E ' accaduto quest'anno,
cinquantenario dell'iniquo trattato che ha strappato l'Istria all'Italia,
qualcosa che solo la poesia può far verificare in una coincidenza
più che significativa che s'eleva ad allegoria stupenda. Tra i tantissimi
partecipanti al concorso della sezione non in lingua italiana, sono state
presentate tre poesie in lingua Istro-romanza. Nel panorama delle "lingue
tagliate" un posto di riguardo spetta all'Istro-romanzo, lingua citata
già da Dante nel "De vulgari eloquentia" che è l'emblema
dell'antica latinità della regione, sfatando i falsi miti delle
popolazioni importate da Venezia, in quanto il lessico deriva direttamente
dal latino parlato dai legionari romani. Questi ultimi, dopo aver sconfitto
gli Istro-Illiri si insediarono in permanenza sul territorio; pure avendo
subito nel corso del lungo periodo della signoria veneziana un ovvio fenomeno
di omogeneizzazione, ancor oggi questo lessico si distacca nettamente dagli
altri dialetti dell'area veneta. Sua peculiarità è la ricorrente
dittongazione, che viene resa graficamente, per consuetudine ormai inveterata,
con gli pseudo dittonghi eî e oû e che per certi versi avvicinano
l'istro-romanzo al romagnolo: miteîna, mattina; paloû, palude
ecc. Come nel Veneto, le consonanti non si raddoppiano mai, salvo nel caso
della "s" che può venir raddoppiata anche per dare maggiore enfasi
al significato della parola: ca balissa! che bellezza! Altra caratteristica
è la quasi totale mancanza del nesso "gli", particolarmente ostico
alla pronuncia rovignese, reso in due diverse maniere: fameîa, feîo
e fameîlgia, feîlgio per famiglia e figlio; il nesso "gli"
è presente soltanto su alcuni tardi calchi dall'italiano. Consistenti
sono i prestiti dal tedesco, frutto di più di cent'anni di dominio
austriaco. Esempio ne sono termini come zlài o e zmìr ovvero
i freni e il grasso per ungere le ruote del carro; oppure voci legate al
gergo militare: andivier, milizia territoriale; patruntàs, cartucciera
ecc. Ma non conviene soffermarsi a lungo su di una analisi linguistica,
che richiederebbe uno studio apposito; preme sottolineare lo stato di precarietà
di questa lingua che, a fronte del prestigio linguistico veneziano, già
a fine '800 aveva visto la riduzione della sua area d'uso e che in seguito
all'ultima guerra subisce un colpo quasi mortale. Il passaggio della regione
istriana, per la prima volta nella sua bimillenaria storia, sotto il dominio
slavo, ha comportato che il nucleo degli istriani che tuttora impiegano
l'Istro-romanzo come prima lingua si sia ridotto alla esigua cifra di mille,
forse duemila persone, ormai circoscritte alle sole città di Rovigno
e Dignano ed ai vecchi della diaspora. In questo panorama quindi, non si
può far a meno, purtroppo di ipotizzare per l'Istro-romanzo la stessa
fine che già nel primo ottocento ha subito il Dalmatico e cioè
la sua pressochè totale scomparsa nel breve volgere di una od al
massimo due generazioni. Per questo era opportuno e necessario, premiare
questa poesia, una poesia che stupisce e riesce a sorprendere nella rivelazione
di un mondo che credevamo estraneo e che si mostra invece parte di noi:
El seîgo da pera, di Gianclaudio de Angelini. Nel recupero
della tradizione istriana con aspetti poco conosciuti ovvero non abbastanza
osservati e talvolta dimenticati questa poesia possiede un fascino tutto
particolare, che nella traduzione pure attenta e amorevole, non trova un
equivalente adeguato. La riflessione, l'introspezione, la meditazione sull'amara
esperienza dell'esilio fanno risaltare l'incidenza che gli eventi storici
hanno sugli affetti, sugli uomini e le loro cose. Si torna ad accompagnare
la memoria per ritrovare gli echi dei luoghi nativi e risentire le voci
un tempo familiari. L'addio è il segno di ciò che si è
compiuto, ma ancora di ciò che non è accaduto; mentre l'amore
filiale è l'evidenza di uno specchio perennemente figurabile che
si consuma nella struggente malinconia dell'attesa che non tornera mai
più. Il congegno narrativo non asseconda il filo del rimpianto,
si fa evanescente e si frantuma nello stillicidio di una solitudine che
scorre una agenda vuota di eventi e si ritira ai margini della nuova patria
adottiva.
Rino Cerminara
(Presidente Giuria Premio Laurentum)
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