2.4 L’epicureismo teologico di Gassendi
Il
pensiero di Pierre Gassendi (1592-1655) rappresenta
sicuramente una delle più
importanti voci di una vera filosofia sullo
scorcio della prima metà del
Seicento, ma per noi italiani un vero e proprio
“caso” di colpevole ignoranza.
Gassendi è stato, infatti, quasi del tutto
ignorato in Italia sino a tempi
recenti, e ciò, probabilmente, per la nota
barriera di una cultura idealistica,
antiempiristica, antisensistica, antimaterialistica
e, cosa più grave, sostanzialmente
antiscientifica. D’altra parte, è in considerazione
dell’opposizione di
Gassendi a Cartesio che in un’immaginaria
bilancia sui cui piatti essi siano
posti in Italia Gassendi sia ultra-leggero
e Cartesio ultra-pesante. L’interpretazione
di ciò è facile: l’idealismo (e sostanziale
platonismo) di Cartesio ha trovato
nel nostro paese un terreno fecondo per svilupparsi
come”autorità” venerata e
coltivata relegando on un angolo il suo più
coerente oppositore. Gassendi,
appunto, lasciato nell’ombra quale elemento
turbativo di quella sublime aura
dello Spirito che Croce e Gentile hanno radicato nella
cultura italiana e i
cui tentacoli sono ancora tra noi in una
prolifica progenie più o meno
camuffata. Si aggiunga che la scarsezza delle
traduzioni italiane di opere
gassendiane è veramente impressionante, e
che nella manualistica Gassendi sia liquidato
in pochi tratti. Sono assai rare trattazioni
serie, come è dato cogliere nel
buon sunto che ne dà Gianni Paganini nel
Capitolo XVI del III volume della Storia
della filosofia [1]
(Laterza 1995) curata da Pietro Rossi e Carlo
Augusto Viano (non a caso due dei
pochi storici della filosofia non-idealisti).
Va anche ricordato l’ottimo
saggio di Tullio Gregory Scetticismo ed empirismo, Studio su Gassendi,
uno dei pochi importanti lavori analitici
sul Nostro.
È
doveroso precisare subito che non solo Gassendì
non è materialista, ma è anzi
un teologo cristiano (ordinato prete nel
1617) i cui scritti hanno per scopo
primario la glorificazione di Dio. La sua
colpa secondo la maggior parte degli
idealisti? Aver voluto riabilitare Epicuro
reinterpretandolo in senso
cristiano, andando in rotta di collisione
con una cultura imperante che
relegava l’atomismo edonistico del greco
negli empi sotterranei del
libertinismo irreligioso. Poiché, in realtà,
proprio di questo si tratta,
essendo il Nostro null’altro che uno spirito
indipendente (e solo in questo
senso “libertino”) che vuole affrancare la
cultura filosofica dai lacci della
tradizione aristotelica e da quelli del dualismo
cartesiano per arginare un
materialismo ateo incipiente che vedeva come
un grande pericolo per la fede. Ci
si domanderà allora come si possa conciliare
la lotta al materialismo con una
rivalutazione dello studio di una filosofia
materialistica come quella
epicurea. Ebbene, proprio qui sta il più
interessante aspetto del pensiero di
Gassendi; quello di essersi reso conto dell’insostenibilità
del pensiero
metafisico applicato alla realtà e di aver
cercato un nuovo sbocco alla
conoscenza che potesse conciliare empirismo,
sensismo, osservazione e
sperimentazione scientifica, astronomia e
cosmologia post-copernicane, con la
fede cristiana.
Il background
culturale di Gassendi è abbastanza complesso
e vede tra i suoi autori preferiti
Vives, Charron, Ramo e Giovan Francesco Pico,
ma ciò che emerge fin dai suoi
primi tentativi teorici è l’attenzione allo
scetticismo di Pirrone di Elide
quale assertore del primo indirizzo filosofico
che oppone al dogmatismo
metafisico il primato dell’esperienza diretta
degli enti e dei fenomeni. Non fa
difetto tuttavia anche una buona conoscenza
di autori antichi come Orazio,
Giovenale, Luciano e Lucrezio, tenendo presente
che gli ultimi due dalla
cultura dominante appartenevano al piccolo
perverso gruppo di atei antichi tenuti
in buon conto dai libertini. Ricordiamo che
sia Vives che Ramo erano stati tra
i pochi a combattere l’aristotelismo e che
Charron aveva assunto lo scetticismo
come il più alto grado di una sapienza profana.
L’opposizione del Nostro
all’aristotelismo, ritenuto «ozioso ed inutile»
e «sostituente le cose con le
parole», insieme con l’adesione allo scetticismo
empiristico ed esperienziale,
lo porta su posizioni abbastanza vicine a
quelle di Bacone. Del progetto
gnoseologico dell’inglese egli si sente in
qualche misura un prosecutore e di
lui dice nel Syntagma: «Con un
atto di audacia veramente eroico Bacone ha
osato difendere una nuova via e ci
si deve attendere che tenendosi con forza
e con diligenza nella sua via, si
possa finalmente fondare e possedere la nuova
filosofia.» [2] Significativo il fatto che
nella prefazione alle Exercitationes paradoxicae adversus Aristoteleos
del 1624 asserisse, non senza ferocia, che
sulla metafisica aristotelica «è
difficile non fare satira » [3]
e che il maggiore responsabile della creazione
del “mito” dello Stagirita è
stato Averroè [4]. Ma non è tutto: seguire Aristotele è come
«chiudersi in un carcere » [5]
e il cumulo di errori del suo pensiero è
diventato «quasi un diritto ereditario
che passa dal maestro ai discepoli » [6]
Dopo
questo primo assaggio dell’atteggiamento
di Gassendi, diamo un occhiata alla
sua produzione, caratterizzata da una prima
fase (sino al 1644) che potremmo
definire anti-aristotelica, anti-esoterica
ed anti-cartesiana, e da una seconda,
filo-epicurea, dove la prima costituisce
la pars destruens del suo
pensiero, la seconda la construens. Ma va rilevato che gli interessi per
la filosofia di Epicuro risalgono, in
realtà, al 1626 [7]. I
suoi primi scritti sono il già citato Exercitationes paradoxicae del 1624;
l’Epistolica dissertatio in qua praecipua principia
philosophiae Fluddi
deteguntur del 1630. Seguono le Objectiones (1641) e le Instantiae
(1642) contro la metafisica cartesiana, poi
confluite nella Disquisitio
metaphysica seu dubitationes et instantiae
adversus Renati Cartesii
metaphysicam del 1644. Il De vita, moribus et placitis Epicuri è del
1647, le Animadversiones in decimum librum Diogenis
Laertii e il Syntagma
philosophiae Epicuri sono entrambi del 1649. Ad esse si aggiungono
importanti opere di astronomia, come l’Institutio astronomica del 1647
e il Thichonis Brachei, Copernici,
Peuerbachi et Regiomontani vitae del 1654. La sua opera più complessa e
corposa, il Syntagma philosophicum, la definitiva pars construens
del suo pensiero, uscirà tre anni dopo la
sua morte, nel 1658.
Se
abbiamo dato conto nel dettaglio della produzione
gassendiana è perché
intendiamo seguirne passo passo l’evoluzione,
dalla contestazione di Aristotele
e Cartesio, all’interesse per Epicuro ed
infine ad una reinterpretazione (ma
quasi una rielaborazione) della filosofia
del greco in senso cristiano.
Inizieremo quindi col prendere in considerazione
le Exercitationes
paradoxicae (in sei Libri) con le quali Gassendi nel sottolineare
il
dogmatismo del pensiero aristototelico intende
contrapporgli un atteggiamento
critico su base scettica (pirroniana) tale
da rendere evidente l’inconsistenza
della pretesa metafisica di conoscere astrattamente
“per cause” allo scopo di
sostituirvi un conoscere basato sull’esperienza
e sull’analisi dei
fenomeni reali, come si evince dal seguente
passo delle Exercitationes:
Se dicessi che l’esperimento è l’ago della
bilancia con il quale deve
essere ponderata la verità di qualche cosa,
come sarebbe il fuoco, caldo o
freddo? Il sole splendente od oscuro? Non
lo
negherei davvero; questo infatti è un Indicatore,
o come dicono i Greci
κριτήριον
che fra i molti sembra
debba essere scelto; ma l’esperimento appartiene
al senso, o alla facoltà
naturale, non certo alla Dialettica. [8]
Non solo il metodo dialettico non porta a
nulla, neppure la matematica può essere posta
come disciplina capace di fondare
ogni conoscenza, e quindi: «Ciascuna scienza
deve conoscere il vero come
proprio, nello stesso modo ha proprie regole
di conoscenza. La geometria ha il
suo quadrante, l’aritmetica i suoi calcoli,
la fisica il senso e la Teologia la
rivelazione.» [9]
L’accusa fondamentale che egli muove all’aristotelismo
è di prodursi in una
sostanziale eristica, un’abilità discorsiva
che non persegue il vero, ma la
“dimostrazione”. La metafisica, dunque, se
non decisamente ingannatrice, quanto
meno oziosa, senz’accesso al reale, che solo
con un approccio diretto
all’oggetto primario della conoscenza, i
fenomeni, diventa possibile. Anziché
perseguire «la perizia nel disputare» si
tratta infatti di cercare: «la
conoscenza della verità, e, una volta ottenutala,
vivere bene e felicemente
goderne.» [10]
Per
quanto all’epoca delle Exercitationes (inizio anni ’20) il Nostro fosse
ancora molto lontano da Epicuro, il riferimento
ad una conoscenza da conseguire
per «vivere bene e felicemente goderne.»
è già vicino alla concezione epicurea,
e si può ritenere che anticipi una
congenialità che andrà via via crescendo,
sino a portarlo più tardi, nel Syntagma
philosophicum, a creare un “suo” Epicuro cristianizzato.
Fatto non
trascurabile al fine di comprendere il pensiero
gassendiano è che egli non solo
fu seguace di Galileo, ma anche eccellente
astronomo che “in proprio”, avendone
ripercorse le scoperte; dalle macchie solari
alle irregolarità della superficie
lunare ai satelliti di Giove. E se egli fu
un deciso sostenitore dell’esistenza
del vuoto non era per una posizione preconcetta,
ma perché ne aveva verificata
l’esistenza con i suoi esperimenti e con
la determinazione del peso dell’aria
nella colonna di mercurio. Così come aveva
dato una formulazione del principio
di inerzia più precisa di quella dello stesso
Galileo e si era costantemente
dedicato ad osservazioni di vario genere,
ponendosi anche il compito di
contribuire allo sviluppo della nuova cosmologia,
attenta alla dinamica
terrestre, al sistema solare e all’universo
nella sua infinità. In altre
parole, la sua specificità di pensatore rispetto
ai metafisici dell’epoca sta
nel fatto di aver accompagnato costantemente
le sue riflessioni filosofiche con
la pratica scientifica, e di aver basato
il suo pensiero, per quanto possibile,
su “dati” reali.
Per
quanto Gassendi contaminerà egli stesso l’atomismo
con la teologia cristiana [11]
rimane un assertore della rigorosa separazione
della filosofia dalla fede,
vedendo nel cristianesimo gravi contaminazioni
aristoteliche [12].
Imputabili, ovviamente, specialmente alla
Metafisica, che egli
disprezza, mentre consiglia una maggiore
attenzione ad opere come gli Economici,
i Politici e la Storia degli animali [13].
Da un punto di vista ontologico va rilevato
che Gassendi apporta modifiche non
di poco conto dell’ontologia epicurea poiché
è proprio il problema dell’essere
ad assumere particolare rilievo. Se per il
greco la realtà dei corpi era data
da una sostanziale identità tra il soggetto
percipiente e il percepito, in
quanto sensazione emergente nel soggetto
conoscente stesso nel suo rapporto
sensorio con l’oggetto, per il francese la
realtà sta nell’esser corpo
indipendentemente dal venir percepito. Nella
lettura che Gassendi dà della Lettera ad Erodoto, a proposito del vuoto, dei corpi e degli
atomi,
tali elementi dell’ontologia epicurea assumono
una realtà concreta su cui
Epicuro aveva sorvolato, essendo il suo orizzonte
gnoseologico limitato al
“modo di darsi” del conoscibile e non al
suo essere. In Epicuro l’atomòs era un seme-potenza, che,
attraverso le aggregazioni operate dal casuale
movimento nel vuoto, produceva i
corpi reali; per Gassendi è invece un corpuscolo-base
della materia creata da
Dio in attuazione del suo progetto creazionale.
Ma la Creazione non è
necessariamente opera conclusa al sesto giorno
(Genesi, 1-2), essa pare continuare. Scrive Gassendi
nel Syntagma che la materia è corpo esteso
reale [14]
e che: «[Dio] creando la massa di Materia
solubile in corpuscoli, e anzi
composta di corpuscoli, quali particelle
minime ed ultime, abbia concreto
insieme con quella questi stessi corpuscoli.»
[15]
Singoli elementi e totalità del mondo sarebbe
stati un frutto contemporaneo
della volontà di Dio; vuoto, atomi e corpi,
da oggetti di percezione per
Epicuro, diventano per Gassendi sostanze
reali [16].
Le Exercitationes
sono un contributo per ridare alla filosofia
il suo diretto rapporto col “dato”
reale, contro le astrazioni di un “pensato”
metafisico fittizio; da ciò i suoi interessi
con frequenti riferimenti all’operato di
categorie di lavoratori come i
tagliapietre e gli orafi, alle esperienze
dirette di botanici e zoologi. In
altre parole, è la pluralità dell’esperienza
in ogni singolo campo che produce
conoscenza, e non certo una generale e generica
conoscenza aprioristica basata
sul “pensato” meta-fisico; poiché è la fisica
la base sicura di ogni
speculazione sul reale. Nel Secondo Libro
si afferma: «ciascuna scienza, come ha
il proprio oggetto vero da conoscere, così
ha anche le proprie regole di
conoscenza.» [17];
quindi, la metafisica aristotelica, che si
pretende “fondamento” della scienza,
è scienza falsa. Ogni autentica scienza deve
infatti partire dal particolare
per giungere al generale e mai viceversa,
ed il procedimento sillogistico è del
tutto ozioso poiché non si dà deduzione corretta
se non da induzioni corrette sul
“reale”. Le costruzioni logiche sono del
tutto sterili e l’Organon
aristotelico (che all’epoca domina ancora
il sapere ufficiale) produce schemi
artificiali, inconsistenti, fuori della realtà.
Da ciò la considerazione:
Nelle categorie non
sono racchiuse le cose in se stesse, ma soltanto
concetti e nomi […] Credimi,
queste categorie non le troverai né sopra
il cielo, né al centro della terra,
né in aria, né altrove, ma le potrai
vedere soltanto in quanto vengono concepite
dalla mente o espresse dalla
voce, o tracciate sulla carta. [18]
Asserzione profonda, che delinea in modo
chiaro l’orizzonte gnoseologico a cui egli
guarda, in riferimento a quello che
definisce un «naturale desiderio di sapere
» che non può venire confuso con il
«costruirsi un sapere» su basi metafisiche.
Pur limitando la sfera di azione
della filosofia al fenomenico nell’atteggiamento
gassendiano non vi è nulla di
rinunciatario, ed ancora meno il rammarico
di non poter sapere ciò che sta
aldilà dell’apparenza; ed allora: «non
si può sapere di qual sorta sia una cosa
in se stessa o per sua natura, ma
soltanto come essa appaia agli uni o agli
altri.» [19]
Frase provocatoria ed in parte incoerente,
contrastante con altre che
riconoscono alla fenomenicità non soltanto
certezza conoscitiva, ma anche che ogni
rinuncia è un’espulsione. Provocazione voluta,
per evidenziare che ogni
rinuncia a conoscere l’ignoto pensandolo
inconoscibile significa negarlo,
poiché la conoscenza è progressiva e mai
conclusa. La scienza autentica, quella
di Galileo, che si istituisce come sapere
esclusivamente fenomenico, che non
pretende di fornire verità definitive, ma
“cerca”, è l’unica che può garantire
certezze cognitive. Appena si esce da tale
ambito, si inquina la scienza con la
menzogna metafisica e si perde ogni legame
con la conoscenza.
La consapevolezza che la
base del sapere stia nella ricerca su una
realtà pluralistica e mutevole, fa sì
che siano molteplici le discipline che vi
concorrono, tutte con pari dignità, ed
essa porta Gassendi a colpire duramente la
logica quale fondamento per
il conseguimento della verità. Essa è ciò
che altrove ha chiamato “scienza
delle parole” al posto di quella delle ”cose”,
e contro la quale così si
esprime: «La scienza è concepita da
Aristotele come conoscenza certa ed evidente
che si acquista tramite
dimostrazione; essa consiste nel procedimento
sillogistico che muove dai primi
e universali principi (definizioni).» [20] Tale procedere è errato,
poiché:
La definizione non può far conoscere la natura
dell’oggetto perché definire implica il ricorso a concetti sempre più
generali, fino al generalissimo ens che non rimanda ad altro e del
quale, proprio per questo, non può darsi
definizione; e se l’ens resta
sconosciuto, non si avrà conoscenza neppure
dei generi inferiori. [21]
Col sillogismo vanno perdute tutte le
fondamentali «differenze specifiche» tra
enti particolari e individuali,
producendo un formalismo astratto privo di
alcuna utilità gnoseologica. Il
sillogismo non fa conoscere assolutamente
nulla e diventa una mera «petizione
di principio» [22]
priva di alcun fondamento nella realtà.
L’aspirazione a conoscere il mondo in cui
viviamo è profondamente
radicata nell’uomo, costituendosi come un
«naturale desiderio di sapere » che è così
spiegato:
Finché vogliono
conoscere molti oggetti per mezzo dell’esperienza
e in quanto essi appaiono,
gli uomini manifestano un desiderio che ha
per guida la natura; ma non appena
desiderano oltre a ciò conoscere le nature
intime e le cause necessarie,
attingono un genere di scienza che spetta
alla natura angelica, o anche a
quella divina, ma non a povere creature umane.
[23]
Gli angeli possono accedere allo spirituale
meta-fenomenico, ma noi dobbiamo accontentarci
del materiale, il
fenomenico. Abbiamo qui l’assunzione di una
posizione che anticipa quella
di Kant, ma mentre questi la vedeva come
una carenza Gassendi la pone a base del conoscere
stesso, che è sempre e solo conoscenza
di fenomeni. La sfera del meta-fenomenico,
sottintende Gassendi, è da cogliere
solo nei testi sacri e nelle verità delle
sante dottrine, del contenuto dei
quali si dà “credenza” e non “conoscenza”.
La consapevole auto-limitazione che
il teologo si dà non è patita qui come un
vulnus intellettuale, ma come
la corretta de-limitazione di un certo ambito
operativo, fuori del quale si può
dare solo un’“invenzione” logico-dialettica
arbitraria che non ha nulla a che
fare con la conoscenza. Con l’anima si
può entrare in rapporto con Dio, ma solo
con la ragione si entra in rapporto
col mondo. Ed allora: « Con il raziocinio
non è consentito di andare aldilà di
conoscenze, che a loro volta siano oggetto
di esperienza e delle quali si possa
mostrare qualche apparenza sensibile.» [24]
Gassendi pare radicalizzare ancor più di
Bacone l’indispensabile legame
conoscenza-esperienza, fuori del quale si
dà solo invenzione; ma tale radicalizzazione
(l’avevamo già vista nell’inglese) mette
un po’ in ombra la matematica, la
quale (come aveva ben visto Galilei) è indispensabile
elemento di ogni sapere
scientifico che oggettivi il sapere sottraendolo
alla soggettività del
discorso. La formula matematica, come aveva
reso evidente Huygens, è l’unico modo di fissare in maniera non
equivoca il modo con cui funzionano gli enti
dell’universo e le leggi che lo
governano.
Gassendi intende mettere in opera una nuova
scepsi, che passi in
rassegna ed analizzi ogni forma di dogmatismo
al fine di evidenziarne le
manchevolezze gnoseologiche e gli aspetti
aprioristici che l’infirmano. In
questo orizzonte si staglia anche l’Epistolica dissertatio in qua praecipua principia
philosophiae Fluddi deteguntur (1630) con la quale il Nostro affonda il suo bisturi
nella
famosa Utriusque cosmo […] historia (1618) di Robert Fludd, opera nella
quale il fantasioso medico-teologo esoterico
inglese esponeva la sua concezione
del mondo ispirata al neoplatonismo, ma anche
alle più recenti teologie
massonico-rosacrociane. La teoria di
Fludd poneva un mondo reale, definito “typicus”, fatto ad immagine di
Dio quale Mundus archetypus, in cui materia e vita erano un prodotto
emanativo di un Dio “origine e modello”.
Un Dio che trovava conciliazione con
la dottrina cristiana e l’approccio al quale
poteva avvenire attraverso una
rielaborazione delle dottrine cabalistiche,
con un cospicuo condimento di
pratiche magiche e alchemiche che attraverso
una dialettica luce/tenebre
e simpatia/antipatia conduceva alla conoscenza del divino. Contro
questa
pretesa Gassendi si era direttamente impegnato,
ma contemporaneamente egli
affrontava anche il De veritate, prout distinguitur a revelatione
[…]
del poeta-teologo Herbert di Cherbury (1583-1648)
col quale erano poste
premesse, su base platonica, per una conciliazione
tra la religione naturale e
la rivelazione ebraico-cristiana, sì da apparire
come il primo esempio di teologia
deista. Ciò che il Nostro trovava intollerabile
in Herbert era la pretesa di
fondare dogmaticamente una via alla conoscenza
del mondo prescindendo sia dalla
realtà di esso e sia dai limiti della mente
umana. La tesi di Gassendi e che
l’uomo, per sua natura, ha accesso conoscitivo
a ciò che in qualche modo gli
riesce di riprodurre, ovvero che la mente
che pensa e la mano che lavora sono
connesse. Ora, solo gli aspetti più materiali
e fenomenici del mondo possono
dar luogo ad imitazioni umana, mai le essenze,
la conoscenza delle quali è
propria dell’onniscienza di Dio la cui onnipotenza
è riuscita a produrle. Il
francese operava qui una distinzione che,
mutatis mutandis, sarà poi la
stessa di Kant.
Ma anche nei confronti del poco più giovane
Cartesio il Nostro non è meno duro, ma nelle
Obiectiones del 1641 (che
egli scrive su sollecitazione di Mersenne)
egli si rivolge a Descartes con
circospezione:
Io le propongo [le Obiezioni] dunque, ma senz’altro disegno che
quello di una semplice proposizione che io
faccio, non contro le cose che voi
trattate, e che vi siete accinto a dimostrare,
ma solo contro il metodo e gli
argomenti di cui fate uso per dimostrarle.
[25]
Ciò che il Nostro contesta è proprio “quel
metodo” famoso, apparentemente inconfutabile,
e non gli oggetti cui esso si
applica. E d’altra parte un punto di frizione
con Descartes sta nel fatto importante
che per Gassendi l’anima dell’uomo è
materiale ed ha la stessa sostanza di quella
delle bestie [26].
Egli giudica intollerabile il tono assertorio
delle conclusioni cartesiane, che
nelle Instantiae egli non esita a definire come una sorta
di ipse
dixit presuntuoso e arrogante [27]. Ancora nelle Obiectiones egli domanda
a Descartes:
Diteci, vi prego, quale distinta conoscenza
voi avete della vostra
natura; poiché, dicendo solamente che siete
una cosa che pensa, voi alludete a
un’operazione che tutti conoscevamo, ma non
ci fate conoscere qual è la
sostanza che agisce, di quale natura essa
è. [28]
Gassendi si limita a rilevare che
un’asserzione di quel genere non spiega un
bel nulla. Infatti:
Quel che a noi manca, e che desideriamo raggiungere,
è il conoscere e
il penetrare all’interno di quella sostanza
la cui prerogativa è il pensare.
Ecco perché, siccome è questo ciò che cerchiamo,
sarebbe più opportuno che voi
ci diceste non già che siete una cosa che
pensa, ma in che consiste questa cosa
che possiede la capacità di pensare. [29]
Sia guardando alla realtà dei fatti e sia
alla correttezza delle premesse, l’identificazione
della res cogitans
col cogito è inconsistente; e non già perché sia valido
il concetto
aristotelico della forme sostanziali, ma
perché, non esistendo nessuna
possibile “esperienza” oggettiva sia del
pensare come azione e sia del pensiero
come fatto, la “cosa pensante” è data illegittimamente
per conosciuta dal
“pensatore” sulla base della percezione dei
propri “pensati”. Gassendi smentisce
così Cartesio, il quale, con l’identificazione
di sostanza pensante e pensiero nella
res cogitans e di sostanza estesa
ed estensione nella res extensa, riteneva di aver superato le
aristoteliche forme sostanziali eliminando
la difficoltà teorica che esse
ponevano. In realtà, Descartes, facendo ciò,
era soltanto ritornato a Platone,
ripristinando quel rapporto diretto tra anima
umana e sfera del divino che
Aristotele riteneva troppo misticheggiante.
Ciò
che preme a Gassendi è ribadire che del pensiero
non si dà alcuna esperienza e
che la relazione autoreferenziale pensante-pensamento-pensato
non permette in
alcun modo di metterlo sullo stesso piano
concettuale dell’estensione. Egli
ritiene pertanto che Cartesio abbia assunto
acriticamente il dualismo
platonico, presupponendo (e non già dimostrando)
l’esistenza del pensiero e
teorizzando l’esistenza dell’estensione senza
alcuna indagine e senza alcun
elemento probatorio [30].
Tale dogmatismo astratto fa dire al Nostro:
«Mi stupisco come voi osiate dire
che, dopo aver spogliato la cera di tutte
le sue forme, né più né meno che
delle sue vesti, concepite più chiaramente
e più perfettamente quel che essa
sia.» [31] E circa un concetto di corpo esteso che
intende prescindere dalle modalità del suo
presentarsi attraverso i suoi
attributi Gassendi domanda:
Questa specie d’estensione non potendo essere
indefinita, ma avendo i
suoi confini e i suoi limiti, non la concepite
anche come in certo modo
figurata? Poi, concependola in tal modo che
vi sembri di vederla, non le
attribuite voi qualche sorta di colore, benché
oscurissimo e confuso? [32]
Per il Nostro è inaccettabile pretendere
di
porre ciò che nella realtà esiste solo col
corredo dei propri attributi come
ancora esistente dopo averlo spogliato di
essi. Ma rimane anche il problema di
come Descartes abbia potuto teorizzare che
l’anima stia nella ghiandola
pineale, poiché questa è sempre un corpo;
come può un corpo produrre pensiero, l’extensa
produrre cogitans [33]?
Qual è, domanda Gassendi, la relazione ontologica
tra la ghiandola pineale e
l’anima? [34]
Ma
vi sono altri arbitri teorici di Descartes
anche più gravi, come quello (III
Meditazione) per cui siccome Dio “deve” esistere, e
in quanto Dio non ci
può ingannare, questa è l’unica realtà “indubitabile”
e quindi “certa” da cui
partire. Gassendi rileva ancora nelle V Objectiones che tale certezza
non può legittimamente essere posta sullo
stesso piano di evidenza di una
qualsiasi dimostrazione della geometria:
«Poiché, in effetti, queste
dimostrazioni [le geometriche] sono di una
tale evidenza e certezza che senza
attendere la nostra deliberazione, ci strappano
da loro stesse il consenso ». Questo
tipo di dimostrazioni non sono possibili
per l’esistenza di Dio senza cadere in
un circolo vizioso, per cui ciò che deve
essere dimostrato diventa il dimostrante
[35].
Ciò che viene contestato è la pretesa di
dare per “dimostrate” quelle verità di
fede che sono doverosamente “credute”, e
che tali debbono rimanere nella loro
sacralità, senza essere portate sul piano
di una ragione che nel pretendersi
dimostrativa si rende automaticamente falsa.
E’ solo come soggetti pensanti
(nella nostra mente) e mai oggettivamente
che possiamo immagine qualcosa di Dio
e ancor meno della sua infinità, sicché:
«Colui che dice una cosa infinita
attribuisce ad una cosa che non comprende
un nome [Dio] che egualmente non
capisce.» E quindi:
Tutte quelle alte perfezioni che siamo soliti
attribuire a Dio sembrano
essere state tratte da ciò che ammiriamo
ordinariamente in noi, come la durata,
la potenza, la scienza, la bontà, la felicità
e così via, alle quali avendo
dato tutta l’estensione possibile la vediamo
in Dio dicendo che è eterno,
onnipotente, onnisciente, sovranamente buono,
perfettamente felice e così via. [36]
E ancora:
Tutti questi attributi che date a Dio non
sono altro che un ammasso di
certe perfezioni che voi notate in certi
uomini o in altre creature, che lo
spirito umano è capace di estendere, di unire,
e di amplificare come gli piace.
[37]
Gassendi vede con estrema chiarezza che
all’infuori di ciò che si deve credere di
Dio (perché rivelato nelle Sacre
Scritture) tutto il resto è frutto di fantasia,
e resta tale qualunque sia il
sofisma logico-dialettico che pretende di
ratificarlo razionalmente. La
conclusione: «Vi ingannate grandemente se
credete avere l’idea della sostanza
infinita, che non può essere in voi che di
nome solamente, e nella maniera in
cui gli uomini possono comprendere l’infinito,
che, di fatto, è non
comprenderlo.» Per un verso viene smascherata
la presunzione cartesiana di
assiomatizzare ciò che è problematico, e
per altro verso viene anticipato
persino Feuerbach, poiché il Nostro pare
aver compreso chiaramente che nel
concetto di Dio l’uomo estende e concentra
le facoltà che egli scopre in se
stesso, facendosene un “ideale” trascendente.
È
nella Disquisitio contro Cartesio che Gassendi ci rende la
migliore
testimonianza del suo atteggiamento religioso
a favore del finalismo divino,
marcando così il suo distacco sia dal determinismo
fisico aristotelico e
cartesiano e sia dall’indeterminismo dell’atomismo
epicureo e lucreziano:
Forse in un’altra occasione avresti potuto
giustamente respingere l’uso
delle cause finali dalla speculazione fisica;
ma trattandosi di Dio è senza
dubbio da temersi che tu [Cartesio] respinga
l’argomentazione principale secondo
la quale la divina sapienza, Provvidenza,
potenza e perfino l’esistenza possono
essere stabilite con il lume naturale. Lasciando
da parte l’universo e il cielo
e le sue altre parti principali, da dove
mai, o in che modo sapresti dimostrare
meglio che muovendo dal funzionamento delle
parti nelle piante, negli animali,
negli uomini, in te stesso (o nel tuo corpo),
le argomentazioni che adduci a
similitudine di Dio? […] Ma non potendo alcun
mortale comprendere, né ancora
esplicare quale agente formi e collochi,
nel modo in cui ci risulta, quelle
valvole disposte alle aperture dei vasi nella
concavità del cuore […] qual
motivo c’è per cui almeno non si ammiri quello
straordinario meccanismo e
l’ineffabile provvidenza che ha apprestato
in maniera così appropriata alla
loro funzione di valvole? Perché non è lodata,
poi subito dopo deve essere
necessariamente ammessa quella causa prima
che avrebbe disposto queste e tutte
le altre cose in maniera così sapiente e
consonante con i suoi fini? [38]
E tuttavia Dio avrebbe potuto anche operare
la sua Creazione attraverso gli atomi in
maniera differente, rendendo possibile
persino una certa libertà di essi che avrebbe
implicitamente negato sia il
determinismo e sia il finalismo:
Niente vieta certo di supporre che alcuni
atomi siano inerti e che non
tutti siano dotati dello stesso grado di
mobilità […] Si può quindi spiegare il
motivo per cui alcuni dei corpi composti
sono mobilissimi, come il fuoco; altri
lentissimi, come la pietra; altri si pongono
per così dire in gradi intermedi,
come i vari generi degli animali. Niente
però proibisce anche di supporre,
insieme con gli stessi atomisti, che tutti
gli atomi siano forniti di una
grandissima e pari mobilità tra di loro;
infatti, che i corpi composti mostrino
maggiore o minore mobilità o inerzia, può
dipendere dal fatto che gli atomi, a
causa della loro forma e dimensione, siano
più liberi e più indipendenti. [39]
Come si vede col «Niente però proibisce anche di supporre»
Gassendi sembra
lasciare una porta aperta all’epicureismo
autentico, poiché la parenklisis
era posta un poco ambiguamente sia come frutto
della casualità e sia come
libertà dell’atomo di muoversi in modo non
pre-determinato. Non caso il Nostro non riprenderà l’argomento,
rendendosi
probabilmente conto di quanto sarebbe devastante
per la fede procedere oltre.
Con
le giovanili Exercitationes e con i diversi lavori costituenti la Disquisitio
metaphysica seu dubitationes et instantiae
adversus Renati Cartesii
metaphysicam del 1644 Gassendi aveva voluto colpire le discutibili
autoritates di
Aristotele e di Cartesio. Nel contempo egli
operava quella riconsiderazione
dell’atomismo antico che doveva portarlo
inizialmente a scrivere e pubblicare
nel 1647 il De
vita, moribus et placitis Epicuri, cui seguono, sulla stessa linea di
ricerca, i già citati Animadversiones e Syntagma philosophiae
Epicurei del 1649. Segue un lungo periodo di riflessioni
e studi che
porteranno alla stesura del Syntagma philosophicum che lo terrà occupato
sino alla morte e in cui Gassendi riassume
il suo punto di vista gnoseologico
in una formulazione definitiva e coerente. Va comunque notato che il progetto di occuparsi
di
Epicuro, e di “riformarlo” in senso cristiano,
datava da molto prima, dal
momento che in una lettera dell’aprile del
1631 egli scriveva ad un amico:
«Devo ancora porre qualche nuovo ragionamento
e qualche addolcimento nei punti
che vanno a intaccare la nostra fede.» [40].
Il Syntagma è costruzione teorica che
trova nel pensiero epicureo il suo fondamento
e dal quale è desunta la
concezione sensistica ed empiristica della
conoscenza. Quarant’anni prima di
Locke, e sia pure in maniera meno profonda,
Gassendi pone l’origine delle idee
nella sensazione. L’idea nasce come “anticipazione”
di conoscenza
immediatamente derivante dall’impressione
sensoria o attraverso una successiva
elaborazione mentale di tipo astrattivo-combinatorio.
E tuttavia è quella
primaria “immagine” anticipatoria resta la
base irrinunciabile di ogni
conoscenza della realtà fenomenica, quale
“materia prima”, su cui il cervello
opera le sue astrazioni e le sue combinazioni
concettuali. L’idea che la
deduzione sillogistica abbia carattere veritativo
è decisamente contestato, ritenendo
che anche alla base della deduzione vi sia
sempre un’induzione, di cui la deduzione
è costruzione finalizzata e mero camuffamento
strumentale. Ciò che viene
gabellato per un a posteriori è in realtà null’altro che un a priori
espresso in premesse poste ad hoc per giungere alla deduzione voluta [41];
da ciò nasce un criterio veritativo profondamente mistificatorio
che si ammanta
di cogenza logica. Va detto tuttavia che
in quest’opera della maturità Gassendi
intende andare oltre le considerazioni giovanili
delle Exercitationes,
per distaccarsi da uno scetticismo fenomenistico
e nello stesso tempo da un
riduzionistico attaccamento al dato empirico.
Nasce così la teoria del “segno
indicativo”, che si basa sì sul fenomeno,
ma estende le sue induzioni alle
possibili condizioni strutturali che lo rendono
possibile. Ed è proprio in una
ridefinizione dell’induzione che Gassendi,
ponendosi sulla linea baconiana, può
teorizzare l’esistenza degli atomi sulla
base di un induzione logica di tipo
esperienziale quanto razionale.
Il
problema fondamentale resta comunque la conciliazione
dell’atomismo epicureo,
rivisitato e aggiustato, con la fede cristiana.
È ovvio come l’operazione
comporti una “manipolazione” dell’atomismo
tale da riuscire a trovare una zona
di conciliazione tra due posizioni teoricamente
inconciliabili. Si comprende allora
come, partendo da una posizione rigorosamente
materialistica, il riuscire a
“piegarla” ad ammettere l’esistenza di sostanze
immateriali e spirituali non è
impresa semplice. Gassendi però pensa alla
costruzione di una nuova concezione
del mondo che per quanto di tipo non dogmatico,
in quanto basata
sull’esperienza reale, non cancelli i concetti
della metafisica ma li “integri”
nella fisica, mettendo a fuoco:
[…] ciò che conviene a tutte le parti dell’universo,
come per esempio,
il luogo, il tempo, i princìpi materiali,
le cause efficienti, i movimenti,
i cambiamenti, le qualità, la nascita, la
morte, e le altre realtà di questo
tipo. [42]
Vengono tuttavia, in qualche maniera, ricalcati
gli argomenti che proprio Aristotele aveva
fatto oggetto di trattazione nella Metafisica; da ciò si può cogliere anche un certo intento
“sostitutivo” dell’autoritas che Gassendi vuol mettere in atto. Punti
cruciali del Syntagma diventano però proprio i concetti di spazio
e di
tempo, i quali, sganciati da un sistema di
relazioni di carattere metafisico,
sia in quanto non oggetto diretto di esperienza
sensibile e sia in quanto
esterni ai “corpi” reali, diventano difficilmente
definibili in termini
sensistico-empiristici. Ma il Nostro sostiene: «Anche se non esistono dei corpi, resterebbero
pur sempre lo spazio
che sussiste e il tempo che scorre. Risulta
pertanto che lo spazio e il tempo
non dipendono dai corpi e non sono di conseguenza
accidenti dei corpi.» [43] Gassendi si vede così
costretto ad introdurre un tipo di concetti
in qualche maniera aprioristici, ma
l’aspetto importante è che egli coglie la
stretta correlazione di immensità,
stabilità, immobilità ed incorporeità. Per
quanto essi siano in parte misurabili,
sono del tutto impercepibili in quanto tali,
poiché non sensisticamente ma solo
psicologicamente noi abbiano l’impressione
di ciò che possono essere
l’estensione e la durata. Così anche il vuoto e gli intermondi
epicurei non debbono essere considerati incompatibili
con le postulazione
dell’infinità di uno spazio immaginario-immaginabile.
E da ciò un’asserzione
piuttosto audace, dove si ipotizza che lo
spazio e il tempo non siano nati,
come sosteneva Sant’Agostino, al momento
della Creazione del mondo, ma che gli preesistevano
e gli sopravvivranno, infatti: « […] come esistevano prima che Dio creasse
il mondo, così
sussisterebbero se Dio lo distruggesse.»
[44]
Nel capitolo Sul principio materiale,
ovvero la materia prima delle cose Gassendi procede ad una definizione
della materia sulla base delle leggi galileiane.
Una materia i cui ultimi
termini sono ancora gli atomi di Epicuro,
ma non più esistenti dall’eternità, bensì
creati da Dio. Essi sono sì gli elementi
fondanti la realtà materiale, ma sono
stati creati non in numero infinito, ma finito
(per quanto in numero enorme)
secondo la volontà divina. Come si comprende
bene il fine di Gassendi è di
mantenere la struttura dell’universo materiale
atomistico, ma deprivandolo di
ogni elemento di originarietà, eternità ed
infinità degli atomi, in quanto
l’”origine” del tutto è solo Dio. Con Galileo
egli tiene anche un’amichevole corrispondenza
e gli si rivolge nei seguenti termini:
Non potendo l’umana perspicacia procedere
oltre, tale è in te il candore
dell’animo che sempre riconosci la debolezza
della nostra natura. Per quanto le
tue congetture siano assai verosimili, tuttavia
per te non sono più che
congetture; e tu, come sogliono invece i
filosofi comuni, non inganni, né lo
permetti. [45]
Il Nostro ha fatto
propria la meccanica galileiana, ma rimane
convinto della validità dell’ontologia
dinamica atomistica, poiché in natura tutto
è movimento e mutevolezza e la
materia non è per nulla un “inerte” rispetto
allo spirito, ma è “per se stessa”,
fondamentalmente e dinamicamente, attiva
ed operante (la definisce actuosa).
Riprendendo l’innovazione concettuale epicurea
rispetto all’atomismo di
Leucippo e di Democrito (per il primo il
moto è “proprio” dell’atomo, per il
secondo è causato dai vortici) gli atomi trovano nel peso o gravità
non più solo un mero fattore densimetrico
che li fa posizionare nel vuoto,
bensì la vera causa di un dinamismo nel quale
egli intende includere tutti i
vecchi concetti, compreso quello di impetus, sì da scrivere:
La gravità o peso non è altro che una facoltà
o forza naturale ed
intrinseca, per cui l’atomo può muoversi
da se stesso; o, se si preferisce, una
propensione al movimento ingenita, innata,
connaturata e ineliminabile, una
spinta che è dall’interno, e un impeto. [46]
Questa
realtà dinamica a base atomica si realizza
sul piano della percezione umana con
le “cose” visibili e tangibili, le composte
res concretae che gli atomi
formano per aggregazione. In esse lo stato
di quiete si connota come una sorta
di esito inerziale dell’aggregazione stessa.
Per cui sussiste un livello
elementare (atomico) dell’essere materiale
caratterizzato da «conato perpetuo
ed agitazione continua», ed uno secondario
dove il movimento è provocato da un
unico genere di causalità, quella “efficiente”,
che determina il moto locale di
trasferimento del corpo da un punto ad un
altro dello spazio. Ma è il livello
elementare a determinare ogni mutamento fisico,
chimico e biologico sino al
livello sensoriale ed emotivo, con la sola
esclusione dell’anima e delle sue
facoltà (ragione e senso di Dio) che non
è originata dagli atomi ma dallo
spirito divino. Si comprende bene la sostanziale
incoerenza di questo sistema
gassendiano, che nel voler aggiornare l’atomismo
per conciliarlo con la fede ne
distrugge ogni coerenza. Ma è significativo
il fatto che il nostro teologo, che
già intorno alla metà degli anni ’30 ha avviato
tale rielaborazione, interrompa
per quattro anni il lavoro (dal ’37 al ’41)
per riordinare le sue idee al fine
di meglio “teologizzare” il proprio sistema,
ritenuto troppo fedele ad Epicuro
e perciò troppo materialistico.
Gassendi riesce, dopo l’interruzione, a trovare
la formula definitiva
soddisfacente, introducendo quegli elementi
finalistici che permettono all’atomismo
di assumere una struttura compatibile non
solo con la fede cristiana ma con
ogni altra teologia. Potrà così scrivere,
soddisfatto, di aver colpito le forme
volgari di religiosità, ma di averne conservato
l’essenza:
È vero che la
fisica e lo studio delle cause naturali liberano
la mente dai terrori provocati
dalla superstizione, ma ciò non impedisce
che dobbiamo religiosamente riconoscere
l’esistenza di una causa prima e suprema,
da cui dipenda la serie delle cause
che investighiamo in fisica. Chi non ne ammette
l’esistenza, non discaccia un
padrone superbo, ma avversa un ottimo padre.
[47]
È evidente qui l’abbinamento dell’elemento
ontologico con quello etico, ma con ciò gli
atomi divengono mere “cause
seconde”, che creano la realtà per conto
di Dio. Tenendo conto dei termini del
testo biblico in forza del quale il Nostro
ha aggiornato l’atomismo, resta
comunque la domanda senza risposta: perché
nel libro della Genesi non
vengano citati gli atomi come cause intermedie
nella produzione divina degli
enti mondani?
L’elemento etico ritorna nelle successive
parti del Syntagma dove più pressante diventa
l’elemento religioso, ma dove l’elemento
“intellettuale” (proprio dell’anima)
deve in qualche modo esser calato nel corpo
e connesso all’apparato nervoso per
dar conto dei vari toni e moventi della psiche
umana. Per risolvere il problema
Gassendi di vede costretto a porre due
piani differenti sui quali la mente umana
si trova ad operare. Uno “superiore”,
quello che si pone in rapporto diretto con
Dio e che opera su terreno della
razionalità, ed uno “inferiore” dove vengono
rimessi in gioco gli “spiriti animali”
della tradizione metafisica, gli occulti
agenti delle complesse funzione
organiche. In questo modo egli si vede costretto
a porre accanto all’anima
sensibile e corporea (fonte della vita ed
uguale per tutti gli animali) anche
un’anima razionale incorporea [48]
aprendo problemi di incoerenza non da poco.
Ciò segna anche il distacco netto
da un epicureismo diventato un fantasma ed
il ritorno nell’alveo di una
tradizione metafisica che gli fa rimettere
in gioco le distinzioni platoniche e
nel contempo lo porta vicino al poco più
anziano Hobbes. Nel descrivere « la
continua agitazione degli spiriti, che percorrono
tanto il corpo intero quanto
il cervello » il cervello appare ora come
una struttura nettamente corporea (e quindi
distinta da un’anima che torna “spirituale”)
quale sede di un vasto campo di
esperienze umane che si collocano al limite
superiore delle corporee ed a
quello inferiore delle intellettuali-spirituali.
Questa struttura opera in modo
associazionistico e può essere visto
come «una carta capace di ripresentare innumerevoli
pliche ben distinte, in
base al loro ordine e successione » [49]
Il fine di ogni operazione mentale è però
sempre quello di conciliare il nostro
pensiero con la realtà, e solo attraverso
l’esperienza il pensiero ottiene una “ratifica”
sulla base di un’”evidenza” sperimentale
che autorizza l’assunzione della
“certezza”, poiché: «Per la scienza si richiedono
soltanto due condizioni,
l’evidenza e la certezza.» [50]
Accanto al cervello e all’anima quali strutture di
elaborazione della sensazione, dell’emozione
e del pensiero ai vari livelli Gassendi rimette
anche in gioco il cuore,
quale sede dei fenomeni più strettamente
connessi alla sensibilità umana e alle
facoltà immaginative. Più precisamente
gli spiriti animali trovano tra cervello
e cuore un percorso diretto e la loro
azione genera in questo le varie forme del
desiderio. In tale machina
primaria pulsante, che si manifesta nella produzione
di sistole e diastole
come effetti attrattivi e repulsivi, Gassendi
vede determinarsi «una certa
espansione per l’immaginazione del bene,
o una contrazione per l’immaginazione
del male.» [51] A
questo punto il Nostro rimette in gioco l’etica
epicurea ponendo su base
psico-fisiologica il rapporto piacere/bene e quello dolore/male,
col quale l’aponìa diventa conseguibile attraverso il controllo
dei
diversi tipi di desiderio che si formano
nel cuore, ma essendo in relazione con
l’anima, quale caput divinum nell’uomo. A questo punto l’edoné
epicurea si eleva di livello ed il piacere
assume connotazioni morali
conciliabili con la fede cristiana coincidendo
con l’elevazione dell’anima,
mentre, al contrario la molestia (il dispiacere) diventa un
“avvilimento” di essa. Ma rientra anche dalla
finestra il Summun Bonum
aristotelico, l’aspirazione al quale si veste
delle specie delle gassendiane philedonia
(tendenza al piacere) e philautia (realizzazione di sé).
Sia
pure in riferimento all’anima, l’etica gassendiana
resta comunque un
eudemonismo, dove il comportamento virtuoso
non è fine ma mezzo, e dove la
saggezza si esprime in un saper valutare
piaceri e rinunce in funzione di una
felicità che intende conciliare le esigenze
del corpo e quelle dell’anima.
L’assenza di dolore, l’aponìa, e l’assenza di turbamento, l’atarassia,
poste dall’epicureismo, si collocano così
al vertice di un gerarchizzazione
degli stati d’animo nell’uomo che tuttavia
presuppongono la salute del corpo
come elemento sine qua non, e non quella dell’anima secondo gli usuali
parametri teologici. E tuttavia Gassendi
va anche oltre l’edonismo
eminentemente statico di Epicuro sostenendo
che il piacere vero si colloca in
una via di mezzo tra il piacere statico e
quello violento, assumendo la
caratteristica di un «placido movimento da
un bene già acquisito verso un altro
da ottenere » che si configura «come
l’acqua di un fiume che scorre placido e
senza rumore.» [52]
Restiamo qui sostanzialmente nella sfera
dell’etica edonistica epicurea, pur
rivedendole i termini in senso più dinamico,
ma mentre il greco sconsigliava la
vita pubblica ed associativa, limitandosi
a considerare il rapporto amicale
come l’unico modo positivo di realizzare
la socialità, il francese rivaluta i
rapporti umani in senso lato.
La
socialità per Gassendi è elemento ineliminabile
dell’umanità ed in ciò egli
aderisce all’opinione di Hobbes, che conosceva
bene ed apprezzava, nel ritenere
che «dal fatto di esistere l’uomo trae la
facoltà di difendersi e di
conservarsi, e pertanto di avvalersi di tutti
i mezzi che sono necessari,
idonei e utili a tale scopo.» [53]
Ma una differenza non di poco conto sta nel
fatto che mentre Hobbes guardava
solo alla totalità statuale e ignorava totalmente
la sfera del privato,
Gassendi guarda alla sfera pubblica ma sempre
tenendo presenti le esigenze
dell’individualità. In altre parole, mentre
a Hobbes preme l’utilità
“pubblica”, a Gassendi, in ciò fedele ad
Epicuro, interessa soprattutto
l’utilità “privata”. I diritti dell’individuo,
in termini di autoconservazione
e di benessere, devono sussistere anche qualora
il cittadino rinunci a una
parte del “mio” a favore del “nostro”, ma
qualsiasi forma collettiva dettata
dal «comune consenso» resta subordinata all’utilità
individuale di chi concede
il consenso stesso. Gassendi opera così sul
terreno giuridico-politico una
curiosa fusione di Epicuro, Grozio e Hobbes,
dove la mutualità e la
collaborazione non sono meno determinanti
dell’aggressività convertita al bene
comune. E tuttavia il Nostro si stacca nuovamente
da Epicuro (che non crede
nello stato) quando sostiene:
Essendo il fine della società l’utilità sopra
descritta, anche il
vantaggio individuale è compreso in quello
comune, a tal punto che il singolo non può ottenerlo
in
modo reale e sicuro se prima non sia stato
assicurato quello collettivo, ciò che
non può aversi se non in quanto ognuno, pago
del suo diritto, rinunci a
perseguire la propria utilità a danno del
diritto altrui. [54]
[1] Numerose nostre citazioni di frammenti gassendiani sono tratte da quest’opera, che utilizzeremo anche come traccia tematica, mentre altre sono desunte dall’ottimo saggio di Tullio Gregory Scetticismo e empirismo, Studio su Gassendi (Laterza 1961).
[2] P.Gassendi, Syntagma, in Opera omnia, Libro I, Lione 1658, p.62
[3] P.Gassendi, Exercitationes, in Opera omnia, Libro III, p.103.
[4] Ivi, p.111 a.
[5] Ivi, p.111 b.
[6] Ivi, p.115 a.
[7] Va tenuto presente che, per quanto si riferisse ad Epicuro, in realtà Gassendi aveva studiato più che altro Lucrezio, soprattutto per la maggior disponibilità del De rerum natura. Quest’opera aveva avuto tre edizioni in latino tra il 1600 e il 1700 e tre in francese tra il 1650 e fine secolo. L’opera lucreziana offriva così a Gassendi maggiori spunti polemici nei confronti del suo ateismo, più chiaro e radicale di quello di Epicuro. Ma il maggior motivo di dissenso con Lucrezio era costituito dal suo indeterminismo e dal suo pessimismo. Gassendi era convinto dell’ordine e dell’armonia dell’universo; e ciò, insieme alla predisposizione umana a concepirlo, una delle migliori prove dell’esistenza di Dio.
[8] P.Gassendi, Exercitationes, in Opera omnia, Libro III, p.152
[9] Ibidem.
[10] Ivi, p.106 a.
[11] La stessa operazione farà Robert Boyle trent’anni circa dopo, prima con The sceptical chemist (1661) e cinque anni dopo con On the origin of forms and qualities according to the corpuscolar philosophy. Data la sua convinzione della validità della tesi atomistica, ma consapevole della sua inconciliabilità con la dottrina cristiana, anche Boyle tenta una forzosa quanto improbabile conciliazione, tale da togliere di mezzo ogni elemento potenzialmente ateo.
[12] P.Gassendi, Exercitationes, cit., p.108 b.
[13] Ivi, p.123 a-b.
[14] Ivi, Syntagma,
pp.230 b – 231 a.
[15] Ivi, p.280 b.
[16] Si veda sull’argomento l’interessante saggio di A.Alberti, Sensazione e realtà, Epicuro e Gassendi, Firenze, Olschki 1988, Capitolo II, pp.61-89.
[17] Ivi, p.152 a-b.
[18] Ivi, p.169 b.
[19] Ivi, p.206 a.
[20] Ivi, p.182 a.
[21] Ivi, pp. 183 b – 184 a.
[22] Ivi, p.190 a.
[23] Ivi, p.207 a.
[24] Ivi, p.207 b.
[25] Ivi, p.273 b.
[26] Ivi, p.284 b.
[27] Ivi, p.295 b.
[28] Ivi, p.300 b.
[29] Ivi, p.311 a.
[30] Ivi, p.314 a-b.
[31] Ivi, p.308 a.
[32] Ivi, p.323 b.
[33] Ivi, p.400 b.
[34] Ivi, p.405 b.
[35] Ivi, p.316 a.
[36] Ivi, p.323 b.
[37] Ivi, pp.335 b – 336 a.
[38] Ivi, pp.358-359..
[39] P.Gassendi, Opera omnia, cit., Libro I, p.343.
[40] P.Gassendi, Lettres de Peiresc, vol.IV, pp.249-250. Cit in: T.Gregory, Scetticismo ed empirismo, Studio su Gassendi, Bari, Laterza 1961, p.135n.
[41] P.Gassendi, Syntagma philosophicum, in Opera omnia, cit, I, p.116 b.
[42] p. 130 b.
[43] Ivi, p.182 a.
[44] Ivi, p.182 b.
[45] P.Gassendi, Opera omnia, cit., Libro VI, p.53.
[46] P.Gassendi, Syntagma philosophicum, in Opera omnia, cit, Libro I, p.273 b.
[47] Ivi, p.326 a.
[48] Ivi, p.440 b.
[49] Ivi, II, p.406 b.
[50] Ivi, p.461 b.
[51] Ivi, p.473 a.
[52] Ivi, p.695 a.
[53] Ivi, pp. 794 b-795 b.
[54] Ivi, p.803 a-b.