5.3) Lucrezio.
Passiamo ora ad
occuparci di Tito Lucrezio Caro (98 ca –
54 ca a.C.), il poeta latino che nel De
rerum natura tradurrà la filosofia di Epicuro in poesia,
introducendovi un
tormento esistenziale sconosciuto all’impassibile
greco e rendendo famoso quel
termine clinamen che, forse proprio grazie a lui, acquisterà
una
connotazione decisamente etica, quasi come
sinonimo di “libertà”. Il poema
didascalico De rerum natura (dedicato a Gaio Memmio) si compone di sei
libri. Nel primo e nel secondo Lucrezio tratta
della materia, dello spazio,
della nascita e corruzione delle cose del
mondo. Nel secondo e nel terzo
l’attenzione si sposta sull’uomo. Negli ultimi
due il tema è l’universo in
generale e i fenomeni fisici.
Ci sembra
importante iniziare il nostro esame dell’opera
di Lucrezio con la presentazione
del suo eroe (I, versi 62-79):
Mentre la vita umana giaceva sulla terra
Turpe spettacolo, oppressa dal
grave peso della religione,
che mostrava il suo capo dalle
regioni celesti con orribile
aspetto incombendo dall’alto
sugli uomini
per primo un uomo di Grecia ardì
sollevare gli occhi
mortali a sfidarla, e per primo
drizzarlesi contro;
non lo domarono le leggende
degli dèi, né i fulmini, né il minaccioso
brontolio del cielo; anzi tanto
più ne stimolarono
il fiero valore dell’animo, così
che volle
infrangere per primo le porte
sbarrate dell’universo.
E dunque trionfò la vivida forza
del suo animo
E si spinse lontano, oltre le
mura fiammeggianti del mondo
E percorse con il cuore e la
mente l’immenso universo,
da cui riporta a noi vittorioso
quel che può nascere,
quel che non può, e infine per
quale ragione ogni cosa
ha un potere definito e un
termine profondamente connaturato.
Perciò a sua volta abbattuta
sotto i piedi la religione
È calpestata, mentre la vittoria
ci eguaglia al cielo. [1]
Non manca di epicità questo elogio ad Epicuro
(sì, che
qualcuno vi ha colto un eco dell’omerica
Iliade) in cui viene
sottolineata la sfida quasi prometeica che
Il Greco ha mosso contro la
religione. In realtà noi sappiamo che (stando
alla lettera dei testi epicurei)
le cose non stanno proprio così, ma è interessante
cogliere qui come Lucrezio
attribuisca ad Epicuro il “proprio” ateismo
radicale per sottolinearne
l’autorevolezza d’origine. Nel filosofo
greco (invece assai prudente in fatto di
religione), che egli ha eletto a padre
spirituale, Lucrezio proietta il suo senso
di rivolta verso la religione
istituita e il suo deciso rifiuto di ogni
spiegazione sacrale dell’universo. Un
poco più avanti si rafforza questo atteggiamento
antireligioso (I, versi
101-109):
[…] Tanto male poté suggerire la
religione
Ma anche tu [Memmio] forse un giorno, vinto
dai terribili detti
Dei vati, forse cercherai di
staccarti da noi.
Davvero, infatti, quante favole
sanno inventare,
tali da poter sconvolgere le
norme della vita
e turbare ogni tuo benessere con
vani timori!
Giustamente, poiché se gli
uomini vedessero la sicura fine
Dei loro travagli, in qualche
modo potrebbero
contrastare le superstizioni e
insieme le minacce dei vati. [2]
Dunque le “favole” dei sacerdoti sconvolgono
la vita delle
persone, introducendo degli elementi estranei
di timore infondato che turbano
ogni possibile tentativo di sentirsi felici.
E poco più avanti (I, versi
146-150 e 155-158):
Queste tenebre, dunque, e questo terrore
dell’animo
occorre che non i raggi del sole
né i dardi lucenti del giorno
disperdano, bensì la realtà
naturale e la scienza.
Il suo fondamento per noi di qui
assumerà il proprio inizio:
che mai nulla nasce dal nulla
per cenno divino. […]
E perciò, quando avremo veduto
che nulla può nascere dal nulla,
allora già più agevolmente di
qui potremo scoprire
l’oggetto delle nostre ricerche,
da cosa abbia vita ogni essenza,
e in qual modo ciascuna si
compia senza opera alcuna di dèi. [3]
Lucrezio prosegue nel suo sviluppo poetico
della fisica
epicurea fino al punto in cui confuta la
tesi eraclitea del fuoco come origine
di tutte le cose. È qui interessante notare
come il poeta, senza mezzi termini,
bolli il linguaggio filosofico poco chiaro
(I, 635-644):
Perciò quanti ritennero che la sostanza delle
cose fosse il
fuoco
E che di solo fuoco consistesse
l’intero universo,
in grande misura appaiono
aberrare dalla retta ragione.
Entra per primo in battaglia il
loro capo Eraclito,
famoso per l’oscurità del
linguaggio più fra gli stolti
che fra i savi greci i quali
ricercano il vero.
Infatti gli sciocchi ammirano a
amano tutto ciò che appena
Distinguono celato sotto
contorte parole
E affermano vero quel che può
accarezzare con eleganza l’orecchio
E quel che sia camuffato in
gradevole suono. [4]
Dopo aver contestato Eraclito, viene il turno
di
Anassagora e delle sue omeomerìe per giungere alla conclusione del libro
col discorso diretto a Memmio (I, versi 1114-1117):
Così con lieve sforzo potrai comprendere
queste verità;
infatti un concetto trarrà luce
dall’altro, né l’oscura notte
t’impedirà il cammino, così da
non lasciarti scorgere gli ultimi segreti
della natura: tanta luce fra
loro si daranno le cose.
Passiamo ora al
Secondo Libro e andiamo direttamente al passaggio
dove viene posto il clinamen
degli atomi, per constatare come esso si
traduca immediatamente (sotto forma di
domanda retorica) in contenuto etico analogico,
quale “libero arbitrio” dei
viventi sempre volti alla ricerca di ogni
possibile piacere (II, 243-262):
Perciò è sempre più necessario
che i corpi deviino un poco;
ma non più del minimo, affinché
non ci sembri di poter immaginare
movimenti obliqui che la
manifesta realtà smentisce.
Infatti è evidente, a portata
della nostra vista,
che i corpi gravi in se stessi
non possono spostarsi di sghembo
quando precipitano dall’alto,
come è facile constatare.
Ma chi può scorgere che essi non
compiono affatto
Alcuna deviazione dalla linea
retta del loro percorso?
Infine, se ogni moto è legato sempre ad altri
E quello nuovo sorge dal moto
precedente in ordine certo,
se i germi primordiali con
l’inclinarsi non determinano un qualche
inizio di movimento che infranga
le leggi del fato
così che da tempo infinito causa
non sussegua a causa,
donde ha origine sulla terra per
i viventi questo libero arbitrio,
donde proviene, io dico, codesta
volontà indipendente dai fati,
in virtù della quale procediamo
dove il piacere ci guida,
e deviamo il nostro percorso non
in un momento esatto,
né in un punto preciso dello
spazio, ma quando lo decide la mente?
Infatti senza alcun dubbio a
ciascuno un proprio volere
Suggerisce l’inizio di questi
moti che da esso si irradiano nelle membra.
[5]
Il cupo pessimismo di Lucrezio (che morrà
suicida) erompe
verso la fine del libro con una sorta di
profetico annuncio della corruzione e
della morte del mondo “ormai stremato ed
esausto” (II, versi 1139-1152):
Giustamente dunque le cose
periscono quando estenuate
dal deflusso soccombono tutte
agli urti esterni,
poiché in vecchiaia il cibo
infine viene a mancare
e i corpuscoli martellanti
dall’esterno non cessano di stremare
alcuna cosa e di vincerla ostili
con gli urti.
Così dunque anche le mura del
vasto mondo
espugnate d’attorno crolleranno
corrose in rovina.
Ogni cosa dev’essere infatti
ristorata dal cibo che la rinnovi,
e sostenuta da esso: tutto
dev’essere sostentato dal cibo,
ma invano, perché con il tempo
le vene non sopportano più
quanto basti alla vita, né la
natura appresta il necessario.
Ormai la nostra età è stremata,
la terra esausta produce
A stento meschini esemplari, la
terra che un giorno generò
Ogni specie e creò dal suo
grembo animali dai corpi possenti. [6]
La poesia visionaria lucreziana immagina
il mondo come un
immenso organismo “le cui vene non sopportano più quanto basti
alla vita”.
Ma sono specialmente “i corpuscoli martellanti dall’esterno” che “non
cessano di stremar alcuna cosa e di vincerla
ostili con gli urti”. Ma che
cosa sono questi “corpuscoli”? Gli atomi
stessi o le misteriose entità che
urtando contro di essi ne declinano la caduta?
Più che un teoria della
“distruzione” forse un topos poetico dettato dalla depressione.
Passiamo ora al
Terzo Libro, nel quale ci è dato cogliere
un passaggio concettuale molto
importante, poiché si cerca di chiarire attraverso
la differenza tra anima e
animus ciò che in Epicuro era rimasto piuttosto
indeterminato. Va
tuttavia notato che nella lingua latina esiste
tra i due termini una
differenziazione che ricorda in qualche modo
quella già esistente nella lingua
greca tra psyché (anima) e noùs (intelletto). L’anima
(come la psyché) è diffusa in tutto il corpo e costituisce
il
soffio vitale (ma per Epicuro “corpo nel
corpo”) di esso. L’animus invece è
qualcosa di più simile al noùs (III, versi 136-140):
Ora affermo che l’anima e
l’animo sono tenuti
Avvinti tra loro, e formano tra
sé una stessa natura.
Ma è il capo, per così dire, è
il pensiero a dominare tutto il corpo:
quello che noi denominiamo animo
e mente
e che ha stabile sede nella zona
centrale del petto. [7]
Per Lucrezio animus e mens sono la stessa
cosa e tale cosa ha sede nella zona centrale
del petto, vale a dire in quella
collocazione che ancora oggi nel linguaggio
comune viene riferita al “cuore”,
quale recettore delle emozioni e centro della
sensibilità etica ed estetica.
Ed infatti la mens latina (che non possiede la ratio) non
corrisponde a ciò che indica la parola italiana
“mente” (centro del pensiero)
ma piuttosto sentimento, indole, carattere,
coscienza, cuore. Lucrezio poi
aggiunge (versi 141-146):
Qui palpitano infatti l’angoscia
e il timore, qui intorno
Le gioie provocano dolcezza; qui
è dunque la mente, l’animo.
La restante parte dell’anima,
diffusa per tutto il corpo,
obbedisce e si muove al volere e
all’impulso della mente.
Questa da sé sola prende
conoscenza, e da sé gioisce,
quando nessuna cos stimola
l’anima e il corpo. [8]
Dunque l’animo e l’anima sono connessi, ma
questa dipende da quello. L’animus-mens infatti
“prende per sé conoscenza” e
“per sé gioisce”. Noi abbiamo pertanto un
concetto di animo che si avvicina a
quello moderno di anima, come centro delle
emozioni e della sensibilità.
Lucrezio anticipa così, attraverso una duplicazione
del “mens sana in corpore
sano” in un “corpus sanum a mente sana”,
il concetto moderno di stato
psico-somatico, dove lo stato della psiche
determina il benessere o il disagio
corporeo attraverso il sistema nervoso simpatico. Infatti (versi 152-162):
Tuttavia se la mente è turbata
da un più veemente timore,
constatiamo che tutta l’anima
corrisponde attraverso le membra,
e così sudore e pallore appaiono
per tutto il corpo,
la lingua sembra impastoiarsi e
la voce morire,
gli occhi annebbiarsi, sibilare
le orecchie, gli arti afflosciarsi,
infine vediamo spesso gli uomini
crollare a terra
per il terrore dell’animo; così
che è facile a chiunque arguire
che l’anima è congiunta con
l’animo e, percossa da una violenta
emozione dell’animo, a sua volta
scuote e turba il corpo.
Questo medesimo ragionamento dimostra che
la natura dell’animo
e dell’anima è corporea. […] [9]
Prosegue Lucrezio spiegandoci che l’animo
è costituito da
atomi ancora più sottili di quelli dell’anima,
ma che si deve pensare a qualche
cosa d’altro di ancora pù originario e costuituito
da atomi ancora più piccoli
e mobili (i principia ab origine, gli elementi primordiali o particelle
basilari) per spiegare “i moti sensitivi”
e “il pensiero” ed essi sovrintendono
al “senso” [10] basilare
del corpo che vive (III, versi 241-246 e
258-265):
È dunque necessario che ad esse
si aggiunga una quarta natura.
Questa è tuttavia completamente
priva di nome;
ma nulla esiste più mobile e
sottile di essa,
e neanche costituito da
particelle più piccole e levigate:
è questa a diffondere per prima
i moti sensitivi delle membra.
Infatti si muove per prima,
costituita da minuscoli elementi; […]
Ora mio malgrado la povertà del patrio linguaggio
Mi trattiene, pur anelante,
dallo spiegare in qual modo
armonizzati fra loro i primi
elementi esplichino le vitali funzioni;
tuttavia, secondo le mie forze,
toccherò per sommi capi l’argomento. [11]
“Secondo le sue forze” Lucrezio tenta di
spiegarci che
questi elementi primordiali agiscono in modo
coordinato e che da essi dipende
tutta la nostra esistenza: dal movimento,
alle emozioni, ai sentimenti. Ma essi
sono anche alla base “della violenta forza
dei leoni”, “della fredda mente dei cervi”
e “della natura più placida dei buoi” dai
quali l’uomo non differisce più di
tanto, poiché in fondo esso resta pur sempre
un animale (versi 307-318):
Così è la stirpe degli uomini.
Sebbene l’educazione ne renda
Ugualmente forbiti alcuni,
tuttavia essa lascia
Le primitive tracce del
carattere nell’animo di ognuno.
Né si deve credere che quei mali
si possano estirpare dalle radici,
così che uno non sia
eccessivamente incline all’ira,
l’altro non sia troppo presto
afferrato dalla paura,
e un terzo non subisca torti più
arrendevolmente del giusto.
In molte altre attitudini devono
differire tra loro
le varie nature degli uomini e i
costumi che ne derivano;
dei quali ora non posso esporre
gli occulti motivi,
né trovare tanti nomi per le
molteplici forme
dei corpuscoli primordiali, da
cui ha origine la diversità delle cose.
Dunque se l’anima rende vivo il corpo e l’animo
determina
i moti sensitivi e il pensiero, a determinare
la profonda “differenza” tra uomo
e uomo sono i corpuscoli primordiali che
conferiscono il “senso”. Infatti (III,
versi 331-336 e 350-353):
Con particelle elementari così
intrecciate tra loro fin dall’origine [dell’essere
vivente]
Si producono insieme fornite
d’una vita di eguale destino;
ed è chiaro che ognuna di per
sé, senza l’energia dell’altra,
le facoltà del corpo e
dell’anima separate, non potrebbero aver
senso;
ma con moti reciprocamente
comuni spira dall’una e dall’altra
quel senso acceso in noi
attraverso gli organi. […]
Per il resto, se alcuno nega che il corpo
sia provvisto di
sensibilità
E crede che l’anima mista
all’intera compagine del corpo
Assuma da sola questo moto che
usiamo denominare senso,
entra in conflitto con i
fenomeni reali e palesi. [12]
Ma l’animo si può ammalare né più ne meno
del corpo e la
“morte dell’animo” non è meno terribile delle
morte del corpo (versi 461-466):
[…] così vediamo l’animo
soffrire crudeli affanni,
cordoglio e timore; perciò
dev’essere anch’esso partecipe della morte.
[13]
Lucrezio si lancia in una lunga esposizione
in cui rivela
una conoscenza dell’animo umano e dei suoi
problemi da far invidia a uno
psicologo moderno; si sofferma poi a dimostrare
(seguendo da vicino Epicuro)
come pensare l’anima come qualcosa di immortale
sia un’assurdità e che lo
stesso valga per la natura dell’animo che
“non può nascere sola, priva del
corpo, né esistere separata dai nervi e dal
sangue (versi 788 e 789) per
arrivare all’epicureo “Nulla è la morte per
noi” che sviluppa sino alla fine
del capitolo, in un crescendo che pone in
evidenza una pesante inevitabilità
della morte che ha poco a vedere con la leggerezza
epicurea di una morte “quasi
felice”.
Nel Quarto
Libro Lucrezio tratta delle senzazioni in
termini sostanzialmente fedeli ad
Epicuro, ma amplia poi il discorso su tutto
ciò che risulta ingannevole per
l’uomo: le illusioni, i miraggi e i sogni.
Ma verso la fine introduce
l’argomento relativo alla peggiore e dolorosa
tra queste esperienze fallaci:
quella dell’amore. Vediamone qualche passo
(IV, 1058-1072):
Questa è Venere per noi; di qui il nome amore,
di qui prima stillarono
dolcissime gocce
nel cuore, e a vicenda successe
la gelida pena;
se infatti è lontano chi ami, ti
è accanto l’immagine
del suo volto, ti aleggia alle
orecchie il suo nome soave.
Ma conviene che tali fantasmi si
fuggano, che si ricusi
Ogni alimento d’amore, ad altro
il pensiero si volga,
e il seme si eiaculi in casuali
amplessi,
né lo si serbi, una volta
filtrato, a un amore esclusivo,
futura pena a se stessi e sicuro
travaglio.
Brucia l’intima piaga a nutrirla
e col tempo incarnisce,
divampa nei giorni l’ardore,
l’angoscia ti serra,
se non confondi l’antico dolore
con nuove ferite,
e le recenti piaghe errabondo
lenisca d’instabili amori,
o ad altro tu possa rivolgere i
moti dell’animo. [14]
Lucrezio delinea in pochi ed efficacissimi
versi lo
strazio dell’amore deluso, con tratti espressionistici
nei quali è dato
cogliere il segno di una bruciante esperienza
personale. Poi egli descrive
l’amplesso con crudo realismo, fino al momento
culminante dell’orgasmo seguito
da un altrettanto breve momento di pausa,
dopo di ché il desiderio si riaccende
e gli amanti «vorrebbero sapere» che cosa
esso sia veramente per poter lenire
quella “piaga segreta”(IV, versi 1113-1120):
[…] a tal punto si serrano
cupidamente nella stretta di Venere,
finché le membra, stremate
dall’intensità del piacere, si struggono.
Infine quando il piacere
raccolto si effonde dai nervi,
per un po’ si produce una breve
pausa dell’ardore,
poi torna la medesima rabbia, di
nuovo quella smania li assale,
mentre gli amanti vorrebbero
sapere che cosa desiderano,
e non riescono a trovare un
rimedio che plachi il tormento:
in tale incertezza si consumano
per una piaga segreta. [15]
Lasciamo il Quarto Libro, dove Lucrezio ci
ha dato alcuni
tra i luoghi più alti della sua poesia, e
veniamo al Quinto, nel quale viene
ripreso il tema dell’inarrestabile declino
del mondo e dell’assenza di ogni
provvidenza divina che possa rimediare ai
suoi mali, poiché (V, versi 198 e
199) «non per volere divino è stata per noi
generata la natura del mondo,
segnata da pecche sì gravi». Lucrezio pone
così, diciassette secoli in
anticipo, il problema di un’impossibile teodicea. Con un taglio esistenzialistico ante
litteram (a cui sarà sensibile Giacomo Leopardi) il
poeta descrive la
condizione umana “gettata” in un mondo pieno
d’angosce, al quale forse sarebbe
stato meglio non essere mai nati, poiché
(V, versi 222-227):
Ed ecco il fanciullo, come un naufrago buttato
a riva
Dalle onde infuriate, giace nudo
sul suolo, incapace di parlare,
bisognoso d’ogni aiuto vitale
appena la natura lo getta
sulle prode della vita, con
doglie del grembo materno,
e riempie lo spazio d’un
disperato vagire, come è giusto che faccia
colui cui in vita è serbato il
passare per tante sventure. [16]
Non un dio benevolo quindi, ma una natura
matrigna getta
l’uomo “sulle prode della vita”, per poi
abbandonarlo al suo destino di
sofferenza e solitudine. Un mondo casuale
e caotico, creato da nessuno, senza
ragion d’essere e nato da una materia informe
ci accoglie e ci accompagna (V,
versi 416-423):
Ma ora spiegherò con ordine come
il caotico ammasso
di materia abbia stabilmente
formato la terra, il cielo,
le profondità marine, il
corso del sole e della luna.
Infatti di certo gli elementi
germinali delle cose
non si disposero ognuno al suo
posto per il criterio d’una mente sagace
né pattuirono i moti che ognuno
avrebbe dovuto imprimere,
ma poiché i numerosi germi della
natura in molteplici modi
ormai da tempo infinito sospinti
dagli urti
e dal loro stesso peso sogliono
spostarsi velocemente,
aggregarsi in ogni guisa e
produrre tutte le combinazioni [17]
Gli stessi atomi e lo stesso mondo da essi
formato, che
per Epicuro configuravano una realtà nella
quale fioriva la vita e in cui vi
potevano essere dolori sopportabili e piaceri
da scegliere, nella quale era
possibile realizzare una stabile e pacata
felicità, delineano invece per
Lucrezio un contesto senza scopo e senza
finalità, in cui l’uomo è gettato alla
provvisorietà e alla sofferenza. La morte,
che per Epicuro era il compimento
significativo di un esistenza regolata da
un saggio eudemonismo, diventa in
Lucrezio un assurdo pozzo di non-senso che
tutto risucchia. Ma non è tutto,
poiché l’uomo volontariamente si è legato
mani e piedi alla credenza del
divino. E il poeta si avvia a dare la spiegazione
di questo legame (V, versi
1161-11689):
Ora qual causa ha diffuso fra le
grandi popolazioni
I numi degli dèi, riempito di
altari le città
e fatto sì che venissero accolti
i riti sacri
che tuttora si celebrano
splendidamente in solenni eventi e sedi,
da dove ancor oggi s’insinua nei
mortali il terrore
che innalza su tutta la terra
nuovi templi agli dèi
e costringe la folla a
frequentare nei giorni festivi,
non è certo difficile spiegare
con chiare parole. [18]
La causa di tutto è l’ignoranza. Fin dai
tempi più remoti
gli uomini hanno fantasticato degli dèi,
immaginandoseli grandi e potenti,
assegnando loro l’eternità e la beatitudine
e ad essi connettendo i fenomeni
celesti e naturali come se questi obbedissero
alla loro volontà (V, versi
1183-1193):
Scrutavano inoltre
l’inflessibile norma del cielo,
la vicenda delle varie stagioni
dell’anno,
né potevano comprendere per
quali ragioni questo accadesse.
Non avevano dunque altro scampo
che affidare ogni cosa agli dèi,
e pensare che tutto obbedisse ad
un loro consenso. [19]
Posero in cielo le sedi e le
dimore egli déi,
perché appaiono volgersi in
cielo la notte e la luna,
la luna, il giorno e la notte,e
della notte gli astri severi,
le erranti meteore notturne, le
fiamme volanti,
il sole, le nubi, le piogge, la
neve, la grandine, i venti
i fulmini, i rombi improvvisi,
il minaccioso mormorio dei tuoni. [20]
Gli uomini non si rendono conto di quanto
quell’errata
interpretazione della realtà abbia funestato
la loro esistenza (versi
1194-1197):
O misera stirpe dei mortali, quando ebbe
assegnato
Tali effetti agli déi, e
aggiunto loro la collera acerba!
Quanti gemiti procurarono allora
a se stessi,
quante sofferenze a noi e
lagrime ai nostri figli! [21]
Il Sesto ed
ultimo libro concerne i fenomeni naturali
in ogni loro aspetto, che non vanno
attribuiti ad alcuna potenza divina, ma a
forze inconoscibili e imprevedibili
legate al caso e al caos che pervadono tutta la realtà,
fino al caso
estremo dell’epidemia di peste che Atene
ha dovuto sopportare [22].
Uno scenario di morte, che chiude significativamente
un poema didascalico con
un grido di dolore senza speranza. Uno sforzo
poetico che ha al suo centro
l’esistenza dell’uomo, le sue illusioni,
i suoi fraintendimenti, il suo
autolesionismo e le sue inevitabili sofferenze.
Fin’ora abbiamo
seguito passo passo il testo lucreziano,
dobbiamo adesso tentare una sintesi
del suo pensiero in relazione ai contenuti
e alla forma poetica che li riveste.
Nell’ermeneutica lucreziana si delineano
due flussi poetico-descrittivi, un
primo che potremmo chiamare “espressionistico”
e un secondo che definiremo
“razionalistico”. L’interpretazione espressionistica
di Lucrezio si fonda sugli
evidenti caratteri pessimistici, fino ad
estremi nichilistici (e fin quasi alla
celebrazione del “trionfo della morte”),
della sua poesia. Una poesia che
progetta l’apologia di una filosofia rasserenatrice,
ma ne realizza il suo
opposto nell’angoscia delle cupe e disperanti
atmosfere descrittive, che
punteggiano il poema e che lo concludono
(la peste di Atene chiude il Sesto
Libro). L’interpretazione razionalistica
presuppone invece il distacco
concettuale dell’autore e la sua entusiastica
adesione all’epicureismo, proprio
allo scopo di proporre “didascalicamente”
una via razionalistica per il
superamento dell’ignoranza, dell’angoscia
e della sofferenza, delle l’uomo
soffre anche (o forse soprattutto) per aver
tolto alla natura la sua autonomia
causale, riponendo in presunti voleri divini
i fenomeni che l’uomo percepisce e
patisce. Ciò coinciderebbe con la riappropriazione
di un rapporto naturale con
la natura, madre e matrigna, ma comunque
“vera” rispetto alle “false” ipostasi
divine. Noi pensiamo che entrambe siano attendibili
e che il loro connettersi e
sovrapporsi costituisca l’aspetto più affascinante
e problematico de La
natura delle cose.
Emerge anche in
Lucrezio un sentimento nostalgico nei confronti
di una primitiva “naturalità”
umana che l’avvento delle religioni avrebbe
pervertito, precipitandola così in
un coacervo di false illusioni e di falsi
timori che condizionano l’esistenza e
la coscienza, impedendo all’uomo di scoprire
una via naturale alla felicità.
D’altra parte, innegabilmente in lui vi è
anche una sorta di millenarismo
fatalista, che vede in un’imminente rovina
del mondo la conclusione ultima di
un progressivo esaurimento della sua vitalità.
In questo clima la necessità e
la casualità si intersecano in una matassa
a due fili della quale è difficile
trovare i capi e il loro razionale e opportunistico
svolgimento.
La natura domina il poema lucreziano nella
duplice veste della minaccia di dolore e
morte e della promessa di rinascita e
vita. Visioni idilliche piene di speranza
vitalistica si alternano a scene
cruente di disperante e nichilistica rovina.
In tale contesto l’uomo è solo,
senza alcun dio che lo possa aiutare a risolvere
i suoi problemi, e la sua
solitudine è la causa di una impropria evoluzione
basata che ha condotto
all’affermarsi dei feticci della religione.
L’operazione soteriologica che
Lucrezio vuole avviare, sulle orme di Epicuro,
è quella di liberare l’uomo
dalla schiavitù e dalla deferenza verso il
“divino”, per poter ritornare
all’immanente natura che lo ha generato e
l’avvolge. Ed infatti egli oppone il
mondo animale, sereno e vitale, al mondo
umano pervaso di angoscia e di
doloroso pathos. La realizzazione dell’atarassia
sembra allora prevedere un
implicito ritorno ad una condizione perduta,
dare recuperare attraverso il
rifiuto del “sacro”.
Ma su tutto
insiste l’insufficienza dell’uomo a penetrare
quei misteri che ciò che è a lui
“esterno” racchiude: ovvero la totalità dell’universo,
il nulla che incombe, un
passato da decifrare e un futuro da gestire.
Il De rerum natura si offre
così come un’immensa impresa didascalica
e nello steso tempo come un affettuoso
e disperato affresco di un’umanità sensibile
e sofferente, che non riesce a
trovare la strada per realizzare compiutamente
la propria più autentica essenza
all’interno della natura, la quale a volte
si presenta come una madre accogliente
e a volte come una terribile minaccia.
Con Lucrezio
abbiamo concluso questo quinto capitolo del
nostro lavoro e con lui possiamo
giungere alla conclusione che l’epicureismo
è l’unica dottrina atea antica che
presenta un assetto teoretico compiuto. Essa
dovrà competere nei secoli
successivi all’affermarsi del Cristianesimo
con un dominante Aristotelismo
(sotto forma di Tomismo), con una resistente
tradizione neoplatonica (da
Agostino alla Scuola di Chartres) e con lo
Stoicismo, ad esso antitetico col
suo necessitarismo. In questa tradizione
epicurea, minoritaria nel panorama
filosofico post-antico, si andranno delineando
due correnti principali: una
prima che avrà denotazioni “teoretiche”,
concernendo una visione atea del mondo
e della vita, ed una seconda che si caratterizzerà
per la tendenza a
privilegiare gli aspetti edonistici ed eudemonistici
della filosofia di Epicuro
(e non necessariamente in senso ateistico).
In questo contesto la poesia
lucreziana, che sarà il principale veicolo
dell’epicureismo nell’Europa
Occidentale si collocherà in posizione neutra;
ciò grazie alla fondamentale
contraddizione interna che la pervade: l’aderenza
ad una filosofia che intende
essere rasserenante e tranquillizzante e
nello stesso tempo il suo inserimento
in un contesto pessimistico, che sembra rivelare
il fallimento proprio di ciò
che è elemento principale della filosofia
epicurea, vale a dire la sua etica
eudemonistica. Infatti, Lucrezio intendere
fare l’apologia dell’eudemonismo
epicureo, ma il suo intento appare diffusamente
compromesso da un
espressionistico senso dell’ignoranza dell’uomo
e della sofferenza che lo
investe, nonché dal soffuso nichilismo mortifero
che pesa sull’atmosfera
poetica dell’opera, almeno dal Terzo all’ultimo
capitolo del poema. Vedremo,
tuttavia, come la tradizione epicurea, in
modo per lo più sotterraneo rispetto
al dominio della dottrina cristiana, giungerà
vitalissima al XVII secolo, per
vivificare una corrente ateistica del naturalismo,
che concorrerà a creare le
premesse per l’avvento dell’Illuminismo razionalistico
e scientistico.
[1] Lucrezio La natura delle cose –Rizzoli 2000 – p.77.
[2] Ivi p.81.
[3] Ivi p.85.
[4] Ivi p.121.
[5] Ivi pp.175-177.
[6] Ivi p. 241.
[7] Ivi p. 257.
[8] Ibidem.
[9] Ivi p.259
[10] In latino sensus significa sia ciò che concerne le sensazioni relative alla sensibilità corporea (i cinque sensi) sia la capacità di comprendere, la coscienza e l’origine dei sentimenti.
[11] Ivi p. 265.
[12] Ivi pp. 271-273.
[13] Ivi p. 281.
[14] Ivi pp. 407-409.
[15] Ivi p. 411.
[16] Ivi p. 411.
[17] Ivi pp. 455-457.
[18] Ivi pp. 509-511.
[19] Vedi nota
114 (Par.2.4) su Giambattista Vico.
[20] Ivi p. 511.
[21] Ibidem.
[22] Lucrezio si riferisce al morbo che ha colpito Atene dal 430 al 425 a.C., durante le guerre del Peloponneso poi descritte da Tucidite.