ARCHIVIO ARTICOLI 2007 

 

 

Indice

Speranza terrena, speranza celeste. A proposito dell'enciclica papale, 24/12/07 

Il bullismo, un fenomeno di carenza educativa, 17/12/07   

Crisi ambientale, problemi energetici, catastrofi. Il summit di Bali, 10/12/07   

Riflessioni sulla situazione del lavoro oggi, 3/12/07     

Il pericolo di una terza guerra in Medio Oriente e l’illiceità della guerra, 26/11/2007

La pena di morte, lo Stato non ha il diritto di uccidere il cittadino, 19/11/07    

Salari bassi e dividendi alti, la contraddizione italiana, 12/11/07     

Se la chiesa limita la libertà dei farmacisti, 5/11/07

Movimenti e potere popolare menomato, 29/10/07            

Ancora la discussione sull’eutanasia, 22/10/07     

Le tasse bellissime di Padoa Schiopppa, 16/10/07      

La discussione oggi sullo statuto dell’embrione, 8/10/07    

L’Italia divorata dai suoi politici, 1/10/07  

Corruzione e degrado nell’università italiana, 24/09/07   

La discussione sulle tasse della chiesa, 17/09/07     

Ridurre le tasse, ridurre lo spreco, 10/09/07 

Rom e lavavetri, un problema d’integrazione, 3/09/07   

Alitalia non dev’essere venduta, 27/08/07  

Il complesso problema delle pensioni 

La guerra dei disonesti che non pagano le tasse, 25/06/07   

Abolire l’ergastolo, 18/06/07 

Lo scudo spaziale, la minaccia bellica americana,  11/06/07

Dopo le elezioni amministrative: il collasso etico del Norditalia, 4/06/07 

La discussione sugli sprechi e sulla sfiducia, 28/05/07

A che punto è la riforma della RAI, 21/05/07

Ciò che la Francia ha rifiutato e perduto, 14/05/07

Via la prostituzione dalle strade,  7/05/07

Mantenere la Costituzione "fondata sul lavoro", 30/04/07

Liberarsi dal “sogno americano”, risvegliarsi, 23/04/07 

Le privatizzazioni insensate, 16/04/07    

L’inferno: religione e teologia della crudeltà, 13/04/07

L’episcopato sulle unioni di fatto: ingiustizia e arroganza, 2/04/07

La polemica sul caso Mastrogiacomo: una vita e molte morti, 26/03/07

La piazza e la società civile, 19/03/07

Difesa della coppia di fatto, 12/03/07

Vicenza e il problema delle basi americane, 5/03/07

Contro l’ingerenza ecclesiastica la revisione del Concordato, 17/02/07

I PACS e l’intolleranza ecclesiastica, 12/02/07

La discussione sul negazionismo, 5/02/07

Il povero Welby e i due Cardinali, 29/01/07

Infuria il delitto di famiglia, 22/01/07

La legge sulla libertà religiosa, la discussione, 15/01/07

Napolitano e il dialogo impossibile 

Il caso Welby e la crudeltà ecclesiastica, 8/01/07

 

 

Speranza terrena, speranza celeste. A proposito dell'enciclica papale

di Arrigo Colombo

 

         La nuova enciclica papale, la seconda, uscita il 30 novembre, è dedicata alla speranza, “Spe salvi facti sumus, Siamo stati salvati nella speranza”. Certo un grande tema per l’umanità, che ancora soffre sotto il peso di mali innumerevoli; a cominciare dalla povertà, cui si congiunge la disperazione, la malattia, la morte; a cominciare dalla guerra, che ancora strazia i popoli, nonostante la durissima esperienza delle due guerre mondiali e il patto delle Nazioni Unite; e il conflitto di religione che ancora oppone l’Islam all’Occidente e l’Occidente (o una sua parte) all’Islam, con la “guerra santa” e la “guerra per la democrazia” (espressioni ingannatrici) e il terrorismo e le nazioni invase e tormentate; e la catastrofe ambientale che minaccia un futuro non lontano.

Che cosa possiamo sperare? che cosa può sperare l’umanità? mentre la sfiducia dilaga, e gl’intellettuali predicano il “il nulla”.

 

L’enciclica papale segue la tradizionale linea cristiana che parte dalla fede e si protende sull’avvento del Regno di Dio escatologico cioè finale, e quindi la vita eterna. Dove la “salvezza” è  riservata a pochi, ai credenti; e difatti l’enciclica cita un passo dello Pseudo-Rufino che dice: “Il genere umano vive grazie a pochi; se non ci fossero quelli il mondo perirebbe”.

Interviene qui l’ambiguità e l’alienazione di cui soffre – da sempre possiamo dire –  l’annunzio evangelico della redenzione dell’umanità, e l’avvento del Regno; in quanto è stato accolto e menomato nella coscienza apocalittica che dominava quella fase dell’ebraismo; per la quale solo pochi, i giusti, si salvano, e l’avvento finale del Cristo e del suo Regno celeste è imminente. Coscienza che pervade poi la patristica e, in certa misura, l’intera tradizione cristiana. Un problema storico complesso, sul quale non possiamo qui diffonderci ulteriormente.   

Si tratta di capire se l’umanità viene o no redenta nella sua interezza; e se questa redenzione è efficace perché, se solo pochi si salvano, a che vale? Si tratta di capire se il Regno di Dio si va o no costruendo lungo la storia, redimendo di fatto l’umanità dai suoi mali, trasformando la società.  Dissolvendo quel “blocco storico della società ingiusta” che ha tormentato l’umanità fino a tempi recenti, e oggi ancora in parte. E cioè il dispotismo delle monarchie, delle tirannidi, delle dittature; gl’imperi che asservono i popoli; la condizione popolare di povertà, sfruttamento, oppressione; la schiavitù, l’asservimento della donna; e infine la guerra, il macello umano. Perché questo è di fatto il peccato nella sua mostruosa grandezza; questo è il “peccato del mondo” che il Cristo è venuto a “togliere”: “Ecco colui che toglie il peccato del mondo”.

È questa la redenzione concreta e storica, che certo è intesa dal Cristo il quale guarisce le malattie, moltiplica i pani, annunzia il suo vangelo ai poveri; e difatti nella comunità primitiva, la più vicina al suo spirito, “nessuno più è indigente”, perché i beni di ognuno vengono divisi tra tutti. Nessuno può dire che la redenzione aveva solo un significato spirituale, interiore, quando il Cristo si muove nel materiale, nel concreto. E nessuno può dire che il Regno di Dio era solo interiore, e solo di pochi, e celeste, quando il Cristo si presenta come colui che toglie il “peccato del mondo”, quando dice “andate nel mondo intero, predicate il vangelo a tutte le nazioni”.

 

Questa redenzione concreta, in realtà, a un certo momento della storia, si sviluppa palesemente. Non la inizia la Chiesa, in particolare la Chiesa cattolica, che lascia intatto il “blocco storico della società ingiusta”. Lascia intatta la schiavitù (quando un padrone si converte non gli dice “devi liberare i tuoi schiavi”), l’asservimento della donna (si legga Paolo in proposito); lascia intatte le monarchie e gl’imperi; risuscita anzi il Sacro Romano Impero, e si organizza lei come una monarchia e un impero; lei sviluppa e conserva il modello imperiale.

Questa redenzione concreta inizia quando un movimento profondamente religioso e cristiano, il puritanesimo inglese, trasferisce il progetto evangelico nel politico e scatena la prima delle rivoluzioni moderne, la Rivoluzione inglese del Lungo Parlamento. Nella quale si affermano i grandi principi di matrice evangelica: dignità e diritto del povero, libertà, eguaglianza, sovranità popolare (si legga il “Patto del popolo inglese” del 1647, si leggano i “Dibattiti di Putney”); e s’imposta quindi il modello democratico, col Parlamento eletto come organo della legge, col giusto processo assicurato a tutti. E continuerà con la Rivoluzione francese, in particolare la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”; nell’800 l’imporsi della democrazia, l’abolizione della schiavitù, il movimento operaio che, con un secolo di lotte (e con l’aumento della ricchezza comportata dalla produzione industriale) trasforma la condizione popolare attraverso la dignità del lavoro e del reddito, l’istruzione generalizzata, la sicurezza sociale. Con la prima guerra mondiale cadono gl’imperi continentali, con la seconda gl’imperi coloniali, si afferma l’autonomia dei popoli. Con l’ONU prende corpo una comunità planetaria dei popoli, si avvia il processo di unificazione e di pacificazione dell’umanità.

 

Ho solo abbozzato questo decisivo percorso storico che caratterizza la modernità. L’enciclica in qualche misura lo tocca, ma in termini piuttosto negativi. La redenzione terrena vi compare nella critica a Bacone, ed è collegata alla scienza moderna in opposizione alla fede; il che in parte è vero; ma il processo di liberazione, come si è visto, parte proprio dalla fede. Così il progresso, e i fondamentali caratteri che gli assegna la sua teorizzazione (in Condorcet, in Kant), ragione e libertà, vengono intesi solo come una fede profana che scalza la fede cristiana; ma il progresso dev’essere visto nella sua compiuta realtà, nell’abbattimento del “blocco storico della società ingiusta”. Così la rivoluzione, tipico evento moderno, compare in negativo, mentre è un movimento popolare eversivo di una società ingiusta per una società di più avanzata giustizia. L’obiezione a Marx, di non aver elaborato un progetto per la società comunista, è vera; Marx era alieno dai progetti di società, i progetti mentali e cerebrali dell’utopia letteraria ch’egli critica; e però alcune fondamentali indicazioni le ha date, la fine dell’alienazione umana nel lavoro, quindi la dissoluzione del capitalismo, “da ognuno secondo le sue possibilità, ad ognuno secondo i suoi bisogni”, il “regno della libertà”. Si legga, ad esempio, la “Critica al programma di Gotha”.

La Chiesa, che ha sempre osteggiato la modernità, ha bisogno di riconciliarlesi; comprendendo i valori umani e cristiani di cui è portatrice; comprendendone il processo di liberazione e la sua matrice evangelica.

                                                                 (Nuovo Quotidiano di Puglia, 24 dicembre 2007)

 

 

Il bullismo, un fenomeno di carenza educativa

di Arrigo Colombo

 

         Per bullismo s’intende una forma di violenza adolescenziale, spesso scolastica, in quanto la scuola è un luogo di aggregazione, dove si formano gruppi o branchi in cui il singolo si sente più forte; forma che si è andata manifestando e sviluppando  in tempi recenti. E si è manifestata in alcuni tipici modi: il vandalismo scolastico con l’allagamento, la devastazione di aule; quasi a sfogare una rabbia o un odio contro quell’istituzione sentita come coercitiva; o semplicemente per procurarsi una vacanza, incuranti del danno inferto alla comunità. Oppure la violenza fisica o morale, l’emarginazione del debole, del diverso; che può essere l’extracomunitario, o l’omosessuale vero o presunto (il caso di quel ragazzo torinese che si suicidò), o il ragazzo studioso, il “secchione”, essendo il branco formato per lo più da ragazzi fisicamente forti e culturalmente deboli. O anche la violenza sessuale in vario grado. Violenza cui spesso s’accompagna l’esibizione, la foto o il video portati on line e offerti a tutti; essendo spesso questi ragazzi dotati di cellulari altamente evoluti, forniti dalle famiglie.

Di questo fenomeno si è discusso molto nei media, in quanto abbassa la soglia della violenza; e in quanto si manifesta nella scuola, luogo di formazione, di educazione per eccellenza; e gl’imputati sono – ovviamente, diremmo – la scuola stessa, la famiglia, la società.

 

Si dice che la famiglia non educa in modo adeguato, soprattutto non trasmette valori che penetrino a fondo nell’animo del ragazzo, che diano senso alla sua vita, la orientino, la impegnino. Certo che se l’adolescente ha in sé un ideale forte, un progetto di vita, un impegno morale, rifiuta la violenza e le forme deteriori dell’aggregazione, il branco; perché ha anche una personalità forte. Si dice che la famiglia è divenuta troppo permissiva, non educa il figlio alla rinunzia, punto fondamentale nell’affrontamento poi della vita. Che in particolare lo è la famiglia sofferente o disgregata, in cui i genitori si contendono l’affetto del figlio; o quella in cui i genitori sono poco presenti perché assorbiti dal lavoro, e credono di colmare così la loro assenza, e anche il loro senso di colpa.

Si parla spesso di “crisi” della famiglia; crisi che s’accompagna anche alla maturazione storica di valori peraltro essenziali, come la libertà personale, l’emancipazione della donna, l’emancipazione sessuale, cioè dalla tradizione cristiano-occidentale della sessualità come pecato. Per tutta una corrente, per Fourier ad esempio, la stessa famiglia nucleare è patologica in quanto troppo piccola, la coppia più uno o due figli; e facilmente si nevrotizza, diventa conflittuale, e i figli ne soffrono fortemente. S’invoca una forte presenza della rete parentale, dei nonni; s’invoca la comunità di famiglie, con anche single e separati, che è un’esperienza di alto valore (lo dimostrano le ricerche sociologiche) ma non facile, piuttosto rara: qualche centinaio negli USA, terra di sperimentazione sociale.

D’altra parte il compito educativo, per quanto a tutti pertinente, è tutt’altro che facile.

 

Si sa che la scuola italiana è in condizioni di obsolescenza. La recente ricerca OCSE, peraltro ancora in corso, collocava l’Italia agli ultimi posti; si trattava però di competenza (ultima per la matematica, penultima per la lettura; su dieci paesi). E però il lamento di sempre è quello di una scuola nozionistica, tutta concentrata sui libri di testo, i programmi, la lezione cattedratica. Carente nella parte formativa, che è il compito primo, formazione della persona e formazione del cittadino. Carente nella discussione e nella sperimentazione, che attivando l’allievo lo coinvolgono e ne stimolano l’interesse e la creatività. Carente nella formazione fisica, che per l’adolescente riveste un grosso ruolo, per il suo corpo come per lo spirito. La ginnastica, la palestra, lo sport, le cenerentole della scuola italiana; mentre devono stare ai primi posti.

Travagliata da riforme e controriforme, che poi concernevano questioni strutturali e formali. Con tendenza al lassismo, al facile, al promuovere tutti; donde l’intervento recente a proposito dei debiti formativi mai assolti e degli esami di riparazione; o delle commissioni di maturità in cui gli allievi erano valutati dagli stessi insegnanti di sempre. Taluni enunziavano persino il principio che la scuola dell’obbligo doveva promuovere tutti in forza della sua stessa obbligatorietà; un principio insensato perché la scuola dell’obbligo costituisce la formazione base del cittadino, imprescindibile perché egli possa vivere ad un livello culturale adeguato. Perciò la tendenza  ad innalzare l’obbligo; che secondo gli studiosi dovrebbe raggiungere per tutti un biennio universitario; per un principio di dignità personale e culturale, di eguaglianza in tal senso.

 

La società è la responsabile di fondo; la società politicamente organizzata. Che deve perseguire un’adeguata politica familiare, e soprattutto un’adeguata politica scolastica, dal momento che la scuola è di sua pertinenza, che in essa si forma il cittadino. Probabilmente i governi non hanno coscienza di questo compito. Restano infine i media e la formazione all’uso di essi, e anche il controllo. Nella televisione v’è superficialità, esibizionismo, violenza; nella rete v’è di tutto perché non sono ammessi controlli interni; i controlli esterni sono necessari, nella giusta misura.

                                                                           (Nuovo Quotidiano di Puglia, 17 dicembre 2007)

 

 

Crisi ambientale, problemi energetici, catastrofi. Il summit di Bali

di Arrigo Colombo

 

         Si svolge in questi giorni (dal 3 al 14 dicembre), nell’isola di Bali in Indonesia, il summit mondiale sul riscaldamento globale del pianeta, i suoi catastrofici effetti, le misure urgenti da prendere; cui partecipano oltre 190 paesi. Un summit che riprende quello famoso di Kyoto e il suo protocollo, il quale stabiliva una riduzione del 5% delle emissioni di gas serra entro il 2012; protocollo che divenne effettivo nel 2004, quando firmò la Russia. Era infatti previsto che divenisse effettivo con la firma di almeno 55 paesi che rappresentassero il 55% delle emissioni inquinanti. Oggi è stato firmato da 174 paesi, per il 62% delle emissioni. Un piccolo passo su di un percorso che esige decisione e rapidità; ma l’una e l’altra mancano.

 

Un primo problema era stato aperto dagli USA che con Clinton avevano aderito, ma poi con Bush avevano ritirato l’adesione. Un caso esemplare di disonestà a impatto planetario; e di ipocrisia, nel Bush buon cristiano, assiduo alla preghiera e alla frequenza della chiesa; e però petroliere, e legato ai petrolieri; che preferisce chiudere gli occhi e persistere sulla china del disastro ambientale, pur di non diminuire il guadagno suo e della sua corporazione.

Un secondo problema è stato aperto poi da Cina ed India, le quali avevano firmato ma – in quanto paesi in via di sviluppo – non erano tenute alla riduzione; e però, col decollo rapido dell’ultimo quinquennio, sono divenute grandi inquinatrici.

E l’interrogativo su cui oggi si discute è proprio questo: come e in che misura ottenere la riduzione dai paesi sviluppati; e in che misura consentire l’aumento agli altri, a quelli in via di sviluppo, che hanno indubbiamente bisogno di energia per crescere, per raggiungere quella dignità economica e culturale che coinvolge una “dignità energetica”. È del resto l’interrogativo che si presenta ai teorici della “decrescita”, quelli che rifiutano lo sviluppo “compatibile”, che dicono basta sviluppo! basta crescita del PIL! – così in Francia Serge Latouche e il gruppo della rivista “Entropie” –; e cioè che i paesi arretrati devono invece crescere, devono raggiungere quel livello dei bisogni e della ricchezza che corrisponde alla dignità della persona umana; quel fondamentale punto di eguaglianza rispetto ai paesi avanzati. Dignità umana, dignità energetica.

 

A Bali si parla non propriamente di decrescita economica ma di riduzione delle emissioni inquinanti. Ciò può avvenire anche con una riduzione dei consumi: ridurre l’uso dell’auto in città, con la condivisione (che però dev’essere organizzata), col mezzo pubblico elettrico, con la bicicletta, con la camminata a piedi; ridurre l’uso dell’aereo, o lo spreco (in Italia gli 11.900 voli di stato nel 2006, e le migliaia di auto blu). Con la conversione dei consumi affinché impieghino energia pulita: i mezzi pubblici elettrici o a metano; il trasporto ferroviario delle merci al posto di quello su gomma. Una misura che i Comuni e gli Stati devono prendere con decisione e rapidità. Eliminare gli autobus a gasolio; proibire oltre i 50 km. i trasporti di merci su strada, o permetterli solo a motori non inquinanti. Stabilire misure precise per l’edilizia ecocompatibile. Sono solo alcuni piccoli esempi.

Ma il punto chiave è la conversione dell’energia e della sua produzione. Quindi la conversione delle centrali elettriche all’energia pulita. Il passaggio più semplice è dal carbone al metano (per Cerano lo aveva stabilito addirittura un referendum popolare; che fu disatteso, un fatto criminale). L’energia atomica da fissione, in attesa di passare a quella da fusione e ai reattori autofertilizzanti, che non producono scorie. Mirando tuttavia a sviluppare le tecnologie appropriate per produrre energia dall’idrogeno, e soprattutto per produrre energia dolce su vasta scala e a basso prezzo: energia solare, eolica, ondosa. In Italia si è commesso l’abnorme errore di rinunciare all’energia atomica senza sviluppare le energie alternative; per finire poi con l’importare energia atomica dalla Francia, che nel frattempo aveva costruito una sessantina di centrali; un comportamento contraddittorio e non privo d’ipocrisia. I nostri bravi ambientalisti, i Verdi, col magro consenso popolare del 2 per cento.

Per paesi come la Cina e l’India, che sono diventate grandi inquinatrici – magari per produrre merci che poi vendono all’Occidente a prezzi stracciati – urge un intervento di verifica dell’energia; e di aiuto, di fornitura di tecnologie non inquinanti da parte dell’Occidente; degli USA, ad esempio, che se le tengono così gelosamente per sé soli.

 Detto questo, e sperando buone notizie da Bali, bisogna dire chiaramente che l’umanità è terribilmente in ritardo su questo fatale problema; e che viene ulteriormente ritardata dalle corporazioni petrolifere, e dai politici loro alleati, i quali impediscono lo sviluppa delle tecnologie alternative. Ritardata anche dal costume ormai consolidato nelle economie avanzate, dalle comodità cui nessuno volentieri rinunzia. Perciò sarà difficile evitare almeno catastrofi ridotte ma tuttavia dolorosissime; come il sommergersi di territori limitati ma tuttavia importanti, città storiche, metropoli, per lo scioglimento dei ghiacci e il conseguente innalzamento dei mari; e altre catastrofi dal cambiamento del clima. Occorre sperare sì, ma soprattutto operare.

                                                                 (Nuovo Quotidiano di Puglia, 10 dicembre 2007) 

 

 

Riflessioni sulla situazione del lavoro oggi

di Arrigo Colombo

 

         È sul lavoro (e sulle pensioni) che si è svolta la più forte discussione politica degli ultimi mesi, tutto il capitolo dello welfare. Su cui era avvenuta prima la concertazione tra Governo, Sindacati e Confindustria, poi il referendum dei lavoratori. Su cui si è prodotto poi il pericoloso dissenso di questi giorni; in quanto la concertazione prevedeva ulteriori miglioramenti, che s’erano di fatto raggiunti in commissione, ma che non sono potuti entrare in aula per l’opposizione di un gruppetto di cinque senatori raccolti intorno a Dini, col pomposo nome di liberaldemocratici. Certo, dall’ex-premier, che a suo tempo aveva sperimentato le difficoltà del governo, ci saremmo attesi una maggiore saggezza, una minore arroganza. Il blocco dell’iter parlamentare, suggellato dall’apposizione della fiducia, ha messo in gioco la “sovranità del parlamento” e ha attizzato una dura reazione della sinistra, i cui effetti potrebbero essere disastrosi.    

 

Ma lasciamo per ora questo intricato dibattito politico, ancora in corso, e veniamo a considerare la reale situazione del lavoro e di ciò che gli consegue – il reddito, l’assistenza e previdenza – nel nostro paese.

Innanzitutto la percentuale di reddito perduto negli ultimi dieci anni. Secondo la denunzia del governatore Draghi il 30 per cento rispetto alle maggiori nazioni europee; secondo una ricerca OCSE quasi il 50 per cento rispetto all’Inghilterra; secondo una ricerca CGIL un ulteriore divario del 13 per cento nel Sud, del 27 per cento nel lavoro giovanile (fino ai 34 anni). Un fatto sbalorditivo: come è potuto avvenire? se la curva dei salari dovrebbe seguire la produttività, e la produttività aumenta di continuo? e dovrebbe seguire l’inflazione? Qui è avvenuto quel gap che ha messo in difficoltà le famiglie ed ha aumentato il quoziente di povertà. Ci si chiede che cosa faceva il sindacato, che è l’organo di tutela del lavoro; come ha potuto lasciar deteriorare la situazione fino a questo punto. Si comprende anche fin troppo l’errore della rinunzia alla “scala mobile”, che adeguava automaticamente i salari all’inflazione; ma c’era poi da ottenere l’adeguamento alla crescente produttività. Una vera débacle.

Il secondo punto è quel vasto fenomeno che va sotto l’eufemistico nome di “flessibilità” ma deve dirsi “precarietà”. Con la legge Biagi, che in parte regolava o sanciva la tendenza neocapitalistica ad indebolire la controparte lavorativa frazionandola, eliminando il lavoro stabile, il contratto a tempo indeterminato; quello che dà sicurezza alla persona e alla sua esistenza, che corrisponde al bisogno primario (il necessario: vitto, vestito, abitazione) e secondario (il conveniente) come alla dignità della persona.

Questa precarietà assume innumerevoli forme. Così il “contratto a termine”, una cui forma particolare è il contratto di formazione, e che interessa quindi particolarmente i giovani. Si era detto 36 mesi più otto; poi più una proroga il cui importo sarà deciso da sindacati e imprese. Sono quattro anni, è troppo. Non bisognava andare oltre i due anni, e con la garanzia dell’assunzione stabile.

Il “lavoro a chiamata” e il “lavoro d’affitto” o d’agenzia erano stati aboliti, perché totalmente precari e senza garanzie previdenziali; poi il primo è stato ammesso per turismo e spettacolo. In realtà è ammissibile forse per  certe forme stagionali o intermittenti (l’Arena di Verona, l’orchestra provinciale; il turismo estivo) ma ha bisogno di particolari garanzie salariali e previdenziali. Come i padroni lavorano solo l’estate ma guadagnano per l’intero anno, così dev’essere per i lavoratori.

Il lavoro “part time” è corretto quando vi s’incontrano il bisogno del datore e quello del lavoratore; il quale ha magari altri impegni – di famiglia, di studio ecc.–. Così tutto il lavoro di collaborazione familiare. Ma ha bisogno anch’esso di particolari garanzie retributive e previdenziali. E dovrebb’essere controllato a campione.

Dei lavori usuranti era stato redatto un elenco e stabilite delle norme; poi tutta la materia è stata delegata al governo.

Un punto che resta indefinito e che è davvero scandaloso è il rinnovo dei contratti nazionali di categoria; che si protrae per anni; dove i padroni resistono e dilazionano per stancare la controparte, per ridurne le giuste esigenze. Non si può continuare così. Si deve stabilire per legge che i contratti si rinnovano almeno entro sei mesi; con le relative penalità.

 

Ci sono infine dei punti di promozione del lavoro che erano già presenti alla fine dell’800 e che sono stati disattesi o dimenticati. Così il “salario familiare”, in parte assunto negli assegni familiari, che però non sono adeguati. La nazione che ha fatto di più in proposito è la Francia, le cui provvidenze per la famiglia meriterebbero un discorso a sé; e lo ha fatto quando la sua situazione demografica ha toccato il fondo dei quaranta milioni; allora ha preso misure drastiche e generosissime  di sostegno alla famiglia, e in quarant’anni ha  raggiunto i sessanta milioni di abitanti.

Così la partecipazione al profitto d’impresa, che dovrebbe essere diviso equamente tra proprietà e lavoro; e la parte maggiore dovrebbe andare al lavoro, a tutta la comunità di lavoro d’impresa, anziché al solo capitale, al padrone, agli azionisti; perché è il lavoro la parte attiva e decisiva della produzione. Ma il sindacato ha totalmente obliato questo diritto.

Infine lo SMIG, cioè il salario minimo generalizzato, assegnato a tutti i cittadini maggiorenni che non abbiano un reddito da lavoro; affinché possano vivere con un minimo di sicurezza e dignità. La Francia lo ha attuato da tempo; ma anche in Italia bisognerà cominciare a parlarne, ad esigerlo, a lottare per averlo. È vergognoso ancora lo si ignori.

                                                                              (Nuovo Quotidiano di Puglia, 3 dicembre 2007) 

 

 

Il pericolo di una terza guerra in Medio Oriente e l’illiceità della guerra

di Arrigo Colombo

 

         L’imputato è ancora sempre l’Iran, che sta sviluppando le tecnologie necessarie ad ottenere l’energia atomica per uso pacifico; e però probabilmente anche per uso bellico. Cosa che si può arguire dall’atteggiamento aggressivo di quello strano presidente che è Ahmadinejad, dai suoi pronunziamenti contro Israele – il quale tra l’altro ha la bomba –; e che i servizi segreti certamente sanno.

Ciò che però stupisce è l’atteggiamento dell’Occidente, a cominciare dalla Destra americana e da Bush, il presidente imperialista e guerrafondaio, sempre pronto a scatenare guerre contro i famosi “stati canaglia”; ma in tal senso si sono pronunziati anche Sarkozy (e prima di lui il suo ministro degli esteri Kouchner) e anche l’ineffabile Brown, che prima aveva sempre criticato la linea politica del suo predecessore Blair, la sua acquiescenza agli USA, la sua partecipazione alla disastrosa avventura bellica irakena. È terribile, ma questa gente parla ora di guerra, parla di bombardamento delle istallazioni iraniane, che è un atto di guerra. Si pensava, tra l’altro, che Brown avrebbe rinnovato lo spirito socialista e operaio della sua amministrazione, che è spirito di pace.

 

Veniamo a considerare con volontà di giustizia  e di saggezza il comportamento di questi capi di stato, che dovrebbero essere supremamente saggi.

L’Iran vuole sviluppare l’energia atomica per uso pacifico, e su questo credo che nessuno abbia a ridire. Lo dovrebbero anzi fare tutti, e anche l’Italia che con stoltezza e ipocrisia ci ha rinunziato per importarla poi da quelli che la producono; o per impiantarla attraverso l’Enel in altri paesi, come la Slovacchia. Lo dovrebbero fare tutti per diminuire la servitù dal petrolio e i suoi costi; per diminuire l’inquinamento da petrolio. Mirando ai reattori autofertilizzanti che eliminerebbero il problema delle scorie radioattive.

L’Iran vuole forse sviluppare la bomba atomica, perché? per sentirsi  alla pari con Israele? probabile. Per usarla contro Israele? meno probabile perché significherebbe per lui  l’autodistruzione. Cosa di cui è difficile non abbiano contezza il sia pur arrogante Ahmadinejad, e tanto più il saggissimo capo spirituale supremo Khamenei e il suo consiglio di saggi, che reggono la nazione iraniana.

Ma perché USA, Francia e Inghilterra non vogliono che l’Iran sviluppi la bomba? essi che di bombe atomiche e nucleari ne hanno a migliaia? e migliaia ne ha la Russia; e ne ha poi la Cina, l’India, il Pakistan, Israele. Insomma c’è un club di atomici esclusivo, che hanno la bomba e non vogliono che altri l’abbiano; forse perché si ritengono più saggi, capaci di averla senza usarla; mentre gli altri non lo sarebbero altrettanto e, se l’avessero, la userebbero con enorme danno per l’umanità. Ma Bush non ha dimostrato per niente di essere saggio, anche se non ha usato la bomba; né Sarkozy lo dimostra con la sua mania di onnipresenza, la sua megalomania; né Brown, che avrebbe dovuto suggerire agli altri due dissennati parole di pace.

 

Questi vogliono e fanno guerre, ma con la guerra commettono il crimine più mostruoso. Si è fatto una campagna per la moratoria contro la pena di morte, l’Italia ne è stata protagonista, si è ottenuto un importante voto dell’ONU. Si è spiegato che la pena di morte è illecita perché lo stato non ha il diritto di uccidere il cittadino. Ma la guerra è ancora più illecita, è il caso estremo dell’imperativo categorico “non uccidere”, è il macello umano. Oggi i moralisti sono d’accordo sul punto, in passato dibattuto, che non esiste “guerra giusta”; che la guerra non è mai lecita, appunto perché è il macello umano, là dove gli uomini si scannano a vicenda, inventano armi sempre più sofisticate per potersi meglio scannare.

Se lo stato non ha il diritto di uccidere il cittadino, non ha neppure il diritto di costringerlo ad uccidere e a farsi uccidere; né ha il diritto di uccidere altri cittadini, altri soggetti primari di diritto, sui quali non ha nessun potere.

Perciò nella Costituzione italiana, costruita da uomini saggi, è detto che “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà di altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” (il famoso art. 11). Perciò il principio primo, e impegno primo, del patto dell’ONU è che i conflitti tra i popoli non possono mai essere affrontati con la guerra, ma sempre e solo col negoziato, con la trattativa. Ora gli USA, l’Inghilterra, la Francia hanno firmato questo patto, sono vincolati da questo patto, devono mantenerlo. Altrimenti cadono nel più mostruoso crimine umano.

 

È tempo che gli USA la smettano con la loro politica di arroganza e di aggressione; è tempo che gli altri paesi, e in particolare l’Europa, si dissocino da questa politica; per avviare una politica di fiducia, di amicizia, di benevolenza. Così con l’Iran, con la Siria, coi paesi islamici in genere; con la Russia di Putin; con la stessa Cina. Insistere nel dialogo, nella trattativa; concedere sul piano materiale per ottenere sul piano morale e giuridico.

Su questa linea si è avviata la politica estera italiana, con Prodi e D’Alema; e ha ottenuto già notevoli successi. In Libano anzitutto; poi nella campagna per la moratoria dalla pena di morte. E ora deve insistervi con l’Iran e la Siria, e coinvolgervi l’Unione Europea, elidendo le velleità d’Inghilterra e Francia, acquistando autonomia dagli USA e dal loro dannato bellicismo, dalle folli pretese di Bush e compagni. Persistendo così, e con più forza, su quell’obiettivo di pace che ne ha segnato la nascita e in parte anche il cammino; ma finora non abbastanza.   

                                                                (Nuovo Quotidiano di Puglia, 26 novembre 2007) 

 

 

La pena di morte, lo Stato non ha il diritto di uccidere il cittadino, il voto dell'ONU

di Arrigo Colombo

 

         È dunque riuscita l’azione condotta per giungere ad una prima decisione su di un punto in cui una parte dell’umanità è ancora attestata su posizioni arcaiche, barbare, contrarie al diritto. La pena di morte. Non  si tratta ancora della soppressione ma della sospensione dell’atroce pena; e non è ancora il voto definitivo dell’assemblea dell’ONU, ma il voto di un comitato dell’assemblea; importante tuttavia, perché normalmente l’assemblea ratifica queste decisioni. Perciò la lotta attorno a questo voto è stata forte; e il successo è stato di misura, in quanto ai 99 sì s’opponevano 52 no e 33 astenuti, il che fa 88.

Si sa che la campagna per la moratoria è partita nel 1993 con l’azione “Nessuno tocchi Caino” del Partito radicale; che diversi tentativi per approdare all’ONU sono falliti; che infine è  intervenuto il governo italiano (Prodi e soprattutto D’Alema), il quale ha acquisito il consenso dell’Unione Europea, ha sviluppato una intensa azione diplomatica per allargare il consenso, ha raggiunto questo primo decisivo successo.

La situazione resta tuttavia incresciosa, se si pensa che su questa posizione arcaica e ingiusta sono attestati i paesi più popolosi, e in certa misura più potenti: gli USA anzitutto, la Cina, l’India, la Russia (dove però la legge è abitualmente disattesa). E v’è poi tutto il mondo islamico, che notoriamente continua a praticare il dettato del Corano; dettato che riprende i costumi delle tribù arabe del tempo (ma l’azione italiana ha acquisito il voto di Algeria e Marocco).

Stupisce in particolare la posizione USA, la nazione che si atteggia a leader dell’umanità, a vessillifero della democrazia; che, tra l’altro, ha scatenato le due recenti sanguinose guerre di Afghanistan e d’Iraq, e continua a sviluppare armamenti; anche in questo arretrata su posizioni belliciste cioè di macello umano. Che sulla pena di morte non ha neanche una legislazione federale ma si affida ai singoli stati dell’Unione; mentre basterebbe un paio di emendamenti alla Costituzione per uscire dall’atrocità della guerra come da quella della pena di morte.

 

Su questo punto bisogna anzitutto recepire il fondamentale principio che lo stato non ha diritto di uccidere il cittadino. Non si tratta di legislazioni più o meno benevole, ma di un diritto fondamentale. Né hanno valore certi pseudo-argomenti che di tratto in tratto riaffiorano: il delitto particolarmente atroce, la strage, il deterrente efficace, quello che si pensa possa impedire il delitto col timore della pena estrema.

Lo stato non ha il diritto di uccidere il cittadino, punto e basta; e non ha questo diritto perché il suo potere non è un incondizionato potere divino, come si pensava un tempo avvenisse per i monarchi, i despoti, sui quali questo potere direttamente discendeva (quando non erano loro stessi divinità, come in Egitto, a Roma e altrove). E certo la pena di morte proviene dal dispotismo  monarchico, anche se poi è passata anche nelle repubbliche e nelle democrazie.

Da dove deriva infatti il potere dello stato? come si genera questo potere? È questo il problema che s’impone e si chiarisce nella modernità. Si genera da una cessione di diritto dei cittadini. Perché unico soggetto originario di diritto è la persona umana che, nella sua coscienza e libertà, ha il dominio di sé, e delle proprie decisioni ed azioni. I cittadini cedono una parte del loro diritto per costituire quella legge e quell’organo della legge che possa ordinare la loro convivenza, promuoverla, tutelarla. Perciò si parla di “patto sociale”, cioè dei cittadini tra loro, che è poi quella stessa cessione; e di “sovranità popolare”, in quanto quel potere è dei cittadini, loro lo costituiscono, loro lo detengono. Loro possono delegarlo, a un parlamento, a delle magistrature.

Ora, come afferma con chiarezza Beccarla, il cittadino cede solo una parte del suo diritto (egli anzi dice “una piccola parte”); non può cedere l’intero, altrimenti cesserebbe di essere come soggetto di diritto, cioè come persona. Lo stato, quindi, ha sul cittadino solo quel limitato potere ch’egli ha ceduto, e che si esprime nella legge a sua promozione e tutela; non ha potere sulla persona intera, non ha per nulla un potere di vita e di morte. A parte poi il fatto che neppure il cittadino possiede questo potere di vita e di morte su di sé; poiché la vita non se l’è data lui stesso, non esisteva, era nulla, non poteva darsi la vita; perciò anche non può togliersela. Solo Dio, che ha in sé la pienezza dell’essere, è signore della vita e della morte; Dio, Padre amoroso e donatore supremo.

 

V’è un’altra ragione per il rifiuto della pena di morte; meno essenziale, diremmo, e tuttavia significativa; ed è il carattere medicinale e redentivo della pena. Un tempo si attribuiva alla pena una finalità prevalentemente vendicativa e punitiva: essa doveva colmare la lesione di diritto ch’era stata compiuta, redintegrare l’ordine infranto, e insieme compensare con una menomazione equivalente la menomazione di cui il reo era responsabile. Aveva ucciso, doveva essere ucciso. Era un po’ il residuo dell’arcaica legge del taglione praticata dalle tribù ebraiche ed arabe, da altri popoli; e che gl’islamici fondamentalisti praticano ancora, in Iran ad esempio.

Nella modernità si è capito che la punizione ha senso se non è redentiva, se non serve a recuperare il reo alla società e al suo ordinamento umano, ordinamento di giustizia, cioè di rispetto della dignità e diritto della persona, e di ciò in cui la persona si espande, nella sfera materiale, culturale, sociale; ordinamento solidale e fraterno. Ed è chiaro che la pena di morte, annientando la persona da redimere, esclude ogni sua redenzione.                                                                (Nuovo Quotidiano di Puglia, 19 novembre 2007) 

 

  

Salari bassi e dividendi alti, la contraddizione italiana

di Arrigo Colombo

 

         Due settimane fa il governatore Draghi lanciava una denunzia gravissima, e è cioè che i salari italiani erano del  30 per cento inferiori a quelli dei maggiori paesi europei. Denunzia che avrebbe dovuto scuotere l’Italia intera. E che spiegava quella situazione delle famiglie di cui in quest’autunno si è molto parlato sui media, si è molto chiacchierato intorno ai veri o presunti aumenti dei prezzi, l’aumento pazzesco del petrolio, l’effetto del crollo americano dei mutui,  e ancora sempre l’effetto perverso del passaggio all’euro. Ma eccola la vera causa. Le famiglie che stentano a giungere a fine mese, che stentano a pagare il mutuo, stentano a fare figli e mantenerli: tutto questo è ora fin troppo chiaro: manca loro un terzo del salario; hanno di che vivere per venti giorni, ma gli mancano gli altri dieci.   

Ci si chiede allora anzitutto che cosa fa il sindacato, che ha avuto in passato fama di lucidità e aggressività; il potente sindacato italiano; i suoi centri di ricerca cosa fanno? non si sono accorti di nulla? Certo si sono messi su di un piano inclinato. Hanno accettato l’abolizione della scala mobile, che adeguava automaticamente i salari all’inflazione; un errore gravissimo. Hanno accettato la legge Biagi, che legittimava il lavoro cosiddetto flessibile, cioè precario, che rende l’esistenza precaria, incerta, non si sa che cosa si farà e si mangerà domani; buono per qualche ragazzo, qualche “bamboccione” per dirla con Padoa Schioppa, che ha ancora dietro a sé la famiglia; per qualche donna con figli piccoli, come riempitivo. Per cui si hanno poi le illusive e false statistiche le quali dicono che la disoccupazione è scesa al 7%. Ma quale disoccupazione? quale lavoro la fa scendere?

Certo che per i padroni pagare il 30 per cento in meno è l’ideale; così come sono ideali tutte le forme del lavoro “flessibile”, a tempo determinato, a contratto, a part time, attraverso agenzia ecc. Si paga poco, non ci sono scatti di anzianità, non ci sono contributi sociali.

E però il sindacato ha il dovere di tutelare il lavoratore. Alla denunzia di Draghi non ha reagito; forse si è sentito spiazzato; ha taciuto per vergogna.

 

Si dice che le brutte notizie non vengono mai sole. In realtà poco dopo è arrivata un’altra notizia, e cioè che i dividendi che le imprese italiane distribuiscono quest’anno sono tra i più alti d’Europa. Il Sole 24 ore, il giornale della Confindustria, che di queste cose s’intende, diceva che i dividendi in dieci anni si sono quasi quintuplicati. Il che è paradossale, ma quasi ovvio: quanto meno si paga il lavoro, tanto più si profitta. E però questo suscita molteplici problemi; anzitutto nell’impresa stessa.

Si è lamentato in questi anni che l’impresa italiana era scarsamente produttiva, perché poco dinamica, poco innovativa; perciò anche il PIL aumentava di poco; e anche per il prossimo anno la previsione è di un aumento dell’1,7% contro il 2,4 della media europea.  Il che vuol dire che i padroni, invece di reinvestire i profitti in ricerca e sviluppo, preferiscono intascarli o distribuirli agli azionisti; che poi è lo stesso.

In questi anni le imprese hanno sempre pianto miseria, e hanno ottenuto notevoli riduzioni fiscali. Il cuneo fiscale del 5%, la riduzione dell’IRES (l’imposta comunale); chiedono anche la riduzione o abolizione dell’IRAP (l’imposta provinciale). I vari presidenti di Confindustria, Montezemolo e compagni, hanno insistito e ancora insistono. Ora è vero che la tassazione italiana è tra le più alte d’Europa, ma c’è anche un debito pubblico enorme, c’è una enorme evasione fiscale, una situazione disastrosa che ci proviene da un passato di malgoverno. Implorano grosse riduzioni fiscali mentre intascano grossi dividendi; sarebbe più giusto che ne intascassero di meno e contribuissero di più al risanamento. Che facessero anche loro qualche sacrificio.

In tutti questi anni le imprese hanno ottenuto dallo stato, cioè da noi tutti, contributi e facilitazioni e aiuti vari: come le rottamazioni di auto, moto, frigoriferi; la costruzione d’infrastrutture, che hanno interessato particolarmente i comuni. E che bisogno c’era di questi aiuti se poi si traducevano semplicemente in maggiori profitti?

 

Questa situazione paradossale, questa profonda ingiustizia dev’essere affrontata con forza.

Il sindacato deve svegliarsi dal suo “sonno dogmatico” (l’espressione è kantiana) in cui neppure s’accorge dell’enorme buco dei salari, cui deve richiamarlo addirittura il governatore di Banchitalia; il che va tutto a suo onore, certo; ma non ad onore del sindacato. Non s’accorge del divario tra salari e dividendi, della dinamica perversa che v’intercede.

Il governo deve smetterla di concedere tutto alle imprese, d’intenerirsi al loro continuo piagnisteo. Hanno i profitti, li reinvestino, anziché intascarli e magari sperperarli. Non per nulla si dice che l’industria che non va mai in crisi è quella del lusso. Né basta che si preoccupi degl’incapienti o delle basse pensioni; qui c’è il popolo lavoratore che viene espropriato, cui dev’essere fatta giustizia.  

                                                                  (Nuovo Quotidiano di Puglia, 12 novembre 2007) 

 

 

Se la chiesa limita la libertà dei farmacisti

di Arrigo Colombo

 

        Il papa interviene di nuovo nell’attività dello stato italiano, richiamando i farmacisti cattolici all’obbligo dell’obiezione di coscienza contro l’acquisto della cosiddetta “pillola del giorno dopo” in quanto “pillola abortiva”, che cioè uccide una vita umana (non ne ha fatto il nome, ma ha parlato di “molecole che hanno come fine quello di evitare l’annidamento dell’embrione”; ha parlato anche di eutanasia). Interviene dunque su di un servizio pubblico, regolato dalla legge; sui cittadini, tenuti all’osservanza della legge; interferisce nella vita dello stato, regolata dalla legge. E così contravviene a quanto stabilito nel primo articolo del Nuovo Concordato, il quale afferma che stato e chiesa sono, ”ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, impegnandosi al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti”.  

 

Si obietta che lo fa per un principio etico, che trascende e anzi deve fondare la legge positiva; la quale, quando gli contravviene, è ingiusta. Ma questo principio etico non è certo; che quella vita che la pillola uccide sia umana, è tutt’altro che certo. Ci stanno di mezzo i primi quattordici giorni, quando l’embrione non può ancora considerarsi umano in quanto consta di cellule tutte indifferenziate; e questa è la dottrina dei maggiori teologi e moralisti anche cattolici; dottrina seguita dagli stati che ammettono quella pillola; a cominciare dall’Inghilterra, che sui primi  quattordici giorni basa l’intera sua legislazione e prassi in proposito; e dalla Francia, dove la pillola fu inventata, e introdotta nel 1988. Ma il Vaticano non tiene in alcun conto la dottrina dei teologi né il comportamento degli stati; in tanti casi; perché ritiene di possedere la verità al disopra di tutti, in quanto gode della superiore assistenza della Spirito Santo.

 

Ma veniamo ai farmacisti, i quali sono tenuti per legge a vendere ciò che il cliente richiede con ricetta medica. Il cliente può essere cattolico, e quindi in teoria tenuto ad osservare il dettato pontificio. Ma solo in teoria, perché gode della libertà di coscienza, e può dissentire sul carattere abortivo della pillola come su tante altre cose; e la libertà di coscienza, dopo due  millenni di persecuzione a tutti i dissenzienti e i cosiddetti eretici, mandati anche abitualmente al rogo, è stata riconosciuta dal Concilio Vaticano II.

Ma il cliente può anche essere acattolico, ebreo, musulmano, agnostico. Si calcola che in Italia in noncredenti siano circa il 5%, quindi qualche milione. Che cosa farà il farmacista? li sottoporrà a un interrogatorio? chiederà loro un attestato? la carta d’identità su cui un tempo era scritta anche la religione del cittadino? intavolerà una discussione sul carattere abortivo o meno della pillola?

Ci può però essere anche il farmacista che è convinto del carattere abortivo, o è convinto di dover essere fedele al dettato papale, e quindi dice: in coscienza non posso venderla, non posso contribuire alla soppressione di una vita; chiunque sia il cliente. Ma allora perché vende tutta la gamma dei contraccettivi, che pure sono proibiti dalla gerarchia? Anche se qui il principio etico è ancora meno certo, è anzi chiaramente falso: perché si tratta semplicemente di una gestione delle proprie funzioni biologiche da parte della persona, in ordine alla procreazione o meno, ad una procreazione programmata, rispetto alle esigenze della vita amorosa e sessuale.

 

Ma poi il papa, perché non richiama all’obiezione di coscienza anche i farmacisti francesi? la Francia essendo una nazione cattolica, un tempo anzi chiamata la “primogenita della chiesa”; e quelli tedeschi e inglesi? nazioni in cui ci sono larghe minoranze cattoliche. E perché non richiama i lavoratori che la pillola la fabbricano? e i ricercatori che la pillola l’hanno inventata, e ancora ci lavorano per migliorarla? e insomma tutti quelli che sono coinvolti in questo “sporco” affare? Perché il diktat cade sempre sulla sola Italia? Non sembra giusto, è anzi una palese ingiustizia.

 

È così che la “povera” Italia si ritrova impotente in molte cose. In un secolo ha sofferto di tre incidenti: il fascismo, poi tangentopoli, poi il berlusconismo, che ancora la minaccia. Con la conseguenza dell’enorme debito pubblico che la schiaccia, dei bassi salari che mettono in difficoltà le famiglie, l’imperversare del lavoro nero e dell’evasione fiscale, la disfunzione dei servizi e della pubblica amministrazione. Tutte cose che conseguono al malgoverno. E si trova poi con una legge che limita in molti modi la procreazione assistita; e nell’impossibilità di varare una legge sul patto civile, di regolare il problema omosessuale; sempre per l’interferenza del Vaticano. La “povera” Italia è certo amata dal Cristo, anche se nel mistero che contrassegna le cose divine, ma è perseguitata dai suoi vicari.

                                                                  (Nuovo Quotidiano di Puglia, 5 novembre 2007) 

 

 

Movimenti e potere popolare menomato

di Arrigo Colombo        

   

         Il caso più recente è quello di Beppe Grillo e del suo V-day, che tanto scalpore ha suscitato; e anche indignazione per il suo linguaggio scurrile (che poi era quello di un comico). Perché  la brava gente (a cominciare dalla casalinga di Voghera) s’indigna per una parola anomala, ma non per il tipo che vara una dozzina di leggi inique in favore delle sue imprese e dei suoi processi. Il V-day, poi, è diventato un movimento, con gruppi in molte città, attivi nella denunzia delle disfunzioni e malefatte dei politici in carica; che finiscono poi sul blog di Grillo e su altri siti; gruppi anche al di fuori d’Italia. Un fatto di notevole peso.

I politici, per lo più, hanno commentato con ostilità e fastidio. È il grosso errore che commettono ogni volta che un movimento entra in scena. Perché si considerano i depositari unici della politica; dimenticando di essere solo dei mandatari, eletti per quel numero d’anni (ma alcuni s’ingegnano a starci una vita intera); e cinque sono già molti, se si pensa che nell’Atene antica, la più alta democrazia della storia, tutte le cariche erano annuali e si ricoprivano una sola volta in vita. Affinché ci fosse un forte avvicendamento e tutti avessero la possibilità di partecipare.

 

Il problema è grave. È il problema della democrazia parlamentare, che diventa gestione incontrollata del potere politico, di un potere che non è suo ma di cui si è appropriata espropriando il popolo che ne è il detentore autentico. La sovranità popolare, il principio che si afferma con le moderne rivoluzioni ed è sancito nelle carte dei diritti e nelle costituzioni.

La gestione incontrollata. Chi infatti la controlla? chi la può controllare? La stampa, la radiotelevisione, la rete? La stampa è letta solo da una minoranza, il quotidiano, il settimanale di opinione e di critica; in parte è gestita dagli stessi politici. La radio è ascoltata occasionalmente, non ha una particolare forza. La televisione sarebbe il grande medium popolare ma, in Italia come in molti altri paesi, sta sotto il controllo o la diretta gestione dei politici: il duopolio RAI-Mediaset in particolare, l’anomalia italiana. Perciò i progetti che sono stati avanzati: che la RAI diventi un potere autonomo, analogamente alla magistratura (una fondazione, secondo il progetto Gentiloni), e che i privati non debbano possedere o gestire più di un canale. Quanto alla rete, la novità sarebbe il caso Grillo e il suo movimento di continua capillare denunzia della trasgressione politica; che però non ha ancora ottenuto l’attenzione dei media; mentre potrebbe diventare una specie di agenzia del malcostume politico.

Alla base di questa anomalia v’è la nostra Costituzione, che su questo punto è carente in quanto esclude il “mandato imperativo” e concede quell’immunità parlamentare che diventa poi abitualmente impunità. Dice infatti che il membro del Parlamento “rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato” (art. 67). Esclude cioè che l’eletto in un collegio riceva dal collegio stesso le linee direttive della sua azione, alle quali sia vincolato, e sulle quali sia poi giudicato al termine della legislatura. Esclude quindi l’esercizio del potere popolare, limitandolo a quel misero atto del voto ogni cinque anni, condizionato per di più dalle candidature dei partiti. L’Assemblea Costituente ha sottovalutato questo importante punto; lo si vede dagli Atti; si è illusa che bastasse la garanzia dei partiti; i quali  hanno invece sviluppato una specie di omertà, temendo nella condanna del candidato ignavo o trasgressore la condanna del partito stesso.

Questo vizio del parlamentarismo viene abitualmente ignorato. Lo ha toccato Ségolène Royal nella sua campagna elettorale, quando ha parlato di un giudizio popolare sugli eletti; ma non si sa quale fosse la sua vera intenzione.

 

Urge dunque correggere la Costituzione; ma non sarà facile. La società civile ha tuttavia un suo mezzo espressivo, una sua capacità di presenza organizzata, e di critica e rivendicazione; e sono i movimenti. Il cui ruolo è essenziale in quanto espressivo della sovranità popolare; e in quanto rappresenta una essenziale forza propositiva, di critica, di denunzia dell’errore e della trasgressione parlamentare e partitica. In Italia i maggiori sarebbero il Social forum, che promana dalla grande federazione di movimenti nata a Porto Alegre, lo World Social Forum, ed è organizzato per città; ma la sua presenza è debole. Poi i Girotondi, nati sotto l’impulso e la leadership morale di Nanni Moretti, il cineasta; il quale però si è sempre sentito più uomo di cinema che di politica; e ha lasciato il movimento ad altri, e il movimento ha perso di forza. Ora il V-day di Grillo, per ora il più vivace. Questi movimenti dovrebbero federarsi, per sostenersi e rafforzarsi a vicenda, per sviluppare una presenza forte, un’azione continuativa. Si parla di lista civica nazionale. Speriamo.

                                                              (Nuovo Quotidiano di Puglia, 29 ottobre 2007) 

 

 

Ancora la discussione sull’eutanasia

di Arrigo Colombo

 

         La discussione sull’eutanasia si è riaccesa in questi giorni al seguito di un dispositivo della Cassazione, la risposta ad un ricorso. Che concerne un caso di cui da anni si attende la soluzione: la donna che dal 1993, in seguito ad incidente, versa in stato vegetativo ed è tenuta in vita con nutrizione artificiale.

La Cassazione risponde che il giudice può autorizzare la sospensione del trattamento, ma a due condizioni. Primo, che lo stato vegetativo sia irreversibile; secondo, che risulti la volontà del paziente di non tollerare quello stato; volontà espressa, o implicita nella sua personalità, stile di vita, convincimenti.

Questa risposta lascia perplessi e suscita molte obiezioni. Anzitutto lo stato vegetativo irreversibile; per il quale – si dice – non esistono criteri certi, non sono mai stati fissati parametri e protocolli precisi; come per la morte cerebrale. Poi la volontà del paziente, per la quale la Cassazione esige “elementi di prova chiari, univoci e convincenti”. Insomma qui si autorizza, ma insieme si erigono altissime barriere.

 

A capo di tutto ci sta l’assenza della legge. Tutte le maggiori nazioni europee hanno una legge che regola questi casi estremi in cui la persona umana è radicalmente menomata o eclissata, e la vita continua solo attraverso mezzi artificiali; ma noi non l’abbiamo. C’è un disegno di legge sul “testamento biologico” che attende ma non avanza; come non avanza il Pacs o il Dico. Perché il Vaticano non vuole, e di conseguenza non lo vogliono i parlamentari cattolici, o i cosiddetti “teocon”, i più ligi al dettato della gerarchia, dimentichi che esiste una libertà di coscienza e una coscienza critica (quel “cattolico adulto” di cui parlava Prodi). La prima, la gerarchia l’ha rifiutata per secoli, perseguitando e mandando al rogo i cosiddetti “eretici”; la seconda la ignora tuttora. E manca quindi la maggioranza per tradurre il disegno in legge. L’intervento per alleviare e risolvere  questi casi dolorosi è illegale, è omicidio.

Il Vaticano parte da un principio di per sé ineccepibile: che l’uomo non ha il pieno dominio della propria vita. Non può darsela, questo è chiaro a tutti: si trova ad essere concepito, magari casualmente, magari contro la volontà stessa della coppia che lo genera. Heidegger, con parola famosa e anche dura, dice “è gettato nel mondo”, mentre in realtà è messo al mondo dalla volontà amorosa di Dio; e così nasce e cresce e raggiunge ragione e autonomia, ma solo relativa, per la sua finitudine, sempre legato ad un vincolo etico, ad un “tu devi”. E come non può darsi la vita, così non può togliersela; l’uomo è di per sé nulla, il suo essere è un dono, che solo in piccola parte gli appartiene. alcun altro può toglierla perché andrebbe contro la dignità e il  diritto della persona umana.

E però il Vaticano a un certo punto, nel suo consueto rigore, nella sua tensione repressiva, non è coerente. Perché ammette pure la sospensione di quello che è chiamato “accanimento terapeutico”; ammette quindi che a un certo punto, quando la terapia non è più tale, perché non è più guarigione, né è sostegno e conforto di una vita umana, non ha più senso. Così una vita puramente vegetativa, come quella che da oltre quindici anni conduce questa donna, non è più vita umana. In ogni caso non si tratta qui di togliere la vita, ma di lasciarla al suo naturale corso.

Il Vaticano sostiene sempre a spada tratta il principio di natura: così nella procreazione assistita, quando invece dovrebbe intervenire il principio di persona e del suo pur limitato dominio sulla natura; il principio della gestione razionale delle proprie funzioni di natura, funzioni biologiche, specie quando la natura vien meno; come nel caso della sterilità. E però qui abbandona quel principio, la natura, il naturale corso di una vita che si spegne, si è ormai quasi spenta, per affidarsi non alla gestione razionale ma all’artificio, al macchinario, alla macchina di respirazione o a quella di nutrizione, a un complesso meccanico che mantiene a tutti costi quel povero residuo di vita.

Qui non hanno senso neppure le scrupolose cautele della Cassazione, non ha senso il disquisire – dopo quindici anni – sull’irreversibilità o meno, sul fatto che la persona avrebbe o no voluto questo, su ipotesi irreali e fantomatiche. Qui la soluzione più semplice è anche la più saggia, la natura, il suo corso, quello di una vita che naturalmente si spegne.

Si legge che papa Wojtyla, quando sentì approssimarsi la fine, a chi gli voleva somministrare altre cure disse “no, lasciate”. E non fu il solo. Céline, il grande romanziere francese, uno dei grandi del ‘900, l’autore del “Viaggio al termine della notte”, quel mattino in cui non si alzò più dal  letto, alla moglie che voleva chiamare il medico disse “no, lascia”. E non erano certo suicidi.  

                                                                     (Nuovo Quotidiano di Puglia, 22 ottobre 2007) 

 

 

Le tasse bellissime di Padoa Schiopppa

di Arrigo Colombo

 

         Padoa Schioppa, austero e non particolarmente amato Ministro del Tesoro, è anche un personaggio schivo, un tecnico dalla parola asciutta e misurata, parola anche infrequente e sempre ligia ai suoi canoni; ma in questi ultimi tempi ha avuto alcune sortite che hanno fatto discutere e insieme sorridere. Una è questa, che “le tasse sono una cosa bellissima, un modo civilissimo di contribuire tutti insieme a beni indispensabili quali istruzione, sicurezza, ambiente e salute”.

Un’espressione audace, in un terreno come l’italiano, dove il senso civico non è forte, come non lo è il senso di disciplina, e la tendenza è spesso più ad infrangere che ad osservare la legge. Perciò anche insolita, che i politici evitano non solo in questa forma spinta ed estrosa, dei superlativi, ma in ogni forma, perché temono di alienarsi la gente; mentre dovrebbero insistervi, in forme anche pacate, che aiutino la gente a una visione positiva e costruttiva di questa materia; visione che poi faciliti il compito, che anzi induca la coscienza di un dovere e insieme di un atto di solidarietà e di amore fraterno.

Quando Prodi si lamentava che la chiesa non contribuisse a formare questa coscienza, molti se ne stupirono, quasi che egli la invitasse ad entrare in un terreno non suo, quello dello stato e della legge, in cui la chiesa italiana tende già troppo a ingerirsi. Ma egli alludeva proprio a questa categoria dell’“amore fraterno” che è punto supremo dell’annunzio evangelico, e dovrebb’essere punto supremo e insistente dell’annunzio della chiesa; in luogo di altri temi su cui essa insiste a non finire, e che non appartengono alla tipicità di questo annunzio, non ve n’è traccia nei vangeli; come l’etica sessuale e familiare, la procreazione assistita e il patto civile, la tanto osteggiata omosessualità. Un compito di formazione della coscienza dei fedeli, che si tradurrebbe poi nella coscienza del cittadino.

Un’espressione dunque, quella del Ministro, profondamente vera, giusta: le tasse sono il contributo di ciascuno al bene di tutti, al bisogno di quella società in cui ciascuno di noi vive e convive, della sua gestione e dei suoi servizi, di cui ognuno di noi continuamente usufruisce: le strade asfaltate e illuminate, le piazze, i negozi, l’ordine, la sicurezza; infinite cose. Forse certe parole come “tassa” e “imposta” sono di per sé odiose, per il senso dell’imposizione appunto; “contributo” è parola più corrispondente al giusto senso, di una coscienza e volontà di contribuire al bene comune; volontà buona, convinta, gioiosa, che contribuisce con gioia. E però i superlativi del Ministro erano certo eccessivi.

 

Ma veniamo ora a due condizioni che sembrano indispensabili a questo convinto e gioioso contributo del cittadino; due condizioni che il cittadino pone con fermezza, che esige da quelli ch’egli elegge alla gestione dello stato; i suoi mandatari. Poiché il potere sovrano sta nel popolo.

Anzitutto il contributo richiesto non dev’essere eccessivo. E lo è se, come da noi, raggiunge quasi la metà del PIL, cioè dei beni prodotti dalla nazione, e di cui la nazione dovrebbe usufruire. Quasi la metà se ne va nella gestione e nei servizi pubblici; rispetto a tutto il resto, che è l’essenziale, è l’essere e coessere dei cittadini, la loro intera vita e i loro bisogni;  resta solo l’altra metà. Per quanto sia complessa oggi la rete dei servizi, la ridistribuzione dei beni in ordine al bisogno e all’eguaglianza, alla dignità del  vivere per ognuno, alla povertà e alla calamità, la sproporzione è enorme. Bisognerebbe raggiungere almeno il 30 e il 70 per cento.

È chiaro, però, che la prima condizione consegue alla seconda; che il contributo richiesto è eccessivo perché non è ben gestito, perché viene sprecato, perché la gestione dello stato e dei servizi è carente: v’è ignavia, indolenza (i “fannulloni” di cui parlava il Ministro, altra parola che gli fu rimproverata); v’è sperpero in molti modi (le 547.000 auto blu al servizio dei politici sbruffoni, che si prendono anche un aereo per andare alle corse col loro seguito parassita); v’è clientela cui si concedono favori indebiti, per la quale si creano posti, mansioni, commissioni, si elargiscono compensi insensati; v’è corruzione; v’è un Parlamento che invece di essere un esempio di sobrietà, di quell’austerità che chiede alla gente, si elargisce vitalizi, alti stipendi, indennità, privilegi a non finire; un Parlamento di 1000 persone perlopiù assenti, con un buono di presenza anziché un’ammenda d’assenza; e un Governo di 102 persone, quando ne basterebbero 30. E via e via, lo spreco non finisce mai, e si riempirebbero pagine e pagine anche solo a volerlo sommariamente descrivere.

Il Ministro ha un bel parlare di tasse bellissime e civilissime, ma la gente è infuriata; ormai sa tutto, dopo le inchieste fatte dai media; sa che lo stato italiano è una rovina. Parlamento e Governo non credano di barcamenarsi con piccole misure, modesti tagli: l’intervento dev’essere drastico, dev’essere forte; un compito difficilissimo li attende, al quale non possono mancare. L’Unione, gli eredi della virtù socialista e di quella cristiana, sono attesi al varco: già il consenso popolare è basso, per gli errori che finora hanno commesso; ma se non riusciranno in quel compito si abbasserà ulteriormente e per loro sarà la fine.

                                                               (Nuovo Quotidiano di Puglia, 16 ottobre 2007) 

 

 

La discussione oggi sullo statuto dell’embrione

di Arrigo Colombo

 

       In Italia, essendo in vigore la legge n. 40 del 19/02/2004 sulla procreazione assistita, la discussione era ferma sino a tempi recenti. Tale legge, infatti, riconosce senz’altro l’embrione umano come soggetto di diritto, e vieta quindi ogn’intervento su di esso che non sia quello che lo genera nella fecondazione in vitro, nei casi di sterilità e infertilità; e per un massimo di tre embrioni che devono essere tutti impiantati. Sui quali non è possibile nessun intervento diagnostico o sperimentale che non sia volto al bene dell’embrione stesso; così come non è possibile la crioconservazione (se non limitatamente all’indisposizione della donna all’impianto) o, tanto meno, la distruzione. Tutte cose relative alla dignità e al diritto di persona conferito all’embrione.

La legge segue pedissequamente il documento vaticano del 1987 sul “Rispetto della vita umana nascente”; un documento molto restrittivo, che non tiene conto neppure della discussione in atto nella chiesa stessa, dell’opinione dei maggiori teologi e moralisti; tanto meno dell’opinione di altre chiese, a livello ecumenico. Ma si sa che il Vaticano è aduso a questi comportamenti autoritari, scarsamente rispettosi della complessità dei problemi e della molteplicità delle posizioni.

 

La discussione si è aperta alquanto la scorsa settimana, quando il tribunale di Cagliari ha risposto positivamente ad un quesito che chiedeva la “diagnosi preimpianto” dell’embrione; e proveniva da una donna portatrice di talassemia, una malattia assai diffusa in Sardegna, e in genere nelle regioni mediterranee; in fase di regressione tuttavia. La donna non voleva che il figlio nascesse con questa tara; e però tale diagnosi non costituiva un intervento volto al bene dell’embrione stesso, come vuole la legge; volto anzi alla sua emarginazione o soppressione, nel caso che la tara fosse riscontrata.

Il giudice ha eccepito sul diritto d’informazione della donna circa la salute del concepito, in analogia con pratiche in atto da tempo, come la diagnosi prenatale e l’amniocentesi. Ha eccepito inoltre sul diritto della donna alla salute, trattandosi di persona psichicamente sofferente per due precedenti aborti, e cui la previsione di avere un figlio talassemico causava uno stato di ansia che le faceva rifiutare l’impianto; per cui l’embrione era stato congelato. Sul prevalente diritto della madre che è persona in senso pieno, rispetto all’embrione che non lo è ancora; ma è proprio questo che la  legge afferma, l’embrione come soggetto di diritto e quindi persona.

Bisognava semmai eccepire su questo stesso punto della legge, richiamandosi alla prevalente posizione di scienziati e moralisti, e alla legislazione di altri stati. La quale si basa sulla certezza che l’embrione nei primi quattordici giorni non è persona in quanto consta di cellule indifferenziate; gli manca quel minimo di articolazione corporea che si richiede per la sua animazione, per la presenza dello spirito. Col quindicesimo giorno inizia il processo differenziatore; e anche in questa seconda fase le opinioni divergono, ma non si può più parlare di certezza.

Si è obiettato sul carattere eugenetico della “diagnosi preimpianto”, carattere escluso dalla legge; ma erroneamente, perché si tratta qui del caso singolo; mentre l’eugenetica mirerebbe alla specie, o alla “razza”, secondo la terminologia dei nazisti, che la coltivarono, così come tutta una corrente tra ‘800 e ‘900, nell’intento di migliorarla e perfezionarla. Ma si trattava, e si tratta per ora, di una falsa scienza.

 

L’altro punto di discussione risale ai primi del settembre scorso, ed è il metodo introdotto in Inghilterra, per ottenere cellule staminali, attraverso l’inserimento del nucleo di una cellula umana in una cellula di mucca il cui nucleo è stato rimosso; il processo viene poi avviato con una scarica elettrica. L’esperimento è stato autorizzato dall’ “Autorità britannica per la fecondazione e l’embriologia”, che ne ha incaricato due precisi istituti, la Newcastle University e il King’s College.  

Delle  cellule staminali si è parlato molto, del loro impiego nelle malattie degenerative, come l’Alzheimer e il Parkinson e molte altre, che tanto oggi ci affliggono; si è generata una grande speranza cui non corrispondono ancora fatti concreti. C’è un forte bisogno di queste cellule, si cercano nuovi metodi per produrle in quantità considerevoli. È questo lo scopo. Da  notare che l’Inghilterra ha sempre seguito il principio dei primi quattordici giorni come liberi dal vincolo della persona e dalla sua dignità e diritto. Perciò le tante critiche che si son mosse, specie da parte cattolica, non hanno senso. Si è detto che si stavano producendo mostri, chimere, esseri umano-vaccini; ma è proprio questo che il metodo esclude; poiché mira solo a quelle cellule indifferenziate e al loro impiego per il bene dell’umanità.

                                                             (Nuovo Quotidiano di Puglia, 8 ottobre 2007)

 

 

L’Italia divorata dai suoi politici

di Arrigo Colombo

 

        Il Presidente Prodi ha per la seconda volta dichiarato che un rimpasto del governo non ci sarà; e noi comprendiamo bene che una tale richiesta gli crea un imbarazzo enorme perché si tratta di un governo gonfiato oltre misura per accontentare tutti; un governo anomalo quale non si era mai visto, neppur nella malgovernata prima repubblica; con 29 ministri e 76 viceministri e sottosegretari. Che si tratta di dimezzare, portarlo alla normalità dei 15-16 ministri, e rispettivi sottosegretari, di Spagna,  Francia, Germania.

Perché poi questo rimpasto, o riduzione, o snellimento che dir si voglia, assurge a simbolo; è l’inizio di un’operazione di vasta portata che deve ridurre molte altre cose, molti altri organi di stato, centrali e periferici; che deve riportare alla normalità tutta l’anomalo pletorico edificio della politica italiana.

L’Italia è divorata dai suoi politici; da questi personaggi che dovrebbero essere gestori virtuosi, esemplari, severi, dei beni della nazione. Da quando l’Unione ha preso le redini del paese si discute molto della precaria situazione economica italiana, gravata da un debito pubblico enorme, con altrettanto enormi interessi da scontare annualmente; si è fatta una prima finanziaria di risanamento che ha comportato grande impegno e grande sacrificio; si è affrontata fin dall’inizio quella che è stata indicata come la causa precipua dello squilibrio, e cioè l’evasione fiscale. Ma si è sottaciuta quell’altra causa, che è andata emergendo negli ultimi mesi, e ha raggiunto la sua piena conferma nell’inchiesta condotta da Confindustria.

Vediamo alcune cifre. Il costo medio annuo di un parlamentare italiano è di 1.532.000 euro ; in Germania di 862.000, in Francia di 846.000, in Inghilterra di 348.000, in Spagna di 257.000.  L’indennità base annua di un europarlamentare italiano è di  149.215 euro, di un tedesco di 84.108, di un inglese di 82.380, di un francese di 63.093, di uno spagnolo di 39.463. Il finanziamento pubblico  annuo dei partiti  è in Italia di 200 milioni di euro, in Germania di 132, in Francia di 80, in Spagna di 60, in Inghilterra di 9. Il divario è forte: in media siamo al doppio degli altri paesi, o anche oltre. Il numero dei parlamentari stabilito dalla Costituzione si rivela eccessivo, 630 deputati e 315 senatori, quasi un migliaio di persone; si può tranquillamente dimezzare; se si pensa che gli USA, con 300 milioni di abitanti, hanno 100 senatori. Anche il loro stipendio, tutto compreso, è eccessivo, 15.304 euro mensili netti per i deputati, 15.880 per i senatori.

Ci sono poi innumerevoli capitoli di spesa con sprechi enormi. Il caso di cui più si parla è quello delle auto blu, che sono 574.000, contro le 75.000 degli USA e le 65.000 della media europea. E c’è infine tutto il quadro periferico di regioni, province, comuni, che presenta situazioni affini e anche molto peggiori, con sprechi veramente insensati.

 

Questa situazione è ormai di comune dominio e suscita l’indignazione della gente. Si è formata una pubblica opinione fortemente ostile e che chiede un forte cambiamento. Il caso Grillo, il consenso che la sua iniziativa ha raccolto, ne è un segno. E quando si parla di gente o di pubblica opinione, si parla di società civile, di sovranità popolare, di quello che è il soggetto primo ed unico del potere politico; di cui tutti gli altri, i politici di professione che parlano di “piazza” e la disprezzano, sono i rappresentanti, i mandatari temporanei. Sono eletti per cinque anni. Ma si comportano come se fossero loro i detentori unici del potere; mentre la gente, la “piazza” sarebbe un’intrusa, che li disturba nel loro legittimo esercizio.

Così facendo perdono il consenso popolare. Prodi, ad esempio, dev’essere attento perché il consenso per lui e per l’Unione è molto basso; e un comportamento di disattenzione o di opposizione alla volontà popolare lo danneggerà ulteriormente.

 

Bisogna che governo e parlamento procedano con decisione.  Con misure che siano informate a quei principi di giustizia ed equità che la gente invoca, e che portino alla fine degl’ingiusti privilegi come degl’irrazionali sprechi. Il trattamento dei politici, e dell’attività politica e amministrativa, dev’essere esemplare per il cittadino, e ispirato anche a un criterio di austerità, quell’austerità che viene chiesta a tutta la nazione.

La gente vuole che il parlamentare abbia uno stipendio normale, che può essere stabilito sulla base degli stipendi dei magistrati; senza altre indennità varie. Che questo stipendio non sia cumulabile con altri stipendi, altri introiti. Che invece del buono di presenza ci siano delle trattenute per le assenze ingiustificate.

Che il parlamentare abbia un trattamento previdenziale come ogni altro, i cui contributi si saldino – per gli anni passati in Parlamento – coi contributi già in corso di versamento. Che cessino tutti i privilegi e tutte le gratuità, a cominciare dai trasporti gratis di ogni tipo, dai ristoranti e bar gratis, dagli spettacoli, dai cellulari, dalle cliniche e palestre, da tutti questi indebiti favori.

Che per il futuro, l’aumento dello stipendio che il Parlamento fa a sé stesso corrisponda esattamente al tasso d’inflazione, e sia per questo soggetto alla verifica della magistratura o di un’autorità.

Che si proceda ad una rigorosa riduzione delle spese generali. Che per regioni, province, comuni, enti statali in genere, si stabiliscano dei parametri cui devono attenersi: l’abuso è stato troppo grave.

Il problema è complesso ma è giunto il momento in cui dev’essere affrontato. Che i politici, in particolare il Centrosinistra, non commettano l’errore, e anche l’ipocrisia, di rinviarlo.

                                                                    (Nuovo Quotidiano di Puglia, 1° ottobre 2007)

 

 

Corruzione e degrado nell’università italiana

di Arrigo Colombo

 

        La recente vicenda delle prove di ammissione in alcune facoltà italiane in cui vige il numero chiuso, medicina e odontoiatria in particolare, ha sbalordito l’intera nazione, per almeno due motivi. L’improntitudine dell’apparato ministeriale che ha affidato la prova alla casualità di alcuni quiz: casualità, leggerezza, irresponsabilità del Ministero e del Ministro; questo dev’essere detto con chiarezza. La corruzione dei giovani, delle famiglie, delle stesse università, specie nel Sud, nel falsare la prova in molti modi: diffondendo prima i testi, procurandoseli, comprando il risultato, introducendo falsi candidati nella persona di esperti consiglieri, comunicando tra loro e con l’esterno per cellulare, spesso nell’indifferenza del personale cui era confidata la prova e la sua serietà.

Un insieme di fatti che indigna e preoccupa. La corruzione dei giovani anzitutto; che pretendono ad una professione che sarà responsabile della nostra vita; in una società corrotta  come quella del Sud, società clientelare, nepotista, venale, dove tutto si vende e si compra. Corruzione dell’università già provata altre volte da fatti criminosi finiti in procura: vendita di esami da parte di professori, commercio di tesi, clientelismo e nepotismo sfacciato. Degrado dell’università, basso livello etico e culturale.

 

Ma ritorniamo a questi ridicoli quiz (con anche degli errori, per giunta), con cui si pretende provare il livello culturale del candidato (la qualità della persona e la sua moralità non interessano), si pretende comparare i candidati tra loro. C’è di che vergognarsi, se si pensa a quanto accade in altre nazioni, in Inghilterra ad esempio (e negli USA), dove l’ammissione all’università è un fatto di estrema serietà. S’informi il Ministro, poiché la sua responsabilità è grande, e non può improvvisarsi nella gestione di questo dicastero che gestisce la formazione culturale della nazione al più alto grado. E dovrebbe gestirla al meglio.

In Inghilterra l’intera università è a numero chiuso, tutte le facoltà. Perché si pensa che la preparazione culturale dello studente debba essere vagliata; o altrimenti lo studente integrerà i suoi studi e si presenterà una seconda volta, una terza. E perché l’ammissione è fatta su base statistica, in rapporto al bisogno delle varie professioni. Perciò ad ogni università è assegnato un numero preciso di posti; o anche nessuno, se non v’è il bisogno, e per quell’anno il corso è sospeso (ricordo che nel visitare l’università inglese nel ’70, ad Oxford se non erro, il corso di architettura era sospeso perché v’erano già troppi architetti). Non si vuole che le professioni vengano inflazionate, che i professionisti restino poi senza lavoro.

Resta aperto il problema del “diritto allo studio”, e la fondamentale istanza che un certo grado di formazione universitaria sia raggiunta da tutti, come adeguata formazione culturale della persona; che la persona, nella sua dignità e potenzialità, non possegga solo la modesta istruzione della scuola media, ma raggiunga il livello universitario della cultura e della ricerca. E però il problema è lungi dall’esser risolto anche da noi, dove pure l’università è in gran parte aperta.

In Inghilterra l’ammissione non si adempie con un quiz, ma è un processo che dura circa un mese, e che comporta per ogni candidato due colloqui di un’ora ciascuno, ogni volta con un professore e uno studente anziano, che devono mettere in chiaro la sua formazione culturale e il suo progetto professionale. Inoltre egli ha consegnato il suo curriculum il più possibile completo. Dopo di che una commissione, in base a tutti i dati raccolti, decide l’ammissione.

 

Ma poi l’intera impostazione dell’università anglosassone è incomparabile. Là il punto chiave non è la lezione né l’esame ma il “tutorial”, cioè il colloquio settimanale di un’ora col professore che è anche “tutor” (secondo la tradizione il colloquio è di due ore con due studenti); colloquio in cui si sviluppa un rapporto personale, una cooperazione, una discussione del lavoro in corso e dei problemi che vi emergono; si sviluppa quindi un’intensificazione degli studi e una più profonda assimilazione. Perciò un professore non può avere più di dodici studenti; coi quali ha appunto un rapporto personale e profondamente formativo.

A questo modello si contrappongono i vizi dell’università italiana; vizi noti, che la Contestazione degli anni 1960-70 ha denunziato anche con rabbia, ma che sono rimasti per lo più immutati. L’anonimato dello studente, che il professore per lo più ignora, lo incontra solo nel momento dell’esame (o neppure in quello, perché lo fanno gli assistenti). La massività, la massa studentesca amorfa, in certi corsi centinaia, migliaia, che nessuno conosce, di cui nessuno si cura. Il non-obbligo di frequenza, quindi la conoscenza libresca di una materia amorfa, appuntata nella memoria per l’esame, che con l’esame in gran parte decade. Con le riforme e controriforme di questi anni, l’esame diventa leggero, specie nelle scienze umane, che sono poi quelle che formano l’“l’humanitas”; i suoi contenuti culturali diventano sempre più scarsi, poveri.

Il problema è grave perché nell’università è in gioco il livello culturale della nazione; dall’università dipende la scuola, cioè la formazione e crescita culturale ed umana del cittadino. Forse il Ministro ignora questa situazione, e il Governo non se ne cura. L’Italia continua nel suo declino: sempre più povera, poiché vende e svende le sue maggiori imprese, Alitalia, Telecom, Autostrade, e via dicendo; sempre meno significativa di fronte alle altre nazioni; sempre più ignorante; sempre più corrotta, col vanto delle sue quattro mafie.

                                                                    (Nuovo Quotidiano di Puglia, 24 settembre 2007)

 

 

La discussione sulle tasse della chiesa

di Arrigo Colombo

 

       La discussione sulle tasse della chiesa si è sviluppata negli ultimi mesi, ma il punto di partenza sta nel gennaio scorso, in una nota della Commissione Europea al governo italiano concernente l’esenzione di certi immobili dall’Ici, la tassa sugl’immobili dovuta ai comuni (o anche dall’Ires, la tassa sulle società). L’esenzione concerne tutti gli edifici dedicati “esclusivamente” ad attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive (secondo la legge n. 400, 1992); qualunque sia il soggetto che le svolge; ma la chiesa è quella che ne gestisce la quantità più imponente, poiché si parla di 100.000 immobili, per un’Ici di 2 miliardi e 200 milioni.

Hanno un po’ stupito le reazioni di alti prelati, come il Segretario di stato card. Bertone o il presidente della Conferenza Episcopale l’arcivescovo Bagnasco, di altri; che hanno parlato di persecuzione, di attacco anticlericale e massone contro una chiesa le cui opere sono dirette ai poveri. Reazioni non molto sensate in quanto la Commissione persegue obiettivi di equità e di equilibrio all’interno degli stati e nel quadro dell’Unione; che non ci siano cittadini privilegiati rispetto ad altri; che questi privilegi non danneggino l’equilibrio fiscale di uno stato; l’Italia, in particolare, che sta sotto stretta osservazione per il suo enorme debito pubblico.

Inoltre non è vero che queste strutture ecclesiali siano tutte dirette ai poveri. Ce ne sono per i poveri, ce ne sono per il ceto medio (cui si assimila da tempo il ceto operaio), ce ne sono per il ceto dominante e dirigente. Si sa, ad esempio, che i collegi dei Gesuiti furono fondati – una direttiva esplicita del fondatore Ignazio di Loyola – per la formazione della classe dirigente; perché si pensava che la classe dirigente avrebbe poi formato il popolo nello spirito cristiano; idea che si è rivelata falsa. Ma la stessa cosa è accaduta per i Fratelli delle scuole cristiane, che furono fondati per educare i poveri ma si rivolsero poi alle élite. Anche oggi i  loro collegi, come quelli dei gesuiti, sono collegi di élite. E però vi sono anche cliniche e case di riposo elitarie.

 

Ma veniamo alla dibattuta questione dell’Ici per la chiesa. Essa non concerne gli edifici di religione e di culto, che sono esenti da tasse; né gli edifici che svolgono le attività previste dalla legge in modo “esclusivo”; ma quelli che le svolgono in termini “commerciali”, che cioè cedono una merce o un servizio a pagamento, e hanno quindi un introito o anche un profitto (e sono già esenti per il 50% dall’Ires); come ha spiegato un responso della Cassazione (n. 4645 del 2/10/2004).

Possiamo tentarne una rassegna, sia pure approssimativa. Collegi, dove si paga una retta, che può essere anche alta; università; giornali, case editrici, librerie (si pensi alle edizioni e librerie Paoline); scuole materne, case di accoglienza di tipo alberghiero, colonie e soggiorni di villeggiatura, case di riposo, cliniche, ospedali. Gestiti dalla chiesa, da associazioni ecclesiali, da ordini religiosi.  

Come già si diceva, si tratta di un complesso imponente di opere, quindi di edifici. Prendiamo ad esempio l’attività di tipo alberghiero; prendiamo Roma, prendiamo quello che possiamo chiamare il turismo religioso romano: si parla di un fatturato di 5 miliardi di euro l’anno. Nell’intero paese si parla di 250.000 posti letto. Si comprende allora l’apprensione della Commissione Europea, che un ingente apporto fiscale venga meno in un paese dove la sofferenza fiscale è grave e inquietante.

 

Il problema insorge quando, nell’ultima finanziaria della legislatura di Centrodestra, l’Ici viene abolita anche per gli edifici con attività di tipo commerciale; ed è abbastanza evidente che, con questa misura, avvicinandosi le elezioni, il Centrodestra volesse propiziarsi il benevolo sostegno della gerarchia e dei fedeli cattolici. Il Centrosinistra, poi, che gli è succeduto, ha corretto la norma, ma in modo ambiguo, in quanto esige la tassa solo quando l’attività è “esclusivamente” commerciale. Ambiguo perché la maggior parte degli istituti ecclesiali hanno anche un’attività religiosa e di culto, sia pur marginale; v’è di solito una cappella, dove si celebra l’eucaristia, cui i fedeli partecipano; ci si confessa, ci si comunica ecc.

Si obietta che la finalità, e quindi il carattere proprio di questi istituti, non è mai commerciale ma di fede e di carità; mira a sostenere e sviluppare la fede della gente, ad aiutarla anche nei viaggi e nelle vacanze, come poi nell’età avanzata e nella malattia, ad aiutare le famiglie, come i bambini e i ragazzi nella loro fase formativa, offrendo loro garanzia di formazione culturale e insieme morale e religiosa; offrendo ospitalità a prezzi modici (il che è vero, salvo qualche eccezione). L’intento non è il guadagno, né tanto meno il profitto; l’intento è religioso, morale, sociale. E però questo vale – salvo la peculiarità religiosa – per tutti i soggetti che svolgono quelle attività; che hanno in genere un intento umanitario; e lo perseguono talora in forme molto alte; ed è riconosciuto con l’esenzione dall’IRES di cui si è detto.

In conclusione è difficile negare che si tratti di un privilegio fiscale concesso in particolare  alla chiesa cattolica; nel modo che si è detto, e che il nuovo governo non ha osato correggere con  chiarezza e decisione. Questa chiarezza è necessaria. D’altra parte la spesa pubblica del paese ha urgente bisogno del contributo di tutti: la chiesa per prima lo deve riconoscere, se davvero è animata da quel superiore spirito solidale che è la “carità”, l’amore  fraterno.

                                                                      (Nuovo Quotidiano di Puglia, 17 settembre 2007)

 

 

Ridurre le tasse, ridurre lo spreco

di Arrigo Colombo

 

        La riduzione delle tasse è ormai per questo governo un punto inderogabile, cui non può sottrarsi; un punto che l’elettorato cioè il popolo – che è il soggetto primo del potere politico – reclama perentoriamente; indispensabile per il consenso, che già è scarso. Lo reclama anche per una certa propaganda poco onesta della Destra, che ancora in fase elettorale lo ha bollato come “governo delle tasse”. Quella Destra che, con la sua gestione allegra, preoccupata più dei problemi del suo capo che di quelli della nazione, aveva provocato un aumento spropositato del debito pubblico, aveva trascurato la crescita, e quindi aumentato la tassazione. Meraviglia che la gente continui a tributare alla Destra tanto sostegno; per ignoranza certo, e perché succube della “suasione occulta” e palese della Destra stessa (le televisioni di Mediaset, e la “casalinga di Voghera” che le segue con devozione).

Fino a tempi recenti il governo ventilava una tassazione della rendita, cioè di quanto fruttano i depositi bancari e i titoli; addirittura del 20%. Dove bisognerebbe fare una fondamentale distinzione tra rendita e risparmio; mettendo in chiaro che sarebbe ingiusto tassare il risparmio operaio e del ceto medio; semmai gli alti redditi, i depositi e titoli oltre i 100.000 euro. Mentre bisognerebbe introdurre una tassazione specifica per le “grandi fortune”; come avviene in altri paesi (recentemente Sarkozy, amico dei ricchi, di cui spesso è ospite, l’ha abolita: un pessimo inizio del suo quinquennato). Si sa che le grandi fortune vengono accumulate attraverso lo sfruttamento e la speculazione, sottraendo denaro agli altri, impoverendoli. La loro tassazione è una forma di parziale restituzione, di ridistribuzione della “ricchezza iniqua”.

Vi sono dunque un paio di casi in cui le tasse andrebbero aumentate, e riguardano i ricchi e i ricchissimi. Ma in termini generali la riduzione s’impone sia per le persone e le famiglie, sia per le imprese.

 

Qui l’obiezione viene dal livello del debito pubblico; e viene non solo dal ministro dell’economia ma anche dalla Commissione Europea; per un debito che ha superato il 106% del PIL; un debito enorme che poi, col pagamento degl’interessi, produce altra tassazione. Il governo ha predisposto un piano di risanamento che riprende quello già avviato dal precedente Centro-Sinistra,  del 3% annuo; e a questo piano dev’essere fedele; altrimenti la “povera Italia” si troverà sempre in posizione precaria.

Ma le risorse non mancano: ci sono anzi due grandi fonti di risorse per la spesa pubblica.

La prima il governo l’ha individuata subito ed è il recupero dell’evasione fiscale. La seconda è il recupero degli sprechi della pubblica amministrazione. Sulla prima il governo è entrato subito in azione, e ha già ottenuto un discreto successo. Sulla seconda è più reticente perché direttamente coinvolto, coi suoi 29 ministri e 76 sottosegretari (in Francia 16 ministri, in Spagna 15); bisognerebbe fare un grosso rimpasto.

C’è ora un disegno di legge che prevede la riduzione dei deputati a 400 (da 630), dei senatori a 200 (da 315; ma negli USA, con 300 milioni di abitanti, i senatori sono soltanto 100). E però non è chiaro quale sarà poi il trattamento finanziario. Ciò che la gente vuole è che siano eliminati tutti i privilegi che i parlamentari si sono via via concessi. Uno stipendio normale, decoroso (non certo gli attuali 19.150 euro mensili, tra stipendio e indennità varie); un trattamento pensionistico come tutti (non l’attuale vitalizio che tanto scandalo ha suscitato quando pubblicato dall’ “Espresso”); via tutti gli altri privilegi e gratuità (cellulari, ognuno si usi il suo; tessere varie); ridottissime le auto blu (attualmente oltre 150.000).

Uno sfoltimento e un’austerità analoga è prevista per regioni, province, comuni; per quelle consulenze e commissioni in cui si sprecano grosse somme, spesso per i propri clienti, e spesso lasciando inattivo il personale già disponibile. Per regioni, province, comuni sarebbero necessarie autorità di controllo. Sfoltimento degli enti, molti dei quali inutili; riduzione dei consigli di amministrazione. Ritorna poi l’idea di abolire le province – idea tutt’altro che nuova; ma si è preferito creare altre province, e altre ancora sono in predicato.

 

Certo un iter complesso, e ci si chiede se questo governo e parlamento avranno la volontà e la forza di percorrerlo. Una fonte enorme di risparmio, di ricchezza per la nazione, per il suo benessere, per il suo slancio operativo e creativo; soffocato finora dal malcostume e dalle leggi truffaldine. E però, se non  lo farà, questa classe politica, in particolare l’Unione, si rivelerà inetta e disonesta, e non avrà il consenso della gente; perché questo la gente si aspetta, questa fondamentale giustizia, fondamentale onestà dei suoi governanti; questo la gente reclama oggi incondizionatamente.

                                                                            (Nuovo Quotidiano di Puglia, 10 settembre 2007)

 

 

Rom e lavavetri, un problema d’integrazione

di Arrigo Colombo

 

         Il problema dei lavavetri è scoppiato improvvisamente in questi giorni, con l’ordinanza del sindaco di Firenze che li proibiva, seguita da altri sindaci. Li proibiva in quanto erano accaduti episodi di violenza, su donne sole alla guida; ma in genere come turbativi dell’ordine pubblico; e certo quelle poche decine di secondi in cui si attende al semaforo, si attende che scatti il verde, non sembrano adatte al loro sia pur breve lavoro.

Ha meravigliato il fatto che fossero sindaci di Sinistra a sostenere l’interdizione, che toglieva a quei poveracci, in genere extracomunitari, quel piccolo lavoro e guadagno. Per tradizione la Sinistra è rivoluzionaria, mentre l’ordine è di Destra; il falso ordine della società ingiusta, in cui il povero deve accettare tranquillo la sua povertà, la sua discriminazione. Si è detto che sotto quelle ingiunzioni v’era una ricerca di consenso, della classe media e benestante che nel suo benessere vuole vivere tranquilla, nel suo egoismo benestante, nel suo ordine che occulta i disordini molteplici della povertà e della discriminazione.

E certo i sindaci, di Sinistra o di Destra che siano, quando tolgono i lavavetri dagl’incroci, e gli tolgono dunque quel piccolo introito con cui vivono, devono dargli qualcos’altro. I lavavetri devono essere riuniti quel giorno stesso dal sindaco o dall’assessore o da una commissione, che studia il loro caso e offre loro un altro lavoro, più dignitoso e più sicuro. Chiedendo magari anche l’intervento della Caritas o di altre associazioni che perseguono la giustizia e l’amore fraterno. Poiché i lavavetri sono nostri fratelli, bisognosi, sofferenti.

 

Il problema dei rom  è pure giunto alla ribalta nei mesi scorsi, al seguito di alcuni interventi analoghi, d’ingiunzioni di sindaci che li scacciavano da certi luoghi ritenuti abusivi, degradati, antigienici; a Bologna, a Roma, a Milano.

Un problema più grave. Anche se i rom in Italia non sono moltissimi, circa 100.000; una cifra tuttavia apprezzabile, una città come Lecce; anche se la metà circa di Francia e Germania. In Europa circa 8 milioni, di cui 2,5 in Romania. 8 milioni, una nazione più grande della Svizzera.

I rom – o altre tribù di questo popolo nomade – sono sempre stati un problema, proprio per il loro nomadismo anomalo; che non è mai stato un nomadismo a matrice economica, come quello dei popoli pastori alla ricerca di pascoli. Il loro lavoro era sempre sostanzialmente precario; anche se in passato più tipizzato, in quanto allevatori di cavalli, calderai, artigiani fini, musicisti; quella musica che ha suscitato l’interesse di Liszt e di Brahms. Ma con l’avvento della macchina, della società opulenta e consumista, con l’elevarsi del livello del bisogno, quei mestieri sono scomparsi, e il problema del reddito s’è fatto più difficile e ancora più ambiguo.

Di che vivono oggi i rom, si domanda la gente? i rom in genere, pur con le debite eccezioni. Di accattonaggio non solo, ma costringendovi bambini e madri (o pseudomadri) con piccoli bimbi, per ingenerare pietà. Di furto, talora prostituzione; talora droga. I rom vivono dunque in gran parte di crimine, in quanto non hanno un lavoro, e in quanto la loro condizione nomade impedisce loro di avere un lavoro.

Questa condizione non è sostenibile, è eslege; allestire per loro degli accampamenti non ha senso se quegli accampamenti, non offrendo anche un lavoro, diventano centri di crimine. Piccolo o grande che sia. Anche per i bambini il problema è grave, per la loro formazione culturale ed umana: si parla di un’evasione scolastica del 97%.

 

Probabilmente è giunto il tempo in cui questo popolo deve integrarsi, deve sedentarizzarsi. Una parte lo ha già fatto. Per gli altri ci si deve pensare seriamente, attraverso i comuni: là dove c’è un accampamento di rom, una commissione comunale tratta la loro sedenterizzazione: offrendo case (ci sono tanti contenitori vuoti nelle città: caserme, conventi, ospizi, fabbriche in disarmo; non si pensi solo a farne centri culturali, che magari poi restano vuoti), offrendo lavoro, aprendo la scuola ai bambini, offrendo un sussidio di avviamento. Questa commissione li segue poi nel processo d’integrazione, che non è certo facile in quanto esige un rovesciamento della mentalità e del costume; altre associazioni benevole, umanitarie li seguono.

I comuni hanno un’organizzazione nazionale, l’ANCI; in quella sede dovrebbero impostare un progetto globale, per poi gestirlo insieme, con una forza e una possibilità di successo ben più grande. Dovrebbero collegarsi a livello europeo, porre il problema, impostare un progetto, gestirlo. Le nazioni balcaniche hanno avviato per i rom un “decennio d’integrazione 2005-2015”. Bisognerebbe collegarsi con loro. Riuscire così infine a redimere questi fratelli da una vita precaria e misera.  

                                                                            (Nuovo Quotidiano di Puglia, 3 settembre 2007)

 

 

Alitalia non dev’essere venduta

di Arrigo Colombo

 

         Il governo insiste nella vendita di Alitalia, il servizio aereo nazionale. Non ci è riuscito in un primo round in cui aveva posto condizioni più serie, e ora ha rilanciato facilitando. Avrebbe potuto impegnarsi a risanarla, come hanno fatto altri paesi, la Svizzera ad esempio, con Swissair che era fallita; la Svizzera, un piccolo paese di 7 milioni di abitanti. Avrebbe potuto scegliere un buon manager che s’impegnasse al risanamento; come ha fatto Bondi con Parmalat e Marchionne con la Fiat, o prima ancora Tatò coi problemi dell’Enel. I buoni manager non mancano. Ha preferito liquidare quel Cimoli che aveva dissestato la compagnia con una somma che ha stupito e scandalizzato la gente: cinque milioni di euro per due anni e mezzo di pessimo lavoro. Poteva almeno imporgli una penale; o altrimenti tutti si chiedono se questo governo persegua o no la giustizia.

 

Sulla vendita di Alitalia non si può essere d’accordo.

Perché i grandi servizi nazionali non devono essere venduti in quanto sono patrimonio della nazione; vendendoli la nazione s’impoverisce, e avrà meno forza di fronte agli altri partner dell’Unione Europea. Nessuno di loro ha venduto la compagnia di bandiera, troppo importante, troppo rappresentativa.

E perché in questi grandi servizi c’è il denaro dell’intera nazione, di noi tutti; quel denaro che li ha costruiti, li ha fatti crescere, li ha soccorsi nelle difficoltà. Non appartengono al governo, ma alla nazione.

E perché sono servizi, non imprese profittuali; servizi che devono funzionare a prescindere dal profitto, per il bisogno di tutti; sono forme di ridistribuzione della ricchezza, non forme di accumulo. Questo non l’ha capito Prodi, che inclina al liberismo; ha scritto un libro sul “Capitalismo ben temperato”, come se potesse temperarsi quello che è un meccanismo di sfruttamento e di profitto, che tanti disastri ha provocato e sta provocando ovunque; a cominciare dal più grave e planetario, quello ambientale. Non l’ha capito D’Alema, che pur proviene da una formazione marxiana e marxista, e queste cose dovrebbe conoscerle a fondo; ma ha ceduto Telecom, il servizio telefonico nazionale; e l’ha ceduto a gente che ha preso i quattrini dalle banche, pensando di rifarsi poi rivendendo pezzi qua e là; perché al capitale non interessa l’impresa come tale, questa o quella, ma il profitto che se ne può trarre. E probabilmente non lo hanno capito neanche Fassino e gli altri DS, convertiti al capitale, neofiti del capitale privato.

E perché non bisognava ripetere gli errori commessi, ma apprendere dalle pessime esperienze fatte in questi anni. Ricordando il vecchio effato: “errare humanum est, perseverare diabolicum”. L’esperienza di Autostrade d’Italia, le nostre autostrade vendute ai Benetton, che ne hanno subito approfittato per incassare i proventi senza compiere i necessari lavori di manutenzione e miglioria; e hanno pensato poi di sbarazzarsene vendendole agli spagnoli. Solo la decisione di Di Pietro, ministro delle infrastrutture, li ha fermati; ma Di Pietro doveva fare di più, chiedere la rescissione del contratto e la restituzione dei beni, per inadempienza.

La dolorosa esperienza di Telecom, il servizio telefonico nazionale, svenduto a gente che ne aveva il controllo possedendo di suo solo il 2,5% del capitale; e che andava necessariamente verso la frammentazione e la vendita, magari a qualche magnate messicano o saudita; per l’insostenibilità del debito bancario.

La stessa vicenda si profila per Alitalia, perché nessuno dispone del denaro necessario ad un’impresa nazionale del genere; singoli o cordate. A meno di capitare sotto giganti come Air France o Lufthansa, e diventare sudditi dei francesi o dei tedeschi. Gente più accorta, che le proprie imprese nazionali non le cede.

 

Qui ci si deve sbarazzare dei nuovi dogmi economici, che si sono imposti in seguito al crollo del modello comunista sovietico, e con esso dello statalismo onnicomprensivo: e alla rimonta del liberismo. Il “dogma del libero mercato” che da sé basta al suo equilibrio e all’equilibrio mondiale; il che è falso perché il mercato, come ogni cosa umana, dev’essere gestito e compensato dai suoi squilibri; altrimenti diventa preda del più forte a danno del più debole. Preda degli stati ricchi che sfruttano i poveri (così gli USA in America Latina; così il protezionismo agricolo europeo a danno della produzione africana); della speculazione che annienta le imprese; del padronato che riduce il lavoro alla precarietà.

Il “dogma delle privatizzazioni”, che tutta l’imprenditorialità debba essere lasciata al privato, mentre lo stato si limita alla gestione globale dell’economia. Il che pure è falso, come già si è detto: che cioè i grandi servizi nazionali devono seguire criteri di servizio e non di profittualità.

Devono essere gestiti correttamente, ma questa è altra cosa, e qui semmai sta la grande piaga di questo paese, il punto di grave e duro impegno del governo: che nella pubblica  amministrazione e nell’impresa pubblica abbia fine il costume “clientelare” (l’intromissione dei politici, il collocamento dei loro protetti), il costume “parassitario” (di gente incapace ed oziosa, sottratta ad ogni controllo), il posto “assicurato a vita”. La gente vuole cha i servizi funzionino, che non vi si sprechi il denaro pubblico, che non vi sia corruzione, né ingerenza politica. Questo vuole, non le privatizzazioni.

                                                                    (Nuovo Quotidiano di Puglia, 27 agosto 2007)                                                         

 

 

Il complesso problema delle pensioni

di Arrigo Colombo

 

         Il problema “pensioni” si è orribilmente intricato per l’opposizione del Sindacato e della Sinistra all’aumento dell’età pensionabile. O all’aumento rapido, com’era previsto nella legge Maroni: tre anni subito, da 57 a 60; poi a 61 e 62. Vogliono un aumento lento, un passo ogni due anni, sì da arrivare a 62 nel 2016, o nel 2014. Il guaio è che con l’aumento rapido lo stato risparmia 65 miliardi di euro; con quello lento ne perde da 2.500 a 9.300. Perciò Bruxelles e gli enti internazionali insistono sulla prima soluzione; visto il livello del debito pubblico, la necessità di sanarlo.

 

Il problema “pensioni” si acuisce con l’aumento della durata media della vita, ora in Italia a 82 anni; e con il perdurare della vitalità: intelligenza, creatività, energia operativa. La durata sballa l’assetto previdenziale, i fondi necessari al pagamento delle pensioni; che vengono a costituire un fattore importante della “crisi fiscale dello stato”, un tema introdotto dall’economista O’Connor negli anni ’70.

D’altra parte, secondo gli studiosi dell’età matura, il pensionamento viene a costituire spesso un trauma per la persona, il passaggio abrupto ad una vita vuota e insignificante; che provoca nevrosi, provoca talora il suicidio. Oggi a sessant’anni la persona è nella pienezza della sua esperienza e della sua capacità operativa. Perciò il pensionamento costituisce anche una grave perdita per la società e per la produzione.

V’è però anche tutto un ambito che a una certa età è stanco di lavorare. Non solo quello dei lavori particolarmente faticosi e usuranti; ma anche il lavoro di macchina in genere; pur se liberato dalla catena per l’isola di montaggio, con mansioni molteplici e più leggere; spostato verso il lavoro immateriale attraverso l’informatica e la cibernetica. E anche il lavoro femminile che, come sappiamo, è spesso doppio, di fabbrica e di casa; quest’ultimo non essendo abbastanza condiviso dall’uomo.

V’è poi il problema dei giovani: si dice di solito che il lavoro è scarso, e che i “vecchi” se ne devono andare per lasciar posto ai giovani. Ma il lavoro è davvero scarso? e come mai c’è tanta richiesta d’immigrati, che neppure bastano? Oppure il giovane è diventato molto più selettivo ed esigente, e accetta solo certi lavori? Il che è anche giusto perché ognuno dovrebbe avere il “suo” lavoro, quello che corrisponde alla sua personalità e al suo progetto di vita; quello che Fourier per primo introdusse come “lavoro appagante”. L’opposto del lavoro alienante cui spesso l’uomo è costretto.

 

Il problema sembra dunque complesso. La richiesta, tuttavia, di cinque anni in più, visto che il guadagno di vita è di oltre vent’anni, non sembra irragionevole. Né si deve dire che il governo dell’Unione continua a chiedere dei sacrifici a un popolo che ai sacrifici non è propenso (si veda tutto il vasto ambito dell’evasione fiscale, di cui abbiamo trattato); perché la richiesta l’aveva già fatta il governo precedente.

I cinque anni, dunque, per tutti e presto, come contributo dei lavoratori a quel vasto risanamento che il governo dell’Unione ha intrapreso, e che va dal recupero dell’evasione, alla razionalizzazione dell’amministrazione e della spesa pubblica, all’abolizione dei privilegi e degli sprechi; un compito certo duro e difficile, ma che dev’essere affrontato con forte decisione e senso morale. La modernizzazione del vecchio paese indolente e parassitario, egoista e corrotto, paese di clientele e di mafie; di questi strati obsoleti e disonesti che gravano sull’equilibrio del paese e potrebbero anche portarlo alla rovina.

Al di là dei cinque anni (ottenerli presto sarà difficile, visto come stanno le cose, il Sindacato, gli alleati riottosi) il lavoratore dovrebb’essere lasciato libero di ritirarsi o di continuare; supposto che ne abbia le doti. Il pensionamento non dovrebb’essere obbligatorio; semmai, al contrario, si dovrebbe incentivare la permanenza. Per tutti i motivi detti.

Infine, l’idea che il governo persegue, di compensare i minimi di pensione (400-500 euro mensili) con un contributo di 40 euro al mese, è strana, per non dire sconcia. Davvero il governo pensa che i pensionati gliene saranno grati? o non piuttosto gliele sbatteranno in faccia? Tali pensioni dovrebbero perlomeno essere raddoppiate.   

 

 

La guerra dei disonesti che non pagano le tasse

di Arrigo Colombo

 

        Questa guerra è iniziata già in fase elettorale, quando l’Unione presentò tra i punti del suo programma il risanamento finanziario, e il recupero dell’evasione fiscale e del lavoro nero; e fu  bollata da Berlusconi come “governo delle tasse”. Troppo facile, dopo che egli, nel suo quinquennio di gestione allegra, aveva fatto crescere il debito pubblico fino ad oltre il 106% del PIL; invertendo il cammino virtuoso che Prodi aveva impostato, cioè la riduzione annuale del 3%, sì da giungere in dieci anni al 70, poi al 60% del PIL, cioè alla media europea. Cercando Berlusconi di supplire alle falle con quella che fu chiamata la “finanza creativa” di Tremonti; cioè i condoni immobiliari e fiscali, che favorivano poi la tendenza all’evasione, e alla devastazione del territorio (si pensi a punta Perotti, alla valle dei templi agrigentina, alla costa calabra).

Con il governo Prodi inizia una fase di gestione seria della finanza statale. Gestione rigorosa, che ristabilisca l’andamento virtuoso del debito, la sua diminuzione progressiva; e l’Italia cessi di essere la nazione più indebitata d’Europa, con tutte le conseguenze del caso. Gestione giusta, in cui tutti paghino la loro parte, e nessuno si sottragga a danno degli altri. Gestione solidale, in cui ognuno contribuisca secondo il suo reddito, compensando con la sua maggiore ricchezza la minore ricchezza o la povertà degli altri.

Si tratta di riportare ordine nelle finanze, ma anche nella coscienza degl’italiani, in quell’egoismo che pensa solo al proprio vantaggio. Quasi che anch’egli non camminasse e viaggiasse su strade asfaltate, attraverso ponti e viadotti e altre opere pubbliche, in città ben illuminate. Una coscienza consapevole che lo stato è come una grande comunità, che vive soltanto col contributo di tutti. Forse la parola “tassa” – che contiene l’idea di esigere un pagamento – o l’analoga parola “imposta”, sono meno adatte ad esprimere il senso di questo fatto; adatta è forse proprio solo la parola “contributo”, intesa come qualcosa di volontario, che ognuno fa con chiara e decisa e benevola coscienza. Pagare volentieri la propria parte, pagarla con gioia.

 

Ma torniamo alla situazione italiana, dove lo spirito di nazione, e quindi la solidarietà nazionale, è meno forte che in Francia o Germania; anche solo per il fatto che l’unità nazionale è più recente; ma in Germania v’è anche un originario spirito di comunità molto forte. Da noi lo stato si è premunito laddove poteva più facilmente farlo; coi lavoratori dipendenti, tutti quelli che non lavorano in proprio ma in un’impresa (di ogni tipo, anche la scuola è tale) e da essa sono pagati. Qui il contributo è “trattenuto” nel momento del pagamento e basta. Non v’è altro da fare, salvo che non vi siano altri beni passibili di contributo.

Il problema aperto, e che urge in queste settimane, è quello dei lavoratori autonomi, che lavorano in proprio. E cioè i coltivatori diretti, gli artigiani, il popolo dei commercianti e degli esercenti, quello dei professionisti, quello degl’imprenditori produttivi, in particolare l’enorme quantità delle piccole imprese produttive. Si pensi al Veneto, ad esempio. Qui la renitenza al contributo è forte. Da una ricerca statistica del 2006 risulta che il 53,8 per cento delle piccole imprese (di vario tipo) dichiara in media un introito annuale di 10.000 euro, cioè di 875 euro al mese. Pazzesco. Pasticcieri che dichiarano 11.500; gioiellieri che dichiarano 11.600; istituti di bellezza che dichiarano addirittura 3.600; agenzie di viaggio che dichiarano 1.700. Poveri straccioni, diremmo, barboni. E tutti costoro, col loro egoismo, costringono gli altri, costringono tutti noi a pagare di più, a versare più contributi. E, assieme all’altra tribù del lavoro in nero, sottraggono alla comunità e ai suoi bisogni e servizi, di cui pure usufruiscono, enormi somme, miliardi di euro; di cui la comunità necessita urgentemente per uscire dalla sua situazione precaria.

Gli economisti tendono a sottrarre l'economia alla morale, ma questo è un caso in cui la morale condiziona l’economia.

Un rimedio a questa perversa situazione sono gli “studi di settore”; quelli cioè che, in base alle coordinate di un’impresa, stabiliscono in media i suoi introiti; sulla cui base possono essere accertati gl’introiti reali e l’evasione può esser risanata. Ma gli autonomi, o almeno gli evasori, quel 53,8 non li vogliono; e rumoreggiano, gridano contro il capo del governo e il ministro dell'economia.. Ma insomma! cari commercianti e professionisti, questa spudoratezza proprio non la tolleriamo; vogliamo giustizia, vogliamo equità.

                                                                (Nuovo Quotidiano di Puglia, 25 giugno 2007) 

 

 

Abolire l’ergastolo

di Arrigo Colombo

 

        Capita che, a un certo momento, un gruppo di ergastolani alzi un corale lamento dicendo che se uno deve restare in carcere per tutta la vita, senza scampo, tanto vale la pena di morte; anzi la pena di morte è meno crudele. E 300 ergastolani scrivono una lettera in tal senso al Presidente Napolitano. E s’apre la discussione sul tema.

 

Ora, in linea di principio, la cosa è chiara. La pena di morte è illecita, e lo ha dimostrato Beccaria nel suo famoso piccolo libro del 1764, Dei delitti e delle pene, di cui  tutti sanno. Lo stato non ha il diritto di uccidere il cittadino perché il suo potere deriva da una cessione di diritto del cittadino stesso; e il cittadino cede solo “una piccola parte della sua libertà”; né può cederla interamente e mettersi a discrezione dello stato, perché la persona è un ente di diritto, è la sorgente prima del diritto (qui l’errore di Rousseau, il quale pensa che il cittadino debba cedere “tutta la sua libertà” alla volontà generale) . Questo era il grande principio che andava affermandosi in quei secoli, dalla Rivoluzione inglese in  poi, il principio di sovranità popolare; il quale avrebbe spazzato via nel tempo il duro blocco storico del dispotismo monarchico e imperiale, che aveva dominato i millenni della storia umana. Lo stato non può uccidere il cittadino, la sorgente del suo potere.

Del resto neppure il cittadino ha il diritto di uccidere se stesso; per la sua finitudine, il suo nulla di sé; che esiste solo in quanto creatura del Dio e soggetta al Dio, sia pure ad un Dio Padre amoroso, quello che ha rivelato l’evangelo. Come non si è dato da sé la vita, così non può togliersela. Non ha questo diritto, e come potrebbe cederlo allo stato?

Perciò, a cominciare dal 1789, e lungo l’800 e il900, la pena di morte viene via via abolita; restando ancora in qualche decina di stati che non hanno completato il processo di modernizzazione; in particolare nell’Islam, nel dispotismo comunista cinese, negli USA, nel variegato ordinamento di quella federazione.

 

Alla pena di morte subentra l’ergastolo, cioè il carcere a vita. Il quale però contrasta anch’esso con un altro principio che si è andato affermando nella modernità; e cioè il carattere non vendicativo ma medicinale della pena. Che poi deriva da quello stesso principio dell’autonomia della persona, la quale non può essere soppressa mai. La pena ha lo scopo di recuperarla alla società e al vivere sociale; attraverso un tempo di segregazione che non ha solo, né anzitutto, lo scopo d’impedirle di reiterare il crimine; ma un tempo di meditazione, di rieducazione, di formazione morale. Che la possa reimmettere nella società.

Qui entriamo nel problema delle carceri odierne, del loro ordinamento, del compito che di fatto svolgono. O meglio non svolgono, in quanto non prevedono la rieducazione e formazione morale della persona. Sono considerate piuttosto una scuola di crimine; o un luogo di oziosa attesa per riprendere poi l’attività criminosa. Manca l’idea, il progetto; manca il personale che possa compiere l’opera rieducativa.

Interviene anche la tipologia del crimine. V’è omicidio e omicidio, fors’anche strage e strage. Ciò che suscita maggiore apprensione è la criminalità organizzata, in particolare quella di stampo mafioso; il capobanda che aspetta che passino i trent’anni per riprendere la sua “normale” attività criminosa. L’Italia, tra le altre sue sofferenze, è afflitta in misura abnorme da questo flagello; che è ricresciuto sotto la noncuranza, o anche la complicità, del regime democristiano; e sembra che una certa connivenza ci sia stata anche col berlusconismo. E oggi è un problema grossissimo, che non si sa quale governo potrà affrontare.

C’è poi il problema della certezza della pena; perché, con la cosiddetta “buona condotta” (che purtroppo spesso è solo un fatto esteriore, quando non una finzione) i 30 anni diventano 20, diventano 16 col passaggio ai servizi sociali; con relativa semilibertà e permessi premio. Tutti buoni per delinquere. La famosa legge Gozzini dev’essere riformata, la pena deve avere durata e condizioni certe; in questi anni si è assistito a fatti sconcertanti che si sono ripetuti e si vanno ripetendo; e veramente esasperano la gente. Si pensi al caso Izzo.

 

L’ergastolo, dunque, contrasta con la medicinalità della pena e in linea di principio dev’essere abolito. Supponiamo che il massimo della pena sia normalmente di trent’anni. Ma per la criminalità organizzata e persistente dovrebbe forse introdursi una durata maggiore, quarant’anni o più, a seconda della persistenza. Se però subentra una reale conversione o rieducazione, un reale pentimento con collaborazione – come già avviene al di fuori del processo giudiziario e penale – potrebb’essere abbreviata. Introdurre dunque una pena flessibile? col pericolo dell’incertezza della durata, della corrività di certi giudici, talora della corruzione? correre questo ulteriore pericolo? Il problema dev’essere studiato, una soluzione equa trovata.

                                                                 (Nuovo Quotidiano di Puglia, 18 giugno 2007) 

 

 

Lo scudo spaziale, la minaccia bellica americana

di Arrigo Colombo

 

         Si ripresenta di nuovo il problema degli armamenti; dopo una fase in cui l’umanità sembrava avviata  verso un progressivo disarmo. In seguito al crollo del sistema sovietico e quindi alla fine della guerra fredda (gli Occidentali hanno però mantenuto la Nato, e a che scopo? se la controparte, il Patto di Varsavia, si era estinta?), all’accordo che già era intervenuto tra USA e URSS per la riduzione delle armi nucleari; alla smilitarizzazione degli stati attraverso l’abolizione della leva, la riduzione degli eserciti, il loro trasformarsi in corpi di pace per sedare eventuali guerre e guerriglie locali, specie nel Terzo mondo.

 Un processo cui presiedeva il Trattato dell’ONU, che gli USA hanno fortemente voluto, cui tutti i popoli hanno aderito; e il cui primo e fondamentale principio è proprio il rifiuto della guerra: i conflitti tra i popoli non devono mai esser risolti con la guerra ma solo con la trattativa. Un processo in cui la guerra si configurava come un fatto residuo, ancora presente solo in zone culturalmente arretrate.

 

In questo quadro di avanzata pacificazione del pianeta l’ostacolo insorge proprio dagli USA, dal loro risentimento dopo l’attacco alle “torri gemelle”, dalla loro volontà di rivalsa. Insorge dalla Destra americana che è al potere (si ricordi il piccolo trattato di Robert Kagan, tradotto col titolo “Il diritto di fare la guerra”, bel diritto!); da quel personaggio ambiguo e pericolosissimo che è il presidente Bush, con la sua ignoranza (gli studi superati con la spinta del padre), il suo falso cristianesimo, il suo egoismo di petroliere pronto ad inquinare il mondo pur di far soldi lui e la sua corporazione, il suo disprezzo per il diritto internazionale (si veda il trattamento dei prigionieri), per gli organi internazionali ch’egli mette sotto i piedi – l’ONU, la NATO, il G8 ecc. –, buoni solo per essere strumentalizzati. E trova anche qualche ingenuo o ambizioso alleato: il laburista Blair, pronto a tradire i principi del laburismo e ad ingannare il suo popolo; il cristianissimo spagnolo Aznar; l’italiano Berlusconi, cupido di potenti amicizie.

Così questi bravi americani, bravi cristiani, discendenti dei puritani e dei quaccheri pacifisti, partono con un programma di “guerre preventive”, quattro o cinque, contro i “popoli canaglia” essi dicono; e così s’impantanano in due guerriglie spietate, in Iraq e in Afghanistan, dove la povera gente muore a migliaia (ma chi se ne importa della povera gente? soprattutto se islamici?); da cui non sanno ormai come cavarsene. Ed è quasi una fortuna, perché forse così ci saranno risparmiate le altre guerre previste dal grande capo.

E così, avidi di vittorie e di egemonia, riprendono a sviluppare nuovi armamenti, per nuove guerre. In particolare riprendono il progetto dello “Scudo spaziale”, il sistema che dovrebbe intercettare i missili nemici e distruggerli in cielo, prima che raggiungano l’obiettivo; e lo estendono fino all’Europa, con basi in Cechia e in Polonia. E perché lo fanno? quali missili pensano di intercettare? quelli nordcoreani? Ma la Nordcorea, per quanto dominata da un dittatore folle, in seguito alle pressioni cinesi ha già dichiarato che non intende aggredire nessuno; e del resto ha accanto a sé quel buon gendarme che è appunto la Cina.  

Allora non restano che i futuribili missili nucleari dell’Iran. I bravi americani dispiegano un sistema bellico enorme, planetario, per l’ipotetica difesa da un ipotetico nemico che ancora non possiede quelle armi; quando invece avrebbero dovuto fin dal principio avviare un’offensiva diplomatica, con l’aiuto degli stati islamici amici, ristabilire un’amicizia con quel popolo, chiarire il significato della loro rivendicazione di energia nucleare. Alla quale non si può dire che non abbiano diritto; come gli altri che già la posseggono; e che hanno introdotto un trattato di non-proliferazione a tutto loro vantaggio. Se è riconosciuto che l’arma nucleare, come arma di distruzione di massa, è illecita, allora devono rinunciarvi tutti; quell’arma dev’essere annientata. A cominciare dagli USA e dalla Russia, con le loro testate a migliaia (autentica follia); e poi la Cina, l’Inghilterra, la Francia; e Israele, e India e Pakistan e Nordcorea. I popoli sono uguali nella dignità e nel diritto; il pericolo coinvolge l’umanità intera. Comincino i bravi americani, che si ritengono campioni di democrazia e leader dell’umanità, a dare un qualche piccolo segno di saggezza.

 

Intanto la loro insensata corsa a nuovi armamenti ha ridestato la rivalità della Russia; che ha un passato di “grande potenza”, e possiede un arsenale nucleare come convenzionale, e non tollera che questo scudo spaziale arrivi fino ai suoi confini. E ha destato qualche velleità nella Cina, nazione finora relativamente pacifica e però potenzialmente pericolosissima. Per non parlar del Giappone. Qui bisogna che l’Europa si muova, e con forza, e prema sull’alleato americano, sulle sue folli pretese; si muova Bruxelles, si muovano le nazioni europee; si muova l’Italia, il ministro D’Alema che ha svolto finora un’intensa attività pacificatrice, pur nei nostri limiti. Prema anzitutto su Cechia e Polonia, che dell’Europa sono membri, affinché rinunzino ad entrare nel dannato scudo spaziale. L’Unione Europea si pone come un centro di pace (pur non senza ambiguità), e per la pace deve intensamente operare.

                                                                        (Nuovo Quotidiano di Puglia, 11 giugno 2007) 

 

 

Dopo le elezioni amministrative: il collasso etico del Norditalia

di Arrigo Colombo

 

         La discussione di questi giorni, dopo il test delle elezioni amministrative sia pure parziali, si è portata quasi solo sulla sconfitta del Centrosinistra, che nella passata legislatura vinceva sempre. Un significativo voltafaccia dell’elettorato.

Due principali motivi si sono addotti. Gli errori del governo, che non sono pochi; l’ultimo è aver chiuso il contratto col pubblico impiego non prima ma dopo le elezioni (proprio la notte seguente); una grossolana disattenzione. La mancanza di un’efficace comunicazione con la gente, che è scarseggiata fin dall’inizio, quando il governo è entrato in carica con la nomea di “governo delle  tasse”, e ha fatto una finanziaria pesante – in cui peraltro ha favorito gl’introiti più bassi –,  e ha iniziato la lotta contro l’evasione fiscale, e ha chiesto sacrifici a tutti.

Ma bisogna aggiungere la conflittualità interna alla maggioranza stessa, che confonde e delude i suoi stessi elettori; la riottosità di certi personaggi tanto arroganti quanto mediocri, come Mastella, che indebolisce la risicata situazione al Senato; su cui incide poi l’interferenza dell’episcopato, che minaccia addirittura di togliere i sacramenti ai parlamentari cattolici, e quindi il ripiegamento su certe questioni come i PACS, che ha deluso molti elettori di Sinistra (si parla infatti di astensioni soprattutto nella Sinistra). E non bisogna dimenticare l’attacco continuo e “muscoloso” dell’opposizione, e il personale fascino che il suo leader esercita sulla “casalinga di Voghera”, grande elettrice.

 

Ma il fatto più grave è il collasso etico del Nord, il quale si abbandona a movimenti come la Lega e Forzitalia, che sul piano culturale, come su quello etico e politico, sono delle nullità. Che cosa vuole infatti la Lega? Che il Nord si tenga la sua maggiore ricchezza economica, attraverso una secessione, o un federalismo fiscale a lui favorevole. Segue un principio egoistico. Ignora la grande tradizione dell’Europa moderna, la costruzione di una società di giustizia, la ridistribuzione dei beni, la promozione delle classi subalterne, la dignità e il diritto del povero, l’universale solidarietà umana. Ignora i principi e la politica perseguiti dall’Unione Europea, volti alla promozione dei suoi membri più poveri, come l’Irlanda o la Grecia, attraverso sostanziosi aiuti che li vanno liberando dalla povertà.

E che vuole Forzitalia? Nessuno lo sa bene, poiché di fatto non esiste nemmeno come partito, né ha un vero programma. Da quello che si è visto in cinque anni di parlamento e governo non si può dire che abbia perseguito quei principi di giustizia e di solidarietà; ma forse neanche il bene della nazione. Ha cercato di sistemare il problema delle pensioni; ma, per il resto, la legge Biagi favoriva troppo il lavoro precario; e i famosi condoni (edilizio e fiscale) favorivano l’abusivismo edilizio e l’evasione. Ha invece perseguito gl’interessi del suo leader, con una dozzina di leggi.

Che cosa persegue dunque il Nord, le regioni che hanno costruito la nazione, il Piemonte e la Lombardia anzitutto, poi il Veneto? Che hanno sviluppato la grande, e la media e piccola imprenditorialità, la grande stampa (ma almeno un grande giornale sta a Roma, “la Repubblica”), le grandi case editrici. Imprenditoria, ricchezza economica, cultura. Quelle regioni che in passato possedevano una coscienza politica per cui si votava secondo convinzione e ideale; non v’era clientelismo, non poteva accadere che un politico passasse da un partito all’altro portandosi dietro i suoi elettori; né, tanto meno, che si acquisissero elettori col favore, o persino col denaro. Come gira voce sia avvenuto qui a Lecce in queste elezioni da parte della Destra, o fors’anche della Sinistra. Un fatto di per sé gravissimo.

 

Si dirà che è ovvio che gl’imprenditori del Nord sostengano la Destra in quanto seguono la legge del profitto, non quella della ridistribuzione dei beni; e anche i commercianti, che seguono la stessa legge, e spesso (o per lo più) evadono il fisco, cioè la parte dei beni che deve andare alla comunità per i servizi comuni e per la ridistribuzione. Ma imprenditori e commercianti sono una frangia; per avere un popolo bisogna raccogliere gl’impiegati e gl’insegnati e tutti i lavoratori del terziario, e infine gli operai e i contadini. Quel popolo che, nel suo ridotto introito, o anche nella sua indigenza di fatto, dovrebbe appartenere alla Sinistra, la quale persegue la giustizia e la solidarietà; anche se, forse, con minor forza di prima.

Quel popolo che, secondo la felice espressione di Thomas More, è “la parte maggiore e migliore dell’umanità”, si smarrisce ora dietro gli arroganti e incolti egoismi leghisti, e dietro le illusioni e gl’inganni televisivi; la “casalinga di Voghera”, la grande elettrice, si smarrisce nelle sue  idolatrie. La maggiore forza etica e politica popolare sembra essersi spostata verso il Centro: Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Marche. Ma non sappiamo se questo basterà a salvarci.

                                                                 (Nuovo Quotidiano di Puglia, 4 giugno 2007) 

 

 

La discussione sugli sprechi e sulla sfiducia

di Arrigo Colombo

 

        La discussione sugli sprechi del sistema pubblico italiano s’ è aperta da molte settimane attraverso le inchieste della stampa, i dati che la stampa è andata rivelando e accumulando; e che a un certo momento hanno sopraffatto il cittadino. Dati che in parte si conoscevano da lungo tempo. Ma a un certo punto le ricerche demoscopiche hanno detto che, su tre cittadini, due avevano perso la fiducia nel sistema politico. È intervenuto Davigo, un giudice del pool di “mani pulite” e oggi magistrato di Cassazione, a dirci che la corruzione dei politici è oggi più alta che nel ’92: nel 2006 sono state arrestate per questo 147 persone e 1072 denunziate. Si è appreso che i consiglieri della Regione Veneto si erano concessi anche l’indennità funeraria, 7500 euro per un funerale di lusso; una notizia che può sembrare un macabro scherzo, ma è vera.

 

A cominciare dal Parlamento, dal cumulo di stipendi, indennità, vitalizi, privilegi vari ch’esso accumula. Con uno stipendio base di 9.980 euro al mese; più 4.030 per il portaborse; più 2.900 di rimborso spese affitto; più un’indennità di carica tra i 335 e i 6.455. Si parla di uno stipendio medio di 19.150 euro al mese. Poi ci sono tutte le facilitazioni: cellulare, aereo, treno, autobus e metropolitana, autostrade, posta; cinema, teatro, piscine e palestre; assicurazioni, cliniche; ristorante, bar, tutto gratis. Poi c’è il vitalizio dopo soli 35 mesi di parlamento, mentre il cittadino dopo 35 anni di lavoro e contributi. Poi ci sono i rimborsi delle spese elettorali. Poi l’auto blu e i superstipendi e privilegi vari di Ministri e Presidenti (così la Pivetti, essendo stata presidente della Camera per alcuni mesi, gode ancor sempre di ufficio, segretaria, auto e scorta). Insomma è una “storia   infinita”, e che provoca nausea.

Si aggiunge il fatto che il parlamentare, che si gode tutto questo po’ po’ di roba, lavora poco: tre giorni la settimana; perché poi – si dice – ha il collegio, i viaggi ecc. Qualche giorno fa è intervenuto persino il Presidente Napolitano, lamentandosi che il Parlamento lavorava poco, produceva poco.

Si aggiunge un altro fatto, diverso certo, ma ancora più grave, e cioè la presenza d’inquisiti per reati vari, di plurinquisiti, di condannati; che decenza vorrebbe non sedessero in parlamento. Chi fa la legge dev’essere puro, esemplare nel rispetto della legge. Cui si aggiunge la renitenza dei parlamentari a concedere il nulla osta per l’iter procedurale dei loro colleghi; invocando l’immunità, che però non vale per i reati comuni, come quando l’arrogante deputato oltraggia il vigile che gli fa la multa. Un’immunità che diventa omertà.

 

La situazione stipendiale dei parlamentari europei è ancora peggio. Oltre11.000 euro di stipendio mensile, più 3700 euro per spese generali, più 12.500 euro per gli assistenti, più diaria di 262 euro, più 3600 euro annui per spese viaggio (ma i biglietti di aereo vengono rimborsati). Si è calcolato che un eurodeputato può mettersi tranquillamente da parte 100.000 euro l’anno, qualcosa come 200 milioni di vecchie lire. E questo mentre lo stipendio mensile dei tedeschi è di circa 7000 euro, 3000 per gli spagnoli. Scandaloso, ripugnante.

 

Poi ci sono le regioni, le province, i comuni, e tutti i giorni se ne leggono di nuove. Consiglieri soprannumerari, commissioni esterne, consulenze; tutto strapagato; a probabile beneficio di clienti vari. Regioni anche povere, come la Calabria, che si permettono spese folli. Ci sono le aziende di stato, tutte più o meno dissestate, con manager a stipendi altissimi. C’è la pubblica amministrazione con la sua borbonica e invincibile lentezza, la sua inefficienza. C’è la magistratura con le cause che durano decenni; proprio ieri si parlava alla radio di una causa che a Napoli dura da 45 anni; se ne parlava con un magistrato napoletano.

 

Qui urgono misure forti e rapide. Qui se il Centrosinistra non provvede, va incontro ad una sconfitta totale; anche se, forse, è meno colpevole di altri governi. E però ha scarsa capacità comunicativa, non parla alla gente; e in ogni caso questo nodo giunge al pettine ora.

Per il parlamento e l’europarlamento si stabilisca uno stipendio decente, sulla base ad esempio del trattamento della magistratura. E basta, via tutte le indennità, tutte le facilitazioni, tutti i privilegi; il vitalizio ceda il posto ad una normale pensione. Si stabilisca anche che il parlamento non può votarsi aumenti; trattandosi di un suo vantaggio, dev’essere soggetto ad un’altra istanza. S’introduca un principio di austerità, di un’austerità esemplare, per una nazione che ha un debito pubblico altissimo; e che ha anche otto milioni di poveri.

Per le regioni, le province, i comuni, s’introduca un ordinamento che regoli con precisione le loro facoltà in fatto di consiglieri, commissioni, consulenze ecc. S’intervenga con rigore sul loro debito, quando sforano.

Per la pubblica amministrazione il risanamento apre un problema complesso perché lì è in gioco una mentalità, un costume di lunga data; manca, come ad esempio in Germania, un senso forte dello stato, del bene pubblico, della sua preservazione. Una prima misura potrebb’essere l’apertura di un’alta scuola di amministrazione, come in Francia, che formi i quadri; una “grande école”. Mentre il personale già in servizio dovrebb’essere riqualificato attraverso corsi nei quali fosse preminente il senso dello stato e l’etica professionale; oltre al serio apprendimento delle nuove tecnologie di accelerazione delle pratiche.

Per la magistratura il risanamento è analogo. Una nuova struttura e procedura processuale dev’essere studiata; uno snellimento generale. Valga per tutti un esempio. Negli USA il ricorso al giudice di pace viene risolto in un giorno, in un incontro orale: si va da lui quel mattino e basta, senz’alcuna prenotazione. Da noi si fa domanda scritta e protocollata, si attende la convocazione, si compare davanti a lui dopo cinque-sei mesi. L’istituzione del giudice di pace è recente, il lamento per la lentezza delle procedure è antico; si poteva farvi attenzione.

 

Il problema residuo è che cosa farà il Centrosinistra: vorrà fare? sarà capace di fare? riuscirà, con la risicata maggioranza del senato, e con un’opposizione soltanto negativa e polemica, che non collabora?  

                                                                  (Nuovo Quotidiano di Puglia, 28 maggio 2007) 

 

 

A che punto è la riforma della RAI

di Arrigo Colombo

 

         Il ministro Gentiloni ha presentato il disegno di legge per la riforma della RAI, e il governo l’ha approvata. Questo disegno di legge dev’essere preso in esame.

Ciò che si chiede al ministro e al governo è la “ricostruzione” della RAI, come grande servizio nazionale di informazione e di ”formazione” popolare. Questi due caratteri: l’informazione, che viene facilmente strumentalizzata e distorta; la formazione, che viene obliata, ed è andata persa nell’appiattirsi del servizio nazionale sui modelli commerciali privati, il cui scopo è il profitto. Formazione culturale, etica, politica. Siamo al punto che il compito formativo viene negato dai più; o al massimo viene in piccola misura concesso per la parte culturale; o per la parte politica; dove però spadroneggiano i partiti e le loro eterne querele (è il vizio maggiore dei programmi politici, a cominciare da “Porta a porta”, dove la contrapposizione pregiudiziale delle parti induce alla noia e al rifiuto); mentre scarseggia la formazione politica di base, di una coscienza politica. La parte etica poi, che fonda tutto, viene ignorata. Si pensa che la televisione debba essere soprattutto spettacolo, sport, gioco; che debba assecondare il gusto della gente, il gusto deteriore.

Si tratta invece di sottrarre il servizio pubblico anzitutto ai gravi pericoli che presenta per la gente l’uso dei media, in particolare quello televisivo, col suo potere di suggestione: la persuasione palese ed occulta,  sia in campo commerciale, che in campo sociale, politico ed etico. Sottrarla alla mediocrità culturale e morale; sottrarla alla volgarità, alla deformazione del gusto e della coscienza.

 

In questo quadro il primo passo da compiere era rendere la RAI autonoma, libera dall’ipoteca delle forze politiche, dei partiti, che in questi anni l’hanno duramente tormentata e depressa. In particolare la Destra, un fatto quasi ovvio, poi che il suo leader era un tycoon televisivo che promoveva le sue televisioni, anche a scapito quelle pubbliche che pure cadevano sotto il suo potere. E dunque la legge Gasparri, e il progetto di privatizzazione ecc. ecc.

Il modello qui era la Magistratura, in quanto era in gioco un “quarto potere” nello stato democratico, che avrebbe dovuto autogestirsi in modo analogo alla Magistratura. Il ministro propone una Fondazione retta da un Consiglio di 11 membri (in carica tre anni, rieleggibile una sola volta), di cui 4 nominati dalla Commissione parlamentare di vigilanza, 2 dalla Conferenza Stato-Regioni, gli altri 5 rispettivamente dal personale RAI, dai consumatori, dal CNEL, dai Rettori d’università, dai Lincei. Non è male. V’è ancora una certa maggioranza di politici, ma non omogenea; e v’è un contrappeso. È inoltre prevista una “Carta del servizio pubblico”, la quale  dovrebbe stabilire i principi che devono informare il servizio televisivo. La Fondazione è l’azionista della RAI Spa, di cui nomina il Consiglio di amministrazione.

 

Il secondo passo, l’autonomia dal modello commerciale, non si realizza. La RAI Spa verrebbe divisa in tre strutture: la prima comprende gl’impianti; la seconda comprende la produzione finanziata “prevalentemente” dal canone; la terza la produzione finanziata dalla pubblicità. Qui proprio non ci siamo, qui la pubblicità continuerà a perseguitare la gente, indurla a comprare l’inutile e il nocivo, la Nutella e la Cocacola. Continuerà, come ora, ad interrompere i programmi,  i film e i concerti, le discussioni; e questo dopo aver pagato il canone. Una cosa intollerabile, profondamente stupida, e anche disonesta.

Un principio dev’essere anzitutto affermato: dove c’è canone, non ci può essere pubblicità. Avviene così anche in altri servizi radiotelevisivi, come la BBC, che è esemplare in Europa. O altrimenti si rifiuta il canone.

Ma, anche a prescindere dal canone, il servizio nazionale dovrebbe rifiutare la pubblicità, la quale è parte integrante del consumismo, la società dei consumi e degli sprechi, ed è lei per prima fonte di tanti sprechi; se solo si pensa a quella che ci troviamo ogni giorno nella cassetta delle lettere e che se ne va dritta nel cestino, quanta preziosa carta sprecata; quella carta per la quale si abbattono intere foreste. E quanto ossido di carbonio per produrla e stamparla, che se ne va ad appesantire l’inquinamento ambientale; quell’inquinamento che si sta finalmente cercando di combattere con più decisione.

 

C’è infine il problema dei contenuti, di quel compito di formazione culturale, politica ed etica di cui si è detto, di un modello nuovo di televisione, altro rispetto ai modelli commerciali. Non si sa se il ministro abbia recepito queste suprema istanza; per la quale continueremo a batterci.

                                                                      (Nuovo Quotidiano di Puglia, 21 maggio 2007) 

 

 

Ciò che la Francia ha rifiutato e perduto 

di Arrigo Colombo

 

         In queste ultime elezioni presidenziali la Francia ha  perso una doppia occasione: un presidente donna, un presidente socialista.

Un presidente donna avrebbe avuto un grande impatto nel processo di parificazione in corso: la parificazione di maschio e femmina dopo i millenni del privilegio e dominio del maschio, l’androcentrismo, il patriarcalismo. Un processo che ha ricevuto la spinta decisiva in tempi recenti, nella Grande Contestazione degli anni 1960-70, evento rimasto incompreso per l’avversione di Destra e Sinistra; dove tuttavia il movimento femminile è emerso con grande forza avviando una nuova fase della storia. E però sappiamo che il privilegio del maschio è ancora particolarmente forte là dove è forte il potere: quello economico, quello politico.

 

Un presidente socialista avrebbe avuto un grande impatto nella ripresa e nello sviluppo dello stato sociale, delle provvidenze sociali che in Francia hanno raggiunto un livello molto alto, ma hanno bisogno di un avanzamento ulteriore.

La Francia ha avuto la chance di un partito socialista forte, rispetto a un partito comunista debole e quasi insignificante, e  ad un partito cristiano che si è presto dissolto. Mentre nell’Italia del secondo dopoguerra, nella fase della grande ascesa economica e civile, proprio i socialisti sono stati sempre i più deboli; laddove erano forti democristiani e comunisti, gli uni con un progetto politico incerto e sotto la tutela della gerarchia, gli altri col progetto politico sovietico, dogmatico e dispotico, rovinoso per la nazione. Socialisti deboli che poi hanno cercato di rafforzarsi con una politica spregiudicata e corrotta, sono stati smascherati, si sono autodistrutti.

Con un partito socialista forte la Francia ha compiuto grandi passi nella costruzione dello stato sociale; passi che da noi sono ancora da fare.Ha consolidato la famiglia, e con essa la demografia. Essendo scesa a 40 milioni di abitanti ha preso misure drastiche di sostegno alla famiglia e in quarant’anni ha guadagnato venti milioni di abitanti raggiungendo i 60 (sia pur con cinque milioni d’immigrati). È incredibile quello che la Francia fa per la famiglia: ci sono allocazioni per l’assistenza materna, o in alternativa per la baby sitter, fino ai  6 anni; per la scuola dai 6 ai 18 anni; per l’handicap fino ai 20 anni; allocazioni per il secondo e il terzo figlio; allocazioni per affitto o mutuo, per trasloco, per migliorie; per indebitamento; allocazioni per studi, per vacanze. E c’è una Cassa allocazioni familiari cui la famiglia si rivolge, e che a tutto provvede.

Un altro punto è lo SMIC, cioè il salario minimo generalizzato, assicurato a tutti, a quelli che non hanno un lavoro; un fondamentale sostegno, un sollievo della precarietà, un conforto e una speranza per tutti.

Un terzo punto è la settimana di lavoro di 35 ore; che il governo Jospin è riuscito a introdurre; e che significa 7 ore di lavoro al giorno per 5 giorni. Un bel sollievo. Se si pensa che negli USA, dove il sindacato è debole e il padronato è forte, si arriva a 42-43 ore (si veda in proposito il libro di Rifkin).

Un quarto punto è il PACS, patto civile di solidarietà, introdotto nel ’99, e che regola i diritti delle coppie di fatto, anche omosessuali; di cui tanto si è parlato anche da noi in questi mesi; bloccato dall’ingerenza della gerarchia e dalla debolezza dei partiti, in particolare dalla scarsa maturità e scarsa autonomia del laicato cattolico (“sono un cattolico adulto”, disse Prodi a Ruini, che voleva ci si astenesse dal referendum sulla procreazione assistita; ma fu un’eccezione). Come tutti sanno.

 

Questo dunque il partito socialista ha significato per la  Francia. Ma  ci sono altri problemi che un socialista potrebbe affrontare meglio di un conservatore, la Royal meglio di Sarkozy.

A cominciare dagl’immigrati, verso i quali Sarkozy si è sempre espresso in termini piuttosto brutali. La ghettizzazione, cioè il fatto di essere sistemati anche decorosamente, ma in quartieri o isolati esclusivi, dov’essi si sentono come un corpo estraneo. Secondo gli studiosi proprio questo ha provocato la rivolta giovanile dell’autunno 2005; rivolta distruttiva che ha percorso l’intera Francia; che ancora sempre la minaccia. Dove probabilmente c’è da fare un grosso lavoro di ridistribuzione territoriale, di commistione; quindi di reale integrazione.

C’è il problema dell’Europa, in particolare della Costituzione europea, bloccata proprio in Francia da un insensato referendum popolare in cui si è votato e respinto ciò che non si conosceva. Si sa che il nazionalismo – per non dire sciovinismo – in Francia è forte. Si sa però che i socialisti, per la loro stessa tradizione internazionale, sono più aperti.

C’è il problema del rapporto con le ex-colonie, di una certa egemonia che la Francia vi mantiene, dove anche smercia molte delle armi che produce; che poi sostengono dittature militari e guerriglie. I socialisti potrebbero ripensare quella egemonia in termini diversi, sociali; e non smerciarvi armi ma altri prodotti e progetti, costruttivi per quei popoli. L’egemonia francese potrebbe diventare un potente fattore di crescita per quei popoli.

C’è il rapporto con gli USA che – si dice – con Chirac si è deteriorato. Nel senso che Chirac, giustamente, ha rifiutato le “guerre preventive”  scatenate dalla Destra USA; ha rifiutato il coinvolgimento di stati europei in quelle guerre. Che è la via da seguire. Che il pacifismo della tradizione socialista può riprendere con più forza, anche in ordine all’impellente problema degli armamenti.

Insomma c’è solo da sperare che i socialisti riprendano quota, riconquistino una consistente parte del Centro di Bayrou, e s’impongano nelle imminenti elezioni per il parlamento; che un parlamento e un governo socialista non solo contemperino le disastrose ambizioni sarkosiane, ma riprendano una vigorosa azione nel sociale come nel politico.

                                                                  (Nuovo Quotidiano di Puglia, 14 maggio 2007) 

 

 

Via la prostituzione dalle strade

di Arrigo Colombo

 

        Questo problema della prostituzione sulle strade, problema sul quale in sessant’anni di repubblica i governi hanno mostrato la più squallida indifferenza, nonostante il continuo lamento dei cittadini; a cominciare dai governi democristiani, e con essi l’episcopato che li sosteneva, tanto sollecito delle violazioni della legge divino-naturale; questo problema è ancor sempre aperto. Una legge era stata preparata dalla ministra Prestigiacomo, una buona legge; ma non se n’è fatto nulla. Ora l’inchiesta condotta a Roma dal “Messaggero” ha forse contribuito a sensibilizzare l’amministrazione romana, sì che il sindaco Veltroni ha inserito questo punto nel “patto di legalità” che sarà presto firmato col Ministero dell’interno. Ma il problema è nazionale, tutte le grandi città ne soffrono, il governo lo deve affrontare.

Sarebbe il secondo grande passo nel contenimento di questo fenomeno, che negli ultimi decenni è andato dilagando, con l’immigrazione, e con l’ingresso nell’Unione di paesi dell’Est. Si sono formate grandi cosche per lo sfruttamento e la schiavizzazione: gli albanesi anzitutto, i rumeni. Il primo passo fu la storica legge Merlin, la chiusura dei bordelli; il secondo passo è la liberazione delle strade, il confinamento nel privato.  

 

La prostituzione è un fatto immorale, un vizio, la mercificazione del rapporto amoroso, dell’intimità amorosa; cui particolarmente la donna soggiace, sotto il potere e la cupidigia del maschio, un punto del suo asservimento di sempre. Che porta con sé altri vizi sia privati che sociali; soprattutto quando sta sulla strada, a cominciare dalla sua esibizione e dall’esibizione del corpo in pubblico, dal traffico immondo dei clienti; poi lo sfruttamento e la schiavizzazione da parte di “protettori” e di cosche, di mafie.

Lo stato non è tenuto a colpire ogni immoralità ma solo quelle che provocano disordine e malessere sociale; che provocano ingiustizia, in quanto ledono i diritti dei cittadini. Diritto alla tranquillità e alla decenza nella strada e nello stabile in cui abitano, diritto ad evitare ai figli l’esibizione del vizio.

Lo stato dunque la tollera ma la deve contenere in ordine a salvaguardare quei diritti. Perciò deve toglierla dalla strada, proibire con la legge e con la pena il suo esercizio in pubblico, colpendo sia l’adescatore che il cliente. Il quale cliente finora non è mai stato preso in considerazione; forse per il maschilismo che ha dominato la storia dell’umanità e ancora in certa misura persiste; si è sempre colpevolizzato la donna ma non il maschio; anche perché la donna ne ha fatto una professione. E però pure la professione si collega alla posizione debole e asservita della donna; e in ogni caso è chiaro che non vi sarebbe l’offerta se non vi fosse la domanda. L’opinione prevalente, oggi, è che là dove la prostituzione perturba l’ordine sociale, anche il maschio dev’essere colpito.

 

Lo stato, dunque, dovrebbe consentirla nel privato, sempre nei limiti della decenza e della quiete. Perciò si parla di esercizio da parte di una o due persone.

Non può organizzarla, non può promuovere e organizzare il vizio. Alcuni stati lo fanno, come la Germania negli Eros-Zenter, ritenendo di risolvere così più facilmente il problema in quanto le donne sono sottratte alla strada, hanno la sicurezza di un monolocale in affitto, o anche di una mensa, di altri servizi come in un albergo; e come in un albergo i clienti vi entrano, senza provocare disturbo o risentimento nelle famiglie, come può avvenire in un normale stabile. Una soluzione di comodo, in cui interviene forse il principio del minor male; ma pur sempre una organizzazione del vizio. lo stato può permetterla in forme organizzate come le cooperative, secondo una proposta già avanzata in passato, e ripresa ora dal prefetto Serra.

Alcuni stati impongono la tassazione, partendo dall’idea che la tassa – soprattutto se forte – è un modo di colpire quel vizio che viene tollerato.

 

Il problema dev’essere studiato ulteriormente, ma ciò che è certo, ciò che improrogabilmente s’impone è che la prostituzione scompaia dalle strade, dal pubblico, e sia confinata nel privato. Una misura da considerarsi urgente, dopo tanta trascuratezza; una misura che i cittadini chiedono con urgenza. Che il governo deve prendere senza più esitare.

                                                                         (Nuovo Quotidiano di Puglia, 7 maggio 2007) 

 

 

Mantenere la Costituzione "fondata sul lavoro"

di Arrigo Colombo

 

            La proposta proviene dai radicali della “Rosa nel pugno”: cambiare il primo articolo della Costituzione, “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”; sostituirlo con “La Repubblica democratica italiana è uno stato di diritto fondato sulla libertà e sul rispetto della persona”.

Si sa che le proposte politiche dei radicali – a parte la loro decisiva azione nel campo dei diritti civili – sono piuttosto ondivaghe: si veda il loro abuso del referendum, le decine di quesiti referendari di scarsa coerenza e senso, l’alleanza col Centrodestra poi col Centrosinistra. E però dietro questa loro proposta ci sta la massa degl’ideologi liberali e liberisti, gl’ideologi del capitale; i quali sono convinti che oggi l’Italia sia, e ancor più debba essere, una democrazia liberale, o meglio una democrazia liberal-capitalista.

Per cui questa libertà di cui si parla è sì la costitutiva libertà della persona, la dignità e il diritto della persona umana; ma è anche, e soprattutto, la libera iniziativa economica, il libero capitale che sfrutta e opprime il lavoro, il libero mercato in cui lo stato non deve per nulla interferire –proclamano quegl’ideologi, ed è il grande dogma di questa fase di riflusso liberista; quel libero mercato che tanti danni ha provocato perché anarchico, perché in esso prevale il più forte e il più debole soggiace, sia esso individuo o popolo. Una libertà, dunque, che fa a pugni col rispetto della persona di cui parla il nuovo testo; il quale risulta così profondamente contraddittorio.   

 

Il cambiamento dell’articolo significa dunque un cambiamento di modello politico. Essi, del resto, lo dicono, sia pur implicitamente, quando lamentano quell’espressione “fondata sul lavoro” come obsoleta; maturata in una fase di egemonia della classe lavoratrice, anzi della classe operaia, quella del lavoro manuale; presenza forte di partiti social-comunisti, di stati a dittatura del proletariato (in realtà era una dittatura del partito che opprimeva il proletariato; problema che in Russia si presenta già nel 1922 , quindi in fase leniniana, quando l’”opposizione operaia” chiede al partito che il potere sia restituito al proletariato; e viene espulsa). Mentre ora la situazione sarebbe mutata per il crollo di quell’intero sistema, stati e partiti, per il progressivo ridursi della classe operaia e il consumarsi della sua egemonia, per l’affermarsi – definitivo, essi pensano – del liberismo capitalista.

Ma il modello costituzionale rappresenta anche il “dover essere” dello stato, essendo la sua legge fondamentale, che fonda e ispira l’intera attività legislativa, e con essa la crescita anzitutto etica e sociale della nazione. La sua crescita come società di giustizia, quindi di libertà sì, ma insieme di eguaglianza, equa distribuzione dei beni; quindi benessere popolare, prosperità. Perciò il motto che ispira e norma la Rivoluzione francese è libertà, eguaglianza, fraternità; la libertà si compone con l’eguaglianza e in essa si limita; e si compone con la solidarietà fraterna. E anche nella Dichiarazione dei diritti dell’89 la libertà si compone con l’eguaglianza: “liberi e uguali nei diritti”.

Ma prendiamo altri esempi. La Costituzione degli Stati Uniti nel 1787, sempre vigente, mira a garantire anzitutto la giustizia e il benessere generale; anche se proprio negli Stati Uniti si affermerà al più alto grado il modello liberista. L’ultima Costituzione francese, quella di De Gaulle, si basa ancor sempre sulla grande triade rivoluzionaria, e in particolare sull’eguaglianza. La Costituzione tedesca del 1949 parte dalla “dignità dell’uomo”, dal “libero svolgimento della sua personalità”.

Possiamo dire che l’Europa non si caratterizza in un “modello liberale” ma in un “modello sociale”. Non anzitutto la libertà dell’individuo, e tanto meno la libera incondizionata iniziativa economica, ma l’armonioso sviluppo della società in cui si realizza la libertà di tutti, la dignità e il diritto della persona di tutti. Dove dignità significa indipendenza (e qui è coinvolto lo stesso contratto salariale), significa livello dignitoso di soddisfazione del bisogno, quindi benessere; significa istruzione e cultura; significa sviluppo adeguato della persona.

Qui appunto ricompare il senso autentico del lavoro; che non deve identificarsi col lavoro manuale. Anzi il lavoro manuale può essere considerato come una fase meno matura dello sviluppo di persona e società, che la crescita storica dell’umanità sta superando. Già le proiezioni fatte da Daniel Bell (il teorico della “società postindustriale”) negli anni 1960, vedevano il lavoro contadino negli USA ridursi al 5 poi al 3%, sottratto inoltre alla fatica attraverso la tecnologia (ciò che già è avvenuto); e il lavoro d’industria ridursi in un secolo nella stessa misura. Per passare al terziario, cioè al lavoro intellettuale, artistico, progettuale, organizzativo, e in genere di relazione; essendo la fabbrica divenuta un grande automa.

Perciò il lavoro come professione della persona; in cui la persona cresce, si sviluppa e si adempie; in cui si afferma socialmente, nella grande intrapresa sociale. La Repubblica si fonda su questa persona e sul suo impegno sociale; in cui essa vive e si costruisce, e avanza come società di giustizia, di prosperità, di pace. Perciò, come dice l’art. 3, deve “rimuovere gli ostacoli […] che impediscono il pieno sviluppo della persona”; un compito certo arduo, dove l’ostacolo maggiore è proprio il capitale con la sua tensione al profitto, alla sua massimizzazione; quindi all’asservimento del lavoro, allo sfruttamento, e quando più non gli serve all’espulsione, abbandonandolo alla precarietà e alla povertà. L’umanità si è liberata dal modello monarchico-aristocratico che l’ha oppressa per millenni; deve ora liberarsi dal capitale, da quel “modello liberal-liberista” che  è subentrato nell’oppressione; e che tanto è esaltato dai suoi ideologi.

                                                                (Nuovo Quotidiano di Puglia, 30 aprile 2007)     

 

 

Liberarsi dal “sogno americano”, risvegliarsi

di Arrigo Colombo

 

            La recente strage nel campus di Backsburg in Virgina, con 33 morti e 30 feriti, preceduta nel ’99 dall’altra famosa nella Columbine High School di Denver, e nel ’66 dal tiratore solitario del campus di Austin, da altri innumerevoli episodi di violenza collettiva, ci porta a riflessioni amare sul tanto vantato “sogno americano”.

Un sogno che è durato più di un secolo perché gli USA erano la grande terra immensa sconfinata, dove c’era posto per tutti; la terra fertile, ricca, dove per tutti c’era lavoro, benessere, possibilità di ascesa economica e sociale. Era la democrazia esemplare, immune dal privilegio aristocratico, dal dispotismo, dalle dittature; dove potevano rifugiarsi i perseguitati politici del mondo intero. Era il grande popolo che interveniva a debellare i flagelli che ancora travagliavano la vecchia Europa: gl’imperi (che cos’è un impero, diceva già Agostino, se non “un grande brigantaggio”), il nazismo,  il comunismo sovietico, dilagante poi nel mondo. E ancora la sua grandezza territoriale e demografica (300 milioni di abitanti), la potenza economica e militare, così come i grattacieli delle sue città, il suo cinema, la sua musica esercitano un certo innegabile fascino.

Ma il “sogno “ è finito, si è dissipato come tutti i sogni. Oggi gli USA combattono duramente l’immigrazione, che affluisce dai paesi poveri dell’America Latina. La democrazia presentava già prima delle falle – la più grossa era la schiavitù, poi l’emarginazione del popolo nero. Oggi si rivela carente e pericoloso il sistema presidenziale, l’eccesso di potere rispetto al parlamento (il cuore della democrazia, l’organo della legge), la possibilità di decisioni ingiuste e arroganti come il rifiuto del tribunale internazionale, il trattamento arbitrario dei prigionieri di guerra, il rifiuto dei protocolli di Kyoto e, soprattutto, la guerra.

Oggi  gli USA sono diventati un pericolo per l’umanità. Con gli enormi armamenti, che continuano ad aumentare e a sviluppare; armamenti che chiamano la guerra (qui l’errore del famoso effato, si vis pacem para bellum, se vuoi la pace prepara la guerra; al contrario, se prepari la guerra, finirai col farla); le basi militari sparse nel mondo intero, cui i popoli dovrebbero ribellarsi, a cominciare dall’Italia. Con le guerre che scatenano, già due in questi anni: l’idea folle di combattere il terrorismo, cioè un fenomeno che la guerra non intacca ma anzi aggrava; o di esportare la democrazia, la quale richiede invece una maturazione della coscienza popolare. Guerre che poi s’impantanano nella guerriglia e non possono essere vinte; come già in Vietnam, esperienza dimenticata. Guerre che aumentano la conflittualità generale, soprattutto l’avversione dei popoli islamici per l’Occidente.

Quello che era un popolo pacifico è diventato così la potenza egemone, il presuntuoso gendarme dell’umanità; che mira al controllo globale, coi suoi armamenti e le sue basi, mira al dominio dell’umanità intera. Un fatto intollerabile, che contrasta con la pari dignità e diritto dei popoli, e che può arretrare l’umanità di secoli; un’umanità avviata verso quella “pace ecumenica” che i popoli invocano, e per la quale hanno manifestato a decine di milioni negli scorsi anni.

Ma poi ci sono i grossi problemi sociali che travagliano questa nazione ricca e potente. Dove manca una legge sul controllo delle armi, le armi si comprano al supermercato o al postalmarket; e così si hanno le stragi famose, si ha il più alto grado di criminalità mortale, il delitto lo possono compiere anche il bambino e l’adolescente che trovano l’arma nella scrivania paterna.

La nazione ricca dove domina incontrastato il capitale, il sindacato soffre di una debolezza cronica, e così si ha una settimana lavorativa di 52 ore e oltre; e impazza il famoso “lavoro flessibile”, di cui tanto da alcuni anni si parla; per cui abbiamo lavoratori di grandi imprese (come la Microsoft, il cui padrone si dice sia l’uomo più ricco del mondo, Bill Gates), lavoratori assunti attraverso agenzie, il cui salario non basta neppure all’affitto di un monolocale con servizi, e allora affittano un autobus per dormire la notte, e al mattino si lavano e si  sbarbano alla fontana.  Si legga Rifkin in proposito, La fine del lavoro. E manca un servizio sanitario nazionale che garantisca l’assistenza a tutti; e così 40 milioni di persone (cioè una nazione nella nazione) ne sono sprovviste; altre hanno un’assistenza privata e si  vedono rifiutare i farmaci e gl’interventi costosi; e il tentativo di Clinton di fare una legge in proposito fallisce sotto la spinta della lobby sanitaria privata. Ma anche la previdenza è carente, e la provvidenza sociale in genere; nella nazione ricchissima si parla di 50 milioni di poveri, di famiglie disagiate (il cui reddito è inferiore alla metà del reddito medio individuo).

A questo dunque è ridotto il “sogno americano” oggi, il “paese di Bengodi”, in cui tutti aspirano vivere. Non però quelli che ci sono stati e ne hanno sperimentato la durezza.                                                                                                   

                                                                                     (Nuovo Quotidiano di Puglia, 23 aprile 2007)  

 

 

Le privatizzazioni insensate

di Arrigo Colombo

 

        Si è presentata in questi mesi la dolorosa vicenda di alcune grandi imprese di servizi, imprese nazionali privatizzate da incauti governi, privatizzate incautamente. Prima le autostrade, che i Benetton hanno acquisito e di cui hanno incassato i profitti senza sborsare il denaro necessario alla loro corretta gestione: manutenzione, nuove corsie, nuove bretelle; in realtà il traffico risulta troppo congestionato. E infine hanno pensato bene di venderle agli spagnoli.

Poi Alitalia, la compagnia aerea nazionale, in forte passivo da alcuni anni, non si sa come, oppure non lo si dice; che il Governo non si premura di risanare, com’è avvenuto con tante altre imprese – si pensi alla Swissair ch’era addirittura fallita –, ma la mette in vendita, per cui non è escluso che l’Italia non abbia in futuro neanche una compagnia aerea nazionale.

Poi Telecom, che viene comprata e ricomprata nel modo più scandaloso, da gente che non ha capitali ma si prende i soldi dalle banche, poi cerca di sgravarsi vendendo pezzi dell’impresa, impoverendola, e infine la cede al miglior offerente; in questo caso americani e messicani.

 

Ora c’è un primo principio che dovrebb’essere chiaro a tutti, a cominciare dai Governi di Centrosinistra, tanto sensibili ai problemi sociali: e cioè che le grandi imprese di servizi non si privatizzano. Per una semplice ragione, che sono patrimonio della nazione e alla nazione devono servire, a tutti; e quindi non possono seguire le norme del profitto, non sono per se stesse profittuali, o non lo sono necessariamente; devono funzionare in ogni caso, che siano in guadagno o in perdita. Non sono quindi adatte al privato, che non solo cerca il profitto ma lo cerca la più alto grado.

 C’è un secondo principio ed è che, essendo patrimonio della nazione, queste imprese non possono essere cedute senza impoverire la nazione stessa. Ora, se tutto va per un certo verso, ci troveremo ad essere senza una compagnia aerea nazionale, senza una compagnia di telecomunicazioni (il Governo sta ora cercando di scorporare la rete, un po’ troppo tardi), avendo a stento salvato le autostrade (per il deciso intervento del ministro Di Pietro). In queste condizioni come si presenta l’Italia all’Europa, alle altre nazioni d’Europa? La Francia, per prima, tenacissima nel difendere il patrimonio nazionale; la Germania. Una nazione che non ha un patrimonio, che non lo sa gestire, quale prestigio ha di fronte alle altre?

 

Qui intervengono i liberisti dogmatici; perché è vero che i sovietici erano dogmatici dirigisti, ma i liberisti non lo sono meno. I liberisti americani che spadroneggiano nelle agenzie ONU – il Fondo monetario, la Banca mondiale ecc, –, che tanti errori hanno commesso e continuano a commettere (nella riconversione dell’impero sovietico, nella supposta promozione del Terzo Mondo: si leggano i libri di Stiglitz, grande economista, che in quelle agenzie ha operato). I liberisti di Bruxelles, che spadroneggiano in Europa. I fanatici del “libero mercato”, come il povero Sircana, portavoce del Governo, quando dice che “le decisioni del Consiglio di amministrazione (Telecom) sono sacre” e si rivela un idolatra del libero mercato, oltre che scarsamente attento alle malefatte di quel Consiglio.

È, direi, di una evidenza lapalissiana che il mercato non può essere libero ma dev’essere gestito; e per almeno due ragioni. Perché lasciato a se stesso è anarchico, e non può quindi che produrre danni; che si riversano poi sui popoli, in particolare sui popoli poveri, e sui poveri nei popoli ricchi. Perché è dominato dal capitale e dalla sua inarrestabile tensione al profitto. Teso a tradurre tutto in valore economico, quindi pronto a distruggere tutto. Difatti gli studiosi lo vedono come ambivalente, produttivo-distruttivo; in quanto è vero che produrre è il suo compito, ma profittare e massimizzare il profitto è la sua più decisa volontà; e così distrugge. Ha distrutto gli operai nella fase primordiale, ha distrutto le città coi suoi quartieri dormitorio, sta distruggendo le materie prime, sta distruggendo le specie viventi, l’ambiente.

Il mercato non dev’essere libero, ma gestito dallo stato, dagli stati, sottraendolo così alla sua anarchia e irrazionalità, equilibrandolo, volgendolo al bene delle nazioni, dell’umanità. Così lo slogan che tutto dev’essere privatizzato è tipicamente capitalistico perché il capitale non vede l’ora di mettere le mani su quelle grosse imprese di servizi per trarne grossi profitti. Devono essere privatizzate le imprese che lo stato ha assunto provvisoriamente per risanarle, com’era il caso dell’IRI; o altre imprese analoghe; non i grandi servizi. E qui il Governo dev’essere più saggio di quanto è stato finora; e dev’essere forte anche di fronte alle ingiunzioni dei liberisti di Bruxelles.

Ma può farsi forte colui che per natura è debole? E imparerà almeno dagli errori commessi?                 

                                                                                   (Nuovo Quotidiano di Puglia, 16 aprile 2007)  

 

 

L’inferno: religione e teologia della crudeltà

di Arrigo Colombo

 

        Predicando la scorsa settimana in una chiesa di Roma, il papa ha pensato bene di richiamare l’esistenza dell’inferno. Ha detto “non se ne parla ma l’inferno c’è”, e ha portato poi alcune delle usuali argomentazioni su chi vive nel peccato, chiudendo il cuore all’amore di Dio, e infine nel peccato muore. Non è andato però a fondo nella questione, su cui oggi molti sono scettici. Perché infatti non se ne parla? Probabilmente perché l’argomento è ritenuto obsoleto; perché la gente non ci crede più, preferisce credere all’amore misericordioso e salvifico di Dio; e infatti, secondo le ricerche demoscopiche, circa il 50% pensa che l’inferno appartenga alle figurazioni della religione popolare di un tempo, ma non abbia una consistenza credibile.

In realtà il papa ci ritorna e lo richiama perché l’inferno è uno dei punti chiave della “religione del timore”; insieme col diavolo e col peccato; e il timore è un grande strumento per il dominio delle coscienze. Questa è l’analisi che la sociologia ha condotto: per una religione come la cattolica, incentrata in una struttura di potere, la grandiosa struttura gerarchica di tipo monarchico-aristocratico e imperiale, un potere assoluto, il timore è un fattore importante, irrinunciabile.

 

L’inferno appartiene dunque alla religione del timore, mentre il cristianesimo sarebbe la religione dell’amore; e appartiene insieme alla religione e alla teologia della crudeltà, perché la dannazione eterna di una persona è un fatto di una crudeltà indicibile. In particolare quando i teologi dicono che per dannarsi basta un solo peccato; quando dicono che uno può vivere una intera vita virtuosa, ma se poi commette anche un solo peccato e la morte lo coglie si danna eternamente (dove il fatto orrendo viene abbandonato alla casualità dell’incidente); e quest’unico peccato può essere anche un solo pensiero sensuale acconsentito, perché in questa materia il peccato è sempre grave. Dove si arriva al grottesco, all’assurdo.

Il punto decisivo è che l’inferno contrasta col cuore della rivelazione cristiana, dell’annunzio evangelico, cioè col Dio amore, col Dio Padre amoroso e misericordioso, con l’amore infinito di Dio. Di fronte al quale nessun peccato resiste. Questo è chiaro; e il Cristo lo spiega nella parabola del figlio prodigo che ha preteso la sua parte di eredità e l’ha poi scialacquata con le meretrici, e si trova a pascere i porci; e allora pensa di tornare alla casa del padre anche solo come servo; ma il padre lo attende da sempre, e non sa nulla del suo pentimento, e appena lo vede gli corre incontro e gli getta le braccia al collo, e neppure ascolta il suo balbettio, ma fa per lui una festa.

Tra l’amore infinito di Dio e il peccato dell’uomo non v’è proporzione, non vi può essere. Tra infinito e finito. Il peccato dell’uomo può essere grave quanto si voglia, ma rispetto all’infinito amore di Dio è nulla; è come una pagliuzza gettata nella fornace di fuoco del sole; e ancora infinitamente meno.

Perciò cadono le tradizionali argomentazioni dei teologi; che tutte risalgono al medioevo, ad un’età di timore e terrore, quando la chiesa dominava con la tortura e col rogo. Dicono che il peccato è offesa di Dio, trasgressione della sua legge; e perciò ha una gravità infinita, che dev’essere punita con una pena in certo modo infinita, come la dannazione eterna. Ma la gravità reale di un’offesa si misura dal grado di responsabilità e di consapevolezza dell’offensore (si pensi a un’ingiuria grave detta da un bambino); e se anche l’offesa di Dio ha una gravità infinita, la conoscenza che ne ha l’uomo è finita, limitata; e l’uomo ne è per lo più inconsapevole; e anzi per lo più commette il male pensando al bene che ne ricava, al guadagno, al piacere; o lo commette nell’insensatezza e nella follia.

Dicono Dio è suprema giustizia, come premia il buono così deve condannare l’empio. Ma in Dio la giustizia sta congiunta con l’amore, con quell’amore illimite per il suo piccolo figlio l’uomo; e un amore tanto più grande quanto più quel figlio è disgraziato. Ciò che sa fare una madre terrena, amare il figlio anche degenere, tanto più lo sa fare il Padre celeste.

Dicono che solo una piccola parte, o almeno una minoranza dell’umanità si salva; perché col peccato di origine l’intera umanità è una “massa dannata” (l’espressione è di Agostino). Se questa non è una visione crudele, quale altra mai?

 

Resta da spiegare la presenza dell’inferno nei vangeli. La più recente ricerca ne ha ricostruito la genesi. Infatti questa presenza era strana perché nel Testamento Antico l’inferno non c’è: si pensava che i morti andassero in un mondo sotterraneo d’ombre, lo sheôl, qualcosa come l’Ade dei Greci. L’inferno compare tardi, nella letteratura apocalittica, nel libro di Enoch, una compilazione del II sec. a.C., l’abisso di fuoco; insieme col diavolo, nel mito della caduta degli angeli sedotti dalla bellezza femminile; con la sequenza apocalittica (la grande afflizione, la lotta escatologica tra forze del bene e forze del male, la sconfitta finale e però imminente del male, dei diavoli come degli empi, il grande giudizio, il castigo dell’abisso di fuoco) anch’essa mitica. Proviene dalla rivelazione di Zarathustra, più antica di cinque secoli, da quel mondo persiano con cui l’ebraismo ha avuto un rapporto di amicizia, anche se di sottomissione (la Persia lo ha liberato dalla schiavitù babilonese). E però l’apocalittica penetra profondamente nella cultura e coscienza ebraica (domina i quattro secoli che stanno a cavallo dell’era cristiana, è forte nella comunità essenica come in quella evangelica) e noi la troviamo nella quotidianità di quel popolo: nelle discussioni del Cristo coi farisei, nella diffusa credenza che la malattia fosse dovuta a una presenza diabolica.

L’inferno, come il diavolo, è un masso erratico che dalla cultura persiana scivola nell’apocalittica, quindi nella coscienza ebraica del tempo, e da questa nei testi cristiani. Ma contrasta profondamente con l’annunzio evangelico, che dev’esserne purificato.

Così contrasta con la Pasqua in cui si adempie la redenzione, e la salvezza dell’umanità; ed è perciò una festa di pace, in cui l’umanità si rasserena e si apre alla speranza, quasi una primavera dell’anima. Ma se ci fosse l’inferno la redenzione sarebbe menomata, l’umanità sarebbe in preda ad un “timore e tremore” atroce, ad un dolore insanabile per quei fratelli che già sono dannati per sempre.  

                                                                               (Nuovo Quotidiano di Puglia, 13 aprile 2007)  

 

 

L’episcopato sulle unioni di fatto: ingiustizia e arroganza

di Arrigo Colombo

 

         È uscita finalmente la tanto annunciata Nota dell’episcopato italiano sulle unioni di fatto, che di per sé non ha portato nulla di nuovo ma, come pronunciamento ufficiale e solenne, come intervento autoritario e coercitivo, ha provocato una fortissima reazione.

 Interviene infatti espressamente sui disegni di legge presentati in Parlamento, con l’intento di impedirne l’approvazione; sui membri del Parlamento, imponendo loro dei vincoli morali. Interferisce quindi con l’attività del Parlamento che è l’organo supremo dello stato; contravvenendo all’articolo primo del nuovo Concordato (l’Accordo di revisione del 1984), il quale afferma che stato e chiesa “sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, impegnandosi al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti”.

Dice anche, tra l’altro, di essere sollecitato dalle “richieste dei cittadini”; mentre dovrebbe dire dei “fedeli”, perché i cittadini rispondono allo stato come i fedeli alla chiesa. Sarà un lapsus, ma è significativo di quella mentalità.

 

Espone poi la sua visione del problema, che conosciamo fin troppo bene perché ormai da un  anno ogni giorno qualche prelato, se non il papa stesso, ce la ripete, ce la canta in musica. Che cioè la legalizzazione delle coppie di fatto è inaccettabile, pericolosa, deleteria per la famiglia. Che “solo il patto matrimoniale giustifica i diritti che sono propri dei coniugi, che appartengono soltanto a loro”. Il che è falso perché fonte prima del diritto è la persona, e i rapporti e vincoli ch’essa stabilisce; e in seconda istanza è la legge, che riconosce la persona come i suoi vincoli. Ora nella coppia il vincolo personale, e fondamentale in quanto fondativo, è lo stesso sempre, coi tre fattori che sono l’amore, la convivenza, la fecondità; con la decisione a questi tre fattori, che è il primo e vero patto. Quello su cui interviene la sanzione giuridica del matrimonio civile; o quella più debole ma tuttavia consistente del “patto sociale”; o quella del matrimonio religioso. E i diritti che a questa sanzione conseguono; che la legge riconosce.

La sanzione religiosa sarà la più forte; anche perché la chiesa cattolica – e lei sola – ritiene che il suo matrimonio sia indissolubile; avendo stabilito questa norma quando ancora non riconosceva l’amore come fondamento di tutto (i matrimoni erano combinati dalle famiglie sulla base dell’interesse; e loro sommo fine era la procreazione, non l’integrazione amorosa ed esistenziale della persona, cui la procreazione segue in quanto l’amore la fa feconda; anche gli animali procreano). Ma la sanzione civile, sia del matrimonio che del patto sociale, ha pure la forza di una legge che tutti i popoli  riconoscono. La vera forza restando sempre in quella decisione amorosa, conviviale, feconda; senza la quale non v’è sanzione che tenga; e l’esperienza di ogni giorno lo dimostra.

Questo è il punto che la gerarchia dovrebbe riconoscere se fosse un po’ meno sicura di sé, della sua presunta infallibilità; un po’ più evangelicamente umile. E dovrebbe anche finirla di perseguitare gli omosessuali, che sono persone umane, hanno in sé l’”immagine di Dio”, come dice stupendamente la Genesi, sono nostri fratelli, e hanno diritto al nostro amore; e ad un amore tutto particolare in  quanto glielo abbiamo negato a lungo, li abbiamo emarginati, disprezzati. Così come hanno diritto alla loro integrazione personale e amorosa e conviviale, con tutto ciò che consegue; che gli altri hanno e loro no, a loro viene negata. La gerarchia perseguita ancora gli omosessuali come ha perseguitato gli ebrei, per due millenni; ma almeno per gli ebrei è finita.

 

Il documento non osa però infrangere la libertà di coscienza; come l’ha infranta per secoli, sterminando gli “eretici” nel modo più barbaro, mandandoli  al rogo.

Dice che i politici e legislatori cattolici “devono sentirsi particolarmente interpellati dalla loro coscienza”; e, per le unioni omosessuali, tanto aborrite, hanno “il dovere morale di […] votare contro il progetto di legge”; né possono invocare “il pluralismo e l’autonomia dei laici in politica”. Possono però invocare la loro coscienza, in cui nessuno può interferire, la loro personale responsabilità, cui nessuno può sostituirsi. Vedremo quanto la loro coscienza sarà libera, quanto critica, quanto autonoma; "adulta", come disse Prodi; o quanto acquiescente e servile. E possono anche invocare un’esperienza secolare e millenaria di errore da parte della gerarchia cattolica, della sua presunzione di dominio della verità, d’infallibilità in ogni campo (mentre, se pur c’è, è molto ristretta); di cui esempi preclari, a parte la condanna di Galileo, sono le persecuzioni millenarie di cui si è detto, degli ebrei, degli eretici, e ancor oggi degli omosessuali.             

                                                                                         (Nuovo Quotidiano di Puglia, 2 aprile 2007)  

 

 

La polemica sul caso Mastrogiacomo: una vita e molte morti

di Arrigo Colombo

 

        Il sequestro del giornalista Mastrogiacomo da parte dei talebani in Afghanistan ha suscitato un’enorme ondata di solidarietà, quale mai si era vista negli scorsi anni, lungo queste sporche guerre volute dalla Destra americana, guerre ingiuste e sanguinosissime. Ma ha suscitato anche una forte polemica, che divampa in questi giorni.

V’anzitutto la legge antisequestro, per cui se una persona è rapita i suoi beni vengono posti sotto fermo affinché non sia pagato il riscatto; perché il pagamento incentiverebbe l’industria del sequestro, di cui l’Italia ha fatto in passato un’esperienza amarissima; anche per mancanza di determinazione da parte politica come da parte dell’intelligence e della polizia. Se si pensa che in Francia il primo tentativo di sequestro era stato subito stroncato dalla dichiarazione del Ministro dell’Interno, che al momento del pagamento la polizia sarebbe intervenuta bloccando denaro e sequestratori; come in realtà avvenne. Si è fatta l’amara riflessione che ciò che era proibito in Italia era permesso fuori: là il cittadino veniva salvato con ogni mezzo, mentre qui veniva abbandonato; qui la criminalità veniva bloccata mentre là veniva incentivata col denaro di tutti noi. Contro un principio di equità, di giustizia.

V’è il problema ancora più grave di chi muore, di quanti muoiono o moriranno per la salvezza di un solo. Già era morto l’autista, barbaramente decapitato, il meno colpevole sotto ogni aspetto, il poveraccio di cui nessuno s’è curato, nessuno ha scritto non dico un articolo ma dieci righe o anche una sola riga di commiserazione per lui, di pianto per il più umile e il più infelice.

Ma poi cinque talebani sono stati liberati, cinque fanatici armigeri pronti a rilanciarsi nella guerriglia, cinque eroi di quella guerra santa che non risparmia nessuno, le cui vittime sono soprattutto donne e bambini, la cui armi preferite sono i veicoli imbottiti di esplosivo che irrompono nella piazza, nel mercato. E qui l’ipotesi è realissima, qui la morte è certa, abbiamo liberato cinque seminatori di morte.

Poi c’è il denaro del riscatto, somme ingenti che saranno tradotte in armi ed esplosivi, in quantitativi enormi di armi piccole, modeste in apparenza, ma tuttavia micidiali. Ai talebani non servono i carriarmati di ultima generazione, i sofisticati e costosissimi armamenti americani; gli basta il kalashnikov, gli basta l’esplosivo al plastico e la vecchia macchina o il vecchio camion da imbottire, gli basta il missile a spalla. Quel denaro lo moltiplicheranno sapientemente, lo tradurranno nei più semplici ed efficaci strumenti di morte.

 

Per cui la gente dice sì, si è salvato un uomo, il reporter del grande giornale, l’occidentale prezioso, che non ha prezzo; per l’occidentale si è mosso il mondo intero, si è fatto tutto, il giusto e l’ingiusto; perché è vero che una persona, una vita non ha prezzo. E però le masse asiatiche, le masse afgane e irachene, quelle non le salva nessuno, nessuno si muove per loro, quelle vanno ogni giorno al macello. Ogni giorno si legge sul giornale, la notizia ormai troppo consueta, quasi noiosa, cinquanta cento persone per volta, cento morti trecento feriti, nessuno ci bada più.

Se questo è un uomo”, direbbe Primo Levi, “se questi sono uomini”. Oppure non lo sono, non sono uomini ma soltanto masse anonime, ignoranti, insignificanti. E certo il problema si pone anzitutto per i talebani stessi, per i sunniti della guerriglia irachena, per gli adepti di Al Qaida; o ce lo poniamo noi per loro. Forse il principio che per noi è sacrosanto, la dignità e il diritto della persona umana, la pari dignità di ogni persona, sia essa povera o ricca, ignorante o colta, asiatica od occidentale; questo principio che sta già nel primo capitolo della Bibbia – anche se compreso dopo tanto, nella modernità,  a cominciare dall’Umanesimo del ‘400 – dell’”immagine di Dio” su cui è fatto l’uomo, che sta nell’uomo; questo principio loro lo ignorano, e perciò senza riguardo alcuno compiono ogni giorno il massacro dei loro stessi fratelli di stirpe e di fede.

E però anche noi occidentali, che questo principio lo possediamo, e sta nelle nostre “carte”, nelle Dichiarazioni dei diritti, solennemente affermato; noi abbiamo portato in quei paesi la guerra, che altro non è se non il macello umano, il macello inumano. Gli americani l’hanno portata, loro che si ritengono la più civile nazione del mondo; e, dicono, per esportarvi la democrazia, come se la democrazia si potesse esportare, come se non esigesse una maturazione di coscienza che richiese decenni, richiede secoli. Ma in realtà ce l’hanno portata per un motivo di ritorsione, per lavare l’onta delle torri gemelle. Hanno ceduto allo spirito di vendetta.

E noi abbiamo compiuto questo riscatto che si tradurrà in morti innumerevoli, in massacri quotidiani. Abbiamo salvato l’occidentale sapendo che avremmo sacrificato masse di asiatici. O forse non potevamo fare altrimenti, dovevamo cercare comunque la salvezza, lasciando agli altri la responsabilità della morte. E però infine, comunque la mettiamo, "non ci resta che piangere": non si può festeggiare, non è giusto, non è umano.                                    

                                                                 (Nuovo Quotidiano di Puglia, 26 marzo 2007)  

 

 

La piazza e la società civile

di Arrigo Colombo

 

        In queste settimane, in seguito alle ultime manifestazioni popolari – quella di Vicenza contro il raddoppio della base militare americana, quella di Roma a sostegno dei Pacs o Dico – si sono sentiti i vertici politici parlare dell’inopportunità di questo mobilitarsi della “piazza”, della “massa”; e di coloro che da essa si sono incautamente lasciati attrarre, ministri magari, membri del parlamento; anziché attenersi alle “decisioni della maggioranza”, che rappresenterebbe “il cuore della democrazia”.

Strane espressioni. La “piazza” è parola della Destra, parola di disprezzo. La “massa” (o le masse) è parola del comunismo sovietico, e del PCI; comprensibile in un regime dispotico, dittatoriale, che si vantava di perseguire l’avvento del proletariato, ma che in realtà instaurava la dittatura del partito sul proletariato; ch’era poi la dittatura del segretario del partito, il compagno Stalin, il compagno Breshnev ecc. E però quella parola risulta strana in bocca alla Sinistra d’oggi, che si è liberata da quel dispotismo, ad una Socialdemocrazia come quella dei DS; perché “massa” è parola depressiva della persona, della sua individua e incomparabile dignità. Si parla infatti di massa in rapporto a fenomeni appunto depressivi e oppressivi della persona, come la massa populista del fascismo e del para-fascismo (del tipo Perón, e in certa misura Berlusconi), o la massa lavoratrice asservita al lavoro ripetitivo (la catena di montaggio) e allo sfruttamento del capitale, o la massa consumista vittima della coazione all’acquisto, la massa vittima della persuasione occulta, della suasione mediatica. Fenomeni di oppressione indiretta e tacita che ancora infestano le democrazie. Perciò il giovane Marx, nei sempre preziosi Manoscritti economico-filosofici, diceva che bisognava passare dall’”individuo di massa” all’”individuo personale”.

 

Qui il linguaggio dev’essere purificato, perché nella parola sta l’idea, e all’idea consegue il comportamento. Qui la parola giusta è “società civile”. A Vicenza si è mobilitata la società civile, il popolo vicentino, nella difesa del suo territorio; e più oltre nella difesa della pace contro il militarismo americano e bushiano (della Destra che persegue l’egemonia, e la guerra per l’egemonia), nella difesa della Costituzione italiana che rifiuta la guerra. A Roma si è mobilitata la società civile per la difesa della coppia di fatto e della coppia omosessuale, dei suoi diritti; la difesa dello stato italiano dall’interferenza vaticana (contro il dettato concordatario); la supplenza a certa pavidità e servilismo dei politici.

La società civile è la detentrice del potere politico, detentrice prima e suprema. Tutti gli altri – che siano il Presidente della Repubblica o il Premier o il Parlamento – sono solo mandatari temporanei di quel potere, e lo esercitano per quel tanto che restano in carica. Non si può dire che il governo di maggioranza è  l’”essenza della democrazia”, non ha senso. Essenza della democrazia – la parola stessa lo dice – è il potere di popolo, la sovranità popolare. Potere che la società civile conserva sempre, anche se in parte lo cede ai suoi mandatari (Beccarla dice giustamente che ne cede solo “una piccola parte”). Perciò può sempre intervenire, sia in modo formale e istituzionale – come nella proposta di legge e nel referendum; o in altre forme di democrazia diretta, il “bilancio partecipativo” introdotto dapprima a Porto Alegre in Brasile, poi in molte altre città; o il “giudizio popolare” annunciato da Ségolène Royal –; sia in modo informale, attraverso varie forme, di cui la manifestazione popolare (o anche il rifiuto e la rivolta, come nel caso del deposito di detriti radioattivi di Scanzano in Basilicata) è la più forte, e anche la più efficace; a parte quel moto eversivo globale che è la rivoluzione.

 

La società civile esige anzitutto di essere interpellata sulle decisioni che più particolarmente la riguardano; ed è un errore, e un grosso malcostume politico, quello di non farlo; di decidere tali questioni a sua insaputa. Come nel caso appunto di Scanzano, della Val di Susa, di Vicenza. Prodi non può addurre per Vicenza quelle scuse che già abbiamo demolito: che non sapeva, ch’era solo una questione urbanistica, che lo aveva già deciso il governo precedente; né può dire, insieme al ministro degli esteri D’Alema, “la decisione non si cambia”. Dev’essere onesto, deve trattare con la società civile, la vera detentrice del potere. Deve ascoltarla, deve rispettarla.

Pretendere poi che i politici, o anche i ministri, non partecipino alle manifestazioni del popolo sovrano non ha senso; anche quando manifesta contro la maggioranza o il governo. Si partecipa per un principio generale di solidarietà, per un motivo di ascolto, di apprendimento: anche il governo può sbagliare, spesso anzi sbaglia; le sue decisioni possono sempre essere corrette, possono essere migliorate.  

                                                                  (Nuovo Quotidiano di Puglia, 19 marzo 2007)  

 

 

Difesa della coppia di fatto

di Arrigo Colombo

 

        La coppia di fatto è ormai da mesi alla ribalta in Italia, per il tentativo che anche il nostro governo – sia pure in ritardo – sta compiendo di riconoscerle un certo statuto e certi diritti; ma soprattutto per l’aspra lotta, il quotidiano attacco del Vaticano, che la considera rovinosa per la famiglia. Forse il Vaticano, e con lui l’episcopato, farebbe meglio a studiare questo fenomeno e il suo espandersi negli ultimi decenni; per cui nel Nordeuropa e negli USA le coppie di fatto sono ormai oltre il 50%, nel Centro oltre 40, nel Sud sul 15-20; e continuano a crescere. Studiarlo e, poiché lo ritiene rovinoso, affrontarlo.

 

Tentiamone qui un’analisi breve. Si parla di coppie temporanee, di prova o rodaggio prima del matrimonio; e rientrano in quei rapporti preconiugali che oggi anche i teologi cattolici considerano non solo leciti ma doverosi. Coppie di necessità, che evitano un nuovo matrimonio per non perdere certi benefici del precedente; come la pensione di reversibilità. O di opportunità, che lo evitano per non perdere certe convenienze del celibato; sul lavoro, ad esempio. Coppie di necessità psicologica, di partner che hanno sofferto non solo per lo scioglimento del vincolo dei genitori, ma proprio per le difficoltà e i conflitti che hanno tormentato quello scioglimento.

Interviene il timore del legame giuridico, del matrimonio indissolubile soprattutto; in una società in cui quel legame è spesso destinato a sciogliersi. L’ostilità all’istituzione. Su di un altro versante l’esaltarsi della libertà del rapporto e dell’essenzialità dell’amore.

Alcuni parlano di decadenza della società, in cui i vincoli forti si dissolvono, i rapporti si estenuano. In cui i vincoli etici si allentano: vincoli “deboli” dicono i postmoderni, “relativismo etico” dice Ratzinger. In cui la persona s’indebolisce e rifugge dalla responsabilità.

 

Direi che il fenomeno è complesso e ha alla sua base anzitutto alcuni dei grandi principi etici della coscienza moderna: il principio di libertà personale; il principio di parità uomo donna; il principio dell’amore come fondamento dell’unione coniugale; il principio di bontà della sessualità e del piacere. E però soffre anche della distorsione di questi principi: della libertà che diventa libertinismo e insofferenza dei vincoli; così come diventa abuso della sessualità e del piacere. Soffre di una parità uomo donna che diventa troppo facilmente trasgressione e conflittualità. Soffre di una società e famiglia permissiva che indeboliscono la persona, il carattere.

In questo quadro, nel suo rifiutare il vincolo forte, la sanzione giuridica, che di per sé appartiene all’amore come integrazione della persona “dimidiata” (divisa in due, nei due sessi, persona donna o uomo), a quel carattere di assoluto ed eterno che gli assegnarono i Romantici quando lo riscoprirono; così come appartiene al solido “nido di amore” di cui abbisognano i figli; in tutto questo la coppia di fatto si presenta come un’anomalia. Che insorge in quel nodo di principi che si affermano e si distorcono. Cui cerca di supplire il “patto civile”, come sanzione giuridica minore ma pur sempre consistente, come fattore di stabilità. Perciò sanzione pubblica, non privata,  come vorrebbe il Vaticano, e con esso i cattolici integralisti, quelli del tutto o nulla; qui il loro fondamentale errore, oltre che nella negazione dei diritti. Rifiutano una stabilità minore in nome di quella maggiore; e così accettano e aggravano  l’instabilità e danneggiano la società, oltre che la coppia stessa e il suo nucleo, e i figli. Non potendo raggiungere il bene supremo rifiutano il bene minore e preferiscono il male; e dimenticano l’amore misericordioso del Cristo, vicino sempre a chi è più bisognoso, anche all’estremo, come il pubblicano o la meretrice.

 

Ma la coppia di fatto è pur sempre un centro di amore, che illumina e riscalda la società. Un centro di amore, di convivenza, condivisione della travagliata vicenda umana; un centro di fecondità, di quel mirabile evento che è sempre il figlio nel suo generarsi e nascere e crescere. Un centro di amore personale, di amore fecondo, di un amore forse timoroso ma tuttavia abbastanza consistente, se presume di persistere da sé solo senz’alcun altro vincolo. Si dice ch’è rovinosa per la famiglia, ma in realtà la coppia di fatto è una famiglia. Il Vaticano e i suoi teologi di palazzo, che tanto dissertano di “analogia” quando trattano del divino in rapporto all’umano e al finito, non dovrebbero avere difficoltà a comprendere che v’è una scala analogica anche per la famiglia. Che va da quella unita dal vincolo sacramentale ritenuto indissolubile, a quella unita dal vincolo giuridico, a quella del patto civile, a quella di fatto; dove muta la forma del vincolo, non muta la sostanza che fonda il vincolo stesso, la decisione amorosa, la volontà di amore, d’integrazione, di fecondità.

                                                            (Nuovo Quotidiano di Puglia, 12 marzo 2007)  

 

 

 Vicenza e il problema delle basi americane

di Arrigo Colombo

 

        Dico subito che la questione di Vicenza è una questione grossa: perché coinvolge il problema delle basi militari americane, un’anomalia, certo, centinaia di basi sparse nel mondo intero (otto principali  basi in Italia); per cui gli USA sono diventati il gendarme dell’umanità, e possono portare le loro guerre ovunque. E, con le basi, coinvolge il problema dell’egemonia americana nel mondo, il più grosso problema di politica planetaria dopo la guerra fredda.

Il presidente Prodi non può dire – come ha detto – “non ne so nulla”, quando la stampa da mesi parlava di Vicenza; né può dire che si tratta di una “questione urbanistica” di quella città; né può dire – lui e il ministro D’Alema e Parisi ed altri – che questa decisione di consentire agli americani il raddoppio della base “non si cambia “.

 

Perché qui c’è di mezzo la volontà popolare, che non può essere disattesa e disprezzata, in quanto essa è la base del potere del parlamento come del governo; è il potere di popolo, la “demo-crazia”, la sovranità popolare. E tanto più meraviglia che sia disattesa da un governo che alla volontà popolare dovrebb’essere particolarmente sensibile. Prendere decisioni sulla testa dei cittadini non è giusto, contrasta col principio democratico. E porta poi alla rivolta, come a Scanzano, come in Val di Susa. E porta alla perdita di consenso; laddove questo governo di consenso ha estremo bisogno.

 

Si deve d’altronde riconoscere che ha intrapreso una più sensibile politica di pace. Intervenendo e mediando in Libano; ritirando il contingente dall’Iraq, dove gli USA avevano scatenata una guerra col folle pretesto di “esportare la democrazia”; una guerra disperata, come si vede ogni giorno, senza uscita; intessendo rapporti con la Siria; proponendo una conferenza Internazionale per l’Afghanistan e per tutta quella zona.

Ma non ha capito che la questione di Vicenza gli offre l’occasione di allargare quest’azione politica; di porre a livello internazionale il problema delle basi, quindi dell’egemonia americana. Le basi hanno avuto una funzione durante la guerra fredda, quando il modello sovietico, dispotico e aggressivo, si estendeva sul pianeta. Ma ora sono diventate un pericolo per l’umanità: le basi, e gli armamenti che gli USA continuano a sviluppare e ad accumulare; a che scopo? contro chi? Contro il terrorismo islamico e gli stati che si dice lo sostengano, gli “stati canaglia”? contro i quali scatenano guerre tanto sanguinose quanto inutili? Perché il terrorismo non si combatte con gli eserciti ma con l’intelligence e la diplomazia, e con un’offensiva di amicizia verso l’Islam; mentre gli eserciti, con le loro armi stupefacenti s’impaludano nella guerriglia, contro la quale sono impotenti.

Su queste cose molti stati europei sono d’accordo, in particolare la Francia e la Germania. Perciò il governo può porre il problema anzitutto in sede europea, il problema dell’egemonia americana e delle basi militari.

 

L’amicizia col popolo americano non c’entra: si sa che il popolo è stanco di queste guerre, delle spese, delle perdite, delle morti; e ora anche il Congresso è contro. La politica guerrafondaia è stata scatenata dalla Destra, dai suoi ideologi, dall’establishment che si è formato in seguito alle incerte prime elezioni di Bush figlio; e che ha teorizzato e affermato l’egemonia, come ha teorizzato e voluto le “guerre preventive”. Ma questa amministrazione, ormai, non è lontana dalla fine e una nuova prospettiva si apre.

Né ci lega – come altri dicono – l’impegno preso dal governo precedente, molto voglioso di stare coi potenti e superpotenti; quando un governo cambia, anche gl’impegni possono essere riveduti e ridiscussi; come del resto ha fatto Zapatero per l’Iraq.

 Gli Usa sono un paese democratico per nascita, per tradizione, per convinzione. Sono il paese che, più fermamente di ogni altro, ha voluto l’ONU, la comunità planetaria  dei popoli, e ha firmato il Trattato dell’ONU, il cui principio fondamentale è il rifiuto della guerra: il principio che i conflitti tra popoli non devono mai esser risolti con la guerra ma solo con la trattativa. Si sa che la Destra ha calpestato tutto questo: ha scavalcato l’ONU, la NATO, l’Europa (dove pure ha trovato qualche indegno alleato, a cominciare da quel Blair che è entrato in guerra ingannando il suo popolo); ha scatenato la sua volontà di potenza, approfittando del risentimento seguito all’attacco alle torri gemelle; un attacco al suo interno, che mai era accaduto.

 Con Vicenza una grande occasione s’apre per il governo dell’Unione. La possibilità far compiere al processo di pacificazione in corso un salto qualitativo, ponendo per la prima volta in aperta discussione l’egemonia americana e il suo sistema militare di basi nel mondo. Per il popolo americano e il suo rinnovato estabishment un passo indietro, una nuova saggezza: la rinunzia all’egemonia, alla guerra, alla corsa agli armamenti; riconoscendo il principio di pari dignità e diritto dei popoli; riconoscendo la loro universale volontà di pace.      

                                                                     (Nuovo Quotidiano di Puglia, 5 marzo 2007)

 

 

Contro l’ingerenza ecclesiastica la revisione del Concordato

di Arrigo Colombo

 

         L’estrema ingerenza della gerarchia cattolica nell’azione politica per la regolamentazione delle coppie di fatto, anche omosessuali, ha suscitato un forte risentimento; in particolare la minaccia di un’imposizione dell’episcopato ai parlamentari cattolici. La quale interferisce direttamente con le decisioni del Parlamento, che è l’organo supremo dello stato democratico, l’espressione suprema dell’autonomia dello stato. L’imposizione ai membri del Parlamento di un certo voto, sovvertirebbe totalmente l’autonomia del Parlamento, il parlamentare verrebbe astretto ad una potestà estranea, verrebbe a dipendere da un potere altro, diventerebbe l’espressione di quel potere. Un fatto abnorme, che ovviamente contrasta con la Costituzione, con l’art. 67, dove “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. È chiaro che nessun vincolo, nessuna imposizione può astringerlo; si parla semmai di disciplina di partito. Ma un intervento del genere sovvertirebbe la legge fondamentale dello stato.

Questa dura ingerenza ha suscitato l’idea che su questo punto, sul punto dell’autonomia dello stato, e del suo rispetto da parte della chiesa, il Concordato debba essere precisato meglio. L’idea è stata espressa in particolare dallo Sdi, dai Radicali, dai Verdi; è chiaro, del resto, che i partiti maggiori, specie i DS, debbono essere molto cauti, per non urtare le perplessità della Margherita, solo in parte superate. Si minaccia anche una specie di ritorsione: togliere alla chiesa certi privilegi che lo stato le ha concesso, come la religione nelle scuole, l’otto per mille, l’esenzione fiscale dei luoghi di culto. Ma non è questo il caso.

 

È invece quello dell’autonomia, di cui si è detto. I patti del ’29 su questo punto erano carenti, sbilanciati a riconoscere “l’assoluta indipendenza”, la “sovranità indiscutibile”, “l’esclusiva ed assoluta potestà e giurisdizione sovrana” della chiesa.  L’Accordo di revisione dell’84 riequilibrava le posizioni, stabilendo che stato e chiesa “sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, impegnandosi al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti”. Il dettato del testo è chiaro: c’è l’autonomia, c’è l’impegno a rispettarla. Lo stato rispetta, la chiesa deve rispettare l’autonomia dello stato.

Al seguito dell’esperienza di questi anni, flagellati da una continua ingerenza della gerarchia nelle decisioni del Parlamento, e anche nelle decisioni del cittadino (si veda la direttiva dell’astensione nel referendum sulla procreazione assistita) dovrebb’essere aggiunto un comma che precisa: “in ordine a tale rispetto la chiesa enuncia liberamente i suoi principi, ma si astiene da ogn’intervento su decisioni in corso da parte del Parlamento e del Governo; così come da ogni pressione su membri del Parlamento e del Governo”.

Ciò significa che la discussione avviene prima, ed è giusto che avvenga. Dovrebbe anche avvenire in termini schiettamente discussivi, e non autoritativi e autoritari, di una chiesa che possiederebbe, in materia etica e politica – di gestione dello stato –, una verità infallibile, indubitabile, la quale deve incondizionatamente imporsi. Perché questo, in materia etica, non è vero, spesso anzi è falso; è discusso nella chiesa stessa, dai teologi, che sono gli esperti in materia, che la gerarchia spesso non ascolta, o addirittura emargina. Così nei riguardi della contraccezione  (la strana guerra condotta dal Vaticano, anche in campo internazionale, contro quel piccolo prezioso oggetto che si chiama “preservativo”), della procreazione assistita, la condanna spietata degli omosessuali; che i maggiori teologi non condividono, ma non vengono ascoltati. Per una tipica arroganza del potere.

 

Un altro comma dovrebbe riguardare l’educazione del bambino e dell’adolescente, quindi la scuola; che la chiesa afferma essere di pertinenza della famiglia. Per cui la famiglia, e non lo stato, dovrebbe organizzare il sistema scolastico (queste posizioni permangono ancora nei testi del Concilio Vaticano II). Il comma dovrebbe precisare che, se la famiglia ha un fondamentale compito nella formazione dell’uomo, lo stato ha un compito esclusivo nella formazione culturale e personale del cittadino; la quale inizia almeno dalla scuola primaria.

 

Un terzo comma dovrebbe riguardare l’insegnamento della religione nelle scuole. Che non può essere correttamente inteso in senso catechetico; s’insegna la dottrina cristiana; un compito che invece deve adempiersi nella comunità ecclesiale, nella parrocchia. Mentre nella scuola deve intendersi in senso culturale; la religione come parte della formazione culturale della persona. E, certo, anzitutto la religione cristiana e cattolica che contrassegna e impregna la nostra cultura; ma anche le altre religioni, che compongono l’universale cultura umana.

Dove cadono certi punti attualmente in vigore, anche a seguito dell’Accordo dell’84: che l’insegnante dev’essere riconosciuto idoneo dall’autorità ecclesiastica; che lo studente (e con lui la famiglia) può scegliere di non frequentare quel corso.

                                                                  (Nuovo Quotidiano di Puglia, 17 febbraio 2007)

 

 

I PACS e l’intolleranza ecclesiastici

di Arrigo Colombo

 

        Abbiamo assistito in queste settimane, e ancor più in questi ultimi giorni, ad una inaccettabile intolleranza e interferenza ecclesiastica nelle decisioni del Parlamento; una continua violazione dell’autonomia dello stato e del suo supremo organo di decisione; un continuo premere della gerarchia attraverso pronunciamenti diretti dell’episcopato e dei suoi organi di stampa, attraverso incontri più o meno riservati; una intollerabile azione di lobby. E quel principio enunziato da Ratzinger dei punti “non negoziabili”, laddove non c’è nulla da negoziare perché lo stato è sovrano; si è negoziato a suo tempo nel Concordato e nella sua revisione; dove l’autonomia è stata solennemente riconosciuta e sancita, per la chiesa come per lo stato, ognuno nel suo ambito; e dev’essere rispettata.

Quest’azione era anche a tutto danno del laicato cattolico, ridotto ad una condizione di totale subalternità, passività, mutismo. Solo la gerarchia può parlare; anzi in Italia solo il suo capo, il presidente della Conferenza Episcopale Ruini; gli altri vescovi – e sono molti – sono immersi in un mutismo totale, quasi non esistessero (l’unico che a volte ha dissentito, sia pure con cautela, è Martini; ma nessuno dei vescovi e cardinali in carica). Prodi ha detto bene, a proposito dell’astensione dal referendum sulla procreazione assistita, che avrebbe votato perché è un “cattolico adulto”; perché in realtà i laici cattolici sono trattati da bambini.

 

Tutta quest’azione della gerarchia contro i PACS, poi, non ha senso. È falso che il “patto civile” di una coppia di fatto sovverta la famiglia; semmai dà alla coppia una stabilità che altrimenti non avrebbe; oltre che riconoscerle dei diritti che ai suoi membri competono come cittadini conviventi; l’avvicina alla famiglia, ne fa un “analogo” della famiglia.

La gerarchia cattolica vorrebbe che tutti si unissero nel suo matrimonio indissolubile. Ma l’indissolubilità del matrimonio non è più sostenibile, da quando si è capito che suo fondamento è l’amore; e certo l’amore non solo come passione, ma nel suo senso più pieno d’integrazione personale per la vita. E però, quando il fondamento vien meno, pure il matrimonio cade; anche se può perdurare per un legame affettivo, oltre che per la delicata attenzione verso i figli.

La coppia di fatto è una realtà storica: nel Nord e Centroeuropea supera già il 50% delle unioni; in Italia è sul 15%, il che vuol dire che coinvolge oltre un milione di persone; alle quali lo stato deve provvedere, come provvede agli altri cittadini che osservano la legge e pagano le tasse. Non può emarginarle, negare loro ciò cui hanno diritto; sarebbe ingiusto. Si deve dunque pensare che la gerarchia preferisca uno stato ingiusto? che preferisca delle coppie meno stabili e più sprovvedute? che preferisca degli omosessuali abbandonati al randagismo, e alla conseguente anomia e anche criminalità? e dove finisce allora l’amore fraterno, che è la norma suprema dell’ethos cristiano?

 

In realtà la gerarchia non riconosce ancora lo stato laico e la sua autonomia. Lo si vede dal suo comportamento; ma lo si vede anche dai documenti del Concilio Vaticano II che pur per la prima volta l’afferma; leggendoli con attenzione. Abituata per oltre un millennio a dominare il potere politico, col Sacro Romano Impero di cui il papa era supremo investitore; con le varie teorizzazioni della sua superiorità e del suo dominio sullo stato (ad esempio la teoria del sole e della luna d’Innocenzo III; quella delle due spade di Bonifacio VIII); quando lo stato laico moderno si è affermato  – soprattutto in seguito alla Rivoluzione francese – lo ha contrastato lungo tutto l’800, e ancora nel900. E tenta sempre di soggiogarlo. Così col principio che la chiesa ha il dominio dell’etica, su cui si fonda la legge; lo ha in quanto è in possesso della rivelazione divina, e in quanto ha il potere di legare o sciogliere la coscienza, di perdonare o condannare il peccato. Per cui – come ha ricordato più volte Ratzinger – una “sana laicità” può aversi solo su base religiosa, una sana legislazione può aversi solo sulla base di quell’etica che la chiesa detiene in modo certo e infallibile; poiché la sua infallibilità non concerne soltanto il divino ma anche l’umano, non solo la fede ma anche i costumi.

Ma questo esclusivo dominio ecclesiastico dell’etica è tutt’altro che certo. È anzi apertamente contrastato; perché se è vero che il dominio di Dio sull’uomo è fondamento supremo del vincolo etico, del legame che astringe la coscienza; è anche vero che v’è un fondamento immediato, che è la ragione. Tanto che i supremi principi etici, che sono andati liberando l’umanità lungo l’evo moderno, non provengono dalla chiesa, ma un maturare storico della ragione: i principi di libertà, di eguaglianza, di sovranità popolare; il principio di parità uomo donna, di pari dignità e diritto dei popoli. Principi che la chiesa cattolica ha a lungo avversato.

                                                                       (Nuovo Quotidiano di Puglia, 12 febbraio 2007)

 

 

La discussione sul negazionismo

di Arrigo Colombo

 

        La discussione sulla “shoah” si è riaccesa in queste settimane; la discussione sull’olocausto ebraico, il tentato sterminio della nazione ebraica da parte della follia nazista, l’atroce persecuzione, i campi di annientamento, i forni crematori, i sei milioni di morti. La discussione si è riaccesa in seguito alla discesa in campo dei “negazionisti”, di coloro che negano che lo sterminio sia mai avvenuto; la loro mobilitazione da parte del presidente iraniano Ahmadinejad che li ha riuniti a congresso. Un fatto paradossale e ignominioso, che solo l’odio estremo per Israele, l’odio di un islamico fanatico che vuole l’annientamento d’Israele, come più volte ha dichiarato, può spiegare. Un fanatismo che eclissa la ragione; negli studiosi negazionisti un fanatico antisemitismo.

Perché è vero che con gli anni i testimoni diretti, coloro che hanno vissuto la grande tragedia, diminuiscono; e con gli anni scompariranno; ma è anche vero che i testimoni sono ancora un numero enorme, e che la tragedia è attestata da una enorme documentazione di ogni tipo, a cominciare dai campi stessi che sono divenuti santuari di martirio visitati da milioni di persone; e che insomma la shoah appartiene alla storia, è parte della storia umana. Per cui negarla è follia; ed è insieme offesa alla sofferenza di un popolo, alla sua dignità; è ingiuria, è calunnia in quanto lo si accusa di una gigantesca finzione messa in atto per suscitare la pietà e solidarietà degli altri popoli, europei in particolare, per conservare quella terra che – ingiustamente, si dice – ha occupato.

La negazione si configura dunque come un reato; e come tale è stata colpita dalla legge di più popoli; in Francia, ad esempio, in Austria.

 

La discussione si riaccende da noi quando il Ministro di giustizia, avvicinandosi la “giornata della memoria”, di quella memoria appunto, manifesta l’intenzione di varare una legge simile anche in Italia. Si obietta che verrebbe colpito un “reato di opinione”, e sarebbe contro la libertà di opinione che è un fondamentale diritto umano; sarebbe contro la libertà di coscienza. Si mobilita addirittura la comunità degli storici, 150 storici sottoscrivono un documento in cui appunto si rifiuta una legge che colpirebbe un reato di opinione; una legge in cui lo stato si arrogherebbe il diritto di sancire una “verità storica” facendone una “verità di stato”; cui il cittadino è tenuto, ed è tenuto lo storico, è limitata la libertà di opinione del cittadino come la libertà di ricerca dello storico.

Ne viene che il Ministro s’impaurisce e corregge il suo disegno di legge: il negazionismo non è più reato. Reato è diffondere idee di superiorità e di odio razziale, etnico, religioso, di discriminazione sessuale; e tanto più commettere atti gravemente discriminatori in tal senso.

E però anche qui sono in gioco anzitutto idee dannose alla società, reati di opinione; perché la libertà di opinione, e la stessa libertà di coscienza non è incondizionata; nulla nell’uomo è incondizionato, posta la sua finitudine, la norma etica che lo avvince alla giustizia. Quando danneggia l’altro, quando danneggia la società, cade sotto la legge che regola la società stessa, la dignità e il diritto di ognuno. L’idea che percorre l’intera storia cristiana e occidentale, che l’ebreo sia malvagio in quanto “popolo deicida”, e debba quindi essere emarginato e privato dei diritti del cittadino, e chiuso nei ghetti, e disprezzato, preda del furore popolare nei pogrom, ed espulso da molte nazioni; quest’idea è perversa ed ingiusta, perché intacca la dignità e il diritto di un intero popolo, e una coscienza collettiva non può tollerarla. Perciò la legge infine la colpisce; col maturare dello stato moderno e dei diritti fondamentali, propri di ogni essere umano.

 

Ma riprendiamo in esame questo cosiddetto “reato di opinione”: che negare la shoah sarebbe un reato d’opinione. Qui c’è un errore di fondo, perché la shoah non è un oggetto d’opinione; la shoah è un fatto, un evento; che è accaduto, è attestato, appartiene alla storia. L’opinione può concernere il suo valore, la sua valutazione, le sue cause, la sua gravità maggiore o minore; e su questo si sviluppa la ricerca; non può concernere il fatto. La cui negazione, poi – come già notavo – incide sulla dignità di quel popolo, il suo dolore, il suo martirio; ed è offesa, ingiuria, è calunnia contro quel popolo; quindi è reato. A prescindere dalle ragioni più o meno manifeste che spingono alla negazione; e cioè il perdurare della condanna di quel popolo, del disprezzo, della volontà di annientamento. Lo “sporco ebreo”, il “perfido”, l’usuraio, l’aguzzino.

In questi giorni della “memoria” abbiamo riveduto tante immagini della sofferenza di quel popolo, e con lui abbiamo sofferto e pianto. E abbiamo sentito e deciso di amarlo di un amore particolare, un amore grande, che un poco riparasse il torto immane.    

                                                               (Nuovo Quotidiano di Puglia, 5 febbraio 2007)

 

 

Il povero Welby e i due Cardinali 

di Arrigo Colombo

 

        Sul caso Welby, sulla valutazione etica dell’atto da lui voluto, cui è seguita la morte, continua la discussione; in gran parte inutile, in quanto nella gerarchia cattolica prevalgono posizioni ideologiche consolidate e autoritarie. Così Ruini, che gli ha negato l’estrema pietà del funerale religioso – cosa che oggi non si nega neppure ai suicidi – ha parlato poi (qualcuno potrebbe dire, ipocritamente) di “sofferta decisione”; dando per scontato che Welby “aveva perseverato lucidamente e consapevolmente nella volontà di porre termine alla propria vita”, in contrasto con la legge di Dio; senza un minimo sforzo per sceverare il reale significato dell’atto compiuto; con l’abituale sicurezza (qualcuno potrebbe dire, anche con la rozzezza mentale) – di chi detiene una verità acquisita.

        Più articolato l’intervento del Cardinale Martini (sul “Sole24 ore” di domenica 21 gennaio), di cui la stampa ha parlato molto; che però si guarda bene dal discutere e dal pronunziarsi sul significato del caso. Martini enunzia una distinzione ben nota, che del resto riprende dal “Catechismo Cattolico” del 1992, citandolo espressamente: la distinzione tra eutanasia e astensione dall’accanimento terapeutico; tra  l’atto che causa positivamente la morte, e l’atto che rinunzia a procedure mediche che “non offrono una ragionevole speranza di esito positivo”; atto in cui può intervenire la valutazione e decisione del paziente.

Ma qual è questo esito positivo? Sembra che i casi possibili siano tre: la guarigione. Il perdurare di una vita segnatamente umana, cioè cosciente; che escluderebbe dunque il coma irreversibile. Il perdurare di una vita in condizioni artificiali, con una sofferenza fisica che può essere sedata dai farmaci; e con una sofferenza morale, o anche con un insuperabile senso di coartazione della propria autentica vitalità, della propria storia e dignità personale.

 

Martini non entra in questo terreno di ulteriore precisazione; che è quello più scabroso e difficile. Ma proprio qui sta il caso Welby. Il quale si trova in una condizione fisica che porta alla morte. Se consideriamo il “principio di natura”, ci troviamo qui di fronte ad una condizione naturale in cui è intervenuta una malattia inguaribile e mortale. Il principio di natura è quello che la gerarchia invoca sempre nelle sue interdizioni: così quando proibisce la fecondazione artificiale perché devia dal processo di natura che è quello dell’unione fisica tra i partner, il coito; o quando proibisce la pillola perché impedisce quel processo di natura che è l’ovulazione, cui può seguire la fecondazione e procreazione.

Oggi però i teologi – almeno i più avvertiti – invocano giustamente, al disopra del principio di natura, il “principio di persona”: cioè della persona che gestisce le sue funzioni naturali e, col sussidio della scienza e della tecnologia, supplisce anche alle eventuali carenze della natura. Che è poi già un principio biblico: di Dio che, nel racconto della creazione, dà all’uomo un potere sulla natura. Così con la pillola la persona gestisce il fatto procreativo in ragione della sua opportunità o meno per la persona stessa, per la famiglia, o anche per la società (ad esempio in caso di sovrappopolazione); con la fecondazione in vitro supplisce ai casi d’impotenza procreativa.

 

Nel caso Welby la persona collettiva, cioè la società, coi sussidi scientifico-tecnologici finora conseguiti, non riesce ancora a curare la malattia; ma riesce – almeno a quel punto cui la malattia è giunta – a mantenere la vita attraverso la respirazione artificiale. Ma la persona Welby, col passare del tempo e col protrarsi della sua condizione come della sua sofferenza fisica, e soprattutto morale, trova questa condizione contrastante con la sua dignità di persona, con la sua autonomia, subordinata ad una macchina respiratoria. Chiede di essere liberato dalla soggezione meccanica, di essere restituito alla sua autonomia, per quanto precaria, e che alla natura sia lasciato il suo corso. Invoca il principio di natura, quello stesso che la gerarchia ecclesiastica invoca sempre; e invoca insieme il principio di persona, la sua dignità di persona. Dove sta dunque la sua colpa? quella che lo ha escluso dalla sepoltura ecclesiastica e che, secondo Ruini, ne ha fatto principio di scandalo per la cristianità? Quella che, almeno in termini obiettivi, e secondo la dottrina della stessa gerarchia, lo condanna all’inferno, a bruciare eternamente in quel fantomatico fuoco? in quello spauracchio sempre agitato a intimidire la coscienza popolare? Dove infuria la religione del timore, l’intimidazione per il dominio; di contro alla religione dell’amore annunziata dall’evangelo; a quel Padre amoroso che ha accolto Welby tra le sue braccia.  

                                                                                     (Nuovo Quotidiano di Puglia, 29 gennaio 2007)

 

 

Infuria il delitto di famiglia

di Arrigo Colombo

 

         La strage di Erba, condotta con estrema violenza e ferocia da una coppia di onesti vicini per banali motivi di rumori, disturbi diurni e notturni (a parte l’occulta avversione per la donna e il figlio di un immigrato, un tunisino, un islamico) ha portato alla ribalta questo atroce fenomeno del “delitto di famiglia”, che è andato sviluppandosi nell’ultimo decennio: di figli che uccidono i genitori, uccidono il fratellino, la nonna, la zia; genitori che uccidono il figlio; vicini, conoscenti, amici che uccidono i vicini, gli amici, i conoscenti (così il piccolo Tommy, barbaramente trucidato; come del resto il piccolo Youssef). Insomma il delitto che infierisce nell’ambito degli affetti, o addirittura in quel “nido d’amore” che sarebbe la famiglia. A prescindere dai delitti del maschilismo, l’orgoglio ferito del maschio che non tollera l’abbandono della donna, considerandola “sua”; ancora frequenti, ma che appartengono alla tradizione. E a prescindere anche dai delitti e violenze “adolescenziali”, che pure crescono in misura preoccupante.

Il fenomeno si rivela nella sua atroce acutezza quando una statistica dell’Euris-Ansa ci viene a dire che proprio la famiglia contiene la percentuale più alta dei delitti, le sue vittime segnando il 29,9 per cento; mentre le vittime di mafia sono il 24,4 e quelle della criminalità comune il 15,2. Una statistica sconvolgente.

 

Si tenta di capire le cause di questo fenomeno atroce; tenendo conto che il “delitto di famiglia” imperversa soprattutto al Nord e, stranamente, nella provincia più che nella città o metropoli; tenendo però conto che la provincia del Norditalia è in gran parte una megalopoli, una metropoli diffusa.

Si parla di una dissoluzione del tessuto sociale, e quindi del tessuto degli affetti, che normalmente ha il suo perno nella famiglia e si distende nel parentado, nella cerchia dell’amicizia, della colleganza e conoscenza, del vicinato. Si parla da tempo di una clausura della famiglia mononucleare (il “nucleo più piccolo possibile” già ferocemente criticato da Fourier, la coppia e un figlio), che chiusa in se stessa si nevrotizza e diventa conflittuale in modo molteplice; al suo interno come all’esterno (è il caso della coppia sterminatrice di Erba, priva anche di figli). Sulla quale per lo più non opera efficacemente la remora religiosa, in quanto la sua religiosità è nulla o superficiale, ridotta a qualche rito di tradizione. Né agisce la remora etica perché la persona non è stata correttamente formata, la coscienza, il senso del dovere, l’austerità, il sacrificio, la volontà di giustizia; prevalendo ovunque nelle famiglie una formazione permissiva; e nella scuola una formazione nozionistica; una formazione deformante.   

Su questo interviene poi la deformazione mediatica, soprattutto televisiva; essendo la televisione il medium più diffuso e popolare, che tutti guardano; essendo anche il più potente, per la forza dell’immagine, della vicenda che nell’immagine si svolge al vivo, col sussidio del suono e  della musica; o anche il cinema, almeno per i giovani. Il giornale essendo letto relativamente da pochi; in particolare il quotidiano, con la sua parte di analisi e di critica, che può essere preziosa per la coscienza. Dove sono forti, o anche prevalgono, alcuni disvalori: il denaro-successo e la violenza. Nella televisione come nel cinema c’è molta, troppa violenza, troppa presenza del crimine; spesso senza una vera catarsi, una condanna efficace che operi da deterrente. Nella cronaca di tutti i media c’è la prevalenza del male; si dice che “il bene non fa notizia”. Se s’interroga un esperto di telegiornali (come a me è accaduto) e gli si chiede se l’équipe del telegiornale si ponga il problema etico dell’effetto delle notizie e delle immagini, vi trova una sprovvedutezza totale; il problema non si pone neppure.

 

Questo imperversare del “delitto di famiglia” come della “violenza adolescenziale” pone dei grossi problemi alla nazione, a noi tutti. Problemi che devono essere affrontati. La formazione della persona-bambino e adolescente nella famiglia; la formazione nella scuola, che non può solo occuparsi dei programmi, no: deve anzitutto occuparsi della persona, della formazione personale, della formazione del cittadino. Il sistema televisivo anzitutto nazionale; che per prima cosa non può essere privatizzato e diventare così un puro strumento di profitto; ma dev’essere invece trasformato in un grande servizio d’informazione e soprattutto di formazione: formazione culturale (perché anche l’ignoranza può diventare un fattore di crimine), formazione morale.

L’Unione, che in questa fase ha la responsabilità del paese, non può disinteressarsi di questi “delitti di famiglia” e delle cause che li sottendono; né può esimersi da una particolare attenzione alla scuola e ai suoi metodi, al suo compito formativo; né può rinunziare ad una profonda riforma e trasformazione del servizio televisivo. I partiti che la compongono hanno una base etica, di grandi movimenti etici ed etico-religiosi, come il cristianesimo, il socialismo. Non devono tradirla nel politicume insulso o nell’ordinaria amministrazione, che tanto ci delude e ci affligge.  

                                                                           (Nuovo Quotidiano di Puglia, 22 gennaio 2007)

 

 

La legge sulla libertà religiosa, la discussione

di Arrigo Colombo

 

        Si sta preparando la legge sulla libertà religiosa; c’è un disegno di legge Spini-Boato su cui si sta lavorando; su cui si è accesa la discussione. Il punto di conflitto è il principio di parità delle diverse religioni e confessioni: se ci debba essere piena parità, piena eguaglianza. Cerchiamo di capire meglio questo punto.

 

Sembra che si debba parlare di una fondamentale parità, di una riconosciuta pari dignità di ogni religione che sia veramente tale (lasciamo per ora i gruppi settari); che corrisponde poi alla dignità e al diritto della persona in sé e nel suo associarsi, la sua coscienza e la sua azione religiosa, la ritualità, il culto. La libertà e dignità e diritto di ogni autentica religione ad esistere e ad operare nello stato italiano; e, se ha anche un’adeguata consistenza sociale e associativa (non solo di pochi individui sparsi, ma di decine, centinaia, migliaia), ad ottenere le strutture materiali a ciò necessarie:  terreni, edifici (non solo chiese, luoghi di culto in senso stretto; ma anche oratori, seminari o scuole coraniche,  monasteri), con le relative infrastrutture; e anche facilitazioni e provvidenze allo scopo.

Altra cosa sono le normali scuole, luoghi di formazione personale e culturale del cittadino, che sono di pertinenza dello stato; non della famiglia, come afferma insistentemente la gerarchia cattolica, errando, perché la famiglia non è competente nella formazione del cittadino; non è cosa sua. Anche se lo stato può consentire la costituzione di scuole da parte d’individui e gruppi, di religioni e confessioni religiose;  purché la formazione del cittadino vi sia garantita. E su questo punto lo stato dovrebb’essere particolarmente vigile, specie quando si tratta di gruppi, come gl’islamici, i quali seguono una linea etico-giuridica che contrasta con la costituzione e la legge.

Altra cosa ancora è l’insegnamento della religione nelle scuole; dove dovrebbe avere un carattere culturale, non catechetico, come la gerarchia cattolica pretende. La catechesi si fa nelle chiese, non nelle scuole. Come forma culturale, la religione nelle nostre scuole, pur centrandosi nel cristianesimo nel quale s’incentra la nostra cultura, dovrebbe ampiamente allargarsi all’intero fatto religioso; e dovrebbe avere carattere scientifico, e quindi storico-critico, che è l’opposto della catechesi. E come tale dovrebb’essere presente anche nelle scuole confessionali. Un problema che da noi non è mai stato affrontato, in quanto è mancata nel ceto politico la capacità di discuterne con serietà e forza col potere ecclesiastico.

 

Fondamentale dignità e parità, dunque. Altra cosa è l’eguaglianza in senso pieno, perché la nazione italiana è cristiana e cattolica nella sua storia e tradizione e cultura, e nella sua stessa attuale compagine, in stragrande maggioranza. E lo stato altro non è che l’ordinarsi in termini giuridico-politici della nazione, per una cessione di diritto della nazione stessa. Perciò il cristianesimo entra nel suo stesso ordinamento. Ci entra la domenica, giorno del Signore, della resurrezione del Cristo, come giorno di riposo e di festa; ci entrano le grandi festività cristiane; ci entrano le chiese  coi loro pastori e con tutte le loro strutture, di cui viene riconosciuta la funzione; le comunità monastiche; le cappellanie in alcuni importanti servizi come l’ospedale, l’esercito (come servizio di difesa armata? contrasta in ogni caso col principio evangelico di nonviolenza; bisognerebbe prendere iniziative di disarmo unilaterale, come già qualche nazione ha fatto).

Lo stato è laico, autonomo rispetto ad ogni potere religioso; ma non può non strutturarsi secondo la religione e religiosità della compagine popolare che lo genera e lo costituisce. Che è il cristianesimo e cattolicesimo; e le altre confessioni e religioni lo devono rispettare, lo devono considerare con fraterna simpatia. Ma questa fraterna simpatia deve dimostrarsi anche dai cattolici verso le altre confessioni e religioni; e anzi soprattutto dai cattolici, la cui suprema legge è l’amore fraterno. Ciò che ancora manca, nel popolo certamente, ma anche nel clero. Il quale clero soffre poi della sua struttura gerarchica, della sua presunzione di superiorità, presunzione millenaria, della sua volontà d’imporsi allo stato, del suo continuo interferire. In Italia specialmente. E si crea così una situazione ambigua, e conflittuale.

 

Un ultimo punto concerne il rito matrimoniale, la lettura e conoscenza della legge che da noi regola il matrimonio; soprattutto per gl’islamici, per il loro diritto arcaico che consente la poligamia e la soggezione della donna. Ora, dev’essere chiaro che questa lettura appartiene al rito civile, e a un rito religioso solo in quanto assume in sé anche il civile, in forza di un concordato. Se un islamico non sposa un partner italiano, il rito avviene presso le ambasciate; probabilmente un’ordinanza dovrebbe chiedere alle ambasciate questa lettura, affinché la nuova coppia conosca e rispetti la legge del paese di cui è ospite.

                                                                              (Nuovo Quotidiano di Puglia, 15 gennaio 2007)

 

 

Napolitano e il dialogo impossibile               

di Arrigo Colombo

 

        Il presidente Napolitano ha incentrato il suo messaggio di fine anno sul dialogo tra i due poli; un dialogo ch’egli sente come necessario, come urgente; un dialogo che metta fine alla conflittualità che ha travagliato finora il rapporto tra i due. Un tema a lui caro, su cui è ritornato più volte in questi mesi. Un tema che però suscita perplessità, su cui sono opportune alcune osservazioni.

 

Anzitutto si risente qui lo scontato lamento dell’Italia “spaccata in due “; lamento che non ha senso perché si tratta di una divisione di sempre, che è quella del voto, che si ripete ad ogni tornata di elezioni politiche; con qualche punto percentuale di differenza. In realtà che sia il 50 e rotti per cento, come ora (i famosi 25.000 voti in più), o il il 51 o il 53 o il 55% non cambia niente; siamo sempre intorno alla metà dell’elettorato. È il principio di maggioranza su cui si regge la democrazia.

 

Si parla tanto di “conflitto” ma si dice una cosa falsa. Qui non c’è conflitto ma una parte che attacca l’altra; il “continuo gridare”, il “continuo alzare i toni” di cui parla il Presidente, concerne il Polo delle cosiddette libertà, e in particolare il suo boss Berlusconi, il caimano di morettina memoria, dai denti aguzzi; non certo l’Unione, e tanto meno Prodi, cui si rimprovera una parola un po’ incolore, un po’ scialba; si rimprovera un deficit di comunicazione. Nell’Unione non c’è nessuno che grida, che alza i toni contro la minoranza. Si ha “conflitto” soltanto se l’attacco è reciproco.

 

Si vuole il dialogo sì, ma si devono anche considerare le reali difficoltà che al dialogo si oppongono. Quando da una parte non v’è un avversario politico, ma un imprenditore che non ha nessun rispetto per la politica e per le sue regole, che vuole il potere per il profitto; che per questo strumentalizza il parlamento (un parlamento certo succube: il che anche stupisce, specie per AN, che coltiva l’ideale della “nazione”, della sua dignità e prestigio), lo porta a votare leggi inique, le famose leggi “ad personam”, per le sue imprese e i suoi processi; e riesce così a sfuggire ad una decina di processi, mentre il povero cittadino i suoi processi se li becca tutti. Lo porta a votare leggi favorevoli ai possidenti ma nocive alla nazione, come i famosi “condoni” (edilizio, fiscale), che incentivano nel cittadino la trasgressione. Un avversario che non ha nessun rispetto per la controparte, ma l’aggredisce con violenza, con accuse distorsive o anche calunniose. Del resto, l’esperienza della collaborazione è già stata fatta con la “commissione bilaterale” presieduta da D’Alema; ed è fallita, sempre per la volontà strumentalizzatrice del boss, che vi perseguiva il suo solito interesse personale.

Ha riflettuto il Presidente su tutto questo? pensa davvero che il dialogo sia possibile? E il ministro Amato, con la sua proposta di addirittura una convenzione per la legge elettorale? che diremmo piuttosto ingenua, e insieme spropositata.

 

Ma qui il dialogo è anche pericoloso; perché al dialogo segue la trattativa, segue il compromesso; mentre il governo dell’Unione deve assumere decisioni che non ammettano compromessi. Prendiamo la legge sui grandi patrimoni, che in altri paesi d’Europa esiste ma non ancora da noi; e dev’essere fatta, perché il principio di ridistribuzione della ricchezza la esige. Prendiamo il potere mediatico privato, di chi ad esempio possiede tre televisioni a diffusione nazionale. Un tale strapotere non può essere ulteriormente tollerato: perché, mirando al profitto, deve infarcirsi di pubblicità; e perché deve assecondare i gusti correnti e deteriori; con grave danno del cittadino, che a sua insaputa viene sempre più spinto verso la banalizzazione, verso la mediocrità, verso il consumismo e lo spreco. E perché, usando la suasione occulta e palese delle televisioni, questo potere mediatico può trasformarsi in potere politico; come di fatto è avvenuto; attraverso una captazione del voto dei cittadini, un’operazione ingiusta perché in essa la libertà del cittadino viene menomata .

Su questo punto il governo dev’essere deciso, dev’essere duro. Per la raccolta di pubblicità ogni gruppo televisivo non deve andare oltre il 20%. Altro che il 45 previsto dal ministro delle comunicazioni Gentiloni; quando già la legge Maccanico prevedeva il 30%; col 45 siamo a quasi la metà per uno solo, il che è ingiusto per tutti gli altri; e porta poi a quell’imperversare di pubblicità, a quell’ottundimento pubblicitario che a tutti è palese.

Il potere mediatico del privato, poi, dev’esser ricondotto ad una misura giusta, che non gli consenta di debordare nel politico, nella captazione del consenso, nella manipolazione del cittadino. In linea di principio si deve stabilire che nessun privato può possedere più di un’emittente televisiva; principio da sviluppare poi in rapporto al digitale e al satellitare. È un punto in cui la salvaguardia della libertà del cittadino, come poi di un’autentica democrazia, dev’essere definitivamente affermata, di fronte alla prevaricazione del potere mediatico. L’esperienza fatta dal paese è stata già fin troppo dolorosa, fin troppo umiliante.

                                                                            

 

Il caso Welby e la crudeltà ecclesiastica

di Arrigo Colombo

      

        La dolorosa vicenda di Piergiorgio Welby, il giovane uomo inchiodato sul letto e tenuto in vita da un respiratore artificiale, che invocava la morte come una liberazione, come un diritto a che la vita seguisse il suo naturale corso, e così finisse; questa vicenda è stata vissuta dalla nazione intera con commiserazione e compianto, con amorosa partecipazione. Perciò il risentimento è stato forte quando il potere ecclesiastico, il vicariato di Roma, gli ha negato il funerale religioso con tutto ciò che esso significa, il pietoso accompagnamento alla sepoltura, la preghiera comune, l’invocazione dell’amore misericordioso del Padre. Questo risentimento lo si è visto e sentito nelle discussioni, soprattutto nelle lettere alla stampa e alle radio private, lettere forti, lettere che invocavano una chiesa che rappresentasse nel mondo quell’amore misericordioso, quello annunziato dal Cristo, il grande annunzio all’umanità; di cui la chiesa dovrebb’essere portatrice.

 

Perché negare a lui quel dono, e ai suoi cari e a tutti noi quel conforto? perché quel rifiuto crudele a una nazione intera che l’invocava?

Si è detto l’eutanasia; si è discusso senza fine nelle ultime settimane; si è mobilitato l’ordine dei medici, la magistratura, i politici di vario colore, che si sono rimbalzati senza fine la palla. Ma quale eutanasia? Qui erano in gioco una morte naturale e una vita artificiale che la persona non riteneva più sostenibile; non si trattava di causare la morte ma semplicemente di lasciare alla vita il suo naturale corso, quello che la malattia aveva segnato.  

La gerarchia si appella sempre al “principio di natura”; così nel caso della procreazione assistita che viene interdetta perché devia dalla linea di natura, così nell’uso degli anticoncezionali e in particolare della pillola che sospende un processo di natura. Bene, qui si trattava di lasciar seguire alla natura il suo corso.

Si obietta che c’era la scienza, che poteva compensare la carenza di natura, ma non è vero. La scienza non compensava, non era in grado di compensare il male; con una macchina di ossigenazione manteneva la vita.

V’era poi il “principio di persona”, la dignità della persona, la dignità del suo vivere; la sua capacità di decidere responsabilmente. E la persona decideva che non era più possibile continuare a vivere in questa condizione artificiale; che si lasciasse il suo corso alla natura.  

 

Si è detto che Welby si era dichiarato non credente, e certo la malattia aveva messo a dura prova la sua fede. Ma chi sa qual era la sua vera condizione interiore? se non v’era anche il dubbio, se non v’era magari anche la speranza? Nessuno può giudicare della condizione interiore di una persona; ed è questo il senso dell’espressione evangelica “non giudicate”. Perciò da qualche tempo il funerale cristiano non è negato ai suicidi.

E se anche era ateo, non cessava di essere un piccolo figlio di Dio, piccolo e sofferente, infinitamente amato dal Padre, e tanto più quanto più aveva sofferto; infinitamente amato dal Cristo di cui aveva condiviso la croce, per tanti anni in croce sul suo letto. E questo la gerarchia lo sapeva, non poteva ignorarlo. E – come molti hanno detto – doveva rappresentare nel mondo quell’amore infinito, infinitamente misericordioso. E doveva anche rispettare il desiderio delle persone a lui più vicine, la fede della moglie, la fede profonda della madre, che per lui testimoniavano, che con la loro fede supplivano alle mancanze della sua, provata e indebolita. E doveva rispettare il desiderio di tanti e tanti suoi fratelli credenti, di noi tutti che volevamo si adempisse questo estremo atto di pietà per un fratello che tanto aveva sofferto.

 

Ma la gerarchia decideva dall’alto del suo potere inflessibile, dall’alto delle sue certezze infallibili; che poi l’hanno fatta cadere in gravissimi errori, lungo tutta la sua storia; la rendono spietata e crudele. Se solo si pensa alla persecuzione degli eretici, una persecuzione ch’è durata sette secoli, fino a quando il potere secolare ha opposto un decisivo rifiuto; al supplizio più crudele ch’era loro riservato, il rogo. Ed era una persecuzione ingiusta, perché non rispettava la libertà di coscienza cui ogni persona ha diritto. Se si pensa alla persecuzione degli ebrei ch’è durata due millenni, emarginati dalla società, chiusi nel ghetto, abbandonati al furore popolare; anch’essa ingiusta perché la storia del “popolo deicida” era falsa. Ma ecco che questa crudeltà continua; e fino a quando? fino a quando l’umanità dovrà sopportare un così indegno tradimento della legge evangelica dell’amore?   

                                                                                 (Nuovo Quotidiano di Puglia, 8 gennaio 2007)