrettanto da un’altra parte: primo perché non ci sono tanti posti per accogliere le persone in difficoltà, secondo perché se ci sono, sono anche già occupati.

 

Vediamo la situazione generale delineata dal rapporto sulle povertà pubblicato dalla diocesi nel 2010.

Solo il capoluogo è fornito di una casa di prima accoglienza per le emergenze ove si può rimanere una settimana e nei casi più gravi due settimane. Esiste, sempre nel capoluogo una casa di seconda accoglienza nella quale si può rimanere alcuni mesi, ma alla quale accedono solo particolari persone “protette” ed inviate da altre strutture come il SERT, trattano cioè persone per le quali c’è qualcuno che paga una retta di mantenimento (come ad esempio il servizio sanitario nazionale, il comune…) vi si trovano dunque soprattutto persone con problemi di droga, di alcolismo, di malattie mentali. Gli altri paesi del capoluogo non sono forniti di case di accoglienza, ma offrono solo servizi pasto, servizi di aiuto pagamento bollette, servizi di vestiario usato, servizi di pacco viveri, servizi di ascolto, servizi legali per il divorzio.

In pratica ci si sforza di mantenere le persone nelle loro case finché ne hanno una, di fornire cibo e pagare bollette ai bisognosi, cercando quanto prima di trovare una sistemazione lavorativa a chi è finito in tali condizioni per mancanza di lavoro. Se dunque nelle varie parrocchie vi sono vari servizi di aiuto quello che manca sono proprio dei posti di accoglienza per dormire. Noi quando arrivammo nel capoluogo non trovammo posto nel dormitorio, ci dovemmo arrangiare rimanendo in strada. La cosa è confermata pure dai giornali: esistono più di 100 persone, fisse in città, che non hanno un tetto.

 

In genere vengono aiutate prima le famiglie con figli e questo succede anche nel paese dove siamo finiti noi. Sembra che le cose non vadano sempre nella stessa maniera: la pubblicazione del rapporto sulle povertà del 2010 della diocesi racconta proprio la storia di una famiglia aiutata dal  paese dove siamo finiti noi, con due figli.  Il marito aveva una piccola azienda fallita e per pagare i debiti ha dovuto vendere la casa e andare a vivere in un residence, ecco pezzo del racconto estratto dalla pubblicazione: “il marito ha iniziato a bere, la moglie voleva lasciarlo, ma lui non lo accettava. Abbiamo iniziato a cercarli casa per portarli via da quel posto che non andava bene per una famiglia con due bimbi piccoli. Trovata la casa abbiamo pagato l’affitto, nel frattempo gli assistenti sociali hanno fornito un aiuto psicologico alla famiglia…”. Come si vede dunque le cose possono andare in maniera diversa, se vi è la vera volontà di qualcosa o qualcuno di aiutare, compreso in questo paese!

 

Non possiamo negare che una mano ci è stata data dandoci in uso la stanza, ma ci è mancato completamente il supporto della gente e altre cose fondamentali che sono state date ad esempio nel caso della famiglia sopra citata. Queste mancanze hanno determinato una situazione di “stallo” che spieghiamo nella parte successiva.

 

 

                       (ii)      Fattori che ci impedirono di uscire dalla situazione di stallo

Quello che andiamo a descrivere può sembrare banale ad alcuni, ma non lo è di certo per chi si trova nelle nostre condizioni. Si vuole dunque specificare come alcuni fattori interagiscano tra di loro nel determinare la situazione di stallo nella quale ci siamo trovati nel paese della riviera, e che ovviamente si potrebbe trovare qualsiasi cittadino visto che anche noi fino a qualche anno fa, prima della crisi dell’economia e dei fatti che ci scombussolarono la vita, eravamo persone normali con un lavoro, un’auto e una casa. La descrizione che segue può sembrare infantile, ma visto che molte persone alle quali si cerca di esporre il problema sembrano non capire, lo esponiamo proprio in tali termini.

 

Il fattore principale che determina la situazione di stallo sono i soldi o meglio la mancanza di soldi. Visto che con i soldi si possono acquistare i beni e i servizi di cui si ha bisogno i soldi sono una delle cose più ambite nel mondo e sono anche fonte di una terribile disuguaglianza: soldi fanno soldi, mancanza di soldi fa povertà,  cosa che stiamo vivendo sulla nostra pelle. Per i soldi alcuni sono disposti a uccidere ma più che altro molti sono disposti a lasciar morire. I soldi si ottengono in mille maniere e semplificando, diciamo con il lavoro. A sua volta il lavoro si ottiene solo se vi è un incontro tra domanda e offerta, ma soprattutto per iniziare un lavoro occorre partire da delle basi: essere vestiti, non presentare particolari malattie, avere dei mezzi per raggiungere il posto di lavoro, avere un posto dove dormire, del cibo, un telefono dove essere reperibili. Chi si appresta ad entrare nel mondo del lavoro per la prima volta dopo la scuola ha già in genere tutte queste cose, che vengono dall’appoggio della famiglia, delle amicizie, dalla società, dagli usi e consuetudini e dalla legge. Da lì poi i giovani realizzano una vita loro, un loro patrimonio e così via. Ma vi sono casi e situazioni, come il nostro, dove uno perde tutto e deve ripartire da zero, senza patrimonio, senza una famiglia alle spalle, senza leggi adeguate, senza una società sensibile al problema e si trova in una condizione del tutto simile a chi, svegliatosi una mattina sotto un bombardamento è fuggito in fretta, portando come bottino solo la propria pelle.

 

Vediamo ora i problemi pratici.

In agosto del 2009 ci è stato data uno stanza, non ammobiliata, senza gas, senza fornello, senza frigo, senza acqua calda, senza doccia con i patti che dovevamo arrangiarci da soli. Niente soldi, niente telefono, niente cibo, niente detersivo, niente carta igienica, niente sapone. Partiamo dunque da questa base per vedere come tutto ciò ha influito nella situazione di “stallo”.

 

No soldi: senza soldi non si può comprare beni e servizi, occorre dunque trovare le cose di cui si ha bisogno in altra maniera.

 

No cure mediche : come ci si cura senza soldi? Anche un banale mal di testa o malattie di stagione. E come si paga il medico o i servizi di base? Con l’autocertificazione che non si ha reddito? Spetta al comune di residenza dare l’esenzione dal pagamento di molti servizi, ma il comune non ha fatto nemmeno questo. Perciò la nostra autocertificazione è vera nella sostanza, ma è falsa per i cavilli burocratici. Con il risultato che siamo pieni di acciacchi, e certi anche visibili. Certi problemi curabili magari con pochi euro possono aggravarsi fino a impedire di svolgere alcune mansioni lavorative. In questi casi non è applicabile nemmeno il detto meglio prevenire che curare. Al limite si sa che nei casi estremi vi è il ricovero d’urgenza all’ospedale, che non è ancora sottoposto a previo pagamento: con l’assurdità che un ricovero costa dai 600 ai 2000 euro al giorno allo Stato, mentre una prevenzione sarebbe irrisoria rispetto a tali cifre.

 

No fornello: senza fornello non si può cucinare o scaldare il cibo, dunque anche se ci viene regalato del cibo da cucinare, come la pastasciutta che è molto economica,  è inservibile. Non ci si può fare una bevanda calda, un caffè o un te.

 

No frigo: senza frigo non si possono mantenere i cibi a lungo, i cibi cotti regalataci devono essere mangiati a breve, dunque ogni giorno o quasi occorre cercare di rinnovare le scorte e si deve ripartire a cercare altro cibo, dunque movimento continuo nel territorio da ristorante a ristorante, da albergo a albergo, con la paura di non trovare, con la certezza a volte di non aver trovato nulla.

 

No Bus: niente bus vuol dire muoversi continuamente a piedi facendo molti kilometri al giorno e dunque anche con maggiori possibilità di farsi notare e di venire etichettati. Vuol dire anche in caso di maltempo prendere pioggia. Vuol dire impiegare ore per spostamenti fattibili in pochi minuti di autobus.

 

No telefono: nessuna possibilità di essere reperibili e dunque impossibilità di lasciare il proprio recapito per trovare lavoro, o anche aiuto (esempio, “se trovo delle scarpe del suo numero dove la posso richiamare?”) Mancanza di possibilità di mettersi in contatto tra di noi o con altre persone.

 

Una sola chiave: ci è stata una sola chiave e senza soldi non si può nemmeno duplicarla, questo crea grossi problemi anche per il fatto che non avendo nessuno dei due un telefono l’altro non è contattabile. Ci tocca dunque spesso muoverci insieme.

 

No residenza: nessuna residenza nel comune vuol dire minore aiuto da parte dei servizi sociali del comune.

 

No vestiti: l’incapacità di vestirsi adeguatamente preclude la maggior parte dei lavori.

 

Isolamento:  no amicizie per il clima di ostilità nato nel paese e fomentato dalle diffamazioni hanno creato una situazione di isolamento totale, che oltre che difficile a sopportare ci ha impedito di avere appoggi pratici. Il passa parola tra le persone sui nostri bisogni avrebbe creato una catena di solidarietà nei nostri confronti, che ci avrebbe almeno rassicurato sul poter contare sull’aiuto di altre persone. Tale solidarietà ci avrebbe aperto le porte a qualche contatto umano, e qualche contatto di lavoro e magari assicurato quanto necessario fino a quando saremmo diventati indipendenti. Poteva essere utile anche il prestito di una bicicletta, un frigo usato, un pentolone di pastasciutta, un telefono usato, un passaggio in automobile, un fornello elettrico, un fornelletto a gas da campeggio, una colletta, dei giornali da leggere, un invito a bere un caffè, o un termos di caffè per le mattine invernali passate senza riscaldamento…

 

Problemi correlati:

Senza soldi occorre tentare di ottenere le cose in altra maniera e altra via. Per il cibo siamo riusciti a ottenere qualcosa da ristoranti e alberghi, passando però obbligatoriamente in certe ore. Non potendo però spostarci con i mezzi pubblici la “caccia” al cibo può durare ore e ore di camminata e ricerca, impegnando la maggior parte del tempo della giornata. Il tipo di vita e gli sforzi stancano e si finisce per fare una vita dedicata solo a questo, cioè alla continua ricerca di cibo. La mancanza del frigo impedisce, nel caso trovassimo più cibo, di conservarlo e dunque ogni giorno occorre ripartire per la stessa trafila. Passare troppe volte in un mese per lo stesso ristorante poteva innervosire, e dunque la necessità di cambiare spesso zona. I ristoranti disponibili sono veramente pochi perché la maggior parte delle persone è diventata insensibile al problema, o ha paura di controlli delle finanze e oggigiorno è più semplice buttare ciò che è rimasto nella spazzatura che darlo a chi ha bisogno. Vi sono poi mille dubbi e perplessità, si è spesso catalogati come persone dalla vita disordinata, zingari, o delinquenti: a molti sembra impossibile che ci si possa ridurre a chiedere aiuto in questa maniera, perché credono che vi siano delle autorità e dei servizi sociali ai quali ci si può rivolgere. Pochi sanno come realmente stanno le cose.

Anche andare alla mensa dei poveri non è una soluzione sempre applicabile.

 

Non abbiamo neanche più vent’anni e l’energia dei ventenni: non mancano giorni in cui uno soffre di piccoli collassi. Inoltre nessun uomo vive solo per dormire in un buco e mangiare quello che raccatta, vi sono altri bisogni nell’essere umano, che però vista la situazione rimangono sempre insoddisfatti. Una vita del genere diventa a lungo andare una tortura, una mancanza di rispetto, una lesione dei diritti fondamentali dell’essere umano, un’accusa indiretta al formalismo e alla burocrazia della legge. Diventa una testimonianza dell’inciviltà umana. Non si ha nemmeno la scusa di dire di essere nel terzo mondo. Non si può nemmeno dire che vi è gente che non sa la nostra situazione, visto che tutto ciò è stato mostrato alle autorità locali e non.

Una persona non accetterà mai di vivere in questa maniera, continua a vivere solo perché spera che tale situazione finisca alquanto prima e cominci una condizione migliore. E tutto è ancora più difficile da sopportare, tra queste località turistiche che pullulano di gente in ferie ai quali non manca nulla, che spendono cifre nei ristoranti, negli alberghi, nelle gelaterie, nelle librerie, nei negozi di moda, per non parlare di tutti i soldi spesi nelle sale giochi.

 

                     (iii)      Conclusioni

Complice di quello accadutoci nel paese sono stati una marea di malintesi, di comportamenti sbagliati, di gente poco propensa ad aiutare e di un mare d’odio insensato nei nostri confronti. Una troppo stretta amicizia fra le forze dell’ordine e alcuni cittadini importanti che impedisce di vedere obiettivamente alcune situazioni.

 

Nei paesi quando si entra da poveri si interagisce da subito con un delicato equilibrio esistente tra forze dell’ordine, chiesa e autorità locali. Questi problemi non esistono o sono marginali  nel caso una persona decida di emigrare facendo conto sulle proprie forze, cioè decida di mettere su casa o lavoro in maniera indipendente. Il tessuto sociale è di fondamentale importanza nel caso uno arriva come povero, o emarginato. In quest’ultimo caso le autorità si mettono all’erta e vagliano la posizione dei nuovi arrivati: entra così in gioco una simbiosi di forze atta a constatare lo status dei nuovi arrivati e dopo la valutazione una conseguente azione di mantenimento o allontanamento.

Molti posti accettano volentieri l’africano proveniente dal terzo mondo ma non altrettanto un italiano il quale viene visto molte delle volte come un vero intruso, come una persona che viene a togliere lavoro e risorse ai paesani, e addirittura come una spia o un criminale. Il pensiero comune è che gli stranieri possono essere poveri, ma gli Italiani no, se sono poveri è perché c’è qualcosa che non va, qualcosa che può essere pericoloso, si pensa, dunque molte persone a vederci maturano nella loro testa il pensiero: “se li hanno rifiutati da altre parti e si trovano in codeste situazioni, vuol dire che nessuno li aiuta, e se anche non li aiutiamo noi nessuno verrà a farci storie”. Capita dunque che le persone come noi diventano oggetto di ingiustizia, di sfogo, di attenzioni sessuali, sfruttamento. Purtroppo è da denotare come in situazioni di questo genere manca  una nazione che per quanto si auto annoveri civile e avanzata è invece mancante, come mancanti sono le leggi o le protezioni.

 

 

 



[1] Ci disse che non avrebbe avuto problemi a darci anche da mangiare, ma era appena partita una coppia che egli aveva ospitato, e le loro continue liti lo avevano esaurito. Di certo non li aveva ospitati nella nostra stanzetta.

[2] La caldaia c’era ma non ci era stata attivata.

[3] Il prete non gradiva che si rimanesse nei locali di giorno, dopo la colazione si doveva sparire e tornare alla sera verso le 22:30: non avevamo le chiavi e occorreva trovare qualcuno che si aprisse.

[4] In quelle condizioni ci si sarebbe aspettato che avremmo liberato la stanza alquanto prima di nostra iniziativa. Affamati ci saremmo diretti verso qualche mensa dei poveri in qualche altro paese. Siccome le nostre condizioni di fame e mancanza di soldi non erano state celate, il mancato aiuto dei parrocchiani per fornirci qualcosa da mangiare, almeno all’inizio, fu già di per se stesso un comportamento indiretto per farci sloggiare.

[5] Lì vi erano varie famiglie di albanesi: forse temevano di perdere alcuni benefici acquisiti, a nostro favore.

[6] Il tizio era l’organizzatore dei giochi di guerra che si tenevano nella stanza accanto. Il prete arrivò subito dopo e fu certamente chiamato dal tizio, visto che non aveva l’abitudine di venire lì.

[7] Informazione ottenuta dal prete a fine novembre 2009.

[8] Avevano preso informazioni dai vicini sull’ora in cui uscivamo al  mattino.

[9] In realtà quello che noi chiedemmo come aiuto, come ad esempio il telefono, nessuno ci aiutò ad averlo, come pure che nessuno si fece da intermediario per proporci un lavoro...

[10] Il prete parlando del nostro caso con la bottegaia di centro paese ne fece una questione per così dire “nazionale”.

[11] Il cancello in più occasioni si era bloccato, avevamo saltato per entrare dunque il cancello che portava a “casa nostra”, una cosa assolutamente banale, che facevano anche altri condomini.

[12] Ci riferiamo al fax inviato a metà settembre 2009

[13] Fu lui a non chiederci i documenti all’arrivo e nei mesi immediatamente successivi, e non noi a non volerglieli dare. Certamente non volevamo consegnarli in balia dei suoi parrocchiani.

[14] Sapevano della nostra condizione economica, li avevamo aggiornati anche il 28 di Novembre nell’incontro diretto.

[15] Se per ben due volte lo pizzicammo che entrava nella nostra stanza è probabile che lo facesse regolarmente anche altre volte, quando noi non c’eravamo. A noi la cosa non piaceva, cominciammo dunque a chiudere regolarmente alcune nostre cose nel bagno e portarci via tale chiave interna.

[16] Ci è sembrato di capire che loro avevano l’informazione che i parrocchiani non avevano le chiavi per entrare e per controllare cosa facessimo nella stanza.

[17] La cosa non era comunque rassicurante, è  da tener presente che nella zona furono arrestati pure dei ladri che rubavano vestiti da carabinieri (informazione proveniente da quotidiani locali).

[18] E’ da considerarsi che ci muovevamo a piedi.

[19] Non abbiamo ben capito cosa centrasse il sindaco, noi non siamo mai andati in comune: probabilmente il parroco aveva già raccontato la vicenda —di due sconosciuti che lui ospitava in un monolocale— al sindaco e aveva preso spunto con lui sul da farsi visto che era pure un avvocato.

[20] Pensavamo si fossero sentiti con il prete

[21] Forse il blitz in piena notte fu fatto con la certezza di trovarci ad ospitare altre persone, come alcuni sostenevano. In realtà noi non ospitammo mai nessuno e quelle dicerie erano solo un modo per metterci in cattiva luce e farci sloggiare…

[22] Giorno dopo giorno eravamo sempre più stanchi, mi si erano gonfiati i piedi e le gambe e riuscivo a camminare lentamente. Io soffro anche di particolari problemi fisici che si aggravano pericolosamente vivendo in determinate condizioni.