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Due importanti brevi saggi sul tema della musica elettronica firmati da Deca rispettivamente nel 2001 e nel 2002, già pubblicati su varie riviste, fanzine e siti web, nonchè approfonditi più volte durante lezioni universitarie e conferenze. IL SUONO DELL’ARTIGIANATO ELETTRONICO Con il passare degli anni, svolgendo la mia attività di musicista e ricercatore musicale in vari contesti, mi sono reso conto che non si sono mai dissipati molti preconcetti in merito all’uso di strumentazione elettronica. Questo nonostante l’elettronica sia entrata a far parte, a pieno diritto, della nostra vita quotidiana e di tutte i settori culturali ed artistici del nostro tempo. Dalla fotografia alla pittura, dal cinema all’editoria letteraria, le più moderne tecnologie sono diventate uno standard creativo e produttivo estremamente presente, anche laddove non si possa parlare propriamente di “arte elettronica” e permanga uno spirito artigianale e tradizionalista del processo creativo. In particolare, nel settore musicale resta viva l’idea che gli strumenti elettronici abbiano snaturato l’essenza della realizzazione dell’ispirazione, facilitando e abbreviando soprattutto le fasi di esecuzione di una composizione. Senza contare, poi, che l’elettronica ha dato effettivamente modo agli artisti di disporre non solo di nuovi suoni artificiali, ma anche di imitare e ricopiare sonorità già esistenti. Il che, se da un lato rappresenta un’evoluzione delle possibilità di fare musica, dall’altro appiattisce e maschera agli occhi del pubblico la personalità artistica, il virtuosismo, le reali capacità tecniche. In realtà le problematiche relative al fare musica attraverso l’elettronica sono complesse e avevo avuto modo di discuterne già in questa sede con un precedente intervento. Quello che, piuttosto, mi preme evidenziare ora è che l’elettronica non è avulsa da un contesto in qualche modo artigianale. Come tutte le tecnologie e le discipline a base scientifica, anche l’elettronica ha subito evoluzioni e prefezionamenti, adattamenti e mutamenti frutto di esperimenti, di prove, di elaborazioni scaturite dal “genio” dell’uomo, dell’inventore che inevitabilmente si fa artigiano per costruire nuovi strumenti. Gli strumenti musicali storicamente sono stati prevalentemente meccanici. Recentemente, nel XX secolo, alla natura meccanica si è affiancata una componente elettrica: quella che ha dato una marcata impronta alla cultura rock, per intenderci. Solo negli ultimi cinquant’anni, poi, lo sviluppo dell’elettronica ha ulteriormente innestato sulla meccanica i prodigi dei circuiti elettrici, consentendo di scoprire un innovativa gamma di possibilità sonore, che va dalla semplice filtratura di suoni già esistenti alla creazione di suoni totalmente inediti. Questa scoperta è passata attraverso l’invenzione - spesso fallimentare - di apparecchiature in grado di generare suono con l’interazione della mano e della mente umane, possibilmente abbastanza semplici ed intuitive da usare. Alcune di esse si sono rifatte ai moduli e alla struttura di strumenti già esistenti; e in questo senso le tastiere figlie del pianoforte (sintetizzatori, campionatori, ecc.) rappresentano la fetta più consistente della modernizzazione elettronica. Ma in altri casi si sono avuti discendenti da ceppi differenti, come archi, fiati, percussioni e chitarre. Gli artisti stessi, se dotati di sufficienti cognizioni in materia, si sono resi artefici di queste invenzioni talora straordinarie e di duraturo successo. Cito, ad esempio, il caso dei tedeschi Karftwerk, autentici pionieri del pop elettronico e sicuramente nome di spicco nella storia evolutiva della musica contemporanea. I Kraftwerk, forti di una preparazione ingegneristica, si costruirono nei primi anni ‘70 batterie elettroniche consistenti in fasci di luce da colpire con le mani per produrre sonorità ritmiche. Senza contare che, nel corso della loro carriera, hanno via via adattato le strutture basilari dei sintetizzatori alle proprie finalità creative, come veri artigiani. Ma ancor più calzante è l’esempio del russo Lev Thermen, nato sul finire del secolo scorso, che si può considerare il vero padre dei sintetizzatori avendo inventato nel 1919 una sorta di “arpa” elettronica in grado di essere attivata e di emettere suoni simili a voci artificiali con i movimenti delle mani. Tale strumento, chiamato Theremin, resta il più fulgido e inimitabile risultato dell’artigianalità del suono elettronico, evidenziandone tutte le le potenzialità future e la straordinaria originalità. Il Theremin non aveva neppure bisogno di essere toccato, giacchè produceva e modulava suoni con la sola immersione in movimento delle mani nei campi di due antenne. Una caratteristica che lo rendeva, tra l’altro, difficile da suonare; e ciò depone a sfavore della tesi secondo cui l’elettronica in arte è sinonimo di automatismo e passività dell’artista. Le macchine del suono artificiale sono manufatti complessi ed è implicito, per la loro stessa natura, che si prestino ad operazioni di assemblaggio, modifica, elaborazione. Nonchè a prestazioni finali che richiedono idee, dinamismo, adattamento, una profonda interazione con le loro funzioni. Dunque, non esistono poi molte differenze tra il percorso evolutivo che ci ha portati dal clavicembalo al pianoforte, o dal flauto al clarino, e il percorso che è partito dai primi oscillatori per arrivare alle più versatili workstations. Alle spalle delle grandi produzioni su scala industriale, non solo c’è stato un intenso studio di laboratorio, ma anche un succedersi di tentativi curati da singoli, da musicisti, da tecnici fantasiosi che - un po’ come i liutai - hanno cesellato circuiti stampati e amplificatori di voltaggio, calcolando misure precise e proponendo nuove soluzioni perchè l’uomo possa ampliare la gamma di strumenti con cui fare musica. Deca |
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