SAGGI SULL'UTOPIA

                                                                                            

 

Indice

Globalizzazione e utopia: una fase abnorme nella costruzione della società di giustizia  nuovo saggio

Forme dell'utopia

Difesa dell'utopia

L'utopia storica. Il progetto e processo di liberazione dell'umanità

 

 

 

Globalizzazione e utopia: una fase abnorme nella costruzione della società di giustizia

di Arrigo Colombo

 

1. Il processo storico-utopico in cui deve collocarsi la globalizzazione

Penso che per capire questo fenomeno, di cui tanto si parla, sia necessario anzitutto un discorso di storia; sia necessario collocarlo e comprenderlo nel processo storico in cui nasce, di cui è un momento. Su questo processo ho riflettuto a lungo, nei due o tre decenni di ricerca sull’utopia. Sembrerà strano ai più, perché il concetto corrente di utopia si è fortemente degradato, a significare il «bello ma impossibile», o «il puro immaginario e irreale, il sogno, la chimera»; oppure, in termini politici, «lo stato ideale e perfetto», ch’è irreale allo stesso modo. Perché l’ideale non è reale, ma solo termine di una protensione che mai lo può raggiungere; e perché la perfezione non appartiene all’umano e alla sua finitudine. Né necessitano autori e citazioni a supporto della degradazione di questo concetto, talmente essa è diffusa.

Ma l’utopia non è questo, bensì il progetto di società «buona» (l’eutopia, che in Thomas More ne è l’equivalente: il «non-luogo» come «buon luogo»); il progetto di società buona, giusta che l’umanità va tentando, va elaborando; e non solo nell’utopia filosofica e letteraria, dove i progetti – almeno nella modernità, da Moro in poi – si accumulano a centinaia, nei modi più vari e anche contrastanti. E però l’utopia letteraria non può essere intesa se non nel suo intero, come un grandioso tentativo di capire quale dovrà essere la società per redimersi dai suoi mali di sempre; un tentativo che si ripete e rinnova senza sosta perché si fa nella storia, nel suo farsi e nella sua creatività; e perché si ritrova sempre inadeguato.

Ma non è essenzialmente nell’utopia letteraria che l’umanità va elaborando il suo progetto; bensì nell’utopia storica, quella ch’è andata dischiudendosi nel ‘900 lungo il filo esile della riflessione di autori come Karl Mannheim, Martin Buber, Ernst Bloch: quest’ultimo in particolare con quell’opera grandiosa, anche se pletorica, ch’è Il principio speranza. L’utopia storica, fatta non di autori e di libri ma di movimenti di popolo; il percorso di storia che si distende in due grandi filoni, i «movimenti religiosi di salvezza» e i «moderni movimenti rivoluzionari»; i primi individuati nel messianismo ebraico, nell’annunzio evangelico, nel millenarismo, nell’eresia medievale e moderna (in una fase di grave decadenza della società cristiana il tentativo di riprendere l’annunzio evangelico nella sua purezza); i secondi nelle rivoluzioni moderne, l’Inglese del Lungo parlamento, la Francese, il movimento operaio, il socialismo, la Rivoluzione russa, la Contestazione degli anni 1960-70.

In questa vicenda di una storia di tremila anni (se si fa risalire il primo inizio del messianismo ebraico all’età davidica, verso il 1000 a.C.) s’imposta prima il progetto, nel messianismo ebraico, nell’annunzio evangelico: ed è la società di giustizia, più oltre la società fraterna; la giustizia, la fraternità e l’amore essendo le categorie in cui s’incentrano la profezia del messianismo, l’annunzio del vangelo. Lo s’imposta, perché un progetto storico si fa sempre, si ricomprende e riprogetta sempre; l’opposto dei progetti letterari, che si presentano per lo più come definiti e compiuti. Poi, con le rivoluzioni moderne, inizia la fase attuativa, costruttiva, la costruzione della società di giustizia, più oltre della società fraterna; fase che percorre l’evo moderno e giunge sino a noi, in cui noi abbiamo l’alea, potremmo dire la fortuna, di vivere.

Questo processo non è l’intera storia dei tremila anni ma ne costituisce il percorso fattivo, decisivo per l’umanità e la sua redenzione dai mali che l’affliggono; ne costituisce in definitiva il senso. In cui si raccoglie il contrastato incontro e scontro delle ragioni e passioni umane, della libertà e dell’oppressione, l’alienazione e contraddizione marxiana, l’attorto e contorto cammino, il fluire e rifluire, l’apparente errare di sempre. Un senso non prederminato e aprioristico, come nei precedenti tentativi d’individuarlo, nel provvidenzialismo, nel razionalismo, nel materialismo storico-dialettico; dove il senso è dato dall’opera di Dio, dal processo di ragione, dall’evolvere dei mezzi di produzione o semplicemente della materia. Un senso che invece risulta alla ricerca umana, più fragile, aperto alla discussione e alla critica, come non può non essere ragionevolmente; ma che nella ricerca e nella discussione può affinarsi e consolidarsi.

Questo processo muove dal Vicino Oriente, dove cresce per circa un millennio il messianismo ebraico, si presenta l’annunzio ed evento evangelico e inizia il cristianesimo (vicenda molto più complessa e contrastata); mentre già prima, dalla stessa matrice messianica, era partito il millenarismo. E però il processo si sviluppa poi in Occidente, in particolare nella fase costruttiva. Non è tuttavia un processo soltanto né propriamente occidentale; mentre propriamente è un processo «umano», che concerne l’umanità come tale, il farsi d’uomo, il suo umanizzarsi; è un processo di umanizzazione. I principi, i modelli che vi si elaborano sono semplicemente, perciò universalmente umani. Come si noterà subito.

 

Vediamo dunque di ripercorrere la fase costruttiva della società di giustizia in cui rientra la globalizzazione. Il processo è innanzitutto etico e politico; né poteva essere diversamente.

I grandi principi etici acquisiti alla coscienza moderna: il principio di dignità e diritto della persona umana; il principio di libertà (e delle libertà), di eguaglianza, di sovranità popolare; il principio di ragione e interiorità; il principio di solidarietà. Si può dire che questi principi siano globalmente acquisiti dalla Rivoluzione inglese (ma la «dignità d’uomo» s’illumina prima nell’Umanesimo del ‘400), perché sono tra loro intimamente connessi: la dignità della persona consistendo nella sua ragione e coscienza, autocoscienza, autodecisione, autonomia. Ma si accrescono poi lungo l’evo: così il concetto di persona, così l’autonomia come diritto, così la solidarietà rivoluzionaria e di classe. Vengono poi sanciti nelle Carte dei popoli che lungo tutto l’evo si succedono, dal Patto del popolo inglese del 1647 fino alla recente Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea dell’anno 2000. Sanciti nelle Carte, sono al riparo dalle oscillazioni e crisi del pensiero filosofico e intellettuale; dai suoi crolli, dalle esplosioni di scetticismo, così forti in tutto il ‘900. Il pensiero filosofico è solo una piccola parte del pensiero umano.

Da questi principi deriva il modello democratico, che s’imposta pure nella Rivoluzione inglese, ed è ripreso e definitivamente acquisito nella Rivoluzione francese; la quale definitivamente demolisce il modello monarchico-aristocratico che aveva dominato l’intera storia umana; modello ingiusto, di dominio d’uomo su uomo, di un solo, di pochi; dominio e ricchezza espropriatrice, sfruttamento, oppressione, schiavitù. La Rivoluzione francese abolisce anche la schiavitù; che poi, lungo l’800, sarà abolita ovunque. Così come si diffonderà il modello democratico, si allargherà la sua base popolare (prima coartata dal principio borghese di proprietà), sino al suffragio universale; anche se nella forma mediata e rappresentativa, in cui l’esercizio del potere popolare avviene in misura molto scarsa, oggi ancora.

I principi etici moderni, come il modello democratico ch’essi fondano, sono universali, universalmente umani, e avviano un processo di universalizzazione, di assunzione universale da parte dei popoli; attraverso le costituzioni democratiche. Prima nell’Europa Occidentale e negli Stati Uniti d’America; poi nell’America Latina, pur tormentata dal rifluire delle dittature; che rifluiscono anche in Europa, dittature fasciste, dittature del modello comunista sovietico che dilagano nel pianeta. Ma i grandi principi etici e il modello democratico s’impongono ulteriormente in tre momenti cruciali del ‘900: la Prima guerra mondiale, con la fine degl’imperi continentali (asburgico, prussiano, russo, ottomano; il cinese già nel 1912; il giapponese nel ’45); la Seconda guerra mondiale, con la fine degl’imperi coloniali, col principio di autodeterminazione dei popoli, col formarsi di quella comunità universale dei popoli e degli stati che è l’ONU; il Crollo del comunismo sovietico e della sua costellazione di dittature.

Il processo di universalizzazione è insieme un processo di unificazione e pacificazione dell’umanità: con la fine della Seconda guerra mondiale, col Patto dell’ONU e la comunità universale che vi si costituisce, anche se ancora solo incoativa, turbata da egemonie, si afferma il rifiuto della guerra come mezzo di soluzione dei conflitti tra popoli, s’introduce il principio della trattativa; la guerra, il momento supremamente belluino (come diceva Moro), di suprema inimicizia tra i popoli, suprema divisione, trova infine il suo primo decisivo rifiuto, e gli strumenti istituzionali che hanno il compito di evitarla. Compito tuttavia ancora arduo.

 

2. Due fattori particolari: il capitale e la tecnologia

In questo processo intervengono due fattori che hanno di per sé altre radici immediate, altre ragioni, altri scopi: il capitale e la tecnologia. Il capitale, o meglio il metodo di accumulazione capitalistica, di espansione della base capitalistica dei mezzi di produzione attraverso il reinvestimento del profitto, o di una sua parte; che quindi consente un’espansione principialmente illimite della produzione, la quale riparte da una basa sempre maggiore. Un metodo in certa misura presente nella borghesia di ogni tempo, cioè in quel ceto che, anzitutto nel commercio, espande la sua base capitalistica attraverso il reinvestimento; stabilendosi così un’equivalenza tra borghesia e detenzione indefinitamente espansiva del capitale. La borghesia, in senso proprio, stretto, come ceto detentore del capitale

Un metodo che nella modernità assume carattere storico-epocale, cioè essenziante l’epoca, costitutivo e definitivo; per il prodursi di condizioni in cui s’apre la possibilità di un’espansione principialmente illimite (non però di fatto), quindi di un processo in tal senso. Con le navigazioni e circumnavigazioni si apre il pianeta; con la società per azioni si apre la possibilità di espandere il capitale di base; con la manifattura si apre la produzione macromorfa, ancora limitata; con l’industria si apre la possibilità di una produzione in termini universali. Un carattere, quest’ultimo, su cui ritornerò subito.

Il metodo del reinvestimento è legato all’iniziativa imprenditoriale; perciò fu ignorato dall’aristocrazia nei millenni della sua egemonia praticamente incontrastata; perché ignorava il lavoro produttivo, il suo lavoro essendo la milizia e la politica; altri producevano per lei e lei consumava soltanto; espandeva il possesso attraverso la conquista o le parentele.

Il metodo ha una doppia faccia: da un lato suppone il risparmio, suppone che non tutto il profitto sia destinato al consumo, all’arricchimento improduttivo, al superfluo, al lusso; che anzi sia reinvestito in gran parte, se non per intero. Suppone quindi un atto virtuoso. Perciò la sua genesi fu collegata a movimenti religiosi; in particolare – da Weber e da Troeltsch, ad esempio – all’austerità dello spirito protestante, dovuta al forte pessimismo della dottrina del peccato originale insanabile, la condizione permanente di colpa, il vizio che inquina sempre l’azione umana e sta sotto la collera divina, l’implorazione della misericordia e del perdono. Nel calvinismo l’accento sulla predestinazione e il bisogno di riconoscere i segni della salvezza avrebbe spinto i fedeli a considerare l’impresa come opera di Dio, il capitale come dono divino da salvaguardare, da far prosperare, l’espansione e successo dell’impresa come segno di elezione.

D’altro canto l’appropriazione unilaterale del profitto da parte del capitale individuo è vista come un atto di espropriazione del lavoro che lo ha prodotto, o ha comunque concorso a produrlo, insieme con la macchina e gli altri fattori; ma il suo concorso, implicando la dignità e il diritto, come il globale bisogno umano, è il più alto. Il profitto dovrebb’essere soprattutto suo; reinvestito, lo porterebbe a condividere il capitale, a passare dalla condizione di salariato e dipendente a quella di comproprietario. Il vizio, il furto sarebbe sanato; come sarebbe sanata la condizione proletaria, condizione di dipendenza, sfruttamento, bisogno, precarietà; condizione che menoma la dignità umana; condizione d’ingiustizia.

 

Se il capitale e il suo metodo di accumulazione espansiva si generano dall’iniziativa imprenditoriale nelle particolari condizioni della modernità, la tecnologia nasce dalla moderna scienza di sperimentazione; da quella scienza che attraverso la riproduzione del fenomeno ne ricostruisce il comportamento necessario, la legge (sia pur entro quei limiti di necessità statistica che saranno poi riconosciuti); così come appronta le condizioni e la strumentazione per riprodurlo, cioè la macchina; e può allora riprodurlo, e quindi produrlo indefinitamente per identità; perché incorpora in sé la legge e il suo calcolo esatto. La macchina essendo lo strumento riproduttivo-produttivo del fenomeno, esattamente calcolato, modello univoco, quindi capace di produrlo identico indefinitamente,  in termini universali. La differenza tra la tecnica di sempre e la moderna tecnologia è appunto la differenza tra una semplice prassi produttiva e una prassi informata da un logos come calcolo esatto del fenomeno, dello strumento, del prodotto; che è poi sempre lo stesso modello univoco, indefinitamente riproducibile; perciò la differenza tra una produzione particolare e una produzione universale; come si vede dall’artigiano ch’elabora di volta in volta il mobile, l’armadio per il cliente, mentre la fabbrica industriale di mobili, una volta impostata la strumentazione meccanica, ne può produrre indefinitamente.                          

Scienza di sperimentazione, tecnologia, industria sono tre momenti di un unico processo: il primo è il momento riproduttivo del fenomeno a scopo di sperimentazione conoscitiva; il secondo è lo stesso momento in quanto elabora una strumentazione meccanica esattamente calcolata; il terzo è l’impiego di quella strumentazione per la produzione rispondente al bisogno umano, quindi per l’acquisto e il consumo.

 

Il capitale, nel senso spiegato, e la tecnologia applicata ed evoluta in ordine alla produzione (il che ha richiesto quasi due secoli, dalla scoperta galileiana alla prima macchina, generalmente considerata la macchina a vapore) sono come due grandi invenzioni della borghesia moderna in ordine alla sua iniziativa imprenditoriale, all’impresa da lei edificata e posseduta; e in ordine alla costruzione della sua ricchezza e del suo potere, della sua egemonia. Nella quale succede all’aristocrazia, che ha scalzato e annientato; anche se in un quadro etico e politico profondamente mutato in quanto è iniziata la costruzione della società di giustizia, si sono introdotti i grandi principi etici e il modello democratico.

Che però la borghesia sovverte spietatamente, col suo principio dell’incondizionato possesso e dell’incondizionato profitto; cui assoggetta il proletariato strumentalizzandolo, mercificandolo; con forme di sfruttamento annientatrici, particolarmente nella fase protoindustriale, la giornata lavorativa di 18 ore, le condizioni inumane, il lavoro infantile e femminile, il salario minimo, inteso come mero recupero dell’energia consumata. Sovvertendo il principio di dignità e diritto della persona; il principio che fonda ogni altro. Sovvertendo la realtà dell’impresa come forma di produzione in cui capitale e lavoro sono associati; in cui il lavoro è parte umanamente precipua nella formazione del profitto – come già spiegavo –, di cui ha diritto di essere partecipe, e con esso  via via partecipe della proprietà; elidendo così il rapporto di dipendenza, lo sfruttamento, la condizione di precarietà, che tutte attentano alla sua dignità e al suo diritto di persona. Un problema tuttora aperto. Anche se il lavoro associato ha consentito al corpo dei lavoratori una solidarietà e coesione, una capacità organizzativa, una capacità di lotta che lo ha portato nel giro di un secolo a trasformare la sua condizione, e la condizione popolare di sempre, in fatto di dignità del lavoro, dignità e ascesa del reddito, istruzione, sicurezza sociale, benessere. Un altro grande passo nella costruzione della società di giustizia; pur restando aperto quel fondamentale problema di capitale e lavoro.

Capitale e tecnologia, tuttavia, rientrano in questo stesso processo costruttivo in quanto approntano gli strumenti per una produzione universale, capace di rispondere all’universale bisogno umano; approntano quegli strumenti che possono redimere l’intera umanità dal bisogno; un’umanità che, in una parte purtroppo cospicua, giace ancor oggi in un bisogno estremo, bisogno primario di vestito cibo abitazione, condizione di povertà, denutrizione, malattia mortale. Possono portare l’umanità intera a quella prosperità ch’è uno dei punti costitutivi della società di giustizia.

 

3. La globalizzazione dell’economia, la fase abnorme

In questi fondamentali punti, dunque, possiamo riconoscere il moderno processo di costruzione della società di giustizia; o anche quello che nella modernità viene chiamato il «progresso» (categoria che la crisi della ragione moderna, coi suoi maestri Nietzsche e Heidegger, e i loro epigoni postmoderni, hanno distrutto; ma ciò non ha molta importanza): i principi etici, il modello democratico, l’unificazione e pacificazione dell’umanità, il capitale e la tecnologia con la loro capacità di universale produzione e soddisfazione del bisogno, di universale prosperità; con un particolare potere di unificazione che proviene non solo dai comportamenti d’uso relativi ai prodotti, ma dalla velocità dei trasporti e soprattutto dall’informazione e comunicazione che realizzano forme di ubiquità, di compresenza; quello che fu chiamato il «villaggio globale». Ovviamente il processo è in corso, ancor lontano dall’essersi comunque adempito (ma il concetto di «adempimento» non gli si addice), con carenze gravissime di cui non vediamo ancora la soluzione.

In questo processo rientra quella che viene chiamata globalizzazione dell’economia, come momento dell’universalizzarsi del capitale e della tecnologia, delle imprese che sul capitale e la tecnologia si fondano, della produzione commercio finanza, dei consumi. Un fenomeno ch’era già in corso, ma che «scoppia» col crollo del comunismo sovietico e del suo blocco, in cui si paralizzava il pianeta; col dissolversi dell’URSS nel 1991; e non senza il decisivo contributo dell’informatizzazione.  Globalizzazione ancora relativa, come tutto il processo; che si estende a zone, più che inglobare l’intero pianeta; ma è certo molto avanzata. Ed è un momento ovvio del processo stesso, dell’universalizzazione e unificazione; un momento benefico nella sua intenzione storica e utopica, che di per sé rafforza l’unità, e rafforza la produzione, quindi la possibilità di una universale soddisfazione del bisogno, di una universale prosperità.

 

Essa si presenta tuttavia oggi fortemente inquinata e viziosa, deviata da quell’intenzione storica, dannosa all’umanità. Radice del vizio è ancor sempre il capitale privato con la sua incondizionata tensione profittuale, che non riconosce norma alcuna a meno di esservi costretto. Il che avviene più facilmente quando opera all’interno di uno stato, soggetto alle sue leggi; a quella legislazione che l’Occidente (quello europeo in particolare) ha sviluppato per regolare l’impresa, tutelare il lavoro la persona la famiglia del lavoratore, tutelare il consumatore, regolare gli scambi, distribuire in certa misura la ricchezza; una legislazione complessa. Contro la quale il capitale sviluppa una forte pressione, con l’intento di condizionare il legislatore, condizionare l’esecutivo; e una più larga azione ideologica e suasiva attraverso i mass media che possiede.

Nella globalizzazione la rete transnazionale del capitale privato si trova in certa misura al di fuori della legge. Si esaspera il vizio di fondo del modello liberale e liberista, che è l’anarchia; la quale non viene se non in piccola parte compensata dalla concorrenza, dalla «mano invisibile» di smithiana memoria. Si esaspera in quanto la rete delle imprese di produzione e di scambio, espandendosi attraverso e al di sopra delle nazioni e degli stati, in quella rete transnazionale, sfugge alla legge degli stati stessi, e con essa ad ogni legge. Si produce una situazione simile a quella che lamentava Kant nel famoso saggio «Per la pace perpetua»; e cioè che, mentre all’interno dei singoli stati vige un ordinamento che previene e compone i conflitti, nel rapporto tra stati non v’è ordinamento alcuno, e i conflitti si scatenano frequenti e distruttivi, le guerre; situazione che ancor oggi non è molto mutata in quanto non v’è ancora un vero codice di diritto internazionale né un organo legislativo, né un apparato giudiziario che abbia giurisdizione sugli stati; vi sono convenzioni, trattati, v’è l’ONU col suo Consiglio di sicurezza e con le sue agenzie, le sue direttive, i suoi interventi anche armati per assicurare la pace all’umanità. Vi sono poi gli organi di accordo e intervento sull’economia, e cioè il Fondo monetario, la Banca mondiale, l’Organizzazione mondiale per il commercio; vi sono infine le comunità di stati, tra le quali l’Unione Europea è la più avanzata. Ma nulla di tutto questo ha potere di giurisdizione, tutto procede per accordi, che possono anche mancare, come non essere onorati.

Il capitale poi, in questa fase di particolare forza, preme per elidere lo stato stesso nelle sue funzioni economiche e sociali: attraverso la liberalizzazione dell’economia; attraverso la privatizzazione non solo delle infrastrutture materiali, dei trasporti e delle comunicazioni, ma anche dell’istruzione e della sanità, della sicurezza sociale affidata alle compagnie di assicurazione, dei servizi sociali in genere. Funzioni che solo lo stato può adeguatamente adempiere, in quanto non v’è in gioco un profitto ma piuttosto una ridistribuzione dei beni a vantaggio di tutti. Il capitale preme per ridurre lo stato a un minimo di compiti e di leggi; e con lo stato il controllo democratico e popolare. Preme poi particolarmente per annientare il lavoro, la sua temuta controparte; attraverso la «flessibilità» e il potere di licenziamento ridurlo in una condizione di totale precarietà, totale impotenza; attraverso il contratto individuale isolarlo, elidendo la mediazione del sindacato in cui il lavoro si organizza e si rafforza.

Di fronte alle minacce che sovrastano l’umanità, nella sua tensione profittuale il capitale è cieco, si comporta come se non ci fossero: l’esaurimento dei materiali, il dissesto ambientale che corre verso esiti catastrofici, il crescente dissesto dei popoli poveri, le crescenti sacche di povertà negli stessi popoli «ricchi» (40 milioni di poveri negli Stati Uniti d’America; 10 dei quali provocati dalla deregulation reaganiana). E preme sugli stati affinché le ignorino (si veda il caso dei protocolli di Kyoto sull’ambiente).

 

L’espressione globalizzazione dell’economia non è priva di ambiguità perché economia significa governo della casa, dei beni della casa, dei beni della società; v’è il nomos, la norma e legge, il governo secondo norma e legge. Che qui manca, in questa globalizzazione anarchica. Perciò vi domina il più forte, i paesi ad economia avanzata, i più ricchi. L’unilateralità del profitto ne accresce la ricchezza, aumentando il divario dai paesi arretrati, l’ineguaglianza (almeno fino a che questi paesi non decollino, accelerando la loro crescita); ma un’ineguaglianza che può essere tragica, come nell’Africa nera, con milioni di persone che muoiono di fame e milioni che muoiono di malattia. Così il particolare sfruttamento del lavoro a basso costo di quei paesi; gli abusi possibili per le carenze della legislazione, come nel caso del lavoro infantile. Le difficoltà inferte all’economia locale, specie là dove è molto arretrata e avrebbe bisogno di altre forme di produzione, di tecnologie «intermedie» o «appropriate». L’infuriare della speculazione, specie sulle valute, che porta a terremoti e crolli a livello anche subcontinentale, com’è accaduto negli scorsi anni nel Sudest asiatico; a dissesti di portata internazionale; e stupisce che la comunità delle nazioni non vi abbia ancora posto rimedio.

Vi sono autori storicamente e umanamente sfasati, e anche cinici, che prevedono una crescita inarrestabile di questa rete imprenditoriale, nella quale le imprese perseguiranno unicamente il loro interesse, condizionando ad esso gli stati; il cui compito sarà solo quello di offrire loro situazioni vantaggiose. Autori che ignorano il senso e compito dello stato, ch’è quello di tutelare e promuovere la dignità e il diritto di tutti i suoi membri nella loro persona come nel loro complesso associarsi. Compito dello stato è la giustizia, non l’interesse delle imprese (cfr. R. Reich, The work of nations, New York, 1991). A meno di non proiettarsi in una distopia fantastica come quella del Mondo nuovo di Huxley, in cui le grandi corporations si sono impadronite dello stesso potere politico e gli stati non esistono più.

 

La globalizzazione economica provoca dunque una situazione abnorme, di evasione dalla norma cui l’uomo è astretto in quanto uomo, in tutto il suo operare; e oppone un forte ostacolo alla costruzione della società di giustizia.

L’affrontamento di questa situazione presenta grosse difficoltà. L’obiettivo di una legislazione internazionale non è perseguibile perché non esiste un organo di giurisdizione al disopra degli stati sovrani. Potranno col tempo formarsi comunità di stati politicamente integrate, per prima forse l’Unione Europea; che potranno attuare una legislazione al loro interno, in una vasta area; e promuovere quindi legislazioni consimili nelle altre comunità; supposto che il processo di pacificazione porti all’elisione di possibili conflitti egemonici. Ma è un processo di lungo termine, e per ora anche aleatorio.

È invece subito possibile procedere per convenzioni, di cui l’ONU e le sue agenzie possono prendere l’iniziativa; e in parte già lo fanno. Così per l’abolizione dei paradisi fiscali; per infrenare la speculazione sulle valute; per la tutela ambientale; per la legislazione sul lavoro; per la destinazione di una parte dei profitti dell’impresa ai paesi altri in cui opera, in particolare ai paesi poveri. Sono idee che dovrebbero essere sviluppate in un progetto coerente, per compensare la globalizzazione anarchica; che in parte vanno affermandosi, sia pur tra insensibilità e resistenze, nei summit internazionali dedicati ai maggiori problemi dell’umanità. Il rafforzamento dell’ONU, la comunità dei popoli, è una delle grandi attese; vi si oppone soprattutto l’egemonia americana; che potrà in futuro essere compensata dalla crescita di grandi nazioni e comunità: l’Unione Europea, la Russia, la Cina, altre unioni. Ci vorrà tempo.

 

 4. La sorte del capitale privato

Un problema chiave resta sempre quello del capitale privato, che già ho introdotto. In questa fase esso è meno presente alla coscienza e all’azione della società a causa del fallimento e poi del crollo dell’esperimento sovietico; che ha travolto con sé non solo i partiti comunisti ma anche il socialismo come tale, il grande movimento che perseguiva proprio quest’obiettivo, e più oltre la fine di ogni discriminazione, ogni egemonia, ogn’imperialismo, politico come economico, nel progetto di una universale società di giustizia; lo ha perseguito per oltre un secolo. Mentre la classe operaia, che del progetto socialista era il portatore storico, non solo si è integrata nei ceti medi, praticamente rinunziando ai grandi obiettivi, ma si è fatta minoritaria e cammina verso l’estinzione. Il problema è meno presente, ma non per questo meno reale; esso è stato in certa misura ereditato non dalle socialdemocrazie, che alla società capitalistica si sono adattate, ma da quella costellazione di movimenti che compongono il cosiddetto «popolo di Seattle», la cui consistenza ed efficacia e missione storica è ancora incerta.

La soluzione del problema sta nella socializzazione del capitale privato, nella sua riappropriazione alla comunità di lavoro che compone l’impresa; riappropriazione in solido in una basilare parità per tutti (corrispondente alla basilare equiparazione del reddito; con solo modeste oscillazioni in rapporto alla produttività e all’anzianità), senza possibilità di cessione e commercio delle azioni, con speciali clausole di scambio nel passaggio da un’impresa all’altra; in quei termini che gli studiosi dell’autogestione sono andati sviluppando, specie in seguito alla «primavera di Praga». Poiché all’autopossesso segue l’autogestione, la gestione assembleare (cfr. B. Jossa, G. Cuomo, Market, socialism and labour management, Aldershot, 1997).

La socializzazione in questi termini, avendo il suo epicentro nella fabbrica, nel nucleo operativo singolo, frammenta la grande impresa, la multinazionale, che non può più realizzarsi se non in forma federativa. Inoltre l’impresa figlia appartiene pienamente alla società in cui nasce. Un processo d’innovazione certo enorme, un’inversione di tendenza che ha contro di sé l’intero potere capitalistico; ma che può partire anche da una sola nazione, come avvenne per la Russia rivoluzionaria; o da una comunità di nazioni, come l’Unione Europea; sulla cui realizzabilità si può essere anche molto scettici. Soprattutto perché manca attualmente un portatore storico.

 

La globalizzazione dell’economia sembra dunque portare il capitale privato ad un’affermazione planetaria difficilmente aggredibile, in una fase in cui anche scarseggiano le forze storiche per aggredirne ed eliderne i vizi. D’altra parte il processo costruttivo della società di giustizia è in atto: proprio in questi decenni si è rafforzata la volontà di pace e l’azione pacificatrice; è decollato il movimento ecologico; si è approfondita la coscienza e l’azione di solidarietà; l’unificazione e pacificazione dell’umanità avanza e anche la crisi scoppiata tra l’Occidente e una parte del mondo islamico, proprio questa crisi può pacificare definitivamente le due culture, lungo quel processo che le coinvolge entrambe, il processo di umanizzazione. Perciò la difficoltà di prospettiva in questo campo non scoraggia coloro che lottano per la giustizia: le risorse della storia, cioè dell’umanità sono enormi, imprevedibili, e spesso ci sorprendono: così ci sorprese negli anni Sessanta lo scoppio della Contestazione; come negli anni Ottanta ci sorprese la perestrojka. Così il regime monarchico-aristocratico fu abbattuto, nonostante dominasse l’umanità da millenni; e furono abbattuti gl’imperi. Il cammino che la società di giustizia ha percorso è una garanzia per il suo futuro, è motivo di speranza, di fiduciosa certezza per l’umanità. Su questa fiduciosa certezza si fonda il nostro impegno e la nostra lotta.    

         

 

 

Forme dell’utopia

Le molte forme e l’unica tensione verso la società di giustizia

 

1. Genesi, l’«Utopia» di Thomas More

Si sa che la parola «utopia» fu coniata da Thomas More, l’umanista e statista inglese (cancelliere di Enrico VIII, poi vittima del suo folle dispotismo) per il suo piccolo famoso libro che venne pubblicato a Lovanio nel 1516, e il cui titolo è Sull’ottima forma di stato e sulla nuova isola di Utopia, un libretto davvero aureo e non meno utile che piacevole, di cui è autore Thomas More, uomo insigne, dell’inclita città di Londra cittadino e sceriffo. Un titolo lungo, come spesso usava allora. Un titolo anche scherzoso, come si addiceva al temperamento dell’autore e allo humour inglese. L’«ottima» forma di stato la diremmo non priva di presunzione; deriva da Platone, da Aristotele e da tutta una tradizione che è alla ricerca della «costituzione migliore»; ha un senso inquisitivo, più che assertivo.

Il piccolo famoso libro consta di due parti, ambedue di grande interesse. La prima è una critica impietosa e dolente della società del  suo tempo, società «iniqua», ingiusta (ed. Yale, New Haven, 1965, p. 240). La seconda è la  descrizione di un modello politico esemplare, in realtà un progetto politico che alla società ingiusta viene opposto e che s’ispira ai fondamentali punti di quello che possiamo chiamare l’archetipo utopico, il progetto dei progetti, che a tutti presiede in quanto esprime le strutture costitutive di una società di giustizia: libertà, eguaglianza, sovranità popolare; comunione dei beni, del lavoro, degli affetti; prosperità, benessere; pace, felicità. Su queste categorie modula il progetto moreano, con peculiarità sue, con tratti anche viziosi (la schiavitù, ad esempio). La prima parte lo raccorda alla storia; sì che il progetto, e in esso particolarmente la comunione dei beni, l’abolizione della proprietà privata,  si presenta come «la sola e unica via per il pubblico benessere»; per cui, se ad esso non si porrà mano, «graverà sempre sulla parte di gran lunga maggiore e di gran lunga migliore dell’umanità [che è il popolo] il peso dell’indigenza, il fardello angoscioso e inevitabile del dolore». Anche se l’inveterato radicarsi della società ingiusta, la sua consolidata potenza, l’ampiezza dei suoi mali lo porta a quelle dubbiose parole conclusive: «Desidero, più che spero» (cit. pp. 104, 246).

Perciò la parola «utopia», che è il nome dell’isola, è insieme la designazione di una società, di un tipo di società: ou-topia, che significa non-luogo, la società che non esiste, oscilla su eu-topia, buon-luogo, la società buona, giusta. E propriamente così dovrebbe chiamarsi, è detto in quell’hexàstichon, quei sei versi attribuiti al poeta Anemolio (il ventoso, il vanitoso), che stanno tra i materiali introduttivi del piccolo libro. L’utopia, dunque, già nell’intenzione di Moro, è quella società che non esiste perché è la società buona, giusta; laddove le società che esistono sono «inique», ingiuste. È la società giusta cui va la tensione, il progetto umano; la società di giustizia verso cui l’umanità è protesa.

È dunque, infine, il progetto di una società ordinata in termini di giustizia; un progetto non qualunque ma eticamente qualificato, che avvince l’uomo con un vincolo etico, un dover essere. Non un fatto immaginario, un sogno, una velleità impotente, come molti pensano errando; ma un vincolo, un dover essere che l’uomo è tenuto ad attuare. L’uomo è insuperabilmente tenuto al comportamento giusto, a costruire una società di giustizia.

In tale direzione si estende la parola, e il suo senso, già al primo suo porsi. Dall’isola alla società giusta che in essa vive; al progetto di una società di giustizia elaborato nell’intento di trasformare la vigente opprimente società ingiusta, offrirle un modello, un sussidio per la sua  futura trasformazione; per un futuro anche lontano, un progetto offerto all’umanità, di cui l’umanità potrà comunque avvalersi. Nasce dall’esperienza storica di una società iniqua e alla storia ritorna, a quella iniqua società storica, per redimerla dai suoi mali, per contribuire comunque alla sua futura possibile redenzione.

Sappiamo che quella società iniqua, e proprio quella in cui Moro ha vissuto, cui ha dedicato la sua attenzione, la società inglese, inizierà davvero a trasformarsi secondo giustizia; compirà almeno un primo passo, grandioso tuttavia, e incomparabilmente fecondo per l’umanità. In un futuro ch’egli non poteva certo prevedere, né presagire; lontano, ma non poi così tanto, dopo circa centotrent’anni; col grande evento della Rivoluzione  del lungo parlamento che inizia nel 1640. Non si trasformerà secondo il suo preciso progetto ma secondo l’archetipo che ad ogni progetto presiede, di una società di giustizia; che ogni progetto costruttivo riprende e creativamente riformula. Né si trasformerà radicalmente, ma compirà un primo passo, storicamente decisivo.

Sappiamo dunque che l’utopia di Moro, contrariamente a quanto solitamente si pensa, era carica di storia e di realtà umana; ed era destinata a divenire realtà, anche se in forma diversa. E ancora si sta realizzando, e si realizzerà in futuro, nella costruzione di una società di giustizia; nella grande intrapresa umana che un lungo cammino ha ancora da percorrere. «Desidero e insieme spero, e il mio sperare si sporge oltre, in una fiduciosa certezza».

 

2. La grande fioritura moderna, l’utopia letteraria

Il fatto singolare è che il piccolo libro di Moro diventa un modello storico che pervade l’intera modernità; si traduce in un genere letterario, o politico-letterario. Caratterizzato appunto da un progetto politico esemplare, o ritenuto tale; che si colloca in un’isola o terra lontana e sconosciuta; cui si giunge attraverso un lungo viaggio, o ci s’imbatte per caso, ci si è portati dalla tempesta e dal naufragio. Può essere anche un mondo lunare o astrale, un mondo sotterraneo; o anche una società futura, di un futuro remoto, cui si arriva magari attraverso un viaggio nel tempo, o nel sogno. Quello che è stato chiamato «romanzo utopico», anche se la vicenda che è propria del romanzo vi è per lo più esile, più una cornice che altro. E può anche mancare, dando luogo a un progetto politico-utopico: come nella Repubblica immaginaria di Ludovico Agostini (1591) o nel Codice della natura di Morelly (1755), nella Verità morale di Deschamps (1770). Dove però ci allontaniamo dal modello moreano; e tanto più con le opere degli «ingegneri sociali» nella Francia dell’800, Saint-Simon, Fourier, Cabet, Proudhon; opere complesse, rivolte all’analisi della società e al suo trascendimento in un progetto politico-utopico sperimentale, d’immediata attuazione. E però le distinguiamo dal trattato politico, che piuttosto interpreta il sistema in atto, con limitati aggiustamenti. Cui il progetto utopico si contrappone come l’innovazione alla conservazione, il salto utopico nel modello altro; e non qualunque ma eticamente caratterizzato, dalla tensione verso la società di giustizia. O altrimenti ci troviamo nella pseudoutopia fantastica e ludica, o nella distopia di una società perversa, di una società decadente, di una società conservatrice dell’assetto ingiusto.

Altrove ho indicato i caratteri dell’utopia letteraria nel distacco dalla storia, nel nesso sistematico, nel salto inventivo, nella globalità (L’utopia. Rifondazione di un’idea e di una storia, Bari, 1997, § 32.2). Distacco dalla storia nel senso appunto del salto inventivo che trascende il sistema in atto, sistema ingiusto, dannoso all’umanità. Mentre, d’altro canto, trascendendolo gli risponde; così come risponde alla più profonda tensione della storia verso una società di giustizia. Il nesso sistematico è presente solo in alcuni autori, come nell’antichità Platone, nel quale è sempre fondamentale la dottrina dell’idea, il divino modello, che il filosofo raggiunge attraverso il processo dialettico, e può quindi plasmare su di esso la città, e così governarla nel modo presumibilmente migliore; presunzione in cui si contiene in realtà un pregiudizio aristocratico e il più bieco disprezzo del popolo.

A partire da Moro si sviluppa dunque una straordinaria fioritura di progetti utopici, di romanzi utopici nel senso detto; che giunge fino a noi. Circa 300, in un conteggio sommario. Fioritura che percorre tutta la modernità e corrisponde al suo carattere dinamico, creativo, continuamente innovativo, proteso sul futuro. Corrisponde al  processo costruttivo di una società di giustizia che la percorre, e all’evento rivoluzionario (le quattro grandi rivoluzioni in cui si articola, l’Inglese, la Francese, la Russa, la Contestazione degli anni 1960-70) che ne è il più forte e decisivo portatore storico.

 

Perciò la parola «utopia» va allargando e accomunando il suo senso. Non è più semplicemente il nome dell’isola, ma il nome del modello e genere letterario che ne è derivato. Nel 1752 il Dictionnaire de Trévoux l’assegna a un «paese immaginario»; nel 1799 il Dictionnaire de l’Académie Française (5a ediz.) l’assegna a un «piano di governo immaginario dove tutto è perfettamente regolato per il comune benessere». Ambedue insistono sull’«immaginario» (idea presente fin dal 1611, nel dizionario di francese e inglese di R. Cotgrave), ignorando la tensione etico-storica e l’intenzione politica che sostanziano questi progetti; o almeno quelli autenticamente utopici, secondo la distinzione fatta. Nei quali immaginaria è soprattutto la cornice romanzesca; mentre il progetto deriva fondamentalmente dall’archetipo e dalla sua tradizione, dalla tensione etico-storica che nella società ingiusta preme verso la società di giustizia. Perciò molti studiosi lo trovano ripetitivo, e di questo lo accusano; perché ignorano quella tensione e intenzione. L’idea dell’«immaginario» farà fortuna, diventerà un carattere esclusivo, abitualmente assegnato ai progetti utopici e all’utopia come tale; dall’opinione corrente come dall’opinione dotta o pseudo-dotta, in quanto scarsamente informata; il motivo più diffuso, poi, del disprezzo e del rifiuto.

 

Nella seconda metà dell’800 iniziano le storie dell’utopia; le quali s’intrecciano con la storia del socialismo (così J.J. Thonissen, Le socialisme depuis l’antiquité jusqu’à la Constitution française du 14 janvier1852, Louvain-Paris, 1852;  M. Kaufmann, Utopias or schemas of social improvement from Sir Thomas More to Karl Marx, London, 1879; ma anche il recente libro di Giorgio Spini, Le origini del socialismo, Torino, 1992, segue insieme il cammino dei progetti e dei movimenti, di cui vede poi  lo sbocco nel socialismo). In quanto comprendono la tensione etico-storica che anima la progettazione utopica, la sua protensione  verso quella società di giustizia che il socialismo vorrebbe decisamente realizzare, anzitutto appunto attraverso l’«associarsi» dei lavoratori nel possesso e nella produzione dei beni,  l’autopossesso e l’autogestione dell’impresa;  elidendo il capitale privato, il fattore della grande discriminazione di sempre, aristocratica o borghese non fa differenza, capitale fondiario col suo esercito di contadini, capitale d’industria col suo esercito di operai; sempre la grande discriminazione di ricco e povero, di potente e debole, di classe dominante e subalterna; sempre dipendenza, sfruttamento, oppressione, schiavitù. La società ingiusta. Lo stesso obiettivo ch’era perseguito in quei progetti teorici viene qui assunto da un grande movimento internazionale.

Storicizzandosi, l’utopia si qualifica come una ben definita corrente di pensiero progettuale, di progettazione politica volta alla redenzione della società ingiusta, alla sua liberazione dai vizi che l’affliggono, alla costruzione di una società di giustizia. Sia pur anche soltanto proponendole dei progetti che si pensa possano apportare idee, assumere forza esemplare, fors’anche stimolare il passaggio all’azione; magari attraverso la formazione di comunità appunto esemplari che possano poi moltiplicarsi e a poco a poco pervadere la società e trasformarla; come nel caso di Fourier e di Cabet, di Owen; il falansterio, la sua grande e caduca stagione americana stimolata da Albert Brisbane, le colonie cabetiane e oweniane pure in America. Nella fase più matura che s’instaura dopo Rivoluzione francese e in cui ha i suoi primi inizi il movimento operaio, ancora incompreso nella sua decisiva forza storica. 

L’utopia, dunque, come una ben definita corrente di progettazione che, partendo da Thomas More, si sviluppa lungo l’intera modernità. Che però ha anche una fase antica, ellenica, una prima isolata fioritura che s’incentra in Platone, il colosso incomparabile; e ha inizio con Ippodamo di Mileto e Falea di Calcedonia, giù fino ad Aristofane. E dopo Platone si allarga nell’utopia stoica, dove già compare il romanzo utopico, il viaggio all’isola e terra lontana in cui vive ed opera una società esemplare, giusta e prospera. Con Evemero e soprattutto con Giambulo, da cui probabilmente Moro ha attinto il suo tanto fortunato modello. Così come da Platone, cui più volte si rifà nel suo testo (cit., pp. 48, 86, 102, 180).

È l’utopia letteraria, o filosofico-letteraria: quella dei progetti teorici, per lo più definiti e compiuti, globali; elaborati da autori. Questa utopia moderna di cui si è parlato finora; così come l’antica. L’utopia letteraria, una parte soltanto dell’utopia umana, e non la più importante; come subito si vedrà.

 

3. Il nuovo senso, l’utopia storica, la costruzione di una società di giustizia

Una nuova consapevolezza si apre a partire dalla critica marx-engelsiana di quello che i due autori, nel Manifesto del partito comunista, chiamano «socialismo critico-utopistico»; ripresa poi da Engels nell’Anti-Dühring. Critica che riserva solo un vago accenno alle «descrizioni utopiche di regimi sociali ideali», cioè all’intera utopia filosofico-letteraria; cui è attribuito «un ascetismo universale e un rozzo far tutti eguali». L’attenzione va piuttosto agl’«ingegneri sociali» dell’800 francese e inglese; in particolare a Saint-Simon, Fourier, Owen, indicati come i «tre grandi utopisti» in quanto in loro già si fa cosciente la condizione del proletariato (non ancora, però, la sua funzione storica), e s’illuminano punti importanti di critica della società in atto, e di previsione della società futura. Anche se il loro globale progetto risulta «fantastico»; così come di puro sogno è la loro attesa di trasformare la società sperimentando le loro «utopie sociali», illusi della «potenza dell’esempio», mentre «fanno appello alla filantropia dei cuori e delle tasche borghesi». Essi vivono una fase ancora immatura del socialismo, che non riesce a individuare nel proletariato il portatore storico del processo di liberazione.

Qui la fondamentale intuizione: che la società non può essere trasformata dal progetto escogitato da un autore, ma solo da un movimento in atto nella società stessa; movimento portatore di un progetto che si elabora al suo interno; che il movimento, e con esso la società, pone in atto. Non un progetto mentale, pensato, «scovato» (Manifesto, III, 3; Anti-Dühring, Introduz., I – MEW 4, 489-490; 20, 17-18).

Qui il primo affacciarsi dell’utopia storica, di contro all’utopia filosofico-letteraria. Non l’autore e il suo progetto, Platone, Moro, Campanella; o Fourier e gl’«ingegneri sociali»; non una sequenza di autori, una caterva, di progetti escogitati, pensati, che solo lontanamente rispondono alla tensione della storia; le offrono delle idee certo preziose ma non hanno la capacità di metterle in atto, di trasferirle nel tessuto umano e popolare, d’instaurare quindi un processo di trasformazione. Perciò non il progetto di un autore o di molti autori, ma il progetto dell’umanità, il grande progetto umano, il progetto dell’umanità per la sua liberazione, per la sua redenzione terrena.

Questa intuizione marx-engelsiana rappresenta il più radicale punto di svolta nella storia dell’utopia. Non viene subito compresa; anzi non è compresa neppure oggi, nonostante che più di un secolo e mezzo sia passato; il campo dell’utopia essendo dominato dai letterati, con qualche filosofo o politologo che ad essi si accoda; dagli studiosi di questo o quell’autore, questo o quel secolo di storia della letteratura o delle idee, questa o quella nazione (così per il ‘700 francese, il secolo più fecondo di progetti letterari, C. Rihs, Les philosophes utopistes, Paris, 1970; B. Baczko, Lumières de l’utopie, Paris, 1978 [L’utopia, Torino, 1979]; così A.L. Morton, The english utopia, London, 1952).

Dominato dalle piccole o grandi storie dell’utopia, che è ritenuta per eccellenza quella letteraria (tra le maggiori J. Servier, Histoire de l’utopie, Paris, 1967; F.E. Manuel, F.P. Manuel, Utopian thought in the Western world, Oxford, 1979; R. Trousson, Voyages aux pays de nulle part. Histoire littéraire de la pensée utopique, Bruxelles, 1979). Il fatto singolare è che queste storie, consacrate all’utopia letteraria, quella stessa di Trousson che lo dichiara espressamente, contengono dei capitoli o paragrafi che trattano del messianismo ebraico, del cristianesimo, del millenarismo; dell’anabattismo, della «guerra contadina»; delle rivoluzioni moderne, l’Inglese (nei Manuel, che preferiscono però evitare la parola che brucia, «rivoluzione»), la Francese e la Russa (in Servier, con discreto scetticismo). Trattano cioè di movimenti di un’ampiezza talora enorme, secolare e millenaria; che elaborano e perseguono progetti d’incidenza storico-epocale; di eventi, come le rivoluzioni moderne, che trasformano la società e la storia umana. Cui non si possono comparare i materiali libreschi, i progetti mentali, le idee di cui questi storici discorrono lungo tutte le loro opere con immutata convinzione; senz’accorgersi che proprio in quei movimenti si elabora il progetto dell’umanità, si elabora e poi si va realizzando, si va costruendo la società di giustizia.

Semmai quei movimenti vengono da essi ridotti a varianti del grande «sogno», della «chimerica illusione», proiettati sui progetti mentali ch’essi ritengono puramente «fantastici»; misconoscendo così anche l’autentico significato dell’utopia letteraria su cui già sempre ho insistito. L’intera utopia essendo da essi ridotta all’«immaginario sociale», all’«esercizio mentale sui possibili laterali», secondo la definizione di Ruyer, ripresa da Baczko, da molti altri; secondo la diffusa opinione di questi professionisti della fiction, la loro deformazione professionale, che l’utopia altro non sia che immaginazione, sogno, chimera; e nulla abbia a che fare con la realtà, con la reale storia umana (R. Ruyer, L’utopie et les utopies, Paris, 1950; B. Baczko, Les imaginaires sociaux, Paris, 1984).  

Né si accorgono che nel frattempo, lungo il ‘900, due grandi autori hanno reimpostato l’utopia in senso storico: Karl Mannheim ed Ernst Bloch. Mannheim, Ideologia e utopia (Bonn, 1929; tr. it., Bologna, 1957), per primo comprende l’utopia come un fattore della storia, il fattore creativo-eversivo, il quale di volta in volta rompe l’assetto esistente per instaurarne uno nuovo. Fattore di novità e innovazione, di cui è portatrice la classe in ascesa, che infrange il potere della classe dominante, così come l’ideologia con cui essa giustifica e supporta e mentalmente suggella il suo potere. Mannheim ricostruisce così una dinamica storica di sempre, di cui l’utopia è il perno. Anche se difficile e sfasato gli riesce il riscontro storico, quando tenta d’individuare le incidenze del fattore utopico nella modernità; poi che non ha meditato abbastanza sulla storia. Soprattutto non ha capito che il fattore utopico non può essere un fattore qualunque, eticamente neutro, o anche perverso; non un’innovazione qualunque ma un’innovazione storicamente eversiva, e cioè dell’assetto ingiusto di sempre, del dominio di sempre, la classe dominante di sempre, dell’intera storia umana. Una innovazione non marginale o apparente, un cambio di padrone; ma un’innovazione liberatrice, promotiva dell’umanità rispetto all’inumano di sempre. L’utopia essendo la società buona, giusta; il senso inteso già da Moro, perseguito dall’inesausta ricerca umana, da quella stessa dei progetti letterari e filosofici.  

Bloch, Il principio speranza (Frankfurt a.M., 1953-59; tr. it., Milano, 1994), riprende l’intuizione di Mannheim liberandola dal suo limite ed espandendola. L’utopia non più solo come un fattore ma come l’intero processo della storia umana. Il processo anzi della realtà intera; per lui,  materialista dialettico, il processo che pervade anzitutto la materia e la muove, la sospinge verso forme sempre più evolute e complesse fino alla vita; poi fino all’uomo, alla società, alla civiltà, alle sue espressioni molteplici. La sospinge infine alla fase propriamente liberatoria, il rientro dall’alienazione, la fine delle contraddizioni, il «regno della libertà», la sia pur enigmatica «democrazia vera». L’utopia è dunque il processo della storia umana in quanto benefico, liberatorio per l’umanità. Viene però forzato dal marxista Bloch entro lo schema del materialismo storico-dialettico; in uno schema aprioristico, arbitrario; oltretutto obsoleto, che già Engels nelle lettere della maturità aveva sottratto all’economicismo e al determinismo di un tempo, per riformularlo nei termini di una mera ipotesi interpretativa della storia umana, da verificare volta per volta. Che tuttavia permaneva nel marxismo scolastico e dogmatico, cui Bloch soggiaceva.

 

Il processo eversivo della società ingiusta, società di alienazione sfruttamento oppressione schiavitù, il processo liberatorio, avrebbe dovuto invece esser ricostruito in termini autenticamente storici, attraverso un’autentica ricerca storico-macrostorica e storico-filosofica; processo di movimenti e di eventi. Partendo dai movimenti in cui gli stessi storici dell’utopia letteraria avevano riscontrato una carica utopica, pur nel loro pregiudizio del progetto fantastico e irreale. È lungo questa linea di ricerca che noi evidenziamo e ricostruiamo un percorso storico che si articola in due fasi.

La prima: i «movimenti religiosi di salvezza», cioè il messianismo ebraico, l’annunzio evangelico (non il cristianesimo, troppo contrastato e contraddittorio), il millenarismo, l’eresia medievale e moderna; nei quali l’umanità elabora il progetto di una società giusta e fraterna; le categorie centrali del messianismo, e rispettivamente dell’annunzio evangelico, essendo appunto la giustizia e il rapporto fraterno. Elabora il progetto e già ne tenta l’attuazione a livello ecclesiale e comunitario.

La seconda: «i moderni movimenti rivoluzionari», cioè le quattro rivoluzioni, l’Inglese del Lungo parlamento, la Francese, la Russa,  la Grande Contestazione degli anni 1960-70; che è poi la fase «costruttiva», in cui inizia e procede la costruzione di una società di giustizia. Inizia attraverso l’affermazione dei grandi principi etici o diritti fondamentali (il principio d’uomo, dignità e diritto della persona umana, il principio di libertà, di eguaglianza, di sovranità popolare; per la prima volta nel Patto del popolo inglese del 1647; poi nella Dichiarazione d’indipendenza americana del 1776 e nella grande Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789; nelle «carte dei popoli» che costellano tutta la modernità) e attraverso l’impostazione del modello democratico. Procede con l’abbattimento del modello monarchico-aristocratico che aveva dominato l’intera storia umana; con l’abolizione della schiavitù; nella Rivoluzione francese. Con la formazione e l’ascesa del movimento operaio e socialista, che attraverso un secolo di lotta trasformerà la millenaria condizione popolare di scarsità, duro lavoro, ignoranza e analfabetismo, impotenza di fronte alla natura e alla malattia, malessere; porterà alla dignità del lavoro, dignità del reddito, istruzione, sicurezza sociale, benessere ; porterà all’instaurarsi dello welfare state. Col processo di unificazione dell’umanità dalla dispersione e ostilità e oppressione e guerra di sempre; formazione di un modello cosmopolitico, di una comunità planetaria dei popoli e stati (anche se ancora immatura). Col processo di pacificazione in corso. Sono i punti salenti del moderno processo costruttivo.

Questa linea di ricerca ha portato innanzi la Scuola di Lecce, il Centro di ricerca sull’utopia di quella università; e ha avuto la sua prima sintesi nel volume di A. Colombo, L’utopia. Rifondazione di un’idea e di una storia, cit. Questa linea incontra difficoltà ad esser recepita perché ha contro di sé la maggior parte degli studiosi dell’utopia, affondati nell’utopia letteraria; e ha contro di sé la linea prevalente nel pensiero filosofico, che consegue alla crisi della ragione moderna: filosofia analitica, nihilismo, pensiero debole; pensiero distruttivo, visione distruttiva della storia.

 

4. Lo spirito di utopia

       È questo un senso ulteriore, più largo, che la parola è andata assumendo nel tempo; forse l’ultimo. È passata dal nome dell’isola al progetto politico-utopico di un autore, di molti autori, l’utopia filosofico-letteraria; al progetto dell’umanità per la sua liberazione che, sospinto dalla tensione verso una società di giustizia, si elabora in movimenti di popolo, è assunto da movimenti portatori, movimenti eversori o riformatori che lo vanno realizzando, e insieme e sempre nuovamente riprogettando: l’utopia storica. È passata infine ad esprimere quella che può dirsi la mente utopica o l’utopicità della mente umana; in maggiore o minore misura, certo, ma essenziale ed essenziante; è passata, da quella intensa progettualità che pervade la storia, a significare anche la progettualità dello spirito umano, la sua creatività e capacità d’innovazione, e quindi la sua tensione sul futuro. Lo spirito di utopia.

Una prerogativa della mente umana come tale, quindi del pensiero; cui si compone l’immaginazione creatrice, che è tale per se stessa, per la sua spontanea dinamica associativa; ma lo è soprattutto in quanto congiunta col pensiero. Una creatività che non è creazione dal nulla ma sintesi, da fattori molteplici e imponderabili, in una forma altra e nuova. Una prerogativa che emerge con la modernità, con l’Umanesimo del ‘400, nella sua nuova e stupenda comprensione della dignitas hominis come plastes et fictor, come colui che seipsum effingit: l’individuo, l’umanità intera. Prerogativa che pervade la coscienza moderna, che dalla modernità pervade la storia presente, e forse ancor più la futura.

Alla comprensione dello spirito di utopia conferisce forse la definizione che Raymond Ruyer ha preteso fosse quella dell’utopia come tale, e cioè quell’«esercizio mentale sui possibili laterali» di cui già parlavo; definizione ch’egli deriva dall’utopia letteraria, la quale gli appare appunto com’esercizio mentale, e come volta sempre a modelli laterali rispetto al modello centrale che è quello in atto; modelli immaginari e aleatori rispetto a quello reale. Mentre, nel suo senso autentico, storico, l’utopia non è certo un esercizio mentale; semmai un processo mentalmente ricco, fortemente creativo e progettuale. Ed è vero che diverge dal modello dominante della società ingiusta, ma in realtà si protende sul modello centrale per eccellenza, quello in cui s’incentra la tensione di sempre dell’umanità e l’intera storia umana, la società di giustizia. Laddove i modelli vigenti sono «laterali», devianti, aberranti. Ma la stessa utopia letteraria – come sempre ho precisato, insistendovi – si protende su quel modello. Ruyer, e quanti a lui si rifanno, ignorano questa più complessa dinamica.

La divergenza per una nuova centralità sembra essere propria del processo autenticamente e storicamente creativo. Nelle scienze è l’ipotesi, che è poi progetto; altro da ciò che la scienza ha acquisito, divergente, tanto da sembrare fuorviante: «anomalo» lo dice Thomas Kuhn ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche (Chicago, 1962); «falsificante» lo  dice Popper nella Logica della scoperta scientifica (Wien, 1934). E tale si presenta appunto l’ipotesi di numeri altri da quelli interi e frazionari, fino ai numeri immaginari; e la parallela che diverge all’indentro o all’infuori della normale parallela, e fonda le geometrie non euclidee.

Nella progettazione tecnologica, economica, sociale, politica sempre è in gioco l’altro, il divergente; che si protende sul futuro e vi trasforma il presente. E anzi la protensione sul futuro, e in essa la previsione e progettazione, si fa particolarmente necessaria per la scienza e prassi che presiede alla produzione dei beni, e con essa alla soddisfazione del bisogno umano; donde il generarsi di una scienza di previsione.

La poesia si porta sempre sull’altro, sul divergente: nel linguaggio come nel pensiero. E allo stesso modo l’arte.

E infine lo spirito di utopia feconda l’esistenza e la sua prassi, portandola a vivere in creatività, in protensione sul futuro; in una vitalità che mai si ripiega né mai ristagna; che in tale protensione si potenzia, si fa più altamente feconda, così come più altamente gioiosa. Non è certo soltanto «esercizio mentale», ma armonia di ragione, immaginazione, emozione, passione; di tutte le facoltà umane. E tale era pure nella poesia e nell’arte. E anche nella scienza, e in tutto l’agire e operare umano.

 

Allargandosi ad universale prerogativa umana di creatività e tensione sul futuro, la parola si attenua, si depaupera: in un senso analogico che non ha più la forza del senso proprio. Essa perde la sua fondamentale connotazione etica, che la correla al bene, al giusto, alla società di giustizia; la fa vincolante per l’umanità, e insieme liberatrice. Altro è il progetto e processo storico in cui l’umanità si redime; altro è lo spirito di utopia che sta in ogni uomo, per cui l’uomo come tale potrebbe dirsi «utopico». Affinché si generi l’utopia deve intervenire la condizione d’ingiustizia, il duro giogo millenario sotto cui l’umanità è stata conculcata, duramente; deve insorgere la coscienza della giustizia violata, della dignità e del diritto calpestato, del  vincolo etico infranto; deve generarsi il progetto, anzitutto implicito, incoativo, di una società di giustizia come di un diritto da conseguire. Un diritto-dovere.

Lo spirito di utopia è una categoria esistenziale, l’utopia è un progetto e processo storico.

              

Uscitosu Nuova Antologia, 138, lug.-set.2003 / sul giornale "Fogliedarte", Trento 6,2006/ sulla  rivista brasiliana "Morus", n.3, 2006/  nel volume "Dalle città ideali alla città virtuale" , a cura   di Carlo Mezzetti, Kappa, Roma 2006, con un paragrafo sulla città giusta

 

 

 

Arrigo Colombo

Difesa dell’utopia: le accuse, i malintesi, il senso autentico

 

L’utopia giace oggi in una condizione di disprezzo, condizione di estremo disprezzo, come di cosa inutile e malefica, un’idea perversa che non può se non illudere l’umanità, può soltanto affliggerla, perderla; un’idea che, avendola già perduta una volta, una parte dell’umanità almeno, una parte cospicua che sotto la sua tirannia ha sofferto l’oppressione e l’annientamento, si è consumata e giace ora in una condizione di morte. «L’utopia è morta».

È questa oggi l’opinione corrente, che si legge nei dizionari, nei giornali, si sente nei discorsi della gente quando dice «è un’utopia…, la felicità è un’utopia, la pace nel mondo è un’utopia». Ma è anche l’opinione degli studiosi, dei dotti, di quelli che sanno o credono sapere, quelli che si dice pensino, scrivano libri pensosi. A decine si potrebbero addurre i loro libri.

Eppure è questa una fase in cui gli studi sull’utopia si sono moltiplicati, da un ventennio forse, un trentennio; da quando, forse, la grande Contestazione degli anni 1960-70 s’era dispiegata pregna di quello spirito, uno spirito di progetto, di futuro, di attesa, la trasformazione dell’uomo e del mondo. E però – si dice – quell’attesa era vana, era un’illusione e una velleità giovanile; e – si dice, ma falsamente – a nulla è valsa. Poi è sopraggiunto il crollo della grande «utopia comunista», l’unica utopia realizzata, tradotta nella vita di un popolo, di uno stato, una costellazione di stati, tesa a sconvolgere e sommergere l’umanità intera. È crollata. Si sono creati sì, lungo i venti o trent’anni,  centri di ricerca, società di studi utopici, si sono moltiplicati i congressi, le pubblicazioni; ma anche in loro, per lo più, permaneva non dirò quel disprezzo, ma quella stessa opinione, quel malinteso mortale.

 

1. Le accuse correnti: l’utopia come l’irreale, come l’immaginario, il sogno

Dove l’utopia sta sotto il segno dell’irreale, il nome stesso sembra dirlo, il «non-luogo»; sta sotto le categorie dell’immaginario e del sogno. La città innumerevoli volte immaginata, in innumerevoli modi, anche scherzosi e ludici, anche perversi; lungo la modernità, da Thomas More in poi; ma già nel mondo antico, da Ippodamo di Mileto, da Platone, dagli stoici. Un sogno, un gioco, un esercizio letterario; non solo l’irreale ma «l’impossibile», la «chimera», in cui si esercita «l’immaginario sociale», secondo l’opinione di un autore rispettabile come Bronislaw Baczko, in opere peraltro pregevoli quali Lumières de l’utopie o Les imaginaires sociaux (Paris, 1978 [L’utopia, Torino, 1979] e 1984).

Quest’opinione è superficiale, non penetra nella realtà dei progetti utopici: è fondamentalmente falsa. Quando Platone costruisce con fatica le strutture della sua città nella Repubblica, quando faticosamente le ricostruisce nelle Leggi non si abbandona certo all’immaginario o al sogno. Dopo avere dolorosamente vissuto la crisi della democrazia ateniese – nel giro di una dozzina d’anni, dal 411 al 399 a.C., l’oligarchia del Consiglio dei Quattrocento, la dolorosa sconfitta nella guerra con Sparta, i Trenta Tiranni, la condanna di Socrate – egli cerca un ordinamento che possa «porre fine ai mali della città». Questo cerca, e tenta un primo progetto con la Repubblica; un progetto  certamente insolito, arduo anche solo a recepirsi, con quell’idea dei filosofi al governo, del loro vivere in comunione di beni e di donne (passi l’espressione), quel disdegno di tutto il rimanente popolo. E però un progetto seriamente e intensamente pensato, per il quale farà tre viaggi in Sicilia, nell’intento di poterlo realizzare a Siracusa dove aveva individuato in Dione il principe filosofo; nel secondo viaggio ha sessant’anni, nel terzo 66 (il racconto sta nella Lettera VII). Dopo di che, pur considerando sempre il progetto di Repubblica come il più vero e consono, lo riscrive e modifica in ordine ad una possibile immediata attuazione, se non in una città già costituita, in una nuova fondazione, una colonia.

Quando Thomas More scrive la sua Utopia è anch’egli assillato dal problema di come porre rimedio ai mali della società in cui vive, cui dedica il primo dei due libri della sua piccola opera, ne fa un quadro dolente e sdegnoso. Pensa che il rimedio possa trovarsi nell’abolizione del possesso privato dei beni, la proprietà espropriatrice, la grande discriminazione, la radice di tutte le discriminazioni di cui l’umanità ha sofferto e soffre: oggi ancora; si faccia avanti chi ha il coraggio di negarlo, oggi che milioni di persone muoiono ogni anno di fame, che nella ricchissima America quaranta milioni di poveri stentano la vita. L’abolizione del possesso, dunque, e una società strettamente solidale in cui lo stato è gestito democraticamente su quella base familiare ch’è peculiare al suo pensiero.

Dopo Thomas More, e lungo tutta la modernità, i progetti si moltiplicano, a decine, a centinaia; assumono le forme più diverse, anche quelle bizzarre e ludiche di cui parlavo. L’immaginazione vi opera certo; come opera in tutta la creatività umana, l’immaginazione creatrice; vi opera, se si vuole, il sogno, ch’è soltanto una metafora dell’immaginazione e del desiderio umano. Ma il senso globale è un altro, quello di una grandiosa progettazione di come dovrebb’essere la città, lo stato, per porre rimedio ai mali di cui soffre; una progettazione continua, inesausta. Anche i modelli «distopici», dannosi alla città, perversi, dai Viaggi di Gulliver a Butler, alle grandi distopie del ‘900, Zamjatin Huxley Orwell, rientrano in questo quadro e per lo più vi conferiscono come monito all’umanità, ai pericoli ch’essa corre, alle conseguenze estreme cui possono portarla certe forme del suo vivere e operare, come il capitale, la tecnologia, lo pseudosocialismo dispotico. Nella modernità i progetti si moltiplicano proprio perché v’è in atto la grande trasformazione, quella del capitale, certo, come metodo di espansione della base produttiva attraverso il reinvestimento, e della tecnologia; ma soprattutto l’evento rivoluzionario che tutta la percorre – dalla Rivoluzione inglese alla Francese, al movimento operaio, al socialismo, alla Rivoluzione russa, alla Contestazione degli anni 1960-70 –, che abbatte il modello monarchico-aristocratico, imposta la democrazia, trasforma la condizione popolare, teso verso una società di giustizia (il grande tema di cui verrò a trattare).

 

2. Le accuse correnti: l’utopia come stato  ideale e perfetto

L’altro motivo d’irrealtà è lo stato ideale e perfetto. Perché certo l’ideale non è reale, ma solo termine di una tensione che mai lo raggiunge; come in una curva asintotica. E la perfezione non appartiene alla realtà umana, alla sua finitudine; alla sua precarietà e caducità, l’errore, il peccato che travaglia e tormenta l’uomo; alla temporalità e storicità in cui diviene e si fa, si costruisce, si sviluppa creativamente; o anche ristagna, regredisce, si smarrisce e naufraga. Finitudine e creatività, due costitutive componenti umane.

La categoria dell’ideale deriva certo da Platone, che costruisce il suo progetto contemplando l’idea, il divino modello; e però un progetto che rispetto ad essa digrada, in quanto trasposto dal divino nell’umano; non può essere l’eguale dell’idea ma solo simile ad essa, il più possibile, se vogliamo; perciò non può neppure essere l’ideale ma solo una sua approssimazione. Anche la categoria del perfetto è in certa misura platonica, per lo stesso motivo; e infatti egli parla di una città «compiutamente buona», di una costituzione che sotto l’azione del filosofo «si fa compiuta, perfetta»; ma dice anche «la migliore possibile», consapevole del divario (Repubblica, IV, 427e; VI, 499a; IV, 434e). Sì che le due categorie, seppur presenti in Platone, sono coscienti del divario e del limite, dell’approssimazione.

Anche Thomas More, nel titolo stesso, poi nel testo, parla dell’«ottima forma di stato», di una forma tanto felicemente concepita che, «per quanto all’umana congettura è dato presagire, durerà in eterno» (ed. Yale, New Haven, 1965, pp. 236, 244). Un’espressione iperbolica, che però si collega con l’idea di perfezione, quindi raggiunta definitezza, in cui si adempie e si esaurisce l’umano progettare, si ferma la creatività storica. Un’idea – si pensa – implicita in tutti i progetti utopici in quanto tutti pensati come il meglio per l’umanità; quindi esaustivi, definitivi.

Ma non è così per la più parte dei progetti dell’utopia filosofico-letteraria, che non hanno questa pretesa, sono più limitati e modesti; il loro stesso moltiplicarsi esprime la consapevolezza di un’insufficienza e insoddisfazione di sempre, di un tentativo sempre inadeguato. Del resto le perplessità che More esprime verso la fine del suo libro non possono essere intese come una finzione, o una piega ironica soltanto, una cautela rispetto ai suoi futuri critici; come ci dicono i commentatori. «Non poche tra le usanze e leggi di quel popolo mi parevano davvero stabilite con assurdità, non solo quanto al modo di condurre la guerra, alla religione e al culto, ad altre loro istituzioni» (p. 244); che sono poi le stesse perplessità che noi proviamo di fronte al progetto utopico di More, come di fronte ad ogni altro progetto dell’utopia filosofico-letteraria, ad ogni progetto umano.

Quest’idea dello stato ideale e perfetto, più che un carattere di quell’utopia, può dirsi uno stereotipo della sua critica.

 

3. La critica marx-engelsiana e l’esigenza di un progetto «storico»

La quale trova forse la sua prima espressione nella critica marx-engelsiana del «socialismo utopico» (ma è detto «utopistico», anzi «critico-utopistico») nel Manifesto del partito comunista; ripresa poi da Engels nell’Anti-Dühring. Che però riserva solo un vago accenno alle «descrizioni utopiche di regimi sociali ideali», cioè a tutta l’utopia filosofico-letteraria che va da More alla Rivoluzione francese; cui attribuisce «un ascetismo universale e un rozzo far tutti eguali». Mentre dedica una maggiore attenzione ai «sistemi socialisti e comunisti propriamente detti», ai «tre grandi utopisti» che sono Saint-Simon, Fourier, Owen. Le categorie del fantastico, dello «scovato» e inventato compaiono qui ma in un particolare contesto, che sfugge alla diffusa critica corrente; la quale poi considera non solo il marxismo ma il pensiero marx-engelsiano come morto e sepolto non meno dell’utopia. Il particolare contesto è quello del nesso tra progetto utopico e prassi storica, di un progetto che non sia invenzione del singolo ma si formi nella dinamica della storia; ch’è poi qui quella di una produzione associata, l’industria anzitutto, in contrasto e contraddizione con l’appropriazione privata del capitale, quindi la lotta estrema tra proletariato e borghesia; che sbocca «necessariamente» nell’eversione del capitale privato e della classe che lo detiene, la rivoluzione operaia, quindi la nuova società nella quale la produzione associata sta nelle mani degl’individui associati, la contraddizione è risolta, le classi antagoniste dissolte. Subentra l’«associazione» – la parola preziosa, mai realizzata – «nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti»; la società di radicale eguaglianza, di forte solidarietà. (Manifesto, III, 3; Anti-Dühring, Introd., I – MEW 4, 489-490, 482; 20, 17-18).

La critica dell’utopia filosofico-letteraria, dei suoi progetti, delle sue città disegnate nell’insieme e nel dettaglio da singoli autori, è dunque sottesa qui da un’idea più profonda, più vasta, più complessa della progettazione sociale; che si elabora invece nella storia, nei movimenti, nei ceti portatori del processo di umanizzazione e liberazione, in questo caso il proletariato. Il progetto singolo è sempre possibile, ma non è storicamente decisivo. Emerge qui l’intuizione di un’utopia storica, di contro all’utopia letteraria; si affaccia qui per la prima volta; un’intuizione che si svilupperà lungo il secolo appena concluso; di cui verrò a parlare. E che dai più è ignorata.

 

4. Popper e la leggenda dell’utopia come società chiusa e totalitaria

La demolizione dell’utopia come società ideale e perfetta è ripresa e sviluppata da Karl Popper, il maggiore avversario dell’utopia nel ‘900, con la sua idea di società chiusa: cioè del configurarsi nell’utopia di una società illiberale e insieme definitiva; anzi una società che racchiude e conclude e annienta in sé l’intero d’uomo, una società totalitaria. La teoria di Popper esercita un grande influsso, sia per l’autorità dell’autore, sia per l’ampiezza delle opere che le dedica, in particolare La società aperta e i suoi nemici (2 voll., London, 1945, un discorso che si sviluppa ulteriormente nelle edizioni seguenti).

Società chiusa è per Popper quella dei progetti utopici globali e definitivi, come sarebbero in genere i progetti dell’utopia letteraria, la cui realizzazione comporterebbe una trasformazione abrupta dell’intero assetto sociale e politico; quindi un fatto eversivo e violento, di tipo rivoluzionario; o di tipo dittatoriale, violento a sua volta (il preteso re filosofo: Popper ha presente il passo del Politico dov’è detto, «sia ch’essi governino secondo le leggi o senza leggi, che siano accettati o subiti, […]sia che uccidendo alcuni o esiliandoli purifichino la città nel bene […]», 293c-d). Una trasformazione che dunque comporta violenza anziché ragione, comporta il potere di pochi e conduce alla dittatura; non può penetrare profondamente nel tessuto sociale e ideologico, che le resiste, e deve perciò ridurre sostanzialmente il progetto, distorcerlo o anche abbandonarlo.

Popper non considera né conosce abbastanza l’evento rivoluzionario moderno com’evento eversivo di un sistema politico di oppressione da parte dei ceti oppressi; le sue fasi, le quattro rivoluzioni, l’Inglese, la Francese, la Russa, la Contestazione degli anni 1960-70; nelle quali è in gioco ogni volta una forza creativo-eversiva globale, una globale trasformazione; e devono ritenersi i momenti più altamente creativi della modernità. Che portano all’affermarsi dei grandi principi etici della coscienza moderna: il principio di dignità e diritto della persona, il principio di libertà, di eguaglianza, di sovranità popolare, il principio di solidarietà; l’abbattimento del modello monarchico-aristocratico che aveva dominato l’intera storia umana, l’impostarsi e poi crescere del modello democratico; l’abolizione della schiavitù, l’avviata abolizione della pena di morte; la promozione della condizione popolare. Di cui già parlavo e parlerò.

La violenza non può essere motivo di rifiuto o di condanna della rivoluzione. La quale comporta per se stessa una violenza non fisica ma socio-politica, in quanto eversiva di un globale assetto, di un modello di società e di stato; mentre la violenza fisica consegue alla resistenza dell’apparato di potere, delle sue forze di repressione, polizia ed esercito. Pur non escludendo un intento anche vendicativo, o meglio di giustizia storica per un’oppressione che si è protratta per secoli, di nemesi «cosmico-storica».

Società chiusa è per Popper quella dei progetti utopici globali e definitivi, che perciò non consentono il mutamento, il miglioramento attraverso le riforme, gl’interventi d’«ingegneria graduale»; non consentono la mobilità sociale, la competitività. Popper conduce la sua analisi su Platone, sul principio di una legge perfetta e quindi immutabile, dell’innovazione come rovinosa per la città; e sul principio che immobilizza ogni cittadino nella sua classe e professione, per natura; il calzolaio è tale per natura, come il falegname; un principio certo assurdo. Ma Platone non parla di legge perfetta e immutabile, bensì di una legge che attraverso un lavoro di correzione e miglioria viene portata al limite conveniente, al fine cui si mirava, l’ikanòs oros, il telos; e allora viene «assunta come immutabile», salvo doverla poi per sopraggiunta necessità mutare; e però con estrema cautela (il passo di Leggi 772b-d; cfr. 798a-b). Ha di mira la stabilità di un ordinamento saggio per la stabilità della città stessa. Ma poi Platone non è l’intera utopia letteraria; troppo facile condannarla tutta analizzando lui solo; mentre nell’utopia letteraria per lo più questo problema non si pone perché non ci sono leggi, o ce ne sono pochissime, in quanto basta l’impostazione di fondo della città e la virtù dei cittadini. Anche la mobilità sociale e la competitività non hanno risalto in città rette da un principio di eguaglianza e di solidarietà. L’esasperato classismo di Platone è forse un unicum nella storia dell’utopia, che scompare già con l’utopia stoica, soprattutto con Giambulo.

Esso si collega con l’accusa più grave rivolta da Popper all’utopia, quella di totalitarismo. Strana accusa, che prende una categoria propria del ‘900 e la proietta nell’antichità e nella storia intera; la proietta anzi nella preistoria con l’idea bizzarra che il totalitarismo sarebbe una forma tribale in quanto la tribù assorbirebbe in sé l’individuo, e in quanto sarebbe retta da tabù anziché dalla ragione. Forse Popper avrebbe dovuto studiare meglio l’ordinamento tribale. Lo stato platonico sarebbe totalitario perché la classe dirigente dei filosofi vi esercita un potere dispotico; le classi subalterne sono totalmente soggette, senza voce alcuna, inchiodate alla loro professione e condizione; lo stato si pone come fine per l’individuo e ne fa un mezzo, uno stato organico, «olistico» («guardando a ciò ch’è il massimo bene per tutto lo stato, […] posponendo l’interesse dei singoli e collocandolo tra le cose di secondaria importanza», Leggi 923b); che perciò nega il privato («con ogni mezzo tutto ciò che si dice privato viene strappato alla vita dell’uomo», Leggi 739c); perciò sottopone a controllo la moralità e la virtù del cittadino.

Questa lettura di un Platone totalitario ha una sua verità, anche se è poco attenta e poco fedele allo spirito del mondo platonico; anche se il senso dei testi citati, quando siano letti attentamente nel contesto, è spesso altro. Totalitarismo significa potere totale, esercizio totale del potere, costrittivo della mente come della volontà e dell’azione, del cuore, della vita, della persona nel suo tutto; così come Orwell ha tentato rappresentare in 1984, con efficacia grande. Nella Repubblica il governo del filosofo non è inteso com’esercizio di un potere, e tanto meno oppressivo; perch’egli governa contemplando il divino modello, attingendo non da sé ma dal dio, e mirando al più alto bene della città, alla saggezza e alla virtù. E però resta vero, e singolare, che in questa città v’è un divario abissale di classe; che Platone si disinteressa totalmente delle classi subalterne e non riconosce loro nessun diritto politico; e neppure dignità etica o virtù, in quanto le tre virtù fondamentali – sophìa, andreia, sophrosyne – sono possedute dai soli custodi e da essi ricadrebbero sugli altri; con la conseguenza di una città viziosa che, non si sa come, si compensa nella virtù dei governanti. Queste classi, poi, come s’è visto, sono chiuse «per natura», ognuno fissato alla sua professione; il che esclude ogni mobilità o promozione, ogni velleità promotiva, o eversiva, ogni possibile mutare della loro radicale subalternità, della loro menomazione umana. Una concezione castale che, per quanto in certa misura si richiami a Sparta, risulta strana nella città ellenica, la quale s’incentra nel cittadino, nella sua libertà. Anche nelle Leggi il governo è riservato ai 5040 cittadini assegnatari e usufruttuari esclusivi del terreno, una specie di aristocrazia fondiaria alla quale il lavoro manuale come il commercio sono vietati; gli artigiani sono controllati nel numero, nella specialità, nella collocazione in città o in campagna; il commercio è affidato agli stranieri, che possono restare per non oltre vent’anni; gli schiavi lavorano la terra.

Dicevo che questa dequalificazione delle classi subalterne scompare già nell’utopia stoica in forza del principio di eguaglianza che nello stoicismo si afferma; particolarmente in Giambulo, dove non v’è nessuna stratificazione sociale, nessun disprezzo del lavoro, da tutti condiviso. Nell’Utopia di Thomas More, il modello da cui parte la grande fioritura dei moderni progetti utopici, non v’è nessun esercizio totale del potere; semmai un esercizio popolare, su base familiare; poi che dalle famiglie provengono le prime magistrature – filarchi, protofilarchi – e dalle famiglie coi filarchi vengono discussi i problemi più importanti della città, discussi anche in un’assemblea di tutta l’isola. Non v’è nessuna egemonia e discriminazione di classe: anche qui il principio di eguaglianza, il principio universale del lavoro e della sua dignità ha dissolto ogni stratificazione sociale; di lavoro manuale e mentale, lavoro ed ozio. V’è semmai un residuo elitario, un gruppo che la comunità in base alle doti destina agli studi, esentandolo dal lavoro manuale, e che coprirà poi le più alte magistrature. Pochissime leggi, governo di tipo paterno. V’è poi quel principio di razionalità nella distribuzione dello spazio e del tempo, e quelle minute prescrizioni di vita – l’abito, le mense, i viaggi – che molti vedono come costrittive (qui come in altri progetti dell’utopia letteraria); e in parte lo sono. Ma non hanno nulla a che vedere con uno stato dogmatico e dispotico, con un potere oppressivo e distruttivo; piuttosto un ordine di vita, di una società strettamente coesa, società parca nell’uso dei beni anche se prospera; un ordine intimamente accettato e promosso, in cui la persona si realizza e si espande.

 

5. Il grossolano malinteso sul modello sovietico come utopia

Quando parla di utopia totalitaria Popper pensa al modello sovietico; accanto a lui stanno Kolakowski, Jonas (Das Prinzip Verantwortung , Frankfurt a.M., 1979; Torino, 1990) e moltissimi altri studiosi. Per i quali l’utopia è la preistoria di quel modello, che verso quel modello tende e, quando esso si realizza, lo diventa; con la pretesa di costruire l’uomo nuovo annientando il vecchio, annientandolo anche fisicamente, costringendo il suo pensiero e la sua azione e tutto il suo essere nel più radicale moderno dogmatismo e dispotismo. Stalin, Mao, la «rivoluzione culturale», il «gulag» ne sono le espressioni più tipiche; ma il modello è il medesimo ovunque si sia attuato; «l’utopia realizzata è l’inferno realizzato». Perciò, dopo ch’è avvenuto il «crollo», «l’utopia è morta».

V’è in tutto questo un grossolano malinteso. È vero che l’utopia letteraria è in certo modo la preistoria del socialismo, e come tale è stata considerata fin dalla seconda metà dell’800, quando è iniziata la storicizzazione dell’una e dell’altro (così in J.J. Thonissen, Le socialisme depuis l’antiquité jusqu’à la Constitution française du 14 janvier 1852, 2 voll., Paris, 1852; R. von Pöhlmann, Geschichte der sozialen Frage und des Sozialismus in der antiken Welt, 2 voll., München, 1893-1901; recentemente in G. Spini, Le origini del socialismo.Da Utopia alla bandiera rossa, Torino, 1992). Perché, pur nella varietà dei progetti letterari, premevano in ambedue le stesse fondamentali istanze: il principio di eguaglianza e quindi il superamento della stratificazione sociale, delle classi; la socializzazione e comunione dei beni; la dignità del lavoro; l’elevazione della condizione popolare, la fine della scarsità e della povertà.

Ma il modello sovietico non è il socialismo bensì il suo opposto; anche se ha avuto l’arroganza di chiamarsi «socialismo reale» nessuno, al di fuori di lui stesso, lo ha mai riconosciuto tale, nessuno oggi lo riconosce; non è utopia ma il suo opposto, «distopia», società perversa. È partito sì da un progetto utopico, quello marxiano e marxista: la fine dell’alienazione (del lavoro dipendente salariato sfruttato), fine della contraddizione (tra produzione associata e appropriazione privata, quindi tra lavoro e capitale, proletariato e borghesia; tra organizzazione e anarchia della produzione; tra dignità e asservimento della persona); proprietà associata dei beni di produzione; radicale eguaglianza, fine della discriminazione di classe; dignità del lavoro, del reddito, delle condizioni di vita; «da ognuno secondo le sue possibilità, a ognuno secondo i suoi bisogni»; il «regno della libertà». Un progetto che può sembrare troppo complesso per esser realistico; e quindi utopico nel senso deteriore dell’immaginario e del sogno; anche perché si parla di «uomo nuovo», di «nuova società».  Ma bastava una sola misura ad avviare tutto, la riappropriazione del capitale privato alla comunità d’impresa, l’autopossesso e l’autogestione dell’impresa di ogni tipo; bastava una sola legge che trasferisse il capitale alla comunità di lavoro. Dico ad avviare, perché il resto si sarebbe potuto costruire nel tempo.

Ciò che bloccò il progetto fu la presa di potere del partito bolscevico, che rovesciò la rivoluzione popolare dei «soviet», quella del febbraio 1917, l’autentica, combatté i soviet e in quattro anni li annientò, per instaurare la dittatura del partito sul proletariato. Una dittatura non solo collettiva ma individua, che si esprime e si esaspera in un vertice, in un dittatore, un despota di tipo «asiatico»; una dittatura anche ideologica, basata sul marxismo, o meglio sul marxismo-leninismo-stalinismo; uno stato di polizia come strumento necessario della dittatura, che controlla la soggezione del cittadino; mentre procedeva all’assegnazione dei beni di produzione non ai «lavoratori associati» ma allo stato e al suo controllo, al controllo del partito e del dittatore. Una congerie di distorsioni che sconvolgeva il moderno processo di liberazione, poi che sopprimeva la libertà (le libertà), e con essa la dignità e il diritto della persona; quindi la sovranità popolare, la democrazia; affermava l’eguaglianza ma insieme la negava nella nuova classe di potere; dopo aver soppresso il capitale privato ristabiliva l’alienazione del lavoro, il suo asservimento e sfruttamento nel capitale di stato. Questa congerie di distorsioni diventava un modello, egemone a livello planetario, dovunque era in atto l’azione e la lotta del movimento operaio con le sue organizzazioni sindacali e politiche; ch’erano poi i partiti comunisti, che mutuavano quel modello e lottavano per imporlo nonostante le sue aberrazioni. E in realtà s’imponeva nell’Europa orientale (in parte con le armi), nella Cina e nei suoi satelliti, si espandeva nel Terzo Mondo.

L’attribuzione di questa congerie di distorsioni all’utopia, alla tradizione utopica non ha senso. Vi sono certo dei punti di contatto, quelli già emersi nel progetto originario della rivoluzione. Il maggiore, il punto cui più è sensibile l’Occidente borghese è la comunione dei beni, che nell’utopia (o almeno in una sua corrente maggioritaria) appartengono alla comunità e sono da tutti condivisi; in una comunione anche di lavoro, di vita, di affetti; con una differenza abissale dallo statalismo sovietico. Così l’eguaglianza, che però è autentica; e in essa la condivisione del lavoro, che non è asservito allo stato.

       Ricercare qui le radici reali del processo che porta alla distorsione dogmatico-dispotica non è possibile se non per accenni. Bisogna probabilmente rifarsi alla parte viziosa del marxismo, e in essa all’apporto di Lenin; così nella prima e nella seconda Internazionale l’accentuarsi del ruolo del partito comunista, e con esso il formarsi di un’ortodossia, che lotta aspramente contro la corrente proudhoniana ed «anarchica» (contraria all’accentramento delle forze di produzione nelle mani dello stato), e contro la socialdemocrazia. Così lo storicismo, che consacra lo schema di processo marxiano com’esito «necessario» della storia (quindi la tensione estrema tra le due classi antagoniste, la rivoluzione, l’avvento del proletariato come classe egemone ed unica), e che contribuisce al dogmatismo. Dove lo sbocco nella società comunista tende ad assumere un carattere definitivo e finale; anche se non lo ha, perché è piuttosto considerata come l’inizio della «storia» dopo la «preistoria». Qui l’accusa di «millenarismo» da parte di Jonas e di altri.

 

6. Il senso autentico e «storico» dell’utopia, il suo affacciarsi lungo il ‘900

        La corrente demolizione dell’utopia sbaglia obiettivo: si avventa contro il fatto filosofico-letterario, che dell’utopia è solo un momento accessorio; contro il modello sovietico, che non è utopia ma distopia, il suo opposto. La realtà più profonda dell’utopia non è letteraria ma storica; non è l’opera di un filosofo o di un narratore, ma di un movimento di popolo, di una catena di movimenti; non sta in un libro ma in un processo storico. Questo è il punto da capire, e che la maggior parte degli studiosi ignora.

L’intuizione di questa collocazione più profonda del progetto umano di società, della sua elaborazione, questo senso più profondo e decisivo – dicevo – affiora per la prima volta nella critica marx-engelsiana del socialismo «utopistico»: l’istanza che il progetto non esca bell’e fatto dalla testa di un autore ma si elabori nella dinamica storica. Un’intuizione che si va sviluppando lungo il secolo appena concluso, il ‘900, attraverso l’opera di tre studiosi ebraici che portavano in sé l’eredità di un’utopia storica, il messianismo: Karl Mannheim (Ideologie  und utopie, Bonn, 1929; Bologna, 1957), Martin Buber (Pfade in Utopia, Heidelberg, 1946; Milano, 1967), Ernst Bloch con la sua grandiosa e pletorica opera, Il principio speranza (Frankfurt a.M., 1953-59; Milano, 1994). L’intuizione si sviluppa lungo il filo esile della riflessione di tre autori, mentre imperversa ovunque, nelle storie dell’utopia come nei saggi, negli scritti di ogni tipo, il vasto pregiudizio che sopra ho ripresentato e affrontato.

Mannheim per primo comprende l’utopia come un fattore della storia: il fattore creativo-eversivo; che di volta in volta rompe l’ordinamento esistente per instaurarne uno nuovo; fattore quindi di novità e innovazione; di cui è portatrice una classe in ascesa, che infrange il potere della classe dominante così come l’ideologia con cui essa giustifica il suo potere; l’ideologia essendo il fattore di conservazione. Mannheim non è in grado di esplorare la vicenda dell’utopia, la sua esemplificazione è scarsa e contraddittoria. Soprattutto non capisce che l’utopia non può essere un fattore qualunque, neutro, o anche perverso; non un’innovazione qualunque ma un’innovazione liberatrice, promotiva dell’umanità; l’utopia-eutopia essendo la società buona, giusta; il senso inteso già da More, dall’inesausta ricerca umana.

Nel piccolo prezioso libro di Buber vi sono solo degli spunti, in quella ch’è una sintesi del pensiero socialista, per medaglioni, attento anche alla sperimentazione. Nell’utopia è in gioco un «dover essere», ciò che l’uomo «deve» realizzare; ed è il «giusto», la grande categoria del messianismo ebraico, in cui l’uomo deve «ristrutturare la società», nell’«ordinamento giusto». Ed è, questa, la «speranza primordiale di tutta la storia», che dunque copre l’intera storia umana; ed è per l’uomo un’«ansia», nel suo premere come dover essere, come compito imprescindibile; e però insieme una «speranza»; lungo l’intera storia umana si prospetta quest’ansia e speranza, e questo impegno per la giustizia, per una società di giustizia.

Bloch riprende l’intuizione di Mannheim in termini grandiosi e decisivi: l’utopia non è più solo un fattore ma il processo della storia; è anzi, per lui, il processo della realtà intera ch’è materia,  dotata di una forza propulsiva che la fa evolvere dalla condizione primordiale verso forme sempre più complesse ed armoniche; fino all’uomo, alla società, alla civiltà, alla sua crescita, alle sue espressioni molteplici; fino al rientro dall’alienazione, al comporsi delle contraddizioni, al «regno della libertà», alla «democrazia vera». Il «processo storico-utopico» viene dunque inteso nel suo corso benefico, ma forzato nel consueto schema di materialismo storico-dialettico del marxista; schema aprioristico, arbitrario, già demolito dallo stesso Engels nelle lettere della maturità. Mentre doveva essere sviluppato in termini autenticamente storici, di eventi, movimenti, accadimenti.

 

7. La ricostruzione del processo storico: i movimenti religiosi di salvezza

        L’utopia-eutopia è dunque il progetto di una società buona, giusta, che si elabora nel processo storico umano, processo di umanizzazione; è il progetto-processo che percorre la storia umana e la trasforma. Su questa linea luminosa si sviluppa la ricerca seguente, che concretizza il processo, individuando una catena di movimenti di popolo in cui il processo scorre, il progetto si elabora. I «movimenti religiosi di salvezza» e cioè il messianismo ebraico, l’annunzio evangelico, il millenarismo, l‘eresia medievale e moderna; i «moderni movimenti rivoluzionari», le rivoluzioni moderne che già ho introdotto, cioè la Rivoluzione inglese del Lungo parlamento, la Francese, il movimento operaio, la Rivoluzione russa, la Contestazione degli anni 1960-70 (ho sviluppato questo processo in L’utopia. Rifondazione di un’idea e di una storia, Bari, 1997). Un processo di circa tremila anni, se si pongono i primi inizi del messianismo ebraico nell’età davidica, verso il 1000 a.C.; se si considera ad esempio l’oracolo di Nathan a David e i primi salmi messianici (2Sam 7, 1; 1Cron 17).

        La categoria centrale del messianismo ebraico è la giustizia. Il «messia», il consacrato è previsto come colui che farà giustizia al suo popolo liberandolo dalla schiavitù dei grandi imperi in cui nei secoli si trascina; e costruirà una società di giustizia, dove non vi saranno più né tiranno né oppressore, dove il povero, l’orfano, la vedova saranno protetti. Questi temi sono ricorrenti nei Profeti, nei Salmi. Il tema della giustizia è ripreso con forza dall’annunzio evangelico, nel rifiuto della ricchezza (la ricchezza espropriatrice) e del potere; ed è insieme trasceso in un tema più alto, il rapporto fraterno, la legge dell’amore. Due movimenti di enorme portata: il primo coincide con un millennio di storia di un popolo piccolo ma di grande peso culturale; il secondo fonda l’evento cristiano e con esso la storia dell’Occidente.

Possiamo dire che a questo punto il progetto utopico umano è già impostato: la società di giustizia, la società fraterna. Un progetto che si svilupperà e definirà via via nella storia; a differenza dalla definitezza dei progetti letterari; un progetto, si può dire, che si riprogetta sempre.

Il millenarismo (nella sua duplice linea, prima ebraica, poi cristiana) riprende con forza il progetto. Ha una componente mitica, nell’attesa di un’imminente età di giustizia, amore, prosperità, pace; ma l’intensità dell’attesa corrisponde alla protensione e al bisogno umano. Perciò la sua forte incidenza popolare, forte presenza in grandi eventi come la Riforma, la Rivoluzione inglese, i Padri pellegrini; il suo percorrere tutta l’era cristiana raggiungendo il punto più alto nell’800 americano. L’eresia medievale non è se non il tentativo di riprendere l’annunzio evangelico nella sua purezza in un’età di forte degradazione della società cristiana; e così l’eresia moderna, soprattutto nei movimenti alternativi, l’anabattismo, il puritanesimo; il quale ultimo trasferisce il progetto dal religioso nel politico e scatena la prima delle rivoluzioni moderne, la Rivoluzione inglese, ch’è satura di religiosità.

 

7. Le rivoluzioni moderne, la costruzione della società di giustizia

        Le rivoluzioni moderne costituiscono come un unico evento che si sviluppa nella curva di acquisizione-alienazione-riacquisizione e pervade così la modernità. In quest’evento possiamo riassumere la modernità nel suo intero. V’è ogni volta il grande apporto della fase creativo-eversiva; cui segue una fase alienativa, di scacco, di rigurgito delle forze reazionarie; ch’è però insieme consolidativa e diffusiva dall’acquisito; cui segue una riacquisizione a un grado più avanzato e più alto. Con le rivoluzioni si passa dal progetto alla costruzione della società di giustizia. I cui momenti principali possono essere qui rapidamente percorsi.

        Anzitutto l’acquisizione dei grandi principi etici della coscienza moderna: il principio di dignità e diritto della persona umana, già aperto dall’Umanesimo del ‘400; il principio di libertà e delle libertà, di eguaglianza, di sovranità popolare nella Rivoluzione inglese (il principio di ragione e interiorità proviene dalla ragione moderna, il principio di solidarietà dalla coesione rivoluzionaria e operaia). Questi principi – e altri che via via si acquisiscono – si fissano nelle Carte dei popoli: il Patto del popolo inglese del 1647, la Dichiarazione d’indipendenza americana del 1776, la prima Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, le Costituzioni democratiche a cominciare da quella americana e da quelle francesi; fino alla Carta Atlantica, al Patto dell’ONU, alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 2000. Così fissati premono per la loro attuazione: il principio di eguaglianza, ad esempio, ancora largamente inevaso; mentre la parità uomo-donna ha ripreso slancio dal movimento femminista della Contestazione. Queste Carte proteggono la coscienza e la prassi umana dalle oscillazioni dell’ambito filosofico e intellettuale, in particolare dalla grande crisi della ragione che ha portato al nihilismo e al postmoderno. La «crisi dei valori», la distruzione niciana e heideggeriana della morale hanno scarso risalto nel più vasto mondo umano; il pensiero filosofico non è se non una piccola parte del pensiero umano. 

         Nella Rivoluzione inglese s’imposta anche il modello democratico, nella forma mediata e rappresentativa; ripreso poi, con più forza, dalla Rivoluzione francese con l’abbattimento del modello monarchico-aristocratico che aveva dominato l’intera storia umana; con punte di democrazia diretta; si allarga in seguito sino al suffragio universale; si universalizza.

Ancora nella Rivoluzione francese viene abolita per la prima volta la schiavitù (nel 1784); che lungo l’800 sarà abolita ovunque; finalmente, un così vergognoso obbrobrio umano. Dal 1789 inizia l’abolizione della pena di morte, che avrà un itinerario più lungo e difficile.

Tra la Rivoluzione francese e la Russa si sviluppa il movimento operaio, che con la sua lotta di oltre un secolo trasforma la condizione popolare; la quale era stata sempre una condizione di duro lavoro (specialmente contadino), scarsità, ignoranza e analfabetismo, nuda imprevidenza, sfruttamento, oppressione; la va redimendo in dignità del lavoro, ascesa del reddito, istruzione, sicurezza sociale, modesto benessere. La Rivoluzione russa, la presenza dei partiti comunisti rafforzano questa lotta e le sue conquiste; anche se molto ancora resta da raggiungere, a cominciare dalla dipendenza e dallo sfruttamento del lavoro.

         Con la Prima guerra mondiale cadono gl’imperi continentali, l’asburgico, il prussiano, il russo, l’ottomano; l’impero cinese era caduto già nel 1912, quello giapponese cadrà con la Seconda guerra mondiale; quando hanno fine anche gl’imperi coloniali, si afferma il principio di autodeterminazione dei popoli. L’umanità si è dunque liberata dagl’imperi, dal loro mito di grandezza come dalla loro realtà di oppressione.

La Contestazione degli anni 1960-70 è certo una rivoluzione atipica: perché non propriamente popolare, e perché non affronta se non marginalmente l’istituzione; ma sovverte il costume (ne affermo, qui come altrove, il carattere rivoluzionario, anche se so che pochi lo condivideranno: un evento ancora universalmente incompreso). Afferma la libertà e il diritto del figlio, del giovane, la dignità e il diritto della donna, del «diverso», del disabile, del malato mentale, delle minoranze razziali ed etniche. Negli anni 70, con la crisi del petrolio e con le ricerche sui «limiti dello sviluppo», decolla il movimento ecologico: si afferma il principio del rispetto della natura, rispetto dell’animale come fratello minore dell’uomo. Col crollo del comunismo sovietico e la fine della guerra fredda si rafforza la coscienza e volontà di pace: per la prima volta nella storia si riducono e distruggono gli armamenti, si riducono gli eserciti permanenti (se si pensa alla follia degli arsenali atomici, al folle numero delle testate nucleari, alla follia delle armi chimiche e batteriche); le zone di pace si allargano, le due Americhe, l’Europa occidentale, poi l’Orientale (tranne il Caucaso e il problema delle etnie russe).

 

        Questo dunque il processo costruttivo in atto, la costruzione della società di giustizia. Un processo già avanzato, anche se enormi problemi restano ancora da affrontare: a cominciare dalla grande discriminazione di capitale e lavoro, di ricchi e poveri, la povertà nel mondo, la povertà tra noi, la fame, la disoccupazione. Il problema della libertà nelle monarchie assolute e nella dittature asiatiche, africane; nelle teocrazie, nel mondo islamico; la tolleranza. Il problema dell’eguaglianza che l’ideologia borghese (e i suoi teorici, Rawls ad esempio) tende addirittura a considerare inesistente, insignificante. L’anomia: nevrosi, droga, devianza.

 

8. Storia dell’umanità e utopia storica, il senso autentico dell’utopia

        Ho dunque ricostruito in termini sintetici, forse schematici (necessariamente), una storia, un percorso di storia di tremila anni. Cha parte dal vicino Oriente, passa in Occidente, elabora un progetto, sviluppa un processo. Lo sviluppa in Occidente ma non è occidentale soltanto, i suoi principi essendo universalmente umani; rispondenti alla dignità e al diritto della persona umana. Principi come «non uccidere», «non asservire il tuo simile», «non sfruttarlo, non opprimerlo», «uomo non asservire la donna». Un processo universalmente umano e che si universalizza. Pur tra inevitabili difficoltà: la resistenza del mondo islamico, ad esempio, che in questa fase particolarmente risentiamo. 

        Nei trecento anni della fase costruttiva una storia di realtà, di fatti; non di interpretazioni. Nell’insieme una ricomprensione altamente positiva della storia umana, che demolisce il pessimismo e scetticismo storico corrente, la storia di erranza e di naufragio, di catastrofe, la riduzione del progresso a mito. Il progresso non è un mito ma la realtà della storia umana; un progresso non lineare, la storia essendo sempre complessa e travagliata di svolte, deviazioni, riflussi; non lineare se non nella visione di poi, nella ricomprensione globale. Un progresso non soltanto scientifico-tecnologico, come taluni pretendono, o economico, materiale (lo distinguono come «sviluppo», trovandolo poi problematico, nell’anarchismo e nello spreco della società capitalistica); ma innanzitutto e soprattutto etico e politico, squisitamente umano.        

 

        Questo dunque si rivela oggi il senso dell’utopia, il suo fondamentale senso: il progetto di società che l’umanità elabora nel tempo, società di giustizia, società fraterna; lo va elaborando sempre, riprogettando sempre; e insieme, da un certo punto in poi, lo va costruendo, lo ha già in parte costruito; in un cammino certo difficile, contrastato; e tuttavia fecondo. Il cui esito futuro ci è ovviamente ignoto; il cui intero corso fonda tuttavia la nostra speranza (la categoria riscoperta da Bloch), il nostro impegno.

L’utopia filosofico-letteraria, pur nel suo grandioso sforzo di progettazione, resta un fatto accessorio; che tuttavia, dalla Rivoluzione inglese in poi, e particolarmente dalla Francese, interagisce col processo storico. Penso che i letterati dovrebbero soprattutto studiare questa interazione, l’apporto al grande processo.

                                                                       Uscito sulla rivista francese "Raison présente", n. 141,2002/ su "Nuova Antologia", 137,       lug.-set. 2002

 

 

 

Arrigo Colombo

L’utopia storica. Il progetto e processo di liberazione dell’umanità

 

           L’utopia storica è il nuovo senso e la nuova realtà di questa categoria così  duramente, e anche banalmente, discussa e osteggiata; rispetto al vecchio e ancor sempre dominante senso dell’utopia letteraria (o filosofico-letteraria). È il progetto dell’umanità per la sua liberazione, la sua redenzione terrena;  e il processo liberatorio; rispetto al progetto degli autori. Che sia Platone con la sua Politeia, o l’Utopia di Thomas More, o La città del sole di Campanella, o qualunque altro degl’innumerevoli progetti  di società che, specie lungo l’evo moderno, si sono moltiplicati.       

Un progetto non astratto, non mentale, non soltanto pensato ed escogitato da un autore, espresso in uno scritto, in un libro; ma elaborato da un movimento di popolo, magari complesso, come può essere il messianismo ebraico, che in certo modo s’identifica con la storia stessa dell’Israele antico, ma si esprime soprattutto nella predicazione profetica che dalla metà del ‘700 a.C. si estende fino all’età alessandrina. E però i movimenti di popolo sono sempre complessi; anche quando durano pochi mesi, come la Guerra contadina del 1524-25, che porta con sé il progetto di una nuova società libera dall’oppressione aristocratica, e lo esprime in modo molteplice; e nasce dalla lettura e predicazione della Bibbia apportata dalla Riforma.    

Un progetto che è insieme processo, per la sua stessa natura, perché nasce in un movimento, in una tensione e azione liberatrice. E che diventa segnatamente processo di liberazione con la modernità, nell’età delle rivoluzioni e del movimento operaio, del trasformarsi della condizione popolare lungo la lotta che quel movimento ha condotto per oltre un secolo; quindi nella nuova condizione mentale, e nuova sensibilità e capacità di valutazione e di azione della gente. Diventa la costruzione di una società di giustizia; in corso, in atto da quella rivoluzione in poi, lungo gli ultimi tre secoli. Un punto chiave, che riprenderò subito.

 

1. L’utopia letteraria, il suo svilimento nell’immaginario e nell’irreale, il suo concreto apporto

L’utopia letteraria è ancor oggi dominante nella mente della gente come degli studiosi; la più diffusa, la più forte. È anzi ritenuta l’unica, per lo più. Perché la parola stessa così è nata e, pur evolvendosi, ha conservato per secoli quel suo originario senso. E perché è stata portata da un’enorme fioritura di opere, i progetti degli autori, che corrono lungo la modernità; e già prima nel mondo ellenico. E ancora per il forse più banale ma consistente motivo che l’utopia è studiata anzitutto da letterati; i quali studiano l’utopia letteraria, e quella conoscono, di quella parlano e scrivono.

Ad essa si accompagna l’idea prevalente dell’utopia come progetto immaginario, fantastico, una società puramente immaginata, o sognata; quindi una società irreale e irrealizzabile, società chimerica. Anche perché sarebbe la società ideale e perfetta; ed è ovvio che, se ideale, non è né può esser reale; e che una società perfetta non si dà né può darsi nell’ambito dell’umano, dell’umana finitudine e caducità, dove perdura l’errore e la colpa. Il progetto bello ma impossibile; di cui si dice «è un’utopia…». A decine si potrebbero addurre gli studiosi che tale la ritengono; studiosi anche di prestigio; che sanno, o credono sapere.

 

Il topos della società ideale proviene certo da Platone, dalla sua dottrina di una verità divina, d’idee e archetipi divini che l’uomo avrebbe contemplato prima della caduta, e al recupero dei quali è ancor sempre rivolto, in quell’ascesa al divino che lo redimerà dal ciclo delle reincarnazioni. Sì che una città, libera in certa misura dai mali che hanno afflitto sempre le città terrene, non potrà costruirsi se non dal filosofo che contempla il «divino modello»; una città che corrisponda il più possibile all’idea, pur non potendola eguagliare; poi che è chiaro che non può essere l’eguale dell’idea divina ma solo qualcosa che le assimila, tenta di assimilarlesi; non può essere l’ideale ma solo qualcosa che verso di lui è proteso. E anche il topos della società perfetta gli appartiene in qualche misura, se si pensa a certe espressioni,  come quella di una città «compiutamente buona», di una costituzione che attraverso l’azione del filosofo «si fa compiuta, perfetta»; o forse soltanto «la migliore possibile», espressione ancora troppo alta e presuntuosa, ma anche consapevole del limite (Repubblica, IV, 427e; VI, 499a; IV, 434e).

Anche Moro, nel titolo stesso della sua piccola grande opera, poi nel testo, parla «dell’ottima forma di stato»; di una forma tanto altamente intesa che, «per quanto all’umana congettura è dato presagire, durerà in eterno» (Utopia, ed. Yale, New Haven, 1965, pp. 236, 244). Un’espressione che probabilmente si ricollega all’idea antica della «costituzione migliore», o di quella che in certa misura potrebbe dirsi tale; con un significato inquisitivo, più che assertivo. Un’espressione  iperbolica, tuttavia, che, se presa alla lettera, coinvolge certamente l’idea di perfezione, di definitiva compiutezza, in cui si esaurisce e si blocca la creatività storica umana, si arresta la storia. Ma non è questo il pensiero di Moro, se si considerano in particolare le perplessità che, verso la fine del libro, egli esprime su quella «forma di stato» ch’egli è andato esponendo: «Non poche tra le usanze e leggi di quel popolo mi parevano davvero stabilite con assurdità, non solo quanto al modo di condurre la guerra, alla religione e al culto, ad altre loro istituzioni» (p. 244). Perplessità che sono poi le stesse che noi proviamo di fronte a questo progetto utopico, come di fronte ad ogni altro progetto dell’utopia filosofico-letteraria, ad ogni progetto umano.

Il topos della società ideale e perfetta viene contrabbandato come proprio non solo dell’utopia letteraria ma dell’utopia come tale; anche perché lo si elabora in polemica con una certa definitività presente nel pensiero marxiano, o in quello leniniano; in polemica col comunismo e col marxismo. Ma per Marx finisce la «preistoria», non la «storia» umana; per il Lenin di Stato e rivoluzione finisce lo stato come struttura di potere (in teoria, almeno; in pratica il partito egemonico, concepito da lui in assenza di una vera classe operaia, instaura un più acuto potere dispotico). In realtà i progetti degli autori moderni sono consapevoli dei loro limiti; il loro stesso continuo riprodursi è il segno di un incessante e mai appagato sforzo di capire come dovrà essere la società per liberarsi dai suoi mali.

 

Che la stessa utopia letteraria non sia un fatto puramente immaginario, lo si vede con chiarezza negli stessi suoi capostipiti Platone e Moro. Anche se, nell’insieme di una così ricca produzione, vi sono certamente progetti di pura fantasia, come anche progetti bizzarri e giocosi. Questo nessuno lo esclude; ma la considerazione deve andare all’insieme, al significato e intento globale di questa progettazione.

Quando Platone scrive la sua Politeia, intende elaborare un progetto politico autentico, che possa liberare la città ellenica dai suoi mali. Ha infatti dietro a sé un periodo durissimo della democrazia ateniese che, dal 411 al 399 a.C., vede succedersi l’oligarchia del Consiglio dei Quattrocento, la sconfitta nella guerra con Sparta, i Trenta Tiranni; e nel 399 cade anche il supplizio di Socrate, il maestro incomparabile, e incomparabilmente amato. È in questa prospettiva ch’egli pensa ad un ordinamento  nuovo della città; ordinamento certo insolito, con quei filosofi al governo, quel loro vivere in comunione di donne e bambini, quel disdegno per tutto il rimanente popolo. Lo pensa tanto seriamente che farà per questo tre viaggi in Sicilia, dove ha intravisto in Dione di Siracusa un possibile principe filosofo; nel secondo viaggio avrà sessant’anni anni, nel terzo 66; e nel secondo verrà anche venduto come schiavo e, per sua fortuna, finirà sul mercato di Taranto e sarà liberato dal pitagorico Archita (si veda per questo la Lettera VII). Ma tutto ciò non lo distoglie dal suo impegno: riconsiderando il suo progetto e trovandolo difficile per una già consolidata città ellenica –  anche se ancor sempre il più autentico – lo rimodella nelle Leggi, che pensa di poter realizzare in una colonia.

Quando Thomas More scrive la sua Utopia, ha ben presente la società del suo tempo e i suoi mali, di cui fa un’analisi penetrante e dolorosa nel Primo libro dell’opera; ritornandovi ripetutamente nel Secondo. Cui contrappone il suo progetto, proiettato nell’isola remota, come quello che a quei mali potrà porre un consistente rimedio; anzitutto attraverso l’abolizione della proprietà. Si ricordi il passaggio famoso: «Dove i possessi sono privati, dove tutto si misura col denaro, lì difficilmente potrà mai accadere che un regime si comporti secondo giustizia e prosperità; a meno che tu ritenga che si agisca secondo giustizia là dove le cose migliori vanno ai peggiori, o secondo prosperità là dove  tutto si divide tra pochissimi. […] Sono profondamente convinto che i beni si potranno distribuire secondo ragione di giustizia e di eguaglianza, che i problemi degli umani si potranno affrontare felicemente solo eliminando affatto la proprietà. Finché essa rimane, graverà sempre sulla parte di gran lunga maggiore e migliore dell’umanità [il popolo] il peso dell’indigenza, il fardello angoscioso e inevitabile del dolore» (Utopia, cit., pp. 102-104). L’abolizione della proprietà, di quella che è stata sempre la grande discriminazione, la radice di ogni altra; ma potrebb’essere anche la generalizzazione della proprietà attraverso il ridistribuirsi della ricchezza secondo principi di equità, e di contenimento delle sperequazioni; in una società prospera e solidale. Società di popolo, di autentica democrazia, che Moro imposta su base familiare.

 

Il nesso dell’utopia letteraria alla storia emerge con chiarezza se si considerano le condizioni in cui sorge e si sviluppa; se ci si chiede perché sia sorta in certi tempi e spazi, e non in altri.

Il fondamento storico dell’utopia letteraria ellenica è la polis. È un mondo di città-stato, ognuna con la sua costituzione e le sue leggi; e poi di colonie che si rifanno alla madrepatria, ma che hanno anche una peculiarità loro (si pensi ai sodalizi pitagorici che hanno retto le colonie calabre); in cui è in atto una intensa attività di progettazione politica. Che ci è attestata dai nomi dei legislatori, giunti sino a noi. Dove si sviluppa anche un processo di forte utopia storica, di costruzione di una società di giustizia: ad Atene, con la riforma prima di Solone, poi soprattutto di Clistene; la quale instaura fondamentali principi che in Europa si affermeranno solo con la Rivoluzione Inglese del Lungo Parlamento, e solo in parte: libertà, eguaglianza, sovranità popolare con autogestione assembleare della città, tribunali popolari, magistrature annuali a forte rotazione, sollecitudine estrema per la preservazione del potere di popolo. Un modello ancora ineguagliato di democrazia diretta (pur permanendo certi grossi vizi storici, come la schiavitù e l’asservimento della donna).

È in questa intensa attività, e in presenza del modello ateniese, che nasce l’idea del progetto «altro», l’idea della «costituzione migliore»; che ponga fine ai mali della città, che v’instauri una gestione armoniosa e giusta. Con Ippodamo di Mileto, che è un urbanista, e traduce il principio di un’urbanistica razionale nel progetto di una città razionale; con Falea di Calcedonia, nel quale il principio di eguaglianza si allarga; col progetto utopico-distopico dell’aristocratico Platone, così duramente avverso al popolo; coi più avanzati progetti stoici, nei quali cade la schiavitù come il disprezzo del lavoro, cade ogni stratificazione sociale; con Giambulo in particolare.

 

L’utopia letteraria moderna si sviluppa in un’età in cui le circumnavigazioni del globo hanno aperto spazi immensi al pensiero e all’azione umana; in cui già prima lo spazio storico s’è aperto, si è  affermato l’uomo nella sua dignità, nella sua forza autocostruttiva, nel suo dominio di natura e fortuna. Un’età dinamica, protesa all’innovazione, in cui si scatena l’evento rivoluzionario che con le sue quattro fasi la percorre tutta (l’Inglese; la Francese; il movimento operaio, il socialismo, la Rivoluzione Russa; la Grande Contestazione dei decenni 1960-70). La creatività rivoluzionaria, che avvia e sviluppa la fase costruttiva di una società di giustizia; cui verrò subito. Un evento incomparabile di utopia storica.

L’idea che è emersa, a suo tempo, è che alla base dell’utopia letteraria vi sia una tensione profonda dell’umanità sofferente nella società ingiusta, società aristocratica anzitutto e per millenni, verso una società altra in cui possa redimersi dal suo male di sempre: società di giustizia,  benessere, pace. Ma questa tensione starebbe ancor più alla base dell’utopia storica. Quello che noi abbiamo chiamato, con espressione desueta, «progetto popolare implicito».

 

L’utopia letteraria dev’essere considerata nel suo insieme, nella sua globalità, come un grandioso fenomeno, grandioso globale tentativo di progettazione politica; grandioso apporto d’idee, di strutture, di speranza all’umanità nel suo cammino di liberazione. La varietà dei progetti, o anche la contraddizione, non conta, il fatto che vi siano anche progetti conservatori o reazionari, esercizi letterari, progetti bizzarri o scherzosi; conta l’insieme, lo sforzo inesausto di capire come dovrà essere la società per liberarsi dai suoi mali; il progetto inesausto.

 

2. La genesi dell’idea di utopia storica

       L’utopia era nata come progetto politico giusto, informato da criteri alti di giustizia e di benessere, per una società universalmente ingiusta; mentre dominava ovunque la società ingiusta. Negli stoici e poi in Moro, e in gran parte della modernità, la fase della sua più ampia fioritura, il progetto  sta calato nell’ordinamento di un’isola o terra remota, o di un mondo astrale o sotterraneo, o di un futuro lontano; in quello che sarà chiamato «romanzo utopico»; proiettato sempre in un «altrove» perché il qui ed ora le si oppone. Ciò era avvenuto già prima nella fase mitica, come si vedrà subito. Questa proiezione, e non l’immaginario e irreale, tanto vanamente chiacchierato, caratterizza l’utopia letteraria; anche se l’immaginario è presente, certo, e talvolta prevale, in opere di pura fantasia; ma non per lo più, e non per l’insieme e il suo senso.

Il progetto politico giusto, pensato e proposto da un autore, con tutti i suoi limiti personali, classiali, culturali, storici, è il carattere originario e permanente dell’utopia letteraria; carattere definitivo, che cioè globalmente la definisce, inglobandone anche le eccezioni. L’utopia storica nasce quando si scopre che, al di sotto dei progetti degli autori, più profondo e decisivo, determinante anche per quei progetti, v’è un progetto dell’umanità elaborato da movimenti di popolo. Un progetto che, a differenza di quelli degli autori, può veramente trasformare la società perché è la società stessa che è protesa a trasformarvisi; la società che lo elabora, e potenzialmente l’intera società umana; perché la sua valenza, come superamento della società ingiusta, è universale.

 

2.1. L’intuizione marx-engelsiana

Questa intuizione si presenta, forse per la prima volta, in forma incoativa, nella critica marx-engelsiana di quello che i due autori, nel Manifesto del partito comunista, chiamano «socialismo critico-utopistico»; ripresa poi da Engels nell’Anti-Dühring. Critica che riserva solo un vago accenno a quelle che chiama «descrizioni utopiche di regimi sociali ideali», cioè all’intera utopia filosofico-letteraria; cui attribuisce «un ascetismo universale e un rozzo far tutti eguali». L’attenzione va piuttosto agl’«ingegneri sociali» dell’800 francese e inglese; in particolare a Saint-Simon, Fourier, Owen, indicati come i «tre grandi utopisti» in quanto in loro già si fa cosciente la condizione del proletariato (non ancora, però, la sua funzione storica), e s’illuminano punti importanti di critica della società in atto, e di previsione della società futura. Anche se il loro globale progetto risulta «fantastico»; così come di puro sogno è la loro attesa di trasformare la società sperimentando le loro «utopie sociali», illusi della «potenza dell’esempio», mentre «fanno appello alla filantropia dei cuori e delle tasche borghesi». Essi vivono una fase ancora immatura del socialismo, che non riesce a individuare nel proletariato il portatore storico del processo di liberazione.

Qui la fondamentale intuizione: che la società non può essere trasformata dal progetto escogitato da un autore, ma solo da un movimento in atto nella società stessa; movimento portatore di un progetto che si elabora al suo interno; che il movimento, e con esso la società, pone in atto. Non un progetto mentale, pensato, «scovato» (Manifesto, III, 3; Anti-Dühring, Introduz., I – MEW 4, 489-490; 20, 17-18).

Qui il primo affacciarsi dell’utopia storica, di contro all’utopia filosofico-letteraria. Non l’autore e il suo progetto, Platone, Moro, Campanella; o Fourier e gl’«ingegneri sociali»; non una sequenza di autori, una caterva di progetti escogitati, pensati, che solo lontanamente rispondono alla tensione della storia; le offrono delle idee certo preziose ma non hanno la capacità di metterle in atto, di trasferirle nel tessuto umano e popolare, d’instaurare quindi un processo di trasformazione. Perciò non il progetto di un autore o di molti autori, ma il progetto dell’umanità, il grande progetto umano, il progetto dell’umanità per la sua liberazione, per la sua redenzione terrena.

Questa intuizione marx-engelsiana rappresenta il più radicale punto di svolta nella storia dell’utopia. Non viene subito compresa; anzi non è compresa neppure oggi, nonostante che più di un secolo e mezzo sia passato; il campo dell’utopia essendo dominato – come già notavo – dai letterati, con qualche filosofo o politologo che ad essi si accoda; dagli studiosi di questo o quell’autore, questo o quel secolo di storia della letteratura o delle idee, questa o quella nazione (così per il ‘700 francese, il secolo più fecondo di progetti letterari, C. Rihs, Les philosophes utopistes, Rivière, Paris, 1970; B. Baczko, Lumières de l’utopie, Payot, Paris, 1978 [L’utopia, Einaudi, Torino, 1979]; così A.L. Morton, The english utopia, Lawrence & Wishart, London, 1952).

Dominato dalle piccole o grandi storie dell’utopia, che è ritenuta per eccellenza quella letteraria (tra le maggiori J. Servier, Histoire de l’utopie, Gallimard, Paris, 1967; F.E. Manuel, F.P. Manuel, Utopian thought in the Western world, Blackwell, Oxford, 1979; R. Trousson, Voyages aux pays de nulle part. Histoire littéraire de la pensée utopique, Université, Bruxelles, 1979). Il fatto singolare è che queste storie, consacrate all’utopia letteraria, quella stessa di Trousson che lo dichiara espressamente, contengono  capitoli o paragrafi che trattano del messianismo ebraico, del cristianesimo, del millenarismo; dell’anabattismo, della «guerra contadina»; delle rivoluzioni moderne, l’Inglese (nei Manuel, che preferiscono però evitare la parola che brucia, «rivoluzione»), la Francese e la Russa (in Servier, con discreto scetticismo). Trattano cioè di movimenti di un’ampiezza talora enorme, secolare e millenaria; che elaborano e perseguono progetti d’incidenza storico-epocale; di eventi, come le rivoluzioni moderne, che trasformano la società e la storia umana. Cui non si possono comparare i materiali libreschi, i progetti mentali, le idee di cui questi storici discorrono lungo tutte le loro opere con immutata convinzione; senz’accorgersi che proprio in quei movimenti si elabora il progetto dell’umanità, si elabora e poi si va realizzando, si va costruendo la società di giustizia.

Semmai quei movimenti vengono da essi ridotti a varianti del grande «sogno», della «chimerica illusione», proiettati sui progetti mentali ch’essi ritengono puramente «fantastici»; misconoscendo così anche l’autentico significato dell’utopia letteraria su cui già sempre ho insistito. L’intera utopia essendo da essi ridotta all’«immaginario sociale», all’«esercizio mentale sui possibili laterali», secondo la definizione di Ruyer, ripresa da Baczko, da molti altri; secondo la diffusa opinione di questi professionisti della fiction, la loro deformazione professionale, che l’utopia altro non sia che immaginazione, sogno, chimera; e nulla abbia a che fare con la realtà, con la reale storia umana (R. Ruyer, L’utopie et les utopies, PUF, Paris, 1950; B. Baczko, Les imaginaires sociaux, Payot, Paris, 1984).

Marx ed Engels sono feroci avversari dell’utopia; come poi tutta la corrente marxista, e comunista; feroci avversari dei progetti degli autori, dell’utopia letteraria; dei progetti escogitati e bell’e fatti. Perché pensano sempre a un processo storico in cui un movimento, che è quello operaio, andrà via via elaborando e realizzando il suo progetto. «Si creeranno da sé la loro prassi», loro, «la nuova generazione», dice Engels a proposito di come potrà essere la famiglia; dopo aver tuttavia stabilito che «solo il matrimonio fondato sull’amore è morale». E però, a un certo punto del Manifesto, come in altre opere, strutture di quel progetto compaiono, a cominciare dalla socializzazione dei mezzi di produzione, nelle mani però dello stato; dalla generalizzazione del lavoro; dall’educazione pubblica e gratuita per tutti; la fine dell’antagonismo e del dominio di classe, quindi una società aclassiale, società di liberi e di eguali; quindi la fine dello stato come potere di una classe per l’oppressione dell’altra; per «un’associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti». Strutture che diventano dogmatiche nel marxismo scolastico, e soprattutto nel comunismo sovietico; dove l’accentramento dei mezzi di produzione nelle mani dello stato-partito diventerà la base della sua dittatura sul proletariato, la base di un feroce dispotismo (Manifesto, II; Anti-Dühring, Introduz., I; Origine della famiglia, II; – MEW 4, 489-490, 481-482; 21, 83; 20, 17-18).

 

2.2. I maestri del ‘900

Lo sviluppo dell’idea di utopia storica  è lento, e distende lungo il ‘900 un filo esile, ignorato per lo più dai letterati; in cui compaiono però due grandi maestri, Karl Mannheim ed Ernst Bloch.  Ebrei entrambi, come anche Marx; che perciò conservano l’eredità dell’utopia messianica, la tensione utopica di quel popolo.

Mannheim (Ideologia e utopia, Bonn, 1929; tr. it., Mulino, Bologna, 1957) è il primo a compiere il passo decisivo, a intuire lo strato profondo, anche se in termini ancora inadeguati: e però l’utopia come un fattore della storia, il fattore creativo-eversivo, il quale di volta in volta rompe l’assetto esistente per instaurarne uno nuovo. Fattore di novità e innovazione, di cui è portatrice la classe in ascesa, che infrange il potere della classe dominante, così come l’ideologia con cui essa giustifica e supporta e mentalmente suggella il suo potere. Mannheim ricostruisce una dinamica storica di sempre, di cui l’utopia è il perno. Anche se difficile e sfasato gli riesce il riscontro storico, quando tenta d’individuare le incidenze del fattore utopico nella modernità; poi che non ha meditato abbastanza sulla storia. Soprattutto non ha capito che il fattore utopico non può essere un fattore qualunque, eticamente neutro, o anche perverso; non un’innovazione qualunque ma un’innovazione storicamente eversiva, e cioè dell’assetto ingiusto di sempre, del dominio di sempre, la classe dominante e oppressiva sempre, nell’intera storia umana. Una innovazione non marginale o apparente, un cambio di padrone; ma un’innovazione liberatrice, promotiva dell’umanità rispetto all’inumano. L’utopia essendo la società buona, giusta; il senso inteso già da Moro, perseguito dall’inesausta ricerca moderna, da quella stessa dei progetti letterari e filosofici. 

Bloch, (Il principio speranza, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1953-59; tr. it., Milano, 1994), riprende l’intuizione di Mannheim liberandola dal suo limite ed espandendola. L’utopia non più solo come un fattore ma come l’intero processo della storia umana; il processo anzi della realtà intera. Per lui, materialista dialettico, il processo che pervade anzitutto la materia e la muove, la sospinge verso forme sempre più evolute e complesse fino alla vita, poi fino all’uomo, alla società, alla civiltà, alle sue espressioni molteplici; la sospinge infine alla fase propriamente liberatoria, il rientro dall’alienazione, la fine delle contraddizioni, il «regno della libertà», la sua enigmatica «democrazia vera». L’utopia è dunque il processo della storia umana in quanto benefico, liberatorio per l’umanità.

Viene però forzato dal marxista Bloch entro uno schema che risente del processo hegeliano («il formidabile maestro senza di cui non si dà filosofare alcuno», espressione d’ingenua esaltazione) e poi marxiano, del materialismo dialettico. Un processo in atto da sé e da sempre «verso il meglio»; che ha la sua prima lunghissima fase nel divenire di natura; e nell’uomo si fa poi sentimento desiderio sogno (anch’egli risente di queste categorie, le phantastische Vorstellungen, il phantasievoller Blick), per farsi infine cosciente e diventare tensione realizzatrice. Un processo spontaneo e di per sé necessario, anche s’egli lo vede soggetto al rischio della frustrazione (Subjekt-Objekt, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1962, p. 489;  Das Prinzip Hoffnung, cit.,  pp. 163-165).

Un processo che non si genera da un’autentica condizione storica: la società ingiusta, la menomazione della persona umana, il diritto conculcato. E che non ha un’autentica connotazione etica: la trasgressione enorme, il «peccato del mondo», il progetto e la decisione liberatrice. Non ha un autentico soggetto storico, che lo genera e lo rigenera in una situazione e in un  tempo preciso: i movimenti di popolo, il popolo nella coscienza dell’ingiustizia cui soggiace, nella sua volontà e lotta di liberazione.

Il processo eversivo della società ingiusta, società di alienazione sfruttamento oppressione schiavitù, il processo liberatorio deve invece esser ricostruito in termini autenticamente storici, attraverso un’autentica ricerca storico-macrostorica e storico-filosofica; processo di movimenti e di eventi. Partendo dai movimenti in cui gli stessi storici dell’utopia letteraria avevano riscontrato una carica utopica, pur nel loro pregiudizio del progetto fantastico e irreale. Ciò che ha fatto Scuola di Lecce, il Centro di ricerca sull’utopia di quella università; e ha avuto la sua prima sintesi nel volume L’utopia. Rifondazione di un’idea e di una storia (Bari, 1997).

Al percorso di utopia storica del ‘900 appartiene anche la piccola opera di Martin Buber, un altro pensatore ebraico, Sentieri in Utopia (Schneider, Heidelberg, 1946; tr. it., Comunità, Milano, 1967). Che è una sintesi per medaglioni del socialismo ottocentesco, per mettere in risalto come il filone francese si protenda a trasformare la società attraverso la formazione di nuclei comunitari; mentre Marx, e poi Lenin, si affidano allo stato, centralizzando il processo, e quindi falsandolo. Compaiono qui, sia pure per accenni, alcune categorie fondamentali del processo utopico: il «giusto», il «dover essere» che al giusto avvince l’uomo, cui l’uomo è tenuto, la «ristrutturazione della società».

 

3. Il percorso dell’utopia storica

       Cioè del progetto dell’umanità per la sua liberazione, e del processo liberatorio. La ricerca storico-macrostorica porta all’individuazione di quattro fasi. La prima è la fase del progetto popolare implicito: più che una fase, è una tensione di sempre. La seconda è la fase mitica, o delle figurazioni simboliche; strettamente collegata con la prima. La terza è la fase della progettazione, in cui  si elabora il progetto dell’umanità (ma la progettazione continua poi sempre), ed è centrata nei movimenti religiosi di salvezza, in particolare il messianismo ebraico e l’annunzio evangelico. La quarta è la fase costruttiva, in cui si persegue la costruzione di una società di giustizia, e s’incentra nelle rivoluzioni moderne.

Un percorso di circa tremila anni; che corre all’interno della storia umana in cui domina la società ingiusta; e la va trasformando, segnatamente negli ultimi trecento anni, nella fase costruttiva; la va trasformando in senso universale, il progetto essendo universale, universalmente umano. Un percorso che può dirsi globalmente lineare, ma è in realtà discontinuo, fratto da arresti e da riflussi.

 

Per progetto popolare implicito s’intende una coscienza popolare che non è succube della società ingiusta in cui vive e da cui è oppressa, ma consapevole della sua dignità e del suo diritto, e protesa ad affermarlo, anche in modo forte. Ciò è dimostrato da tre ordini di eventi: la rivolta popolare, presente in tutta la storia umana, che risponde in genere a un diritto conculcato; i processi di democratizzazione, attraverso i quali il popolo, lottando, afferma il suo diritto a partecipare alla gestione della città, e la raggiunge, talora pienamente, talora in un certo grado (così nell’Atene antica; nella lotta secolare della plebe romana contro il patriziato; nei comuni medievali); le rivoluzioni moderne, che sono movimenti popolari eversivi della società ingiusta onde instaurare un ordinamento di più alta giustizia.

Si può dire che il progetto popolare sottenda l’intera storia umana e stia alle radici dell’intera progettazione e costruzione utopica.

 

La fase mitica si esprime in tre figurazioni simboliche: il mito edenico-aureo, che pone la società giusta e prospera all’inizio della storia umana; il mito escatologico, che la pone alla fine; il mito geografico, che la pone nel presente ma in una terra lontana. In questi miti si compie quella stessa operazione che Moro chiamerà «ou-topica», e che sarà propria del romanzo utopico: la proiezione del progetto popolare nell’«altrove», nel «luogo altro», la società altra; perché il qui ed ora, la società presente, sta sotto il dominio dell’ingiustizia, sta sotto un potere ingiusto e oppressivo che appare insuperabile. Onde Moro concluderà col famoso «desidero, più che spero».

Il carattere popolare di questi miti è fin troppo evidente perché le classi dominanti – l’aristocrazia, la borghesia – non si protendono su di una società altra; su di una società di giustizia che segnerebbe la fine del loro privilegio e potere; su di un benessere che già possiedono.    

 

3.1. La fase di progettazione

Si sviluppa da due grandi movimenti. Il messianismo ebraico anzitutto, che si estende dalla metà del secolo VIII a.C. (verso il 750 i primi profeti, Amos, Osea; nel 730 la vocazione d’Isaia; o anche dal Mille, dall’età davidica) all’età alessandrina; e la cui categoria centrale è la giustizia. Poiché il Messia, il consacrato, farà giustizia al suo popolo, schiavo dei grandi imperi (dal 722, caduta di Samaria sotto l’impero assiro; all’impero babilonese, al persiano, all’alessandrino, al romano); e instaurerà una società di giustizia, in cui non vi saranno più né tiranno né oppressore; in cui il debole – l’orfano, la vedova, il povero, le caratteristiche figure dei profeti e dei salmi – sarà protetto.

L’annunzio evangelico (non diciamo il cristianesimo, movimento troppo complesso, contrastato, contraddittorio) che s’innesta sul messianismo e ne eredita il progetto; con la sua profonda avversione e condanna per ricchezza (la ricchezza espropriatrice) e potenza, i due pilastri della società ingiusta, demistificati come forme del male; col suo annunzio ai poveri, la redenzione anche materiale del povero. Ma trascende la giustizia in una più alta e compiuta categoria che è l’amore, il rapporto fraterno. Sì che possiamo dire che a questo punto il progetto dell’umanità è impostato nella società di giustizia e nella società fraterna. Progetto certo altissimo, che l’umanità andrà via via comprendendo e sviluppando, e creativamente reimpostando; un progetto che si riprogetta sempre, nel farsi della storia umana, nella creatività storica, nella finitudine umana di sempre; un progetto cui l’intera storia non basterà.

Degli altri due movimenti religiosi di salvezza emersi in questa ricerca, il millenarismo – cioè l’attesa di un imminente glorioso ritorno del Cristo, e di un suo regno millenario di giustizia, prosperità, pace – è certo mitico, ma risponde alla profonda attesa popolare, e del popolo raccoglie il consenso e l’entusiasmo, talora anche la rabbia; e percorre i secoli raggiungendo la sua più alta fioritura nell’800 americano, nei movimenti ecclesiali che v’insorgono, i Mormoni, gli Avventisti, i Milleriti, i Testimoni di Jehova.

L’eresia medievale altro non è che un tentativo di ripresa dell’annunzio evangelico nella sua autenticità, in una fase di profonda degradazione mondana della chiesa e gerarchia ecclesiastica; sì che le sue categorie costitutive sono la povertà e il rapporto fraterno, in cui la gerarchia ecclesiastica viene negata. Si distende perciò in una catena di movimenti sempre aspramente combattuti e annientati, e sempre risorgenti in nuove forme. Per trapassare poi nell’eresia moderna, il luteranesimo e il calvinismo, in cui si tenta d’instaurare una chiesa di popolo, anche se non pienamente fraterna; più forti nell’evangelicità le forme eterodosse come l’anabattismo; e poi il puritanesimo, che trasferisce quello che sin’allora era stato un progetto e un tentativo comunitario ed ecclesiale, lo trasferisce nel politico e scatena la prima delle rivoluzioni moderne.

 

3.2. La fase costruttiva

Le rivoluzioni sono le principali protagoniste della fase costruttiva che si sviluppa nella modernità; e in questa ricerca ne emergono quattro: l’Inglese del Lungo Parlamento, la Francese, la Russa, la Grande Contestazione degli anni 1960-70. Due movimenti le precedono: l’Umanesimo del ‘400, in cui s’illumina il principio d’uomo, quello che diverrà poi la dignità e il diritto della persona umana, il principio dei principi; la Guerra contadina del 1524-25, coi suoi  progetti politici, che è il prologo delle rivoluzioni.

Le quali sono movimenti globalmente eversivi della società ingiusta, ma sono anche momenti di grande creatività storica; sono anzi eversivi in forza della loro creatività, del progetto che perseguono, e che vi s’illumina ed elabora ulteriormente. Nella Rivoluzione inglese si acquisiscono, e si sanciscono per la prima volta in una «Carta di popolo» (il Patto del popolo inglese del 1647), i grandi principi etici della coscienza moderna (o diritti fondamentali; qui il principio di libertà e delle libertà, di eguaglianza, di sovranità popolare). Le Carte dei popoli segneranno poi tutta la fase costruttiva; le più importanti saranno forse la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 e La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948. Nella Rivoluzione inglese s’imposta il modello democratico, anche se di tipo mediato e parlamentare, e anzi con una base elettiva molto ristretta; che si svilupperà poi lungo l’evo, raggiungerà il suffragio universale; pur soffrendo di gravi vizi, come la partitocrazia, il clientelismo, la manipolazione dell’elettorato.

Con la Rivoluzione francese crolla definitivamente il modello monarchico-aristocratico, quel potere dispotico che aveva oppresso l’umanità per millenni; il modello democratico si rafforza e inizia a universalizzarsi; per la prima volta viene abolita la schiavitù, la grande ignominia, che lungo l’800 sarà abolita ovunque.

 

Verso il 1820, col formarsi delle prime Trade unions, parte il movimento operaio, che in un secolo di lotte trasformerà la condizione popolare di sempre: dal duro lavoro, scarsità, ignoranza e analfabetismo, impotenza di fronte alla malattia e alla malasorte, malessere, la trasformerà in una condizione di dignità del lavoro, dignità del reddito, istruzione, sicurezza sociale, benessere (discreto, almeno); pur permanendo problemi di disoccupazione, sacche di povertà. Poco dopo parte il socialismo, coi partiti socialisti e comunisti; diventa l’espressione politica del movimento operaio e, con la Rivoluzione russa, tenta per la prima volta l’abbattimento del capitale privato, la moderna forma di ricchezza espropriatrice; con la discriminazione sfruttamento oppressione ch’esso esercita sul lavoro, e gl’infiniti mali con cui affligge l’umanità. La Rivoluzione russa tenta d’instaurare una società aclassiale, di radicale eguaglianza; ma fallisce perché, in mancanza di una classe operaia forte, instaura una dittatura di partito che diventa una nuova forma di dispotismo. Il tragico errore di Lenin e compagni. La Rivoluzione russa e il suo originario modello rappresentano tuttavia, per tutta una fase, una grande forza per il movimento operaio, per la sua lotta, le sue conquiste; per i partiti e i sindacati comunisti e socialisti.

 

Con la Prima guerra mondiale crollano gl’imperi continentali: l’asburgico, il prussiano, il russo, l’ottomano; il cinese era già crollato nel 1912, il giapponese crollerà nel 1945. Con la Seconda guerra mondiale si afferma il principio di autodeterminazione dei popoli, si dissolvono gl’imperi coloniali (talvolta con aspri conflitti come in Vietnam, in Algeria), s’imposta un modello cosmopolitico, ancora incoativo e acerbo ma significativo tuttavia: la comunità universale dei popoli, l’Onu. È avversato prima dai due blocchi egemonici contrapposti, il sovietico e l’occidentale; poi dall’egemonia statunitense, oggi ancora. Si formano anche comunità subcontinentali, di cui la più avanzata è l’Unione Europea; comunità rette da un principio di solidarietà, di aiuto ai membri più bisognosi; dall’osservanza rigorosa dei diritti fondamentali; da un principio di pace interna ed esterna.

Si sviluppa così, e va maturando, un grande fattore presente all’utopia storica di sempre: l’unificazione e pacificazione dell’umanità; dopo la divisione e conflittualità millenaria, la «guerra perenne».

 

La Grande Contestazione è una rivoluzione atipica in quanto ne è portatore il ceto giovanile e studentesco; su cui s’inserisce poi il movimento femminile; e in quanto, pur avendo un progetto politico, la democrazia diretta, non è in grado di perseguirlo. La sua lotta è contro la società repressiva, cioè contro la società delle libertà formali e dell’oppressione reale; nella sessualità, ad esempio; e contro l’autoritarismo, cioè l’eccesso di potere, il potere infondato e ingiusto. Persegue quindi un rafforzamento dei principi di libertà e di eguaglianza: così del figlio col padre, del giovane con l’adulto, dello studente col docente, della donna col maschio; del «diverso» in genere, l’omosessuale, il disabile, il malato mentale; delle minoranze razziali ed etniche, in particolare la lotta dei negri americani per i diritti civili. Persegue la pace, ha dato un forte contributo alla crescita della volontà di pace.

La Grande Contestazione è stata fortemente avversata sia da destra che da sinistra: dal capitale e dalle forze conservatrici da un lato, dalla Sinistra storica dall’altro, legata al modello sovietico. Perciò la sua comprensione storica è ancora scarsa: considerata come un fatto di velleità giovanile, d’improvvisazione inconcludente.

 

Il problema dei popoli poveri, un nodo enorme d’ingiustizia, è presente, sta certo sull’agenda dell’Onu; ma non è ancora stato affrontato con la coscienza e tensione etica che esige. Per la presenza egemonica del capitale, proteso solo al proprio arricchimento; per l’egoismo dei popoli ricchi, che considerano superfluo quello che invece è stretto dovere, la restituzione (dopo lo sfruttamento coloniale) e la condivisione della ricchezza; per l’ideologia capitalistica e liberistica che inquina la comunità internazionale, l’Onu  e le sue agenzie.

 

Due movimenti ulteriori. Il movimento pacifista, la liberazione dell’umanità dal flagello della guerra, il macello umano, il crimine atroce che ha riempito di sé la storia e che le classi dominanti, e i loro ideologi, hanno ammantato di eroismo e di grandezza, mentre mandavano al macello i figli del popolo. La coscienza e volontà di pace, che parte all’inizio del ‘900, con Gandhi e la sua azione liberatrice dell’India, e percorre tutto il secolo. Che si rafforza in seguito all’esperienza atroce delle due guerre mondiali, della guerra fredda, della minaccia nucleare. Col crollo del comunismo sovietico e la fine della guerra fredda, raggiunge un alto grado di volontà popolare di pace, di rifiuto della guerra; che osteggia fortemente le «guerre preventive» scatenate dagli Usa col pretesto del terrorismo islamico. Un processo in corso, avversato dagli Usa in quanto nazione che pretende all’egemonia, e grande produttrice d’armi; dalla Russia, che vorrebbe ricostruire l’egemonia perduta; e in parte anchedagli stati produttori e venditori d’armi.

Il movimento ecologico, che parte con la crisi del petrolio del 1973, con le ricerche sui «limiti dello sviluppo», con l’aggravarsi dell’inquinamento ambientale. E abbatte la pretesa moderna di «dominio della natura» per riconoscere nuovamente la natura come principio; che non può essere ridotto a mero strumento; principio ontologico, di cui è parte l’uomo com’ente di natura, e come inabitante la natura; principio imprescindibile. La giustizia è in gioco qui come dovere dell’umanità verso se stessa, dovere di tutti coloro che abbattono la natura ambiente verso l’umanità, dovere verso l’umanità futura.

 

3.3. Un progetto e processo universale

        Il percorso dell’utopia storica, così com’è stato qui ricostruito, si svolge prima nel vicino Oriente, poi nell’Europa Occidentale; segnatamente nella fase costruttiva. È il luogo primo del suo sviluppo, che comporta per l’Occidente una particolare responsabilità. Ma il progetto e processo è per se stesso universale: progetto e processo di liberazione dell’umanità dalla società ingiusta, di costruzione di una società di giustizia, di una società fraterna. Universali sono le sue strutture, i grandi principi etici, il modello democratico, il modello cosmopolitico, l’unificazione e pacificazione dell’umanità. Tutto ciò è evidente. Non è che l’umanità debba essere democratica in Occidente mentre può essere dispotica in Oriente; che la dignità e il diritto della persona debba essere salvaguardato in Occidente (la dignità e il diritto della donna, del bambino), mentre può essere conculcato in Oriente.

        In realtà il processo si va universalizzando, ha già raggiunto un alto grado di concreta universalità; né può essere diversamente.

 

4. L’utopia come senso della storia

        L’utopia come progetto e processo di liberazione dell’umanità ridà senso alla storia. È infatti in sé un percorso degli ultimi tremila anni, ma come «progetto popolare implicito» ispira ed anima l’intera storia umana  Quel senso che nelle civiltà antiche si smarriva nel circolo, nell’eterno ritorno dell’eguale; o nella fatica delle reincarnazioni, che dissolvevano infine la persona nel divino tutto. Che il messianismo ebraico per primo, forse, introduce, sia pure intendendolo come redenzione di un popolo che si estende agli altri popoli in quanto associati nell’adorazione del vero Dio. Che il cristianesimo riprende in termini analoghi; ma perturbati da un destino di dannazione eterna della maggioranza umana (la «massa dannata» di Agostino, l’idea crudele); la dannazione degli «empi», per empi intendendosi tutti coloro che il battesimo non ha liberato dal peccato di origine. Una concezione che certo contrasta con l’autentico annunzio del Dio amore, del Dio Padre infinitamente amoroso, e che è penetrata nella tradizione primitiva dalla letteratura e coscienza apocalittica, dal suo forte risentimento; ma è stata poi assunta e teorizzata dall’intera tradizione cristiana fino a tempi recenti.

        Quel senso che i filosofi avevano teorizzato nella dottrina del progresso, di un avanzare sempre dell’umanità in forza dell’indefinita perfettibilità delle sue facoltà intellettuali e morali: la ragione, la libertà, la moralità; nell’acquisizione della verità, della virtù, della felicità. La storia come costruzione della Humanität (la parola di Herder), dell’humanitas. Cui non avevano saputo dare un fondamento adeguato, in quanto vi mancava l’impulso incomparabile e insuperabile del vincolo etico; né avevano saputo ricostruirne adeguatamente il corso. Quel senso che poi, in seguito alla crisi della ragione moderna, quella ragione che distruggendo la realtà si era autodistrutta, i filosofi stessi hanno negato distruggendo la storia stessa nel «nulla eterno».

        O un senso più antico, che nel ‘700 per lo più sottende quello stesso del progresso, l’opera della Provvidenza, il disegno divino ed eterno che nella storia si realizza e porta l’uomo alla salvezza. Un senso trascendente, per un’opera di Dio più che dell’uomo, una storia fatta da Dio.

O il senso marxiano di una evoluzione e crescita del modo di produzione, che con sé porta l’evolvere e crescere del modo di società, di cultura, di coscienza. Un’ipotesi che viene forzata a modello storico; non suffragata dalla storia; e viene poi abbandonata.

Quel senso è recuperato dall’utopia, ed è l’utopia stessa, il progetto dell’umanità per la sua liberazione dai mali che da sempre l’affliggono, dalla società ingiusta che ne è la sintesi; la costruzione di una società di giustizia, prosperità, pace; il processo costruttivo in atto.

 

        La storia ha dunque un senso; un profondo, intenso senso. Nonostante l’enorme peso delle sue   insensatezze; che quantitativamente prevalgono, pervadono i millenni, un peso enorme, il «peccato del mondo», secondo l’espressione evangelica. «Ecco colui che toglie il peccato del mondo»: un peso, dunque, che viene tolto, lentamente, lungo il processo di liberazione, di redenzione terrena, il processo «outopico-eutopico», del buon luogo che si sta approntando, la società di giustizia che si sta costruendo; lentamente ma abbastanza velocemente, se confrontato con l’intero della storia, o ancor più con la preistoria umano-inumana.

        La storia non è erranza, un vagare insensato, di qua di là, avanti indietro. Non è immobilità, facientesi magari convulsamente ma in realtà immobile, immersa sempre negli stessi errori e vizi. Non è circolo, il modello antico, esemplato sulla ciclicità della natura, sul percorso dei pianeti che si riallineano e quindi ripartono per il loro percorso di sempre nel cielo, nel grande anno; l’eterno ritorno dell’eguale di cui parlano i pitagorici, parla Aristotele nel De coelo (Diels 58 B 34; I, 3, 270 b 19-20); ripreso poi da Nietzsche nel suo annientare l’uomo (il subuomo) e la storia. Non è curva biologica, il modello medievale, parabola che sale e poi cade, decade, esemplata sul corso biologico dell’uomo, le sei età della vita umana, del corpo umano.

        La storia è farsi d’uomo, processo di umanazione, di umanizzazione, in cui si costruisce la persona, si costruisce la società, il cosmo umano nella sua potenzialità indefinita; si costruisce la società di giustizia, la società fraterna. Il compito, il dovere supremo.

 

 5. L’utopia come fondamento della speranza umana

        La comprensione di questa realtà e verità della storia umana diventa il fondamento della speranza dell’umanità; di un’umanità che si piegava nella rassegnazione, si smarriva nella disperazione. Un’umanità tormentata per millenni dalla scarsità, dalla malattia, dai flagelli di natura; dalla menomazione della sua dignità di persona nell’ignoranza, nel duro lavoro, nell’ineguaglianza, nell’espropriazione sfruttamento oppressione da parte della minoranza di ricchezza e potere, la classe dominante, la razza superiore (pretesa infame quanto stolta); nell’ignominia della schiavitù, nel dispotismo del sistema monarchico-aristocratico; nell’asservimento e abuso della donna; nella guerra cui i potenti costringevano il popolo, lo costringevano a scannarsi gli uni gli altri, al macello umano. Impossibile recensire qui tutti i mali di cui l’umanità ha sofferto e soffre nella società ingiusta.

        La speranza si apre all’umanità quando si apre la prospettiva di liberazione; una prospettiva non qualunque, non caduca, ma un progetto-processo globalmente continuativo e che costituisce una garanzia per il futuro. Speranza di giustizia, prosperità, pace. Speranza storica, che si apre e si nutre dalla storia, da quel progetto-processo.

        Speranza terrena, altra dalla speranza teologica che ha dominato il pensiero umano lungo l’intera tradizione cristiana; introdotta e teorizzata particolarmente da Paolo, sviluppata dalla riflessione dei teologi, trasmessa al popolo dalla catechesi. Che si protende sul divino e celeste, sul possesso di Dio in cui ogni potenzialità e attesa umana si adempie; per un salto dal tempo all’eterno, dalla storia all’escatologia.

Speranza terrena, presente sempre nell’uomo; che, in termini essenziali, deve considerarsi una fondamentale «intonazione» dell’interiorità umana. Stimmung nel tedesco, tonalità interiore, stato d’animo originario, per un immediato risentirsi dell’essere, della essenziale ed essente condizione umana. Accanto all’angoscia, che fu primamente disvelata da Kierkegaard come l’intonazione in cui si risente il nulla d’uomo; poiché l’uomo, nella sua finitudine, è l’essere di fatto di un nulla di sé. Si risente dunque il nulla, ma nella speranza si risente l’essere, nella sua precarietà, ma anche nella sua potenzialità operativa e costruttiva, individuale e sociale. Fragile ma potente in forza dello spirito (parola che molti evitano, stoltamente), della psiche che lo spirito rafforza (l’immaginazione creatrice, la passione), e in forza della cooperazione. La speranza, dunque, come categoria dell’esistenza.

        Ma, più oltre, come categoria della storia, prerogativa dell’umanità, fondata fiducia nel suo presente-futuro, fondata in un preciso passato, un preciso percorso storico, percorso liberativo e costruttivo, in cui si va compiendo la sua liberazione dai mali di sempre, la costruzione di una società di giustizia, di una società fraterna.

        Bloch ha introdotto questa categoria, pur senza comprenderla nel suo autentico senso, come categoria dell’esistenza e della storia. L’ha introdotta come Gemütsbewegung, un moto del sentire, uno qualunque, non quella fondamentale intonazione del nulla di sé nel suo essere e agire; né ha saputo elevarla come speranza storica sulla base di un reale percorso storico, reale progetto-processo, fatto non di materialismo dialettico ma di movimenti di popolo. Egli però ha dato così il suo grande splendido apporto a una comprensione dell’utopia che stava maturando, sarebbe maturata nel tempo.

                                                                                             Uscito sul n. 1 della nuova "Rivista di studi utopici, aprile 2006