FILM DEL MESE - 2010

 

gennaio

Valerio Mieli, Dieci inverni

Mona Achache, Il riccio

Carlo Verdone, Io loro e Lara

Fatih Akin, Soul Kitchen

Tom Ford, A single man

Paolo Virzì, La prima cosa bella 

Jason Reitman, Tra le nuvole

 

aprile

Paul Greengrass, Green Zone  ●

Roman Polanski, Ghost Writer

Yojiro Takita, Departures  ●

Andy Tennant, Il cacciatore di ex

Nina Di Majo, Matrimoni e altri disastri

 

luglio

Sönke Wortmann, La Papessa

 

settembre 

Sofia Coppola, Somewhere     

Andrea Arnold, Fish Tank      

Julian Schnabel, Miral      

S.Costanzo, La solitudine dei numeri primi 

W.Herzog,My son,my son,what have ye done

Aureliano Amadei, 20 sigarette

Anton Corbijn, The American

Carlo Mazzacurati, La Passione

Rob Epstein, Jeffrey Friedman, Urlo

 

 

 

 

 

 

 

febbraio

Giorgio Diritti, L’uomo che verrà

Philippe Lioret, Welcome

Radu Mihaleanu, Il concerto

James Cameron, Avatar

Jessica Hausner, Lourdes      

Lone Scherfig, An education 

Gabriele Muccino, Baciami ancora

Pupi Avati, Il figlio più piccolo 

Antonio Campos, Afterschool

Clint Eastwood, Invictus  

 

maggio

Silvio Soldini, Cosa voglio di più

Tom Vaughan, Misure straordinarie 

Alain Resnais, Gli amori folli

Alejandro Amenábar, Agorà

Daniele Luchetti, La nostra vita

John Hillcoat, The Road

 

ottobre

Ascanio Celestini, La pecora nera

Christopher Nolan, Inception

James Ivory, Quella sera dorata

Pupi Avati, Una sconfinata giovinezza 

Ben Affleck, The Town

A.Weerasethakul, Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti

Stefano Incerti, Gorbaciof

Rodrigo Cortés, Buried - Sepolto 

Martin Provost, Séraphine 

Oliver Stone, Wall Street – Il denaro non dorme mai  

Doug Liman, Fair Gaime – Caccia alla spia

Xavier Beauvois, Uomini di Dio

 

marzo

Tim Burton, Alice in Wonderland 

Martin Scorsese, Shutter Island   

Ferzan Ozpetek, Mine vaganti     

Shirin Neshat, Donne senza uomini

Atom Egoyan, Chloe

Gabriele Salvatores, Happy Family

Jacques Audiard, Il profeta

 

giugno

M. Frammmartino, Le quattro volte

Juán J.Campanella, Il segreto dei suoi occhi

Elia Suleiman, Il tempo che ci rimane  ●

Jane Campion, Bright Star  

Michael Hoffman, The last Station  

Raymond De Felitta, City Island   

 

novembre

Claudio Cupellini, Una vita tranquilla

François Ozon, Potiche - La bella statuina

Kirk Jones, Stanno tutti bene

David Fincher, The social network

Gianfrancesco Lazotti, Dalla vita in poi 

Mario Martone, Noi credevamo

 

dicembre

Woody Allen, Incontrerai l’uomo dei tuoi      sogni

Lee Daniels, Precious 

Sergio Castellitto, La bellezza del somaro

Florian H. von Donnersmarck, The Tourist

Susanne Bier, In un mondo migliore   ●

Sam Mendes, American life  

 

 

                                 

                                      dicembre

Sam Mendes, American life  

Al Santa Lucia di Lecce il 26/12/010.

Il titolo italiano è coniato sul primo e famoso film di Mendes, regista inglese operante negli Usa, American beauty, e non ha a che vedere con questo film; il cui titolo originale è Away we go, andiamocene.

Ed è appunto la storia di una coppia trentenne che attende un figlio (la donna è al sesto mese) e che, poiché i nonni incuranti (la coppia egoista) se ne vanno per due anni in Belgio, decide un viaggio in vari luoghi dove abitano parenti e amici che potranno essere loro vicini nella nuova vita. E vanno dal Colorado a Phoenix, a Tucson, a Madison, a Montréal in Canada, a Miami (qui per essere vicini al fratello di lui, abbandonato dalla moglie). Un viaggio incredibile, specie per una donna col pancione, e ripetitivo, che si conclude ogni volta con una delusione; per cui la coppia approda infine nella solitaria ma accogliente casa dei genitori di lei, deceduti purtroppo, che trova potrà essere il luogo più bello e più adatto alla loro vita.

L’idea di Mendes (e della coppia di scrittori che hanno prodotto soggetto e sceneggiatura) è  quello di una coppia positiva, che si ama profondamente, ama profondamente il figlio che attende, ed è pronta ad affrontare la vita insieme, con un amore profondo e saldo. A differenza delle due coppie drammatiche e mortali di American beauty (qui lo sfacelo della famiglia, che diventa un nido di vipere) e di Revolutionary road. Ma questa tesi è difficilmente sostenibile perché la coppia è giovane e il cammino della vita è lungo e accidentato, e imprevedibile.

Film ripetitivo, come già notavo, scarso nell’invenzione, poco credibile nell’insieme.   

 

 

Susanne Bier, In un mondo migliore   ●

All’Odeon di Lecce il 25/12/010.

Titolo generico e banale, che non ha alcun legame col film L’originale è Haevnen, vendetta.

L’intelligente regista danese, che proviene da Dogma, e ci ha dato già film notevoli come Dopo il matrimonio del 2007, Noi due sconosciuti del 2008.

Qui una storia originale che si svolge tra Danimarca ed Africa, dove lavora come medico in un campo profughi uno dei due padri; ed è una storia di ragazzi. Qui il tema è la violenza. Quella che si scatena nella scuola contro il ragazzo «muso di topo» perché porta un apparecchio ai denti ed è timido; un fatto abbastanza frequente; o in paese da parte di un rude garagista. Quella che si scatena nel campo quando la banda di predoni irrompe armata, col suo capo arrogante. Ma che soprattutto fermenta nell’animo del ragazzo Christian, quasi uno shock dopo la perdita della madre; il ragazzo troppo serio, pensa che ogni torto debba essere vendicato; mentre l’altro padre – quello del suo amico Elias, quello che opera in Africa – ribatte che la ritorsione è stupida perché provoca una catena infinita di mali; lui che per due volte riceve lo schiaffo dal garagista e gli oppone solo la parola. E che nel campo ribatte al capo arrogante e ferito che non lo toccherà fino a che un uomo armato resterà nel campo. Ritorna qui il tema evangelico della nonviolenza, del «se qualcuno ti percuote sulla guancia destra»; ma non è sviluppato, non è spiegato ai ragazzi.

La storia precipita con la bomba fabbricata da Chritian per far saltare l’auto del garagista, che per poco non uccide l’amico Elias; egli lo crede morto e sta per suicidarsi quando è salvato dal padre nonviolento. Alcuni hanno criticato il lieto fine, ma certo il suicidio del ragazzo sarebbe stato eccessivo.

 

 

Florian Henckel von Donnersmarck, The Tourist  

Al Massimo di Lecce il 19/12/010.

Strano che questo regista tedesco – autore di un film pregevole, Le vite degli altri, 2005, sui misfatti della Stasi, la polizia segreta della Germania Orientale sovietizzata.; film che ha avuto l’Oscar – abbia girato questa storia banale e risaputa di una signora dei servizi, un’Angelina Jolie in formato indossatrice, alla ricerca del suo amante, un doppiamente ricercato per un grosso furto ad un gangster, e per una grossa truffa fiscale. Storia banale di fughe e inseguimenti, senza un briciolo di umanità. Il turista sarebbe un ragazzotto americano (un Jonny Depp grassotto) che alla fine si rivela essere l’amante triplo ricercato che si è rifatto il fisico, senza che nemmeno la sua amata in tutto il tempo e la vicenda se ne sia accorta. Incredibile.

Ben girato, su grande schermo, non spiacevole a vedersi.

 

 

Sergio Castellitto, La bellezza del somaro

Al Massimo di Lecce il 19/12/010.

Un film che ha il difetto di essere sempre sopra le righe, sempre eccessivo, sempre gridato; con anche una  musica rumorosa. Che in questo bailamme trascina anche una figura notevole di attrice come Laura Morante, la moglie e madre della famiglia centrale, dove Castellitto è il padre. Che manca dell’equilibrio, del senso di misura che rendono bello e armonioso il narrare. Donde anche la costruzione caotica del film.

Il problema vorrebb’essere quello della famiglia attuale, il rapporto tra coniugi, che qui non riesce a raggiungere una vera conflittualità. Né lo soccorrono le coppie dei due amici e le loro famiglie. Né prende un adeguato risalto quello che vorrebb’essere l’episodio anticonvenzionale e liberatorio: il legame della figlia diciassettenne con un uomo anziano dai bianchi capelli; legame che non viene narrato e discusso, ma resta debole e insignificante.

Nessun confronto di qualità con Non ti muovere, il precedente film di Castellitto, 2004, con la passione divorante e devastatrice per la disgraziata prostituta nello squallore della periferia.   

 

 

Lee Daniels, Precious  

All’Odeon di Lecce il 12/12/010 (2009).

Un regista afroamericano cinquantenne che ha lavorato nel cinema ma fatto solo due film, Shdowboxer del 2005, e questo. Che proviene dal pregevole romanzo omonimo di Sapphire.

Il film della degradazione più atroce; di Harlem negli anni ottanta; ma che forse vuol mettere in guardia gli USA, proprio oggi, con un Obama presidente nero, sulla condizione dei neri d’America ancor oggi.

Precious, l’eroina sedicenne straobesa, di 150 chili, analfabeta, stuprata dal padre dai tre anni in su, ha avuto un primo figlio disabile ed è incinta ora di un secondo; e il padre le ha anche trasmesso la sieropositività. A questo cumulo di mali se ne possono forse aggiungere altri? sì, una madre che la maltratta, un odio cupo, perché dice che le ha rubato l’uomo, e la tiene con sé nella misera  casa solo per  via del sussidio sociale.

Va a scuola, deve subire la derisione dei compagni, e quando la direttrice viene a sapere che è incinta la espelle. Ecco dunque il fondo dell’abisso.

Ma anche l’inizio di un filo di redenzione, sia pur esile: una sua insegnante, una donna fine e gentile, si prende cura di lei e la accogliere in una scuola alternativa in cui comincerà a scrivere, ad esprimersi, a raccontare la sua vita. Il cui futuro è tuttavia tenebroso, la sieropositività, la terribile malattia.

L’orrore dell’obesità estrema, l’orrore dello stupro paterno, l’orrore dell’ignoranza estrema, l’orrore della malattia. Non c’è tregua al male, non è possibile uscire dall’abisso.

 

 

Woody Allen, Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni

Al Massimo di Lecce il 5/12/010.

Titolo italiano totalmente falso: qui non c’è nessun uomo dei sogni da incontrare. You will meet a tall dark stranger, uno straniero alto e oscuro, o tenebroso.

Raramente vado a vedere un film di Allen, un tipo che fa un film all’anno, e dal quale dunque non ci si può aspettare molto. Un regista ripetitivo, film imbastiti alla spicciolata, spesso banali. Come quest , che non ha nessun senso, se non forse il cinismo di un mondo in cui tutte le coppie, i rapporti amorosi e familiari, si dissolvono. I genitori, dove l’anziano padre si prende una giovane prostituta e, armato di viagra, la sposa, una donna fatua, affatto vuota; davvero incredibile. Mentre la madre corre dietro alle fanfaluche di una maga o veggente, alle velleità di reincarnazioni, vite passate e future (e però sembra trovi infine un uomo con cui legarsi, un vago momento di speranza). La figlia (Naomi Watts) con un marito scrittore in crisi e fannullone che se ne va con la ragazzina della finestra di fronte; un'altra rottura improbabile. La figlia che è subitaneamente presa d’affezione per il suo capo gallerista in crisi coniugale, e però già preso da un’altra donna sua amica. Ecc. ecc.

Un mondo in troppo facile dissoluzione. Voce recitante troppo insistente a spiegare e spiegare, almeno nella prima parte.

 

 

                                              novembre

Mario Martone, Noi credevamo

All’Odeon di Lecce il 28/11/010.

Martone tanta un grande film per i 150 anni dell’unità italiana, la nascita della nazione. Tre ore (un’altra mezz’ora tagliata). Non fa certo un film celebrativo. Ma fa un film molto parziale: il risorgimento della cospirazione, dei giovani che hanno fatto il giuramento, carbonari, mazziniani; repubblicani convinti, avversi alla monarchia, condannano il processo che va portando all’unità partendo dal Piemonte e dalla monarchia sabauda. La cospirazione, l’attentato a Carlo Alberto, l’attentato a Napoleone III. Inoltre una cospirazione meridionale, di giovani del meridione.

Il resto è ignorato. Così il movimento popolare, quello delle cinque giornate di Milano, delle giornate di Brescia, dei giovani garibaldini che dassoli conquistano il regno borbonico, dei moti che abbattono gli altri stati e staterelli, dei plebisciti.

Ne viene una storia irreale, anche se costruita con dignità, serietà e stile. Poi troppo dialetto, difficilmente comprensibile per chi non è del Sud; troppo francese con sottotitoli (nel circolo parigino di Cristina di Belgioioso) che danneggiano l’immagine e non sempre sono adeguatamente leggibili.

 

 

Gianfrancesco Lazotti, Dalla vita in poi 

Al Santa Lucia di Lecce il 21/11/010.

Un regista cinquantenne che ha lavorato variamente nel cinema, ma soprattutto nella televisione, e ha fatto anche sei o sette film mediocri, qui esce con un lavoro originale e simpatico.

Una ragazza inferma alle gambe e costretta in sedia a rotelle, che scrive ogni giorno una lettera al ragazzo dell’amica scarsa d’immaginazione e di parole; il ragazzo sta in carcere, è omicida, un tipo violento, primario, rude. Poi l’amica si stanca ma lei nel frattempo, con quelle lettere quotidiane, ha maturato il suo amore per il ragazzo e va a trovarlo, favorita anche dalla sua condizione. E l’amore nasce tra loro e continuano ad incontrarsi e scriversi; e anche si sposano, e continuano ad amarsi. È l’incontro di due mali, due infermità, l’una fisica, l’altra fisica e morale insieme; due mali che nell’incontro personale e amoroso si redimono

Notevole il personaggio ragazza, Katia, Cristina Capotondi. L’intelligenza, la sensibilità, la dolcezza e insieme la fermezza, e l’invenzione. Lei vuole l’amore, lei vuole il matrimonio, pensa ai figli possibili; lei conduce la storia, con la sua intelligenza e forza e dolcezza. E il ragazzo cambia, cresce, acquista personalità e dignità, e pensiero (prima non pensava mai); e quando lei con uno stratagemma gli offre la possibilità della fuga, fugge sì, inseguito, ma poi rinuncia; perché la fuga potrebbe sconvolgere per sempre quella cosa grande che ora possiede.

La critica in genere non ha apprezzato questo film, non lo ha capito. Il titolo è insignificante, come spesso accade da noi.

 

 

David Fincher, The social network

Al Santa Lucia di Lecce il 17/11/010.

Fincher è regista di buon livello. Se si pensa a  Seven (un thriller tuttavia piuttosto orrido, 1996), a Fight club del ’99, a Il curioso caso di Benjamin Button del 2008. Qui però, checché ne dica la critica, non ci siamo.

Certo la storia era difficile, l’invenzione di Facebook; troppo arida. Ma intanto sbaglia il personaggio principale, Zuckerberg, ne fa un ragazzotto senza personalità e tanto meno passione; un ragazzotto piuttosto insulso. Poi toglie comprensibilità alla storia con tagli di processi troppo brevi e insignificanti. Siamo a Harvard. C’è l’accusa di aver rubato l’idea a due fratelli che appartenevano allo stesso gruppo di programmatori. E c’è l’estromissione di Saverin, il grande amico brasiliano, che ha sostenuto e finanziato l’iniziativa. Saverin è forse la figura più umana.

L’insieme è scialbo e indigesto.    

 

 

Kirk Jones, Stanno tutti bene  

Al Massimo di Lecce il 14/11/010.

Terzo film di un regista quarantenne di origine inglese, che ha lavorato molto e con successo nella pubblicità. 

Qui un remake hollywoodiano del film di Tornatore di vent’anni fa (1990), quindi un’operazione commerciale che io mi trovo a vedere per caso (non amo i remake)..

E però lo trovo meglio dell’originale. Il tema è quello del padre ormai pensionato e vedovo, solo nella sua casa troppo grande, nella quale vorrebbe radunare un giorno i suoi quattro figli  ma non ci riesce perché tutti adducono impegni vari; ed è la prima delusione. Segue la decisione di andare lui a trovarli, un viaggio statunitense con grandi distanze, ch’egli copre parte in treno, parte in autobus, perché il medico gi ha sconsigliato l’aereo; cui segue la seconda delusione perché non tutti hanno raggiunto quella grandezza e quel successo ch’egli aveva pensato e creduto per loro; e anche perché non hanno tempo per lui. E  non ce l’hanno perché non hanno confidenza, il loro rapporto più vero e vivo essendo stato con la madre; lo spiegheranno poi essi stessi. Così si dispiega il dramma del padre rispetto ai figli.

Ci sono dunque degl’incontri brevi, cui segue il ritorno in aereo, l’infarto, il ricovero; dove i figli lo visitano e iniziano a spiegarsi con lui; e viene anche a sapere che David, il pittore, è morto, ma i fratelli sono reticenti anche perché temono della sua salute.

Il film dunque è doloroso; anche se il regista ci aggiunge lo happy end della loro venuta per il Natale. Ma, a parte questo, il remake ha più pathos dell’originale, ha un più intimo dolore. Che il padre sopporta con grande forza d’animo, ma di cui soffre.

Caratteristica la scena di cattiveria del ragazzo fannullone e mendicante nel sottopassaggio tutto illuminato di una stazione, cui egli dà gentilmente una banconota, e che lo assale e, quando cade per terra il flacone del suo medicinale, lo schiaccia rabbiosamente sino a ridurlo in polvere.

V’è anche, notevole, il tema dei fili del telefono (egli ha lavorato proprio a questo nella sua vita, e lo spiega) lungo i quali corrono le conversazioni, che noi sentiamo.

Un film pulito, ben costruito, col grande schermo, con grandi stupende case; con grandi attori, anzitutto il padre, De Niro, poi Drew Barrymore, Kate Beckingsale, Sam Rockwell.  

 

 

François Ozon, Potiche - La bella statuina

All’Odeon di Lecce il 7/11/010.

Regista francese quarantenne molto attivo, e alquanto ineguale. Di lui nel mio schedario Sotto la sabbia del 2001, Otto donne e un mistero del 2002, 5x2 del 2004.

Qui una gustosa commedia sulla rivalsa della donna: la casalinga bella e modesta statuina ornamentale, che posta alla prova rivela le sue superiori doti di saggezza, realismo, garbo; che affronta i problemi e li risolve   Qui appunto Susanne (Catherine Deneuve, molto viva e spontanea), moglie di un imprenditore nevrotico e strafottente che di fronte ad uno sciopero è preso da malore, e a lui subentra, seda i conflitti riconoscendo le giuste richieste dei lavoratori, ottiene la collaborazione dei figli, dà all’impresa (che del resto era sua, costruita da suo padre) un nuovo slancio. Al ritorno del marito non ritiene di dover cedere il posto, visto il successo; e quando il marito glielo toglie con la complicità della figlia (il suo pacchetto azionario), la donna si candida per le elezioni politiche, e anche qui col suo garbo ottiene il seggio.

Il film scorre liscio, sull’onda morbida del carattere della donna; e termina alla grande, con la riunione che celebra la vittoria, dove l’eletta canta coi suoi elettori una canzone il cui refrain è «che bella la vita».

Un finale, e una vicenda, positiva, costruttiva.

 

 

Claudio Cupellini, Una vita tranquilla

Al Massimo di Lecce, il 6/11/010.

Al suo secondo film, dopo Lezioni di cioccolato del 2007.

Ritorna qui il tema della redenzione dalla malavita, un iter difficile.

Qui Rosario, un capo camorrista, è riparato in Germania lasciando tutto, compreso un figlio di dieci anni, Diego; ha ricostruito una famiglia con una donna tedesca e un figlio quattordicenne; ha aperto un ristorante-albergo. Sono passati quindici anni. Ma un bel giorno la camorra arriva al suo albergo, arriva nientemeno che suo figlio, divenuto camorrista. Arriva casualmente, perché lì accanto c’è un centro di smaltimento di rifiuti; c’è una questione di rifiuti, una persona da uccidere, e che viene uccisa.

Il film non è facile da seguire perché parlato prevalentemente in napoletano (anche in italiano e tedesco con sottotitoli). Ci sono discussioni col figlio; c’è una reazione di Rosario, che sopprime l’altro compare e lo seppellisce di notte nella foresta, colui che aveva ucciso. Arrivano altri due boss, il piccolo Mathias viene rapito e viaggia con Diego. Rosario li insegue, riesce a raggiungerli a Fondi, ottiene Mathias, lo riporta a casa, ma subito sale su di un autobus e riprende la fuga. La liberazione non è riuscita e lui è di nuovo ramingo, alla ricerca della difficile  vita tranquilla, la difficile vita normale.

Rosario è Toni Servillo, grande attore certo, ma   personaggio mancato: manca di umanità, di passione, manca anche d'identità, in fondo non è nessuno.Se lo si confronta con un film analogo di Cronenberg, A history of violence, dove la nuova vita dell'uomo uscito dal crimine si espande ampia e profonda, negli affetti, nell’amore; la nuova vita ch’egli si è conquistato e che non vuole perdere, quando il crimine lo riscopre; è pronto a tutto pur di non perderla. Tutto questo manca; la nuova vita è solo esteriore, superficiale. Qui la debolezza abissale del film di Capellini, e il grande attore sprecato.  

 

                                  ottobre

Xavier Beauvois, Uomini di Dio

Al Santa Lucia di Lecce il 31/10/010.

Terzo film di questo regista francese. Sceglie la vicenda di un gruppo di monaci che hanno deciso di vivere in Algeria, alle pendici dell’Atlante, presso un piccolo villaggio. Come presenza di fede, di meditazione e preghiera; come aiuto per la gente povera di quei luoghi sperduti. Tra loro c’è un medico, persona anziana, che parla di 150 visite in un solo giorno. Una storia vera, anni novanta.

Il film tenta ricostruire la vita del piccolo monastero, degli otto monaci. Spicca la preghiera e il canto nella cappella; non v’è altra musica. La preghiera e l’aiuto ai poveri.

Poi il dramma, la Jihad islamica, una prima irruzione, cercano medicinali che vengono negati perché già scarseggiano e c’è l’impegno con la gente; ma forse si poteva essere meno rigidi con questi guerriglieri.

Segue la discussione tra loro, una fase in cui alcuni sono decisi a restare, altri lo ritengono ormai inutile, oltre che pericoloso. E però alla fine tutti restano, è questa la decisione comune.

Segue il prelievo: i guerriglieri li costringono a seguirli, e scompaiono in una giornata fredda e nebbiosa, scompaiono nella nebbia. Qui chiude il film, saranno tutti decapitati. Perché? per odio religioso? odio verso la nazione francese colonialista?

Opera coraggiosa, difficile; e non adeguatamente costruita. Ma tuttavia significativa: la dedizione, il sacrificio supremo.

 

 

Doug Liman, Fair Gaime – Caccia alla spia

Al Santa Lucia di Lecce il 26/10/010.

Film di denunzia nel quale non v’è nessuna caccia alla spia. V’è invece il comportamento criminoso del presidente Bush, e del suo compare Cheney, che montano la storia dell’arma atomica irakena per poter scatenare la guerra. Un fatto abnorme. Il preteso uranio arricchito dal Niger e i fantomatici tubi che all’arma sarebbero serviti. Mentono al popolo americano e al mondo; scatenano la guerra contro uno stato sovrano; una guerra che poi non riusciranno a vincere e diventerà infinita.

Qui un caso divenuto famoso, l’agente CIA Valerie Plame, impegnata nella lotta alla proliferazione atomica, di cui la Casa Bianca, attraverso un giornalista assistente di Cheney, rivela il segreto, annientandone così la carriera. Per colpire lei e ancor più il marito che, avuto sentore della cosa, va in Niger, dov’era stato ambasciatore e ha amicizie importanti, e svela l’inganno; e inizia una serie di conferenze per sollecitare la coscienza americana. Screditarli, vendicarsi. C’è un momento di crisi tra i due (Naomi Watts e Sean Penn), una divergenza sull’azione del marito, persuaso e deciso che l’America deve conoscere la verità; crisi che si compone.

Il film non è sempre ben costruito, in particolare il personaggio di Valerie. Caratteristici i musi duri della Casa Bianca e della CIA.

 

 

Oliver Stone, Wall Street – Il denaro non dorme mai  

Al Santa Lucia di Lecce il 25/10/010.

Brutta idea quella di fare la sequela del suo Wall Street del 1987, un film certo magistrale. Qui invece tutto è sfuocato.

Al centro vi sarebbe la crisi di questi anni, che però resta quanto mai nebulosa e sulla quale non si riesce a costruire una storia. Gekko, il malvagio eroe di allora, esce spompato di prigione e diventa un personaggio marginale del film, con problemi paterni, visto che la figlia non ne vuol sapere (dopo il suicidio del fratello); con un colpo mancino verso la fine (un miliardo di dollari dai cento milioni della figlia), di cui però non si sa il come. Al centro sta un giovanissimo broker con grandi ambizioni ma scarsa personalità e scarsissimo appeal (Shia LaBeouf); scelta infelice, personaggio mancato. Della tensione etica e politica del primo film non resta nulla.

Forte presenza della città, Manhattan, coi suoi grattacieli dove hanno sede le grandi imprese; voluta, eccessiva.

 

 

 Martin Provost, Séraphine 

Ai Salesiani di Lecce il 24/10/010.

Questo regista francese cinquantacinquenne inizia come cineasta solo negli anni ’90 con alcuni corti, e con questo film produce un’opera squisita che poi è tutta vera, è la vicenda incredibile di Séraphine Louis, nome d’arte Sèraphine de Senlis, il borgo nel quale ha vissuto la sua dura vita di domestica e insieme la sua appassionata vita di artista.

Il film conduce anzitutto innanzi la parte dura, lavare e lucidare pavimenti, lavare lenzuola giù al fiume nell’acqua fredda. sempre in cammino col suo paniere, il suo passo pesante, i pochi soldi dal suo duro lavoro. Si riposa sui prati, sul grande albero su cui è salita, lo abbraccia. Vita dura, ma la notte è presa dall’arte, dalla sua arte spontanea che nessuno le ha insegnato, da questa esaltazione di fiori e frutti irreali e splendenti, da questa creatività stupenda. Che casualmente un collezionista scopre, e allora la sua vita cambia, diventa vita d’artista; ma insieme la sua esaltazione s’accresce e passa ogni limite, e sfocia nella follia. E finisce nell’orrore del manicomio, nel supremo dolore dell’alienazione, della prigionia alienata. Siamo ai primi anni Trenta, morirà nel ’42. E il film, già sempre intriso di pena, diventa supremamente doloroso, una vita di pena si consuma nel dolore estremo.

La musica solo in pochi momenti lirici; domina il silenzio coi suoi rumori reali.

 

 

Rodrigo Cortés, Buried - Sepolto 

Al Santa Lucia di Lecce il 21/10/010

Regista trentacinquenne spagnolo al suo quinto film.

Un’opera certo singolare, dal momento che si svolge interamente in una bara, senza mai uscirne neppure per un istante; notevole nella capacità di condurre un soggetto così arduo. La lotta tenace dell’uomo, la speranza di uscirne comunque.

Un camionista USA che trasporta merci per una ditta privata in Iraq; una colonna di camion attaccata e in gran parte annientata; lui sepolto in una bara sotto un metro di terra per ottenerne il riscatto. Nella bara c’è tra l’altro un cellulare e una torcia elettrica, proprio per poter comunicare; a parte l’accendino e la biro. Gli strumenti con cui il sepolto conduce la sua lotta per la vita. Con cui parla con la sua impresa, la quale cinicamente gli risponde che lo ha licenziato il mattino stesso per un’infrazione; il cinismo dei padroni. Parla con la centrale di soccorso che lo può individuare e liberare; e che infatti lo individua e gli giunge vicina. Parla con Linda, la moglie, scambia parole d’amore. Il film è pervaso da questi colloqui, in cui domina la capacità di lotta, domina la speranza; insieme con la sofferenza, la tragicità della situazione.

Dove la salvezza si profila a un certo punto (siamo vicini) ma subito si estingue (purtroppo). Su cui il film chiude, su di una prospettiva di disperazione.

 

 

Stefano Incerti, Gorbaciof

Al Santa Lucia di Lecce il 19/10/010.

Regista quarantacinquenne napoletano con sette film , tutti mediocri.

Qui v’è certo un personaggio, quello creato da Toni Servillo, il volto, il tipo, la mimica, l’incedere; privo tuttavia di umanità, piuttosto un burattino. V’è uno stile? quello di una generale confusione napoletana che tutto avvolge, con personaggi quasi muti, poche parole in tutto, una musica assordante.

Una storia più allusa che narrata. Il cassiere di un carcere col vizio del gioco, quindi la cresta sulla cassa, quindi i debiti (il creditore è un avvocato? un magistrato?); un tipo che va e viene piuttosto a vuoto; una specie di simpatia per la ragazza cinese del bar, con la quale s’intende a gesti, cui ricorre per curarsi le ferite di una rissa, con cui organizza una fuga, un viaggio chissà dove. Ma viene ucciso prima.

Il mutismo  impoverisce il film; che è anche povero di passione, di umanità. Si salva solo la ragazza cinese, deliziosa sempre nella sua finezza, nei suoi vestiti, nel suo volto luminoso. Spaesata tuttavia in un film grossolano e duro.

 

 

Apichatpong Weerasethakul, Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti

Dai Salesiani di Lecce il 17/10/010

Quarto film di un regista thailendese quarantenne che ha avuto a Cannes il gran premio della giuria.

Premio difficile da capire. Nel suo insieme il film è una piuttosto scombinata divagazione (vedi la lunga scena iniziale della vacca che strappa la corda e fugge nella foresta ed è poi ripresa; scena a sé stante). C’è un piccolo nucleo di storia, un uomo in stadio terminale di una malattia renale che svagato discorre con la cognata, mentre alla conversazione si aggiungono la moglie e il figlio morti; lo si ritroverà poi abbracciato alla moglie sul letto sotto la zanzariera. E che infine va a morire in fondo ad una lunga noiosissima grotta, noiosissimo e insignificante percorso. Frammezzo, e senz’alcun legame, compare una principessa portata su baldacchino e che poi si lamenta accanto ad una cascata con laghetto, e anche scambia baci con un ragazzo, poi discende nell’acqua e un pescegatto le parla e con lei si accoppia.

Ambienti estremamente poveri e disadorni, anche se si tratta di un’azienda agricola fiorente. In cui sembrano quasi fuori luogo la televisione e la luce elettrica. Totale assenza di musica ma sordi rumori di fondo. I critici chiacchierano di reincarnazione e simili; ma qui non v’è reincarnazione; non certo la moglie e il figlio; forse il pescegatto; né c’è ricordo di vite precedenti. Il problema non si pone. Stile di esasperante lentezza.

 

 

Ben Affleck, The Town

Al Massimo di Lecce il 14/10/010

Secondo film di questo attore, l’altro è Tre trade.

Un giallo, ma notevole. A Boston Charlestown, quartiere di rapinatori. Una banda di quattro ragazzi di cui Doug è il leader, che rapina banche e trasporti di valuta. Curiosi i travestimenti (da morti, da suore, da poliziotti). Ma il punto nodale è ch’egli s’innamora della direttrice della banca, presa in ostaggio e poi liberata; un amore vero. La cerca, la incontra, stabilisce un rapporto. Ha l’aria del bravo ragazzo. Pensa di lasciare tutto e andarsene con lei; ma come al solito ci sarà un ultimo colpo, con una sparatoria orrenda in cui cadono i tre compagni, mentre lui, travestito da poliziotto, si salva. E vorrebbe andare a casa da lei, ma la polizia ha scoperto tutto e la presidia. Partirà solo; le lascerà, sotterrato nel giardino, un sacco di banconote con un amaro arrivederci in questa vita o nell’altra.

Eccessiva la sparatoria finale; da notare ch’ egli aveva il proposito di non uccidere.

 

 

Pupi Avati, Una sconfinata giovinezza 

Al Massimo di Lecce il 10/10/010

Avati ritorna questa volta con un film d’intenso pathos, intenso dolore. Il titolo è altamente suggestivo, ma in realtà è una specie di “lucus a non lucendo”, perché qui la giovinezza finisce e la vita pure.

L’Alzheimer, la tremenda malattia degenerativa del tessuto cerebrale che porta alla demenza; per la quale non v’è cura; la si contrasta in  certa misura con l’attività intellettuale e con farmaci che – si dice – ne  ritardano il processo.

Ma qui è soprattutto il legame forte, di 25 anni, tra due coniugi che, senza figli, si amano intensamente; persone colte, evolute, lui giornalista sportivo al “Messaggero”, lei docente universitaria; Lino e Francesca-Chicca (Fabrizio Bentivoglio e Francesca Neri, due notevoli interpretazioni). Qui la malattia giunge improvvisa rapida, i vuoti di memoria, la difficoltà di connettere, la regressione nell’infanzia. Su cui s’inserisce, in color seppia, l’infanzia di Lino, che ha perso i genitori in un incidente d’auto, gli è rimasto il cane amatissimo, ritorna dalla nonna; i suoi giochi di allora con altri due bambini, due fratelli. La sua infanzia dolorosa. Sul dolore s’innesta il dolore.

Questo dolore atroce pervade il film; che finisce nello smarrimento totale. Vediamo Lino in treno, va a Firenze, a Bologna (la sua città, l’amatissima città di Avati); va in taxi alla ricerca dei due amici dell’infanzia, ne trova uno, l’altro è al cimitero. Scende dal taxi, entra nei campi alla ricerca dell’amatissimo cane, scompare. Lo cercheranno per tre giorni con tutti i mezzi possibili, cani, elicotteri. In questa scomparsa il dolore si fa estremo.

Musica forse eccessiva, mancano i silenzi. Un passaggio errato in cui, dopo un atto di violenza, Chicca cede al medico, affida Lino a due infermiere e se ne va dal fratello. Incoerente, inumano, anche se dura poco.

 

 

James Ivory, Quella sera dorata

All’Odeon di Lecce il 9/10/010.

Il regista statunitense dei film di lusso – chiamiamoli così – a cominciare  da Camera con vista o da  Casa Howard, torna con un film un po’ sbiadito. Il titolo italiano non dice nulla; meglio l’originale The city of your final destination, anche se non molto significativo.  Dal romanzo omonimo di Peter Cameron.

Interessante l’intrico familiare. Una ricca famiglia ebrea tedesca finita in Uruguay con l’avanzare del nazismo: dove, suicidatosi il marito scrittore, convivono la moglie Caroline con la giovane amante di lui Arden e la bambina ch’essa ha da lui avuto; mentre il di lui fratello convive con un figlio adottivo ed amante giapponese. Strano che Ivory, nel suo aplomb, abbia scelto una situazione così intricata.

La storia del giovane accademico d’origine iraniana, che vi capita per una per lui pressante biografia dello scrittore, non convince; il suo innamoramento per Arden arriva troppo tardi. E solo alla fine la complicata famiglia esce dalla sua immobilità perché il fratello, coi gioielli della moglie morta, ha comprato i terreni e sviluppato un’azienda agricola; mentre Caroline, con quel denaro, si è trasferita a New York, dove la vediamo ad un concerto.

Storia debole e sfuocata.

 

 

Christopher Nolan, Inception

Al Massimo di Lecce il 3/10/010.

Regista inglese quarantenne non privo d’intelligenza, ma che si perde nella ricerca del curioso, del singolare, dimenticando l’umano, la costruzione dei personaggi, la credibilità della storia. Inception vorrebbe dire inizio; di che? forse delle nuova tecnica dei sogni?

Qui un film osannato dai critici perché conterrebbe una straordinaria invenzione, analoga alla fantomatica lettura del pensiero. Certo il pensiero ha una base biologica e cerebrale, ma ha anche una consistenza e creatività spirituale. E però qui siamo a livello d’immaginazione, di subconscio inconscio, di sogno. Penetrare nel sogno altrui per carpirvi segreti; o più ancora per innestarvi idee che ne sovvertano l’azione. Questa l’invenzione nolaniana che entusiasma i critici; e però il regista estroso non ci dice come questo avvenga, come sia possibile; perché qui sta il busillis. Si vedono soltanto valige contenenti ignoti apparecchi, cui le persone si collegano entrando nel sonno e nel sogno, proprio e altrui.

Si tratta qui di inserire nell’erede di una multinazionale dell’energia, di un impero energetico, l’idea di dividere l’impero. Questo è l’incarico dato a Cobb (Di Caprio) da un magnate giapponese che dell’impero vuole impadronirsi. Dopodiché inizia la complessa e complicata vicenda dei sogni, dei tre livelli di sogno, che avviene mentre l’équipe dei sognatori è lanciata a velocità su di un pulmino (e perché poi?). E viene anche inseguita e sparata  da ignoti avversari, fino a che il pulmino precipita in mare (al rallentatore), dove ovviamente il sogno finisce. Ma intanto il detto sogno s’è sviluppato in modo grandioso e grandiosamente confuso; il grande molteplice sogno che dovrebbe innestare l’idea nel giovane Fischer, l’erede, e anche carpirgli la combinazione della cassaforte dove sta il testamento del padre ecc. E però, proprio in Cobb il sogno è disturbato dalla vicenda della moglie, in cui aveva tentato di sperimentare anzitutto l’dea, e che si è ribellata e si è uccisa gettandosi dall’alto dello stabile; ma aveva anche tentato di ucciderlo. Lo perseguita nel sogno il ricordo della moglie e dei figli, che interferisce nella ricerca, e anzi a un certo punto prevale. Dell’esito del grande sogno non si sa nulla. Il film, tra l’altro, è disturbato da una rumorosa musica-rumore di sottofondo, assai penosa, e che però – ha detto qualcuno – serve a tener sveglio lo spettatore.  

 

 

Ascanio Celestini, La pecora nera

Al Santa Lucia di Lecce il 2/10/010

Autore (e anche attore) di teatro che trasferisce nel cinema una sua opera omonima. Il suo primo film.

Un film condotto con garbo, che riprende la vita nei manicomi negli anni settanta, quando cioè erano vicini alla chiusura. E sembra riprendere il famoso e non irreale problema che vivendo nei manicomi si diventa matti. In realtà si tratta di un bambino la cui madre sta in manicomio, e vi muore. Ma che probabilmente presenta segni di alienazione perché lo vediamo visitato da uno psichiatra e ricoverato, anche se in forma blanda. Lo ritroviamo adulto in condizioni apparentemente normali, incaricato dalla direttrice (una suora) degli acquisti nel supermercato (ma la lista e i pagamenti sono fatti dalla suora), dove lo accompagna sempre un paziente che dà piccoli segni di squilibrio. Dove anche sviluppa una simpatia per una commessa ch’era stata già sua compagna di scuola, Marinella; e vorrebbe anche incontrarla fuori; ma lei si rifiuta. E però, a un certo punto, proprio nel supermercato, egli ha una crisi in cui, preso da delirio, afferra e inghiotte ogni genere di cibo e poi vomita tutto; e lo troviamo quindi a letto in cura psichiatrica, ormai definitivamente alienato.

Una storia triste, condotta con pietà e misura. V’è una voce recitante, insistente soprattutto nella prima parte in cui spesso si sovrappone a quella dei personaggi. Ma perché pecora nera? un'immagine che non corrisponde all'intonazione del film, né ad alcuno suo passaggio. La visione qui è leggera, semmai alquanto fiabesca.

 

                             

                                            settembre  

Rob Epstein, Jeffrey Friedman, Urlo

All’Odeon di Lecce il 27/9/010.

Due documentaristi statunitensi di valore, particolarmente attenti ai problemi dell’omosessualità, che sboccano qui nel loro primo film; il quale è però ancor sempre di tipo documentario.

Fare un film sul famoso poema di Allen Ginsberg, uno dei grandi della generazione beat. Difficile certo. Forse era più facile e più interessante fare un film su Ginsberg, in cui emergesse anche il poema.

Qui s’intrecciano tre fatti. Un’intervista a Ginsberg, o meglio all’attore che lo impersona, James Franco; intervista non particolarmente significativa. La lettura del poema fatta da Ginsberg – cioè da Franco – a San Francisco; lettura non molto significativa. Il processo per oscenità al poema stesso, dove vari testimoni si succedono, non sempre interessanti; mentre interessante è l’illuminata sentenza del giudice che lo ritiene opera di valore sociale in cui certi particolari non assumono un netto rilievo.

Questo è tutto, ed è un po’ deludente.

 

 

Carlo Mazzacurati, La Passione  

Al Massimo di Lecce, il 25/09/010.

Mazzacurati ha fatto certo film migliori; anche l’ultimo, La giusta distanza, era molto meglio.

Che senso ha questo?  che cosa vuol dirci, che cosa ci dice? Nulla o quasi.

Un regista che non fa un film da cinque anni; nulla di speciale, ci sono registi prolifici e altri meno, e magari più pensosi. Ma questo non ha proprio nessuna idea in testa; ogni tanto prende il suo notes e scrive, cose casuali, banali. Corre in Toscana, dove ha una casa i cui vecchi impianti hanno perso acqua, hanno infiltrato un antico affresco nella chiesa attigua. Ridicolo il ricatto di sindaco e assessore: o rimetterà in piedi la tradizionale Passione del Venerdì santo o sarà accusato presso le Belle arti; perché la Sovrintendenza dovrà essere coinvolta in ogni caso.

Di questa Passione poi il regista non s’interessa gran che: piuttosto un suo allievo ex-galeotto, ladro di professione, convertito alla virtù (il generoso Battiston); che però a un certo punto deve scappare perché ricercato dalla polizia, ma poi ricompare non si sa come.

La Passione viene comunque celebrata, e non è male, ricomposta per incanto; e si giunge fino alla crocefissione; ma poi scoppia un temporale e tutti scappano. Compreso il regista, sempre spaesato.

 

 

Anton Corbijn, The American

Al Santa Lucia di Lecce, il 21/9/010.

Fotografo cinquantenne olandese di notevole valore, che passa poi al clip musicale e al corto. Opera negli USA. Questo è il suo secondo film.

Centrato nella figura di un killer americano nascosto prima in Svezia (la scena iniziale, la passeggiata sulla neve con la ragazza che finisce in una sparatoria in cui, oltre ai due attentatori, anche la ragazza viene da lui uccisa, nel sospetto del tradimento. Scena truculenta, inadatta all’inizio).

Trasferito in Abruzzo, il film si svolge con uno stile sobrio, pacato, ravvivato dalla bellezza dei grandi paesaggi montani, dai paesetti aggrappati ai monti. Musica quasi assente, per lo più solo colpi o brevissimi passaggi lontani; notevole il silenzio. Contribuisce all’atmosfera del film, dominato dalla figura seria dell’uomo su cui il pericolo sempre incombe, un Gorge Clooney chiuso in se stesso, consapevole sempre del rischio, da parte degli avversari, da parte dei suoi.  Ha trovato l’amore in una prostituta che a lui si dona, ha abbastanza denaro, ha deciso di chiudere, ha promesso di amarla e sposarla. Ma non ci riuscirà: nell’ultima sparatoria è colpito al ventre, trova la forza di raggiungerla al fiume, il luogo dell’incontro, ma è ormai tardi per lui, è la fine. Difficile redimersi da una vita criminosa, difficile riconquistare la pace e gli affetti.

 

 

Aureliano Amadei, 20 sigarette  

All’Odeon di Lecce, il 15/09/010.

Primo film di un giovane regista che poi è l’unico sopravvissuto della strage di Nassirya, con 19 morti, la strage che ha annientato quella base; da un libro già da lui scritto. La sporca guerra in Iraq – ogni guerra è sporca, ogni guerra è atrocemente inumana: questo gli USA, grandi guerrafondai, dovrebbero capirlo. Avevano già fatto l’esperienza in Vietnam, sarebbe dovuta bastare – ma qui è  la guerriglia, il terrorismo, l’attacco di chiunque, insospettato. Qui l’interesse del film.

Amadei racconta la sua storia di giovane cineasta ancora inesperto, che il regista Stefano Rollo invita a  girare un film con lui  come aiutoregista in Iraq. Un film documento che raggiunge la sua forza quando improvvisa avviene l’esplosione e il ragazzo, sia pure ferito e orribilmente insanguinato, resta sotto un’autobotte che lo protegge e lo salva. In quel sangue, e nel dolore estremo che l’accompagna, nel pianto c’è l’orrore di questa guerra sporca e traditrice.

Meno interessante la parte precedente, il viaggio, l’aggirarsi nei campi militari, nel deserto. Le venti sigarette sono quelle che hanno preceduto la tragedia: un titolo insignificante, come spesso da noi. Ha avuto a Venezia il premio Controcampo.

 

 

Werner Herzog, My son, my son, what have ye done

Ai Salesiani di Lecce, il 12/09/010.

Figlio mio, figlio mio che cos’hai fatto? l’ultima parola della madre uccisa dal figlio. Da una storia vera, è detto. Il figlio di una madre possessiva e imperiosa (non v’è il padre); un rapporto sotto cui può covare la rivolta. Un figlio la cui psicosi (generata forse anch’essa dall’assenza del padre) trapassa in ossessione religiosa (ho visto Dio, San Diego la città di Dio, Dio lo vuole). Ma il punto chiave è il suo ruolo nella compagnia teatrale che prepara la trilogia eschilea dell’Agamennone, il ruolo di Oreste il figlio che vendica il padre uccidendo la madre; che deve compiere il gesto tremendo, deve spezzare col sangue una catena di sangue. Dalla compagnia viene poi escluso per certi suoi comportamenti ossessivi; ma egli ha ormai assunto in sé il personaggio; ha anche recuperato da uno zio una vecchia sciabola. Così un mattino egli compie il gesto; lo fa in casa di vicini, dove c’è la madre, dove ha bevuto un caffè. Il gesto insano.

Questa storia è recuperata a bocconi, a brani di racconto (e di flash back) su di una camionetta della polizia dove sono saliti il capocomico e la fidanzata; mentre è in corso un assedio alla casa in cui egli sta chiuso con dei pretesi ostaggi. Il film scorre tutto in questa cornice d’assedio e di attesa della resa. Che infine avviene.

È ancora una volta l’esasperarsi del rapporto madre figlio, specie quando sono loro due soli, e nasce e cresce la possessività da un lato, dall’altro la rivolta, tanto più forte quanto meno palese.

La cornice poliziesca aggiunge tensione, acutizza il dolore. Eccessive le musiche.   

 

 

Saverio Costanzo, La solitudine dei numeri primi 

Al Massimo di Lecce, l’11/9/010 (2009).

Al suo terzo film (Private del 2004, In memoria di me del 2007), il figlio di Maurizio maestro del Talkshow, realizza un’opera notevole. Che, certo, ha dietro a sé l’omonimo romanzo di Paolo Giordano, il quale ne è pure cosceneggiatore.

Ma il film è molto diverso. Certo si tratta sempre di due solitudini, e dell’attrazione che proprio tra essi interviene. Alice (Alba Rohrwacher), la ragazza che zoppica (ha avuto un incidente di sci da bambina), ragazza bruttina, disprezzata e derisa dalle compagne, perseguitata, costretta a spogliarsi davanti a loro. Mattia, il ragazzo dagli occhi d’ombra, che porta in sé la tragedia della sorellina scomparsa: l’ha lasciata seduta nel parco dicendole che l’avrebbe ripresa tra mezz’ora, ma se ne va alla festa e ne esce di notte  sotto una pioggia fittissima, e la cerca invano nella pioggia e nessuno la troverà più. Porta in sé la sorellina morta. Adolescente solitario. Solitudini che s’attraggono, durante il  ballo scolastico Alice lo invita e vanno sopra e si baciano, sia pur timidamente; isolati dagli altri si ritrovano tra loro. Poi Mattia va in Germania per gli studi e la professione; ma dopo sette anni Alba gli scrive e lui ritorna, e ancora si ritrovano. E qui chiude il film.

Che il regista ha reso complesso scombinando i tempi. Compaiono sì delle date, ma in un mosaico di flash back, che magari ritornano con insistenza (come la bambina sperduta nella montagna e nella nebbia, il suo dramma il suo grido), e comunque s’intrecciano fuori dal tempo; a spiegare via via quella condizione, la ragazza zoppa, il ragazzo dagli occhi cerchiati d’ombra, esiliati, emarginati ognuno dal suo dramma. Questo mosaico è tuttavia suggestivo, o anche forte, e compone come un affresco. Doloroso certo, mai veramente redento.

 

 

Julian Schnabel, Miral       

Al Santa Lucia di Lecce, il 9/9/010 (2009).

Conosciamo questo artista – pittore, musicista, cineasta, altro – che ha iniziato con Basquiat, storia di un pittore inusuale, ha fatto Lo scafandro e la farfalla, altro film notevole.

Di origini ebraiche e con una compagna palestinese cresciuta in Italia, Ruta Jebreal, il cui libro tutto vero sta alla base del film, ci dà un’opera sulla sofferenza di quel popolo; un film dolente e insieme aperto alla speranza. I critici per lo più l’hanno maltrattato, ma il film prende l’anima. Dolore, sdegno, pietà, e insieme fiducia.

Lo percorre la vicenda di Hind Husseini, la donna che nel ’47 incontra su di una strada di Gerusalemme una cinquantina di bimbi soli, i cui genitori sono stati uccisi da Israele, e li porta con sé; e avvia una scuola in cui  accoglierà migliaia di bambini e ragazzi, ferma nella fede che la scuola salverà quei piccoli come il suo popolo. Lo percorre fino alla morte, e al funerale tra canti e palme. Una donna vittoriosa.

Con la quale s’intrecciano le storia di altre donne. Fatima, l’attentatrice che deposita la borsa con l’esplosivo in un cinema, esplosivo che non salta e che tuttavia la fa condannare a due ergastoli; più un terzo per non essersi alzata in piedi durante la sentenza. Curiosa decisione di un giudice a dir poco arrogante. Nadia, in carcere per aver percosso una donna ebrea che l’ha offesa, vittima poi dell’alcol e della vita disordinata. E infine Miral, sua figlia, la ragazza ardente come il rosso fiore di cui porta il nome, pronta a battersi per il suo popolo; e che l’amore per uno dei giovani leader del movimento, un moderato, porta alla moderazione, e quindi agli studi, al giornalismo. Lotterà così per il suo popolo.

Queste vicende scorrono sulla storia dei due popoli, del conflitto, dell’oppressione israeliana (tipico l’episodio della grossa benna che abbatte una casa, di fronte alla gente inerme, impotente, dolente). I cui momenti compaiono in termini molto sobri fino ai colloqui di Oslo, alla prospettiva del riconoscimento dei due popoli due stati; prospettiva sempre ancora inattuata. Non v’è tregua al dolore come all’oppressione.

 

 

Andrea Arnold, Fish Tank      

Ai Salesiani di Lecce, il 5/9/010 (2009).

Cineasta inglese cinquantenne di formazione americana, attrice, che poi passa al corto (Wasp, premio Oscar 2003), poi al lungometraggio con Red Road, 2006, premio della giuria a Cannes. Ma anche questo bissa il premio.

Appartiene, specie in quest’opera, al filone del film proletario inglese. Siamo nella periferia di una cittadina. La storia di una ragazza disadattata, fortemente aggressiva, espulsa dalla scuola, ricercata dall’assistenza sociale per una rieducazione. Ha una rabbia dentro, che le segna anche il viso, oltre che la parola e il comportamento; che poi la isola, la rende asociale. Alla cui base v’è probabilmente l’assenza dello spazio  affettivo di base: le manca il padre, ha una madre per nulla materna, che si diverte con le amiche e con l’amante, e di lei non si cura. E lei vaga di qua di là nella desolazione della periferia, beve (ma qui tutti bevono disperatamente), rubacchia, s’illude di poter entrare in certa danza hip hop con alcune poche primordiali movenze.

Il dramma inizia quando una sera l’amante della madre ha con lei un rapporto; ma subito dice ho sbagliato, era ubriaco. E lascia anche la madre, fugge di fronte al pericolo, non si fa trovare né in ditta né in casa. Lei lo cerca, forse vogliosa, gelosa quando scopre che è sposato e ha una piccola figlia che vive non lontana da lui; e incontratala la trascina con sé nei campi e nel bosco (qui la fase più drammatica), sembra la voglia uccidere; ma poi forse non osa, la lascia andare; e il padre, sopraggiunto (quello stesso con cui aveva avuto il rapporto) la schiaffeggia.

Allora decide di partire, andrà nel Galles; trova la madre che sta stolidamente danzando e danza con lei. Tanto alla madre non importa nulla; e neppure si salutano.

Storia in cui non è assente la ripetitività e la noia; quella stessa di Mia, la ragazza. E che non ha una soluzione, una catarsi. Forse si pensa che la desolazione di quelle periferie non possa essere redenta.

 

 

Sofia Coppola, Somewhere     

Al Massimo di Lecce, il 4/9/010.

Film deludente, contro il parere di certa critica. Del resto Sofia Coppola, figlia del grande Francis, non ci ha ancora dato un film di valore, non è mai uscita dall’approssimazione. Questo ha avuto a Venezia il Leone d'oro, per merito di Tarantino, presidente di giuria.

Titolo evasivo, “in qualche luogo”. Dove un attore sfaccendato, che ha finito un film, forse è in attesa di un altro, è caduto per le scale, si è forse fratturato un braccio, e giace a letto per una parte del film. Un attore hollywodiano famoso, ma non un grande attore, forse un sex symbol, o un libertino – annoiato però –, con un troppo facile accorrere a lui di donne, dalla porta di fronte, dai corridoi, dai piani sotto (a parte le specialiste di lap dance ch’egli si fa venire in camera mentre giace sul letto, il suo nobile passatempo). Ci si attenderebbe dalla Coppola un po’ più di rispetto per il suo sesso.

Un tipo che non ha nulla dentro: non cultura, non umanità, non passione. Vive nelle suite di grandi alberghi, viaggia in Ferrari (uno spasso poco divertente, coi rigidi limiti di velocità delle strade USA), partecipa annoiato a presentazioni e conferenze stampa dove a stento spiccica una parola. La Coppola gli ha tolto ogni spessore. Troppo.

Il fatto nuovo potrebb’essere la figlia undicenne Clio, che la mpglie separata gli affida per un certo tempo. Figura deliziosa, anche a prescindere dal suo delizioso pattinaggio artistico. Seria, saggia, silenziosa, discreta. Tipo fine, intelligente. Ragazza di talento la cui figura è costruita con grande stile. È il lato positivo del film.  Il suo ritorno alla madre provoca nel padre un momento di umanità, piange. Poi parte con la sua Ferrari, forse in direzione di Las Vegas; a un certo momento si ferma, scende e passeggia a piedi, forse per la prima volta pensa, medita. Ma qui il film chiude improvviso.

 

 

                            luglio

Sönke Wortmann, La Papessa    

Al Massimo di Lecce, il 4/07/010 (2009).

Regista cinquantenne tedesco con tre film, già attore televisivo.

Il film è molto meglio di come lo ha descritto la critica. Anzitutto perché è una ricostruzione attenta della presunta vita di Giovanna fino dall’infanzia in un villaggio tedesco (ma proveniva da famiglia inglese), figlia di un parroco persona dura (siamo nell’VIII secolo), perseguitata – già dal padre – dal pregiudizio che le donne non devono imparare a leggere e scrivere per un’incapacità mentale e cerebrale. Riesce tuttavia ad entrare nella scuola cattedrale, accolta dal vescovo e, per l’alloggio, da un nobile, col quale avrà in seguito un primo casuale scambio di baci. Quando poi il conte parte per la guerra, la sua decisione di vestirsi da maschio, e quindi il suo ingresso nell’abbazia di Fulda col nome di Johannes Anglicus, che conserverà sempre. Poi il passaggio a Roma, dove emerge per la sua intelligenza e dottrina, in particolare per le sue conoscenze mediche e curative; quindi la cura del Papa Sergio che la introduce nella Curia.

L’altro punto notevole è il personaggio di Giovanna, la sua dottrina in un ambiente di aristocratici rudi guerrieri (il papato era dominato allora dalle famiglie dell’aristocrazia romana), ma soprattutto la sua semplicità e schiettezza, la sua bontà, che ne fanno un personaggio inusuale in quell’ambiente. E da qui proviene la sua elezione popolare al papato (l’elezione non era ancora ristretta ai cardinali).

L’episodio del parto (aveva avuto un rapporto amoroso col conte, nominato capo della guardia), durante una cerimonia, è trattato con grande finezza: il malore, lo svenimento, la caduta dalla sedia gestatoria, il suo trascinarsi in una scia di sangue. Su cui la fine.

Il film riprende dunque la famosa leggenda  (attraverso il romanzo di Donna Woolfolk). È tutto piuttosto rude, talora anche un po’ sommario, ma rudi erano anche i tempi. La grossolanità di certi ambienti papali, del papa stesso, non meraviglia; anche se, contrapposta alla figura di Giovanna, assume un tono polemico in quanto Giovanna li sovrasta tutti e mostra ciò che avrebbero dovuto essere.

                              

 

                                     giugno       

Raymond De Felitta, City Island   

Ai Salesiani di Lecce, il 27/06/010 (2009).

Regista americano quarantenne, sceneggiatore e commediografo, particolarmente interessato ai problemi della famiglia americana. City Island è un quartiere del Bronx, già villaggio di pescatori; sul mare, con una sua bellezza.

Qui una famiglia molto conflittuale, molto aggressivi i singoli membri nei loro rapporti, nel linguaggio.. Troppo, diremmo. Con una figlia e un figlio trasgressivi e anche prepotenti. Il figlio ha un debole per le donne obese di cui non si conosce la ragione. La figlia fa temporaneamente la spogliarellista per guadagnare i soldi per il college di cui ha perso per sua colpa la borsa di studio. Cose che i genitori non sanno.

Il padre (Andy Garcia) è forse il più equilibrato;  agente di custodia, riconosce in carcere il figlio avuto da una vecchia relazione, e che aveva rifiutato; e però lo accoglie in casa in libertà vigilata; c’è in lui una volontà di riparare. Ma coltiva anche una vecchia aspirazione frequentando un corso serale di recitazione che occulta alla famiglia come serata di poker; temendone l’irrisione.

Matura così lo scontro finale, in cui tutto si rivela; v’è un’ irrompere della verità di tutti, che porta alla riconciliazione e forse alla futura armonia. Poiché a questo punto, su di una tavolata, il film chiude.

Musiche eccessive e persistenti, disturbano.  

 

 

Michael Hoffman, The last Station  

Ai Salesiani di Lecce, il 13/06/010 (2009).

Regista americano cinquantenne copioso ed eclettico. L’ultima stazione è quella di Astapovo, dove Tosltoj, durante la sua fuga, muore.  Alla base del film il romanzo omonimo di Jay Parini.

Ricostruzione degli ultimi anni di vita di Tolstoj, caratterizzati dalla profonda conversione ai principi evangelici dell’amore fraterno e della nonviolenza (ma di questo il film non tratta), dall’impegno sociale, dalla volontà di donare i suoi beni al popolo; dal formarsi del movimento e delle comunità tolstoiane (qui Vladimir Chertkov, il leader del movimento e sostenitore della donazione; figura non sempre chiara, interpretata da Paul Giamatti). Quindi il conflitto con la moglie Sofia, cui pure è legato da profondo amore, la quale non vuole ch’egli sottragga i beni alla famiglia (la forte interpretazione di Helen Mirren, mentre Tolstoj non è ben costruito, né prende un risalto adeguato). Lotta aspra, che giunge fino al tentativo di suicidio di lei, che si getta nel lago. Qui però nella lotta non intervengono i figli.

Quindi la fuga di Tolstoj, col suo medico, verso il Sud; bloccato alla stazione di Astapovo da una polmonite, che lo porta a morte. Siamo nel 1910. Una folla accorre, i suoi amici e seguaci anzitutto (la moglie è ammessa quando è già morente); oltre ai giornalisti che sempre lo seguono.

La storia parte dal giovane Valentin Bulgakov che si reca da lui come suo assistente; giovane introverso, impacciato sempre; anche nella storia d’amore in cui è coinvolto da Masha.

Film narrativo, dominato dalla figura della contessa Sofya, mentre quella di Tolstoj non è abbastanza caratterizzata; scarso di pathos.

 

 

Jane Campion, Bright Star  

Al Massimo di Lecce, il 12/06/010 (2009).

Regista neozelandese di grande talento, nota soprattutto per Lezioni di piano del 1993, palma d’oro a Cannes e Oscar. Bright star, stella luminosa, è  l'inizio di un sonetto di Keats, il poeta romantico inglese di cui il film ricostruisce i drammatici ultimi anni. E allude forse a Fanny, la donna amata.  Keats muore a 25 anni nel 1821, consumato dalla tisi. Muore a Roma, dove il medico gli aveva consigliato di passare l’inverno.

Opera di grande bellezza e di grande intensità, anche per la presenza della straordinaria parola di Keats, delle sue poesie e delle sue  lettere, parola poetica, alta, ispirata, sempre personalissima.

Notevole la figura di Keats (Ben Whishaw), la povertà, la sofferenza, l’amore romantico, il senso della morte. Come la figura di Fanny (Abby Comish), la ragazza forte, di carattere, dalla battuta pronta; nasce in lei prima l’amore per la poesia, poi l’amore per John, un amore intenso e delicato, amore sofferente, amore tragico.

Forse talora un eccesso coreografico, di prati fioriti ad es. Belle le musiche

 

 

Elia Suleiman, Il tempo che ci rimane  

Al Santa Lucia di Lecce, il 9/06/010 (2009).

Regista palestinese cinquantenne al suo terzo lungometraggio (Cronaca di una sparizione del 2002 ottiene il premio opera prima a Venezia; Intervento divino del 2002 il premio della giuria a Cannes). La situazione palestinese è il suo tema e problema.

Opera singolare, in uno stile molto personale, quasi naif, un modo un po’ surreale di trattare i personaggi, un ricorrere di temi e scene.

Il tempo che ci rimane, quale tempo? e che cosa ci rimane, a noi palestinesi? Opera soavemente dolorosa, che insensibilmente va verso il nulla, poiché nulla rimane.

Storia di una nazione, di un paese, Nazareth (che  è poi la sua patria), di una famiglia. All’inizio la lotta, anche aspra; l’arroganza israeliana sempre, la resistenza. Il padre è un fabbricante d’armi; è preso, portato in un uliveto dove i prigionieri stanno inginocchiati, legati, bendati; viene picchiato duramente, gettato oltre un muro. Lo ritroviamo a casa, ormai senza più forza. Lui, piccolo, è rimproverato dal direttore perché ha detto che l’America è imperialista; cresce nella famiglia, sempre un po’ spaesato, parte; poi ritorna, il padre è morto, la madre malata. Sul terrazzo guarda, tutto è normale, ci sono persino i fuochi d’artificio di capodanno. Lui ormai è grande, un ciuffo di capelli grigi, ma sempre più spaesato, immobile, guarda con occhi sbarrati. La madre ormai è all’ospedale, si toglie l’ossigeno, vuole morire. Con un salto d’asta riesce a saltare il muro famoso che gli israeliani hanno eretto, ma non si sa dove vada; o forse è solo un sogno. Saltare il muro, realizzare l’impossibile. Ma nulla accade, lo si vede con due amici seduto fuori di un locale; lo si rivede. Nulla accade, nulla può accadere.

 

 

Juán José Campanella, Il segreto dei suoi occhi

Al Santa Lucia di Lecce, l’8/06/010 (2009).

Regista argentino cinquantenne, ha lavorato molto anche in televisione.

Il titolo si riferisce forse agli occhi dell’assassino, colui che uccide con ferocia Liliana, la giovane donna bellissima; e che gli inquisitori riconoscono proprio dalle foto di gruppo dove il suo sguardo è rivolto verso la fanciulla, ch’egli conosceva fin da bambina. Ha vinto l’Oscar 2010 per il film straniero.

Opera notevole, grande schermo. Si svolge su due piani temporali, quello del delitto e quello del romanzo che l’inquisitore ne vuol trarre e ne trae una volta pensionato; e di ciò che in questa fase avviene. Siamo a Buenos Aires nella fase predittatura militare.

Intorno al delitto c’è una strana vicenda. C’è come un trio: l’inquisitore Benjamin Espósito, la cancelliera Irene sua diretta superiora e ch’egli ama, il procuratore. Esposito è l’inquisitore intelligente  e tenace, coadiuvato dal collega Sandoval (figura macchiettistica e improbabile di bevitore sempre sbronzo). Egli ha l’intuizione dello sguardo dalle foto, che individua il personaggio; quindi la perquisizione in casa della madre e le lettere da cui Sandoval con un avvocato esperto di calcio scopre la sua fanatica passione calcistica; e nello stadio infatti è trovato e preso, imprigionato, condannato.

La cancelliera è scettica, anche se v’è un feeling con Esposito.

Il procuratore prima chiude il caso, per bloccarlo; poi libera il condannato Gomez, facendone un informatore; personaggio criminale dell'empia fase di dittatura militare, che si vendica, ma per errore i suoi killer uccidono Sandovan anziché Esposito. Comportamenti da magistratura superficiale e corrotta, da Terzo Mondo. Ambiente in cui avvengono anche risse, e in cui si usa spesso un linguaggio triviale.

La soluzione si ha infine sul secondo piano, quello del romanzo, quando sono passati 25 anni. Esposito cerca Morales, il marito di Liliana, la cui vita si è spezzata, si è ritirato in campagna; da lui apprende che ha ucciso Gomez, l’assassino, che a lungo aveva ricercato. Il rapporto con Irene, che già aveva avuto un momento alto (quando lei alla stazione cerca di baciarlo ma lui non osa; lei insegue il treno ma è troppo tardi). Ora va da lei deciso; lei dice «sarà difficile», lui risponde «lo so». Su di un vecchio notes dove stava scritta la parola temo, aveva inserito una a, teamo. Così il delitto ha avuto la sua nemesi; così una vicenda di conflitti e d’incomprensione si è risolta in inaspettata dolcezza.

 

 

Michelangelo Frammmartino, Le quattro volte

Al Santa Lucia di Lecce il 2/06/010.

Regista quarantenne attivo nel videoclip e nella videoinstallazione, nel documentario, sul grande schermo nel 2003 con Il dono. Calabrese, anche se è nato e vive a Milano.

Le «quattro volte» sarebbero le quattro forme in cui consiste l’uomo come il cosmo, di cui l’uomo è parte, l’umano razionale, l’animale, il vegetale, il  minerale. Un essere quattro volte.

Documentario di grande rigore, di pura realtà, di estrema semplicità. Distaccato, scevro di sentimento e di passione, come di parola; solo i suoni della natura o del lavoro. Arido in tal senso, e anche ripetitivo.

Un paesino arroccato sui monti di Calabria, di cui vediamo specialmente un trivio in salita. Un vecchio pastore bronchitico che si cura con la pozione d’acqua e argilla benedetta che gli fornisce una donna, una pozione religioso-magica; e che la morte sorprende presto. Il suo gregge di capre, col loro caratteristico belato, i loro musi espressivi, che vediamo uscire dal recinto, salire rapide, oppure sparse sul pianoro tra i monti. Il piccolo di capra ch’esce dall’utero materno e cade, e subito si scuote e bela insistente; e lo vediamo crescere e anche smarrirsi nel bosco e correre poi alla ricerca del gregge, e infine, scesa la notte, dormire sotto un albero. Il grande altissimo albero che viene tagliato alla base e preparato perché servirà alla festa; alto dritto. E viene poi fatto a pezzi e finirà nella carbonaia, il cui rito già si presenta all’inizio e domina poi la fine.

Apprezzato a Cannes, dove ottiene l’Europa Cinemas Label nella Quinzaine des réalisateurs.

 

 

                             maggio        

John Hillcoat, The Road

Al Santa Lucia di Lecce il 30/05/010 (2009).

Sceneggiatore e regista cinquantenne australiano al suo quarto film; prima attivo nei videoclip. Buono già il suo terzo, La proposta, del 2005.

Ha alla base il romanzo di Cormac McCarthy con lo stesso titolo. Si è mantenuto il titolo inglese probabilmente perché c’era La strada di Fellini.

Film apocalittico in quanto si svolge nella fase, scientificamente nota, del declino dell’energia solare, che spegne la vita sulla terra; l’atmosfera d’ombra, nubi e nebbie; la mancanza del cibo, la morte dell’umanità, l’abbandono delle città, delle abitazioni, di ogni cosa. Rari uomini in cammino in cerca di cibo, bande violente, cannibalismo.

Una visione tuttavia irreale perché il lento declino dell’energia solare farà sì che l’umanità prepari nuove forme di esistenza e di vita, molto lontane dall’abbandono e dalla desolazione del film.

Che però è dominato dal cammino di un padre e di suo figlio (alcuni flash back sulla vita di prima con la madre, che però poi li abbandona), sempre in cerca di cibo e in fuga dai malvagi. I «buoni», dice il bambino. O più ancora dall’intenso affetto che lega padre e figlio, compagni di fuga e di vita; e dalla figura morale del figlio, dalla sua spontanea bontà, che anche corregge certi eccessi del padre e alla bontà lo richiama. Il padre muore, di stenti, di malattia; il figlio trova una vera famiglia, accolto con dolcezza da una nuova madre.

 

 

Daniele Luchetti, La nostra vita

Al Santa Lucia di Lecce, il 29/05/010.

Luchetti è un regista serio che accosta storie e problemi seri. Così ne Il portaborse del ’91, i politici di professione, ne La scuola del ’95; così nell’ultimo, Mio fratello è figlio unico del 2007.

Qui è una vicenda di vita, e insieme di famiglia. È la «nostra vita» nel senso che ogni vita è intessuta di amore e di dolore, talora forte, tragico; ed è spesso una lotta dura in cui magari in certo modo si vince, nella professione ad esempio, nel lavoro. Magari una vittoria che resta tuttavia ambigua.

Qui una giovane coppia con due figli di tre quattr’anni, che si ama profondamente. L’amore intenso è il tema della prima parte, anche se breve. Poi la tragedia, la morte della donna nel parto di un terzo figlio; e quindi la piaga che s’apre nell’uomo, il cui viso sarà sempre teso; e talora si esprimerà in alte grida. Ma non va mai al cimitero, mai a trovarla – diciamo –, trovarne la spoglia e il ricordo, perché gli farebbe troppo dolore (il ragazzo che ha perso il padre glielo rimprovera).

È un tipo dal corpo nervoso, dal volto sempre teso (Elio Germano). È un muratore, ma diventa imprenditore nella costruzione di una palazzina plurifamiliare attraverso un prestito. Siamo nella periferia romana, nelle costruzioni abusive, nel lavoro in nero. V’è tutta questa dolorosa problematica, che però non si problematizza. Altri problemi quand’era semplice muratore: un guardiano è precipitato nella tromba dell’ascensore ed è morto; e lui l’ha seppellito lui stesso di notte in un terreno non lontano; e ad un certo punto lo racconta al figlio che lo cercava. Ma anche qui nessun problema.

Il film è dominato dalla tensione realizzatrice dell’uomo, in cui ha forse convogliato il suo dolore per sopraffarlo o dimenticarlo. Un film medio, diremmo,

dove le passioni non raggiungono un’adeguata forza espressiva, e dove i problemi restano sottaciuti.

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Alejandro Amenábar, Agorà

Al Santa Lucia di Lecce, il 15/05/010.

Il film è del 2009. Regista spagnolo, noto in particolare per Mare dentro del 2004, che ha vinto a Venezia il gran premio della giuria e l’Oscar per il film straniero.

La storia d’Ipazia, alessandrina del sec. IV d.C., filosofa, matematica ed astronoma molto apprezzata, la cui figura è qui ricostruita con grande dignità (Rachel Weisz è l’attrice); legata d’amicizia col prefetto Oreste; accusata di stregoneria e quindi lapidata nel 416. E insieme è la storia della comunità cristiana alessandrina, dominata dal famoso vescovo Cirillo. Fonte storica è in particolare Socrate Scolastico, autore di una Storia ecclesiastica. Di Ipazia parla anche Damascio. È il periodo che segue ai decreti teodosiani del 391 e 392 che proibivano il culto pagano, e che portano alla distruzione di templi e ad altre violenze.

Il film è condotto con mano sicura. Molto curata la ricostruzione della città, forse anche eccessiva, che rivela  l’artificio; notevoli i movimenti di folla.

Il film riprende alcuni dei comportamenti viziosi che caratterizzeranno poi la chiesa fino a tempi recenti. L’intolleranza che porta alla violenza, in profondo contrasto col dettato evangelico. Qui la persecuzione degli ebrei, che continuerà poi sempre. La confraternita del parabolani, originariamente al servizio degli appestati e dei poveri, che diventa una specie di corpo di pretoriani del vescovo; anche armati, fanno strage di pagani. L’accusa di stregoneria cui segue la morte. Tutti comportamenti che contrastano col dettato evangelico dell’amore fraterno, l’amore anche del nemico; e con la libertà di coscienza. Cui fa da contrappunto la figura d’Ippazia, il suo puro amore per il sapere e la ricerca, la sua serenità e serena fiducia, il suo sacrificio. Figura nobilissima.

 

 

Alain Resnais, Gli amori folli

All’Odeon di Lecce, il 9/05/010.

Deludente quest’opera del grande maestro di L’année dernière à Marienbad e di Hiroshima mon amour. Uno dei maestri della Nouvelle vague, anche se da essa si è distanziato.

Amori folli? quali mai? Qui non c’è nessuna follia e nessun amore. E la storia ristagna, e a stento si può dire ci sia una storia. C’è una voce recitante che non manca talora di finezza, almeno all’inizio. C’è un musica eccessiva che copre le voci.

Ma veniamo alla storia. Siamo a Ceaux, cittadina di Normandia. A una donna (che sapremo poi è una dentista, Marguerite Muir, ed è Sabine Azéma, e lavora accanto ad un’altra dentista, Josepha, che è Emmanuelle Devos), a questa donna rubano la borsetta, e un uomo ne trova poi il portafogli nel garage del centro acquisti. Un uomo sulla sessantina, Gorge Palet, un pensionato, un tipo piuttosto strano, piuttosto burbero, alza alte grida, vuole e non vuole. Ha una moglie più giovane, così come ha figli e nipoti.

La cerca al telefono, pensa certo che sarebbe l’occasione per conoscerla, conoscere una donna forse simpatica e piacevole. Ma è incerto, deposita il portafogli alla polizia; la quale trova poi la donna, che però gli telefona per ringraziarlo. Segue una vicenda piuttosto confusa di desideri d’incontro e non incontro, un cercarsi uno sfuggirsi, in cui nulla accade. Infine Marguerite, che è pilota, invita la coppia ad un volo sul suo aereo che ha doppi comandi, e invita Gorge a cimentarvisi. Seguono manovre acrobatiche, non si sa se volute o meno, e infine l’aereo precipita. Ma non se ne vede nulla. V’è solo un passaggio rapido del cimitero.

Tutto qui.

 

 

Tom Vaughan, Misure straordinarie 

Al Santa Lucia di Lecce il 2/05/010

Terzo film di un regista inglese quarantenne. Extraordinary measures, titolo banale per una storia vera.

Storia di forte impatto emotivo e drammatico perché in gioco è la vita di due fratellini che il morbo di Pompe (l’assenza di un enzima fa accumulare zucchero nei muscoli, compresi cuore e polmoni) immobilizza in carrozzina, e sui quali incombe la morte, che d’ordinario avviene verso i nove anni. E qui la bambina ne ha già otto (bambina vivace e simpatica) e il bambino sette. E perché si gioca una difficile partita tra un padre amorosissimo e superattivo, uno scienziato duro, permaloso, difficile, e una delle famose case farmaceutiche USA dove il profitto impera mentre la vita dei bambini non conta nulla.

Molto bene lo scienziato scorbutico, un po' monocorde, impersonato da Harrison Ford; e il padre, il vero perno della vicenda come del film, da Brendan Fraser; ma anche i farmaceutici del business infame con la loro orrida durezza.

Il film è come una corsa o un’avventura, tra raccolta di fondi per la ricerca, imprevedibili comportamenti del Prof. Stonehill, affettuosa e ansiosa lotta del padre, incertezze della ricerca nel suo pur veloce avanzare. C’è un amore profondo dei genitori per questi bambini sofferenti, un amore intenso e pronto a tutto.

Fortunatamente il lieto fine non manca.

 

 

Silvio Soldini, Cosa voglio di più

Al Massimo di Lecce il 1°/05/010.

Brutto titolo scarso di senso, di quelli che amano i nostri registi italiani d’oggi.

Per la storia di un amore sbagliato che, se provoca momenti di piacere e un’ardente tensione interiore, provoca amarezze e dolori ancora più forti, e il doppio morso della trasgressione, oltre che della menzogna, ed è destinata  a finire in un risentimento rabbioso.

L’amore di una donna sposata (o forse è una coppia di fatto?) col programma di un figlio, per un uomo che ha moglie e due figli piccoli, che quindi ha un impegno amoroso e affettivo forte: un impegno etico e giuridico. E non ha neppure tempo per queste avventure (una volta la settimana, il mercoledì, quando  va in piscina).

L’innamoramento della giovane donna per quest’uomo, appena intravisto, un po’ stupisce; l’attrice, Alba Rohrwacher, è mediocremente espressiva, piuttosto monocorde. L’uomo è ruvido, quale può essere Pierfrancesco Favino con una barba rugosa; ma anche per la sua espressività, come per la sua gestualità piuttosto elementare.

La vicenda si trascina, l’impegno familiare di lui è molto forte; ci sono in lei momenti di rabbia. C’è la moglie di lui che ha capito tutto e lo affronta decisa, gli chiede il nome. Allora lui decide il dono estremo di un viaggio in Tunisia, una settimana; dopo la quale ognuno va per la sua strada.

Film che non convince appieno, per il modo in cui è costruito, per i personaggi. Delizioso però il ciccione bonario, Giuseppe Battiston, bonario e inconsapevole.

 

                                              

                                               aprile

Nina Di Majo, Matrimoni e altri disastri

Al Massimo di Lecce il 29/04/010

Terzo film di una regista napoletana, dopo L’autunno del 1998 e Inverno del 2002, opere di un certo rilievo.

Qui  siamo in una commedia italiana un po’ anomala, centrata nella figura di Nanà, donna quarantenne sola, dopo che il marito ha seguito una sua vocazione sacerdotale, che ha prevalso. Centrata in una figura di donna sensibile e intensa, quale la può rendere Margherita Buy; in una storia peraltro dispersiva e di scarsa consistenza: deve provvedere alla lista di nozze della sorella minore che sta per sposarsi ma che un impegno di lavoro allontana per un mese; mentre porta innanzi la libreria dove lavora insieme ad un’amica. E però nella ricerca della lista insieme col futuro cognato, questi ne sente l’intensità e la forza, che sfocia in un intenso baciarsi, casto d’altronde C’è un altro uomo che prova per lei un feeling e la cerca, uno scrittore; ma che lei non asseconda. C’è un passaggio traumatico quando viene a sapere che la sorella è solo sorellastra, la madre attrice l’ha avuta da un collega attore; mentre il padre, universitario, dichiara che non ha mai inteso il suo rapporto come esclusivo. Passaggio che la chiude in casa col suo gatto amatissimo.

Sono alcune linee prevalenti di un disegno poco coerente ma che la figura di Nanà riempie della sua personalità di donna saporosa e saggia. Sì che non emerge con chiarezza se la  solitudine la rattristi, se sia in attesa di un altro incontro definitivo; oppure basti a se stessa.

 

 

Andy Tennant, Il cacciatore di ex

Al Santa Lucia di Lecce il 27/04/010

Tennant, regista modesto per famiglie, salvo qualche eccezione. Qui il titolo italiano illude; in realtà si tratta di un ex-poliziotto cacciatore di taglie (cioè di cauzioni non pagate) che s’imbatte nella sua ex (e però sua moglie solo per nove mesi, Jennifer Aniston), giornalista in libertà provvisoria che, presa da una ricerca, manca un’udienza.  Ne segue un inseguimento che diventa poi doppia fuga  sotto la minaccia di una gang.

Film d’azione ben condotto, ma non altro. Anche il bacio finale, preparato dai pericoli scampati insieme, non significa molto.

 

 

Yojiro Takita, Departures 

Dai Salesiani di Lecce il 18/04/010.

Regista giapponese cinquantenne con una decina di film all’attivo, ma poco noto da noi. Titolo originale  Okuribito, colui che accompagna, cioè all’ultimo viaggio, quello del cadavere, ridonandogli pulizia e bellezza; attutendo così il dolore delle persone amate che lo ritrovano come vivo, e pronto al viaggio.

Film singolarissimo condotto con grande coerenza e con grande stile.

Singolarissimo nel tema, del ragazzo violoncellista rimasto senza lavoro per lo scioglimento dell’orchestra, che trova sul giornale questo annunzio di accompagnatore che pensa sia di un’agenzia turistica; ed è coinvolto dal proprietario dell’agenzia – uomo saggio, pacato – anche con un solido acconto. Perché sa che questo lavoro è disprezzato e gli è difficile trovare un assistente; e infatti anche la giovane moglie lo lascerà quando saprà; e ritornerà solo perché incinta, sempre chiedendo ch’egli lasci.

Il film è molto rituale perché tale è il costume giapponese: gl’inchini, le mani giunte, i parenti che accosciati assistono all’operazione; ma è anche molto pulito e stilisticamente coerente. E vi matura la comprensione di questo lavoro come pietà verso quel corpo, quella preziosa spoglia del defunto, quel corpo amato, adorato, ch’essi ritrovano nella sua dignità e bellezza, riconoscenti all’operatore che ha saputo ridonarlo loro così mirabilmente vivo. E anche la moglie che infine assiste, capisce. E tanto più quando interviene la morte del  padre che lo ha abbandonato trent’anni prima per andare con un’altra donna, e ch’egli odia; ma nel trattare il suo corpo riscopre quell’amore profondo che mai in lui s’era spento.

La pietas erga defunctos, la preparazione del corpo al distacco dignitoso e al grande viaggio, dove la morte è solo un cancello, al di là del quale la vita continua. Prepararlo a quel passaggio

Nella parte finale il violoncello ritorna a mescolarsi alla narrazione, di lui che suona a cielo aperto, poi che la primavera è tornata. E il volo delle anatre selvatiche, il loro grande volo interviene come simbolo. E così conclude. Ma nei titoli di coda il figlio continua la preparazione del corpo del padre.

 

 

Roman Polanski, The Ghost Writer

Al Santa Lucia di Lecce il 14/04/010.

Ghost-Writer è il titolo originale; ed è chi scrive testi per politici, che se li appropriano. Qui l’autobiografia di un premier britannico, chiamato Adam Lang, ma che in realtà sarebbe Tony Blair, complice di Bush nelle guerre contro il terrorismo e i cosiddetti stati-canaglia; Bush orrido e superficiale guerrafondaio; Blair complice in particolare nelle false prove per scatenare la guerra in Iraq. Dal romanzo omonimo di Robert Harris.

Ma il film è un thriller, sia pure non molto esplicito. Infatti colui che ha steso l’autobiografia è morto in circostanze misteriose, in parte spiegate da un anziano abitante dell'isola (le correnti che non possono averlo portato su quella spiaggia; le luci viste da una donna nella notte, donna che ora è in coma per una pretesa caduta dalle scale). L’editore cerca un nuovo scrittore che rifinisca il testo - il suo nome resta ignoto - e che entra in azione trasferendosi sull’isola, dove lavora e ha dei colloqui col premier. A parte i controlli severi, c’è un’atmosfera di sospetto. E subito scoppia lo scandalo: il premier è accusato di aver consegnato alla CIA sospetti terroristi islamici, poi torturati a morte; è inquisito dalla Corte penale internazionale (perciò resta nella sua villa in USA, sulla famosa isola di Martha's Vineyard). Si parla anche di crimini di guerra. Viene contestato da gruppi di pacifisti e difensori dei diritti umani; e, in questa atmosfera, poi ucciso.

Intanto lo scrittore è andato scoprendo i suoi legami con la CIA, attraverso un professore, Paul Emmet, che Lang conosce fin dall'università. E alla fine risulterà - in modo piuttosto ingenuo e bizzarro - che la moglie Ruth è agente della CIA; donna forte che ha sempre guidato la sua politica.

Insomma il nodo storico del film è la sporca alleanza anglo-americana nelle sporche guerre scatenate dalla Destra americana e da Bush; invasione di stati sovrani; prigionieri torturati; guerriglie da cui gli USA non possono che uscire perdenti.

Il film è mediocre, non ben motivato, non convincente. Fortemente squallido. Squallore dell'isola, deserto, nuvolo, pioggia perenne. Sospetto, pericolo sempre incombente. Figure ambigue e spregiudicate come Rut, la moglie. Superlodato e superpremiato, in eccesso.

 

Paul Greengrass, Green Zone 

Al Massimo di Lecce l’11/04/010

Regista britannico di notevole sensibilità politica. Nel mio schedario Bloody Sunday del 2002 (il massacro degl’irlandesi da parte della polizia inglese), United 93 (sul quarto aereo dell’11 settembre, che cadde per la rivolta dei passeggeri). Green Zone è la zona internazionale (comando, stampa ecc.) di Baghdad; sarebbe l’espressione del comando e del potere? Alla base il libro del giornalista Chandrasekaran.

Qui un grande film, con grande schermo e grande forza costruttiva. Film politico, film d’azione. Affronta il caso dell’inganno che Bush e il suo governo escogitarono per scatenare la guerra in Iraq: le false basi di Al Qaeda e i falsi depositi di armi di distruzione di massa. Bush, e con lui l’inglese Tony Blair. L’inganno del loro popolo e di tutti i popoli del mondo; per scatenare una guerra sanguinosissima che, trasformatasi in guerriglia, dura tuttora. Inganno, malafede, crimine contro l’umanità.  

Nel  film un ufficiale che conduce una squadra alla ricerca dei siti indicati, e che non trovandoli matura il sospetto dell’inganno e ne cerca le prove, contrastato dalla CIA che le false prove  le ha inventate. Raccolta una soffiata su di un generale nascosto nella cittadina di ad-Diwaniyah, la raggiunge nella notte e riesce a contattarlo e ad avere le prove dell’inganno. Qui la tipica grande scena finale perché è intervenuta la CIA per impedire il contatto e catturare il generale. Fuga di questo di casa in casa, inseguimento dell’ufficiale che riesce infine a parlare con lui; inseguimento con grande dispiegamento di mezzi da parte della CIA. Conclude un comunicato alle agenzie che denunzia l’inganno.

Film ben costruito, senza divagazioni. Matt Damon è l’ufficiale, attore poco espressivo.

 

                                 

                              marzo

Jacques Audiard, Il profeta

All’Odeon di Lecce, il 28 marzo 2010

Un regista francese al suo quarto o quinto film, che ottiene a Cannes il Grand prix; ma si sa che i francesi sono facili a premiare se stessi.

Chi sia poi questo profeta del titolo, in questo mondo carcerario, è difficile dire. Forse il ragazzotto arabo che si pone (o è costretto) al servizio di un boss della mafia corsa e traffica droga, e finisce col massacrare su commissione i suoi nemici? In verità il ragazzo non ha nulla di profetico, e nulla di particolarmente umano; né il suo carattere prende forma, scarso com’è di parola, essendo tra l’altro semianalfabeta. Non v’è certo nulla di eroico nelle sue imprese di mafia. Semmai l’amoralità totale tipica di questo ambiente, e quindi nel film l’assenza di ogni senso etico. Un film in cui il male, la violenza, il disprezzo della vita umana sono addirittura ovvii.

Suo pregio è forse il realismo con cui è ricostruito il mondo e la vita di un carcere. Lo squallore, la rudezza, gli atti di violenza (non però delle guardie carcerarie, qui affatto risparmiate), il dominio dei boss ecc. Un mondo preso nel suo insieme; un mondo alquanto confuso fino a che non vi si sviluppa la storia del giovane arabo.

Musica pessima, spesso fastidiosa.

 

 

Gabriele Salvatores, Happy Family

Al Massimo di Lecce, il 27/03/010.

Salvatores fa questa volta un film moto originale e va anche controcorrente perché ci presente due famiglie fondamentalmente felici, e che s’incontrano e diventano amiche. Anche se il motivo dell’incontro, la decisione di due figli sedicenni di sposarsi, sfuma perché la ragazza rivela all’improvviso che non lo vuole più e anzi ha un altro ragazzo, la cordialità dell’incontro non muta, come non muta l’amicizia ch’è nata.. Che anzi il padre di una di esse, un imprenditore colpito da tumore irreversibile, si lega al padre dell’altra, costruttore di barche e in procinto di portare una nuova barca a Panama; e decide di partire con lui e compiere così il grande ultimo viaggio della sua vita. Infatti nell’ospedale di Panama, in una grande stanza con ampie finestre sul mare, passerà i suoi ultimi giorni, e anche la sua morte avrà un’atmosfera serena e gioiosa.

Tutto questo, tuttavia, sarebbe finzione perché in realtà si tratterebbe di una sceneggiatura che Ezio, un personaggio che entra nella storia stessa, sta scrivendo; e anzi ad un cero punto minaccia di concluderla anzitempo con grandi proteste dei personaggi. È infatti, questo, un film in cui i personaggi parlano spesso al pubblico, presentandosi e raccontando le loro situazioni e le loro storie. La pretesa sceneggiatura quindi riprende, ma è difficile credere che sia solo tale perché l’autore s’innamora di una delle ragazze del film, la figlia dell’imprenditore, pianista e concertista, e il film conclude su questo amore.

Esistono dunque famiglie felici, e amiche tra loro; esiste una vita serena e gioiosa nonostante i suoi imprevisti anche molto dolorosi. Il regista tenta di dirci che è solo finzione, ma non ci riesce del tutto. E noi più che alla finzione crediamo alla realtà.

Commedia condotta con misura con un solo personaggio macchietta, che un po’ stona, la nonna malata di Alzheimer, dimentica e ripetitiva.

 

 

Atom Egoyan, Chloe

Al Santa Lucia di Lecce, il 22/03/010.

Egoyan ritorna con un film inusuale ma notevole nella profondità e nella forza, dopo e meglio di Road to Perdition.

Sarebbe sì la storia nota dell’allentarsi di un rapporto amoroso e coniugale (facevamo l’amore tre volte al giorno,  poi una volta, poi…) su cui s’innesta l’abituale trasgressione del maschio che la donna non tollera. Qui però è centrata nella donna, nel suo soffrire come nel suo non rassegnarsi, nella sua volontà di sapere. Una donna che si ritrova sola, pur essendo unita ad un marito e ad un figlio, e che non cede. Una professionista che porta innanzi il suo lavoro di ginecologa; donna distinta fine; che anche guadagna bene e dispone di tante cose. Col suo volto teso, sofferente, il suo sempre elegante stile di vita. Nella grande interpretazione di Julianne Moore.

La sua volontà di sapere la porta ad assoldare una giovane prostituta che tenti il marito e le riferisca le sue trasgressioni (è lei Chloe, tipo non bello né fine, bassina, grosse labbra sensuali e grandi occhi bovini). Un errore certo. Perché la giovane sedurrà il marito; e a che le servirà sapere altri particolari di ciò che già sa? di un marito che anche ammira ed ama? Ma poi sedurrà lei, nella sua focosa sensualità di mestiere e oltre il mestiere. E infine sedurrà il figlio già sempre ribelle, già sempre un tormento per l’amore materno. Si giunge così ad una situazione estrema, tragica; e la tragedia scoppia, ma colpisce la giovane prostituta, la quale ritraendosi si appoggia ad un’ampia finestra che s’apre all’infuori, e precipitando muore (c’è qui una scena rallentata, quasi un volo d’angelo, di spirito sacrificale).

Poco presente il marito, professore universitario, e chiaramente ambiguo, dissimulatore; bell’uomo ammirato dalle donne, cui cede facilmente (Liam Neeson). Ristoranti e locali lussuosi, e grande splendida casa di professionisti danarosi, dove ad un certo momento la giovane prostituta guarderà non senza desiderio i molti vestiti e le molte scarpe nell’armadio semiaperto.

 

 

Shirin Neshat, Donne senza uomini

All’Odeon di Lecce, il 14/03/010.

Storia di donne invisibili nell’Iran degli anni cinquanta. Opera prima di un’iraniana operante in Usa, Leone d’argento a Venezia. Ha alla base il romanzo omonimo di Shahrnush Parsipur, uscito in quegli anni e per il quale l’autrice fu perseguitata dal regime dello Shah.

Il problema della donna nell’Islam, prigioniera del maschio, padre fratello marito, rinchiusa nella casa, sottratta ad ogni ideale come ad ogni professione. Vi s’intrecciano le storie di quattro donne, mentre lungo tutto il film si svolge la rivolta che sostiene il primo ministro Mossadeq nella nazionalizzazione del petrolio iraniano, estromettendo gl’inglesi che lo sfruttavano in esclusiva; e poi la repressione della Shah, che cede agl’inglesi e alle pressioni americane.

Il film s’apre in modo suggestivo, con quelle figure di donne che dall’alto di case a terrazza guardano lontano, mentre s’ode un tipico canto orientale, quasi come un lamento.

Le storie non sono tutte facilmente perseguibili; il film manca forse di esperienza, ma è anche l’animo iraniano che ci sorprende. Munis è  una ragazza che ha un interesse politico che però le è interdetto dal fratello, che le strappa la radio; la ritroveremo poi coi capi della rivolta, nella rivolta stessa, nella reazione e nella persecuzione; e la vedremo curvarsi pietosa sul soldato che il suo compagno di lotta ha accoltellato. Faezeh sogna di sposare l’uomo che ama ma ne è impedita. Zarin è costretta a prostituirsi dalla padrona. Fachiri è la moglie di un generale cha non ama, e che lascia per ritirarsi in una casa di campagna con un grande giardino d’alberi ed ombre, dove anche le altre donne si ritrovano come in un’oasi di pace, l’unica via per  sottrarsi al dominio del maschio. Lì Fachiri darà una grande festa ai suoi amici, durante la quale Zarin, spossata da una forte febbre morirà. Ma non è la morte che c’impaurisce – dirà una voce recitante – quanto l’immagine della morte; e d’altronde è la libertà che noi perseguiamo.       

 

 

Ferzan Ozpetek, Mine vaganti     

Al Massimo di Lecce il 13/03/010.

Opera un po’ casereccia, non comparabile ad esempio con Saturno contro che l’ha preceduta; commedia spesso sopra le righe. Si svolge a Lecce, la città d’arte, la città del barocco ridente e gioioso; ma nulla di essa appare nel film; scelta forse per motivi di bilancio, i prezzi più bassi del Sud. Il titolo non dice molto.

Il tema è sempre l’omosessualità, qui la difficoltà di dichiararla, almeno in una società del mezzogiorno (forse non tanto oggi, a Lecce in particolare). Qui, nella famiglia di un imprenditore pastaio, addirittura i due figli maschi sono gay, quelli destinati all’eredità, al glorioso futuro della famiglia. Forse troppo. Il minore, Tommaso (Riccardo Scamarcio), si confida col fratello maggiore Antonio, che ascolta e tace; e però poi si dichiara lui davanti all’intera famiglia durante il pranzo domenicale e così incastra il minore; il quale, visto che il padre ne ha avuto un infarto, non osa più toccare l’argomento, si affida alla dissimulazione e prende il suo posto in azienda. Costretto poi a dissimulare anche di fronte alle profferte della ragazza – la figlia del socio – che gli è destinata, agli amici gay romani che gli fanno visita. Tenta solo in seguito una dichiarazione sulla sua vocazione di scrittore, ma non osa andare oltre.

Eccessiva, farsesca la reazione della città, in particolare l’episodio delle risa al bar; non è certo Lecce che reagirebbe così.

 

 

Martin Scorsese, Shutter Island   

Al Massimo di Lecce il 7/03/010.

Film di non facile comprensione. Sembra essere un film di denunzia contro esperimenti in corpore vili, che il governo USA o le sue agenzie compirebbero; esperimenti segreti in un manicomio criminale segregato dal mondo in un’isola di fronte a Boston cui giunge solo il traghetto del manicomio stesso. Siamo negli anni 50. Esperimenti del tipo nazista di Dachau, non solo con medicinali psichiatrici, ma con interventi chirurgici che mirano a dominare le funzioni encefaliche; quindi il pensiero, la memoria, l’immaginazione.

Qui due agenti federali arrivano all’isola per indagare sulla fuga di una prigioniera che sarebbe pericolosa in quanto ha affogato i suoi figli; fuga che sembrerebbe impossibile data la struttura del luogo, a meno di una complicità. In realtà la donna ricompare, ma di come è avvenuta la fuga non si sa nulla.

Perché l’attenzione si sposta sull’altro tema. Teddy Daniels, l’agente capo, è perseguitato da incubi e allucinazioni (in particolare la moglie, morta quattro mesi prima in un incendio della casa; ma anche la sua vita di soldato nella Seconda guerra mondiale, le molte persone uccise, Dachau, l’esecuzione in massa delle guardie). Non si capisce bene come nasca in lui il sospetto, per cui inizia la ricerca nella sezione C di massima sicurezza; dove però incontra un prigioniero, Joyce, ingiustamente recluso, che gl’insinua l’idea di una reclusione cui non si sfugge, lui stesso. La sua attenzione si concentra sul faro, separato dall’isola da uno stretto braccio di mare, apparentemente abbandonato; ma mentre si sta calando dalla costa rocciosa scopre una caverna in cui v’è una donna, una studiosa che conosce quei metodi inumani, cui è sfuggita in quanto non li condivideva.  

Con questa certezza raggiunge a nuoto il faro e vi monta lungo una scala a chiocciola, ma non trova sale d’intervento chirurgico, bensì alla sua sommità il dottore capo Cawley, e apprende da lui che già da due mesi egli sta nell’isola, ed è – diciamo – in cura per gl’incubi e le allucinazioni che gli provengono dai traumi subiti. Egli apprende dunque che la sua situazione si è rovesciata: non è più l’agente ma il paziente, e quello ch’egli credeva fosse un suo compagno è un medico, ed è ormai insuperabilmente recluso, è in trappola, e invano tenta di ribellarsi.

A questo punto il film chiude. Teddy sta seduto sui gradini della casa e alzandosi dice che è meglio morire da uomini che vivere da mostri; ed è l’ultima immagine.

Film forte, di grande tensione. Di Caprio, che è Teddy, ed è l’attore preferito da Scorsese, non sembra avere grandi doti espressive. Preso spesso dal basso in alto per renderne il  ghigno di dolore, di sospetto, di paura. La storia ha i punti ambigui notati.                                                                                                              

 

Tim Burton, Alice in Wonderland    

Al Massimo di Lecce il 6/03/010.

Film deludente, se si pensa ad un’opera geniale e macabra – pur non scevra di contraddizioni – come La sposa cadavere, per parlare di un film di animazione di Burton. Qui poi la commistione tra personaggi reali e fantastici risulta ibrida e affatto piacevole. La protagonista è debole, scarsamente caratterizzata e scarsamente espressiva.

Nella storia non v’è nulla di significativo, nulla di veramente creativo. Non legano bene con la storia né il cappellaio matto (impersonato da Jonny Depp, attore amato da Burton), né la regina rossa e la regina bianca; e non si capisce perché proprio la timida pacata Alice debba combattere col mostro che spunta nel finale. Una storia scombinata quella del paese d’immaginazione e del sogno. Banale e mal costruita quella del paese reale all’inizio.

Può darsi che piaccia  ai bambini, chi sa?

 

         

                             febbraio

Clint Eastwood, Invictus  

Al Massimo di Lecce il 28/02/010.

Un buon film, dopo lo scarso Gran Torino, e il poco persuasivo doppio film su Iwo Jima. Ma frammezzo c’era stato pure The changeling.

È anche caratteristico questo racconto dell’azione di Mandela, appena eletto presidente del SudAfrica dopo la lunga prigionia, la sua azione pacificatrice, sviluppata attraverso la squadra nazionale di rugby e la sua lotta vittoriosa nei mondiali del 1995 (c’è  in proposito un testo di J. Carlin, Playing the enemy, che sta alla base del film). Una squadra di bianchi che gli altri vorrebbero sostituire ma che egli conferma perché sa che la sostituzione dividerebbe ulteriormente gli animi; la squadra ch’egli conforta e sostiene nella dura lotta perché pensa che la vittoria sarà una vittoria dell’intera nazione.

Certo, un modo un po’ strano di ricostruire la nobile e saggia azione di Mandela. Che però raggiunge la misura di una grande celebrazione popolare e nazionale nella lunga partita finale che occupa quasi un terzo del film, con quello stadio immenso e strapieno, quel rumore di folla, quell’esultanza in cui bianchi e neri si abbracciano, si ritrovano.

Mandela è Morgan Freeman che, pur nelle brevi apparizioni, ha modo di ricostruire la sua figura pacata, la sua saggezza, la sua modestia, la sua forte umanità, la sua volontà di pacificazione dopo il conflitto e l’oppressione. Invictus è una poesia che nella prigione lo ha sostenuto, la poesia della forza interiore.   

 

 

Antonio Campos, Afterschool

All’Odeon  di Lecce il 27/02/010.

Documentarista venticinquenne portoghese molto apprezzato, qui al suo secondo film.

Afterschool allude forse al tempo in cui questi ragazzi si dilettano di video in Internet, spesso porno, o anche risse e altre cose girate da loro stessi.

Film strano e scombinato di cui la critica ha parlato in termini ambigui perché probabilmente non l’ha visto per intero. Duro infatti resistere fino in fondo. Il regista sembra cercare un suo bizzarro stile, con scene in cui il personaggio sta in un angolo o fuori campo, o col viso tagliato, se ne sente la voce; talvolta il quadro è in grande schermo, per lo più ridotto, talvolta nella misura di un computer, di un video Internet. Sensibile al porno, cade in scene francamente fuori luogo (i particolari erotici dell’insegnante o della ragazza dopo la deflorazione)..

Siamo in un pensionato Usa. La storia zoppica, malcostruita, dispersa. Gira intorno ad un ragazzo, Robert, inesperto, introverso, che stabilisce un’amicizia con una ragazza, Emily, e avranno in seguito il loro primo rapporto sessuale. Ma al centro c’è l’improvvisa morte di due gemelle, ragazze tra le più vistose e più quotate del collegio, per droga commista a sostanze tossiche. Cadono improvvisamente sul pavimento in fondo a un corridoio deserto, vomitando sangue, ma è proprio Robert che le vede e accorre, e però non fa nulla per salvarle. Perché ingenuo, incapace. Qualcuno lo accuserà. Segue il cordoglio del collegio, le testimonianze; poche del resto e insignificanti. Il film è sempre maldestro. Robert viene incaricato di montare un video su di loro, con materiali vari, e ne viene un’opera slegata, pessima. Lo rimonta un insegnante e lo presenta in aula magna a tutto il collegio riunito, ma non è gran che meglio. Seguono intanto inchieste e drastiche misure per impedire il traffico di droga. Il film chiude in un modo qualunque.

V’è una particolare e non ben chiara presenza dei video che furoreggiano in Internet: quelli che i ragazzi guardano anzitutto; ma anche il film si sviluppa talora come in un video; ad esempio nella morte delle ragazze. Il cui senso non è ben chiaro, come un po’ tutto in questo film.

 

 

Pupi Avati, Il figlio più piccolo

Al Massimo di Lecce il 26/02/010.

Un film piuttosto scombinato. Qualcuno ha voluto vedervi un’eco o una critica della corruzione economica dell’Italia d’oggi, ma non c’è nulla di tutto questo. Altri parlano di una trilogia dei padri, coi due film precedenti; ma qui di padre non c’è quasi nulla..

C’è un tipo che si sposa, con due piccoli figli, e dopo il matrimonio subito se ne va a Roma come presidente di un gruppo imprenditoriale che sembra appartenga alla moglie; e questo gruppo, nonostante presunti appoggi politici e intrallazzi vari (di cui però si ha solo qualche vago sentore) lo porta a rovina; nonostante l’onnipresenza di un solerte manager (Luca Zingaretti), un exfrate appena uscito di convento. Giunto poi allo sfascio, per sfuggire alla giustizia, il solerte padre trasferisce la proprietà del gruppo al figlio minore, un adolescente grassone ed ingenuo, che a dire il vero non aveva mai visto, e tenta un secondo matrimonio forse con un’altra donna economicamente dotata, che però viene bloccato dall’intervento della finanza. E alla fine si ritira scornato ed abulico presso la moglie che ha sempre trascurato e che tuttavia l’ama.

Il padre è un Christian De Sica totalmente spaesato, oltre che totalmente amorale; figura sfuocata, senza personalità. Meglio Laura Morante nella parte della moglie, che però resta marginale.  Anche Baldo, il figlio grassone è scarso e scadente.

 

 

Gabriele Muccino, Baciami ancora

Al Massimo di Lecce il 25/02/010.

Muccino riprende in qualche modo il filo de L’ultimo bacio del 2003, dopo la parentesi americana, il gruppo di amici con le loro vicende amorose e familiari. Cinque amici, due coppie in crisi di cui una divisa, una terza divisa dove al padre Adriano è subentrato il nevrotico Paolo; e Alberto, solo e marginale, che emigrerà in Brasile. Il titolo ha forse il senso dell’amore ritrovato.

Siamo ancora sempre nel ceto medio benestante, grandi appartamenti, belle macchine.

Il tormento della vita amorosa e familiare. Carlo (Stefano Accorsi) e Giulia si sono lasciati, ognuno ha un altro partner, ma si amano ancora e finiranno per riunirsi. Marco (Pierfrancesco Favino) e Veronica sono sono già in una situazione estrema; lei esce ogni sera incurante di lui; lui non cessa di amarla ed è preso da accessi di collera estrema, fino a minacciare di ucciderla se lo abbandonerà; è il personaggio più tipico e forte; e a lui essa tornerà infine, amorosamente accolta. Adriano è il padre che ha abbandonato moglie e figlio, tornando dopo dieci anni; figura debole; avrà fortuna, troverà improvvisamente una donna che lo ama. Il nevrotico Paolo ne ha preso il posto accanto a Livia, la giovane donna forte, col figlio che adora; ma finirà per essere scacciato e infine si ucciderà.

Qui le donne sono le più forti, incomparabilmente. Deboli gli uomini, tranne Marco.

Un intreccio di storie condotto con mano sicura, con una visione positiva che dall’erranza e dal tormento ricostruisce l’amore. Un amore più solido, si pensa.

Pessime le musiche, spesso assordanti.  

 

     

Lone Scherfig, An education 

Ai Salesiani di Lecce il 21/02/010

Regista danese cinquantenne al suo sesto film, sempre di notevole livello. Proviene dal gruppo di “Dogma”.

Il titolo è ironico: si tratta infatti della diseducazione di una ragazza sedicenne, Jenny, studiosa e che aspira ad Oxford. La quale incappa casualmente  (ma il trentenne con macchina sportiva è un seduttore di ragazzine, come le dirà poi la moglie: non è la prima volta) in un uomo gentile che la vuole aiutare mentre ritorna a casa sotto una fitta pioggia; e che nel casuale reincontro successivo la invita ad un concerto con amici suoi. Lei tra l’altro suona il violoncello.

E così nasce un rapporto che la introduce in un mondo di gente danarosa, mondo di lussuosi ristoranti, di concerti, di aste d’arte. Sempre con la coppia amica, dove l’amico è socio in affari non limpidi. Il rapporto procede – l’uomo è così bravo da convincere il padre dal forte carattere – con lo weekend insieme, poi col viaggio a Parigi, la deflorazione, l’offerta di matrimonio; e proprio a questo punto lei scopre l’inganno atroce, l’uomo fine e gentile l’ha cinicamente ingannata, e così i suoi cari amici: è sposato.

La diseducazione. Lungo questa esperienza Jenny giunge a considerare inutile e noiosa la sua vita di sempre, gli studi, l’università, la laurea, la professione che le si aprirà, in particolare l’insegnamento. Lo dichiara all’insegnante come alla direttrice, interrompe gli studi, lascia la scuola. La vita frivola, brillante, di un falso brillio, l’ha sedotta più ancora dell’uomo. Certo la sua formazione era carente, se giungeva a preferire il vuoto di una condizione in cui lei altro non sarebbe stata che la moglie dell’uomo danaroso dai dubbi affari e dal falso modesto splendore. Si redime, però, dopo la delusione riprende gli studi, è accolta a Oxford, lì la vediamo di nuovo gioiosa.

Film molto ben costruito, che si avvale della sceneggiatura di Nick Hornby, scrittore e cineasta inglese. Notevole anche come lezione di vita.   

 

 

Jessica Hausner, Lourdes      

All’Odeon di Lecce il 20/02/010

Regista austriaca quarantenne al suo sesto film, poco nota in Italia.

Tentata da questo soggetto, riesce ad ottenere i difficili permessi per filmare in loco e sviluppa una specie di storia-documentario sul difficile tema.

Freddezza di fondo: le assistenti in particolare; meno gli assistenti uomini, più cordiale, ma anche più appartati. Freddezza dei pellegrini, come dei malati, ritratti come oggetti, non come soggetti vitali e viventi. Freddezza dei sacerdoti che intervengono e parlano e cercano di spiegare, di rispondere alle obiezioni, poco convinti e convincenti.

Da un lato manca la fede, il suo spazio vitale e vivente; perciò questa Lourdes non è quella vera, ma è astratta, filtrata dall’incredulità.

Dall’altro v’è il problema reale. Luogo di apparizioni della Madonna, una Madonna che appare di qua e di là in Europa, parla, piange, sanguina. Una probabile conseguenza di una chiesa che ha favorito una devozione popolare fatta di madonne, santi, morti; invece di portare il popolo alla stupenda parola di Dio e all’autentica adorazione del Dio vivente, del Padre amoroso, del Cristo fratello.

Luogo in cui si ammassa il dolore, un dolore atroce, centinaia di malati, luogo di una sofferenza invincibile che spera l’insperabile.

Luogo del miracolo per eccellenza. E qui è il nodo più duro del film. Il miracolo è certo possibile, se Dio è il Signore di ogni cosa, è l’onnipotente, è il Padre amoroso che può e vuole soccorrere il suo piccolo figlio sofferente. Ma è conveniente? questa folla di malati che aspetta il miracolo è un fatto accettabile? è conveniente una fede miracolistica? O invece la vera fede è fatta di abbandono alla volontà amorosa di Dio? Una fede che neppure chiede il miracolo.

Qui una ragazza paralitica, che non esprime mai né fede né attesa, nella notte è percorsa come da un brivido e s’alza e cammina, riprende a camminare, almeno provvisoriamente; e riceve mediocri congratulazioni e battimani, e forse più ancora gelosia; e v’è una festa finale un po’ cupa in cui financo balla.

Restano le domande inevase: è possibile il miracolo? è conveniente? è questo un vero miracolo? e se a questa, perché non agli altri, ad una sola su mille?

Il film è profondamente scettico e lo scetticismo lo pervade interamente, lo deprime, lo inaridisce. 

 

 

James Cameron, Avatar

Al Massimo di Lecce il 14/02/010

Cameron ritorna, dopo Titanic, con un altro colossal, per di più tridimensionale, coi famosi occhialini. E muove le folle. Ma è la curiosità.

Avatar, parola sanscrita che significa reincarnazione; in rete il doppio virtuale.

Nell’impianto del film nulla di nuovo rispetto ai crimini coloniali. Una spedizione su di un altro pianeta per rapinare un minerale prezioso che vi abbonda. Gli abitanti sono i soliti selvaggi nudi, primitivi, con arco e freccia; non si vedono le capanne. Sono particolarmente sensitivi e sanno padroneggiare l’energia della natura. Sono soprattutto buoni, del tipo di quelli incontrati da Colombo nel primo sbarco a San Salvador. Sono umanoidi, beninteso, difficile fare altrimenti senza creare mostri. Ma qui anche gli animali sono buoni, non feroci né aggressivi, tanto che ci si chiede perché l’arco e la freccia.

C’è grande sfarzo di tecnologia. Si creano avatar, cioè doppi d’uomini (in realtà uno solo) e però con patrimonio genetico in parte indigeno per essere simile a loro e con loro poter più facilmente trattare. L’avatar è manovrato dal suo prototipo, anche se a un certo punto gli sfugge.

Con queste premesse non si capisce perché il capo spedizione a certo punto sferri l’attacco aggressivo e distruttivo con tutte le sue potenti macchine aeree e tutte le sue potenti armi. Perché mai, se gl’indigeni sono persone mansuete, certo eticamente migliori dell’uomo? Perché mai? E perché devastare quella meravigliosa natura? E però l’uomo rapinatore viene sconfitto: gl’indigeni dispongono di grandi uccelli, stupendi grandiosi uccelli a loro docili che abbattendosi sugli elicotteri e le altre macchine aeree le fanno sbandare e precipitare. Certo ci sono perdite, ci sono morti. Ma vincono i buoni, anche se apparentemente più deboli.

Molto bella, anche se fortemente fantastica, la natura del pianeta che si chiama Pandora, cioè grande dono   

 

 

Radu Mihaleanu, Il concerto

All’Odeon di Lecce il 12/02/010

Regista rumeno cinquantenne operante in Francia, nel corto prima; Train de vie del ’98 è il suo primo film, significativo, come anche Vai e vivrai del 2005.

Questa è una commedia giocosa e gioiosa, dopo gli anni dell’umiliazione del protagonista, un direttore d’orchestra ebreo perseguitato da Brešnev, ridotto ad impiegatuccio del Bolshoi: dove però parte il suo riscatto quando vede arrivare un fax con un invito dal Théatre du Chatelet di Parigi, e se ne impadronisce, e il concerto sarà suo e della sua orchestra di ebrei come lui perseguitati.

Parte così la vicenda, tipicamente russa, si direbbe, disordine ed eccesso. La sua bellezza sta nel concerto, che è poi il concerto per violino e orchestra di Ciaikovski, nel modo in cui è suonato, nel vibrare del violino (la giovane violinista francese, già famosa, è l’occulta figlia di Filipov, il direttore), nell’entusiasmo del pubblico. In cui si redime il dolore di un popolo ancora oggi spesso emarginato e disprezzato.

 

 

Philippe Lioret, Welcome

Ai Salesiani di Lecce il 7/02/010

Il terzo film di un regista cinquantenne francese. Titolo di un'ironia amara.

Finalmente un film notevole sull’immigrazione; notevole per lo spirito di accoglienza e di aiuto che vi si sviluppa, sullo sfondo doloroso di una massa di giovani che dal Medio Oriente, da paesi di guerra e di persecuzione, con viaggi pericolosi e dispendiosi che durano mesi, tentano di raggiungere l’Europa, terra di libertà e di benessere; un’Europa che li respinge, che non ha tentato mai di stabilire una comune politica di accoglienza per questi reietti; perseguita quelli che li aiutano, quelli che sentono verso di loro un dovere di umanità.

È il punto nodale di questo film. La volontà di aiuto di Simon (Vincent Lindon,  singolare umanissimo interprete), il robusto istruttore di nuoto di una piscina in cui Bilal, il ragazzo curdo arrivato a Calais da Mosul, e qui bloccato su di un camion, va ad allenarsi nella folle idea di passare a nuoto la Manica. Calais, spaventosa concentrazione di mezzi, di merci, di giovani in fuga. Polizia arcigna, inumana, dimentica delle più profonde e decisive leggi della coscienza. Passare a nuoto la Manica per raggiungere Mina, la ragazza follemente amata; per entrare in una squadra del calcio inglese. Il duplice sogno.

La Manica, 10 ore di nuoto, a 10 gradi di temperatura. L’affettuosa sollecitudine di Simon che prima istruisce il ragazzo sui pericoli della traversata, lo allena, lo fornisce di una tuta adatta, fa con lui delle prove, e quando pensa che il ragazzo si sia comunque gettato allerta la capitaneria del porto. Il ragazzo è raccolto da una vedetta inglese quando era a soli 800 metri dalla costa e brutalmente rispedito a Calais, dove muore. Simon andrà a Londra a recare la notizia alla ragazza, le lascerà un anello che lui stesso aveva donato a Bilal  per lei.  

Film dolorosissimo, il dolore di un mondo di giovani abbandonati e impotenti, di un’Europa inumana e insensibile, una polizia spietata, un uomo solo.

 

 

Giorgio Diritti, L’uomo che verrà

All’Odeon di Lecce il 6/02/010

Il secondo film di un regista cinquantenne che ha lavorato con Ermanno Olmi e che aveva già sorpreso col primo film, Il vento fa il suo giro del 2007.

Qui un film sull’eccidio di Marzabotto, su di una orrenda tragedia, una crudeltà estrema, i tedeschi che massacrano povera gente inerme, anziani donne bambini (più di 700 furono), forse perché pensano che siano collusi coi partigiani; li uccidono a gruppi rastrellandoli dai casolari, su sagrati, piazzette, giardini; sulle montagne bolognesi. L’uomo che verrà, abituale titolo ermetico del cinema italiano d'oggi, è forse il piccolo superstite?

Un film inusuale, che ricostruisce anzitutto la vita di questa gente in una fase avanzata della guerra; gente povera e che la guerra ha ulteriormente impoverito. La ricostruisce nelle sue povere case disadorne, nella sua  austerità. Nella sua parlata di vecchio dialetto bolognese, esperimento apprezzabile anche se di dubbio effetto perché la titolatura italiana disturba la visione dell’immagine, e la scritta scompare anche troppo presto. E diventa anche più difficile seguire la storia, non poco va perduto.

La quale storia per tutta una fase è anche piuttosto slegata e dispersa. Punto di raccordo di tutto è la piccola Martina, che ha perso la parola quando le è morto il fratellino, la piccola  muta dal grande intuito, presente sempre ovunque, che tutto vede e tutto sente; e che riacquista la parola alla fine, mentre dopo la tragedia culla tra le sue braccia il nuovo fratellino da poco nato. I suoi grandi occhi espressivi, il suo muto dolore.

Si giunge così ai massacri; fatti uscire dalla chiesa e spinti in un giardino i primi, su di una piazzetta gli altri. Non si vedono però, si vede l’arma che getta fuoco, la mitragliatrice pronta, i mucchi di cadaveri da cui esce salva Martina così come il piccolo; questi fatti obbrobriosi e dolorosissimi, di una inumana follia, che ci lasciano feriti e dolenti.

Lo stile è un po’ quello de L’albero degli  zoccoli di Olmi, grande capolavoro, più raffinato però, oltre che stupendamente costruito; mentre qui è più ruvido, più fortemente realistico.

 

                               gennaio

 Jason Reitman, Tra le nuvole

Al  Massimo di Lecce il 24/01/010

Il terzo film di Reitman, dopo Thank you for smoking del 2005, Juno del 2007, la storia della ragazza sedicenne che, trovandosi incinta, con un semplice avviso sul giornale trova i genitori adottivi del figlio che non può tenere; film di grande valore etico e pedagogico. Up in the air è qui il titolo.

Giovane maestro della commedia americana, Reitman costruisce il film con mano sicura. Un film che sembra leggero. Un certo Ryan Bingham (che poi è il simpatico George Clooney) il quale passa da un aereo all’altro perché è un tagliatore di teste, lavora in un’agenzia cui le imprese affidano il compito sgradevole dei licenziamenti; passa da un’impresa all’altra, fa il suo discorsetto sempre uguale, riceve i malcapitati e annunzia loro la condanna. Davvero un bel mestiere. È anche scettico il nostro eroe, non vuole né matrimonio né figli.

Poi arriva la giovane Nathalie, ragazzina pulita, fresca di college, a migliorare il metodo: il  colloquio non sarà più personale ma si farà in teleconferenza; così si potrà essere più distaccati, più cinici.

Intanto Ryan ha incontrato Alex, una trentenne che sembra essere il suo alter ego, viaggiatrice, solitaria, indipendente, emancipata; e inizia un feeling. Per di più la sorella lo prega di convincere il fidanzato della figlia che, il giorno del matrimonio, è preso da una crisi di panico; e dunque sarà lui ad esaltare i vantaggi del vivere insieme. Fatto sta che un bel giorno egli pianta tutto per correre da Alex; la quale però è sposata e ha famiglia, e lo respinge brutalmente. Intanto la teleconferenza ha prodotto un suicidio, Nathalie si eclissa, si riassume il vecchio metodo, e il povero Ryan riprenderà la sua attività squallida e distruttiva. Un po’ meno convinto, un po’ meno brillante di prima.

Non v’è redenzione, non liberazione dal male.  

 

 

Paolo Virzì, La prima cosa bella 

Al Massimo di Lecce il 23/01/010.

La prima cosa bella (che poi è l’inizio di una mediocre canzone di Nicola Di Bari) sarebbe la madre. Saremmo dunque in un tema considerato tipicamente italico, la mamma. Accanto alla quale c’è il figlio maschio (c’è anche una sorella) preso da amore-odio; non si sa bene perché, ma già nelle scene iniziali ci stupisce la sua diffidente serietà di bambino in momenti che dovrebbero essere gioiosi. Forse perché la madre è troppo appariscente, desiderata dagli uomini, estroversa, vince un piccolo premio di bellezza, ha una piccola parte di cameriera in un film anni settanta. E però la gente sparla di lei, il padre geloso la scaccia di casa. Siamo a Livorno, patria di Virzì

Tutto questo lo vediamo, ma nella memoria del figlio che è cresciuto e se n’è andato a Milano ad insegnare, fuggendo quella cosa bella. È lui la voce recitante, e lo impersona la figura rude e malinconica di Valerio Mastandrea.

Il presente è ancor sempre dominato da quella madre ormai in età, malata terminale di tumore, ma sempre vivace (impersonata da Stefania Sandrelli), tanto che ha deciso di sposare il suo ultimo compagno, pur nel letto e nella prospettiva della morte. Il figlio viene richiamato dalla sorella per quest’ultima fase e in fondo non è cambiato, è sempre rude e malinconico .

La critica ha esaltato questa rinnovata commedia all’italiana. Che in realtà non è riuscita. Troppo affollata, troppo sopra le righe, troppo confusa nei piani e nei tempi, e con una musica assordante che i tempi del rumore e del silenzio proprio non li distingue.

 

 

Tom Ford, A single man

Al Santa Lucia di Lecce il 20/01/010

Debutto nella regia di uno stilista statunitense di fama, che ha diretto la casa Gucci, poi anche la Saint-Laurent quando è entrata nel gruppo Gucci; poi ha creato un marchio suo. Qui fa un film prendendolo da un romanzo di Isherwood, ed è un film sull’amore omosessuale.

Di un professore universitario che un giorno perde in un incidente d’auto (c’è neve, l’auto scivola) il compagno ch’era unito a lui da sedici anni. Ha un sogno telepatico in cui vede l’incidente; e proprio qui inizia il film. Un tipo robusto, ampie spalle, serio, distaccato, non propenso alle manifestazioni di dolore (Colin Firth è l’attore). Forse è per questo che non va a dare l’ultimo saluto al compagno, a seguirne i funerali (gli hanno detto per telefono che i funerali sono strettamente familiari; forse la famiglia non apprezza la loro unione ed egli lo sa). Decide che la sua vita è finita, raccoglie nel suo studio al college le carte, prepara le lettere da lasciare, prende dal cassetto la pistola e la carica; ma non riesce ad uccidersi. Le manovre varie ch’egli fa cercando la posizione giusta, davanti, dietro, sdraiato, con due cuscini, infilato in un sacco a pelo ecc. non mancano di comicità; probabilmente non c’era una vera volontà di morte.

Il film dura una sola giornata in cui succedono alcune cose di scarsa importanza. Va a trovare una vecchia amica che l’ama ma cui egli non cede, e tanto meno in quel giorno. C’è uno studente che viene a trovarlo e che forse ha percepito la sua omosessualità, ma non succede nulla.

Un film stilisticamente pregevole. In cui passa una disperazione sorda, inespressa; anche perché l’uomo è molto sicuro di sé, un tipico accademico.

 

 

Fatih Akin, Soul Kitchen

All’Odeon di Lecce il 17/01/010.

Questo regista turco-tedesco ci aveva già dato un film complicato ed arruffato che portava lo strano titolo Ai confini del paradiso (vedi nov/07). Ma qui sviluppa una storia confusa e senza senso attorno ad un ristorante della periferia di Amburgo che porta l’insegna appunto di Soul Kitchen, la cucina dell’anima o della musica soul.

Lo gestisce lui; poi si spezza la schiena (si fa per dire) e chiama in aiuto un altro cuoco che fa della haute cuisine; poi la sua ragazza Nadine parte per Shangai per il suo lavoro di giornalista, e dopo un certo tempo lui decide di raggiungerla e lascia al suo posto il fratello Ilias, ladruncolo in libertà vigilata, il quale perde il ristorante al gioco con un certo imprenditore Neumann che già sempre ne agognava il terreno; ma mentre il ragazzo parte per Shangai ecco che vede arrivare la fidanzata, cui è morta la nonna, ma con lei c’è anche un uomo ch’è suo marito; intanto Neumann finisce in prigione e il ristorante va all’asta giudiziaria e lui si fa prestare i soldi dalla ricca ex-fidanzata e riesce a ricomprarlo; e alla fine è la sera di Natale e lui vi cena con la cameriera Lucia.

Certa critica ha parlato di un film scaltro, di un film di colore. Ma val la pena di raccontare la storia per capire che non ha senso alcuno, non v’ è umanità, non vi sono passioni, non gioie né dolori; ma solo una catena di fatti più o meno insipidi e più o meno slegati. Akin va dunque di male in peggio, ma può darsi che si redima in futuro.

 

Carlo Verdone, Io loro e Lara

Al Massimo di Lecce il 10/01/010.

Il paradosso qui è quello di un missionario che, dopo aver passato dieci anni in Africa, torna in Italia per riposarsi e insieme per affrontare con tranquillità gli stress, i traumi e anche i dubbi della missione e della sua stessa fede; e si trova invece in una situazione familiare ingarbugliata che lo coinvolge e travolge totalmente, sì da sentire il ritorno in Africa come liberatorio e persino riposante.

Verdone è un missionario compito, saggio, misurato; pronto a difendersi dalla psicologa che lo assale con l’abbraccio e il bacio; e insieme un missionario saggiamente comico, che seriamente e comicamente reagisce al paradosso coi tratti, i gesti, le parole del comico che conosciamo. Ma il suo linguaggio non nulla di religioso o di sacro.

Il resto del film, il fratello e la sorella, il padre fervido di strane passioni mature con donne giovani, non è ben calibrato, sempre sopra le righe, nell’eccesso di una comicità di maniera; nell’imbarazzo che nasce in quanto il padre aveva intestato i suoi bene – a cominciare dall’appartamento in cui tutti vivono – alla giovane moglie moldava che improvvisamente muore, onde tutto passa alla figlia di lei. Ma la figlia, Lara appunto, è saggia, pur essendo un tipo sempre un po’ sconvolto e sconvolgente; e tutti potranno vivere insieme; tra l’altro ha anche un figlio bambino. Insomma il film è singolare, ma non tra i migliori del nostro comico.

 

Mona Achache, Il riccio

Al Santa Lucia di Lecce il 6/01/010.

Opera prima di una nuova regista francese sulla base del romanzo L’eleganza del riccio di Muriel Barbery, di grande successo in Francia.

Opera singolare, già dall’inizio sul tema di morte e vita, che è insieme una radicale critica alla inconsistenza spirituale dei grandi ricchi. La dichiarazione della ragazzina Paloma, che non tollera di vivere chiusa nella «boccia» di nonsenso della sua ricca famiglia e ha deciso che si suiciderà il giorno stesso in cui compirà i 12 anni. La ragazzina con la videocamera sempre in mano e che tutto registra, e riascolta poi le vacue espressioni dei grandi.  

Siamo in un caseggiato di cinque piani, a Parigi, dove abitano cinque famiglie doviziose.

In basso, nella portineria, c’è la donna comune e spregevole, la portiera, madame Renée Michel, vedova, grossa, malpettinata e malvestita (Josiane Balasko). È lei il riccio, chiusa in se stessa e spinosa per gli altri; ma che in sé racchiude un tesoro d’intelligenza e di cultura; lei la grande lettrice, la cui retrostanza è tutta tappezzata di libri., e che però custodisce gelosamente il suo segreto. Da un certo punto inizia il suo recupero che è anche la sua rivelazione. Prima un’amica che per una cena le procura un vestito e la spinge dalla parrucchiera che le trasforma il volto. Poi l’amicizia che con lei allaccia il giapponese vedovo e gentile, un’amicizia che cresce e si dichiara e che lui vorrebbe senza limiti. Poi la piccola Paloma, che scopre il suo segreto e trova in lei una persona diversa, che le apre uno spiraglio di luce.

Questo cammino sarà infranto, Renée morirà travolta sulla strada da un furgone, ma avrà infuso nella piccola un nuovo senso della vita.

 

 

Valerio Mieli, Dieci inverni

Al  Massimo di Lecce l’1/01/09.

Opera prima alquanto immatura.

Si svolge dal 1999 al 2009, e il numero dell’anno compare ogni volta; ma non è un film ad episodi.

È la storia del rapporto tra un ragazzo e una ragazza, prima studenti, poi laureati; lei fa un soggiorno di studio a Mosca e lui un bel giorno ci arriva pure. Ma non c’è amore, non sembra ci sia mai amore. Forse l’inverno vuol essere il simbolo di un amore che non fiorisce né matura mai; l’inverno veneziano, la laguna grigia, il mare ondoso e grigio. D’inverno in inverno a un certo punto la ragazza è gravida di un figlio, che poi nasce, e inizia a crescere; ma non serve, il ragazzo non si sente padre, non prova né affetto né responsabilità. D’inverno in inverno la storia si consuma.

Non è ben costruita e narrata, anche se è alquanto singolare.