David Cronenberg

 

 

Canadese di famiglia ebraica, nato a Toronto nel '43, dove anche ha studiato letteratura inglese. Autore geniale, sconfina spesso nel fantastico e nell'orrido che io non amo; a meno che un più profondo significato umano vi si celi.

 

Indice:

La promessa dell’assassino, 2007

A history of violence, 2005

Spider, 2002

Crash, 1996

La mosca, 1987

La zona morta, 1984

Il demone sotto la pelle, 1975

 

La promessa dell’assassino

Al Santa Lucia di Lecce, il 27/12/07.

Cronenberg è regista di notevole spessore e di notevole continuità (si veda come Mike Newell, invece, diventi banale nell’Amore ai tempi del colera, sugli schermi in questi giorni). Il titolo originale è Eastern promises, promesse d’Oriente, cioè Mosca?; ma qualcuno qui fa promesse?

Ha scelto un film di mafia, un soggetto che è sempre piuttosto penoso per l’estrema crudeltà di queste cosche, l’eccesso di crimine, di sangue. Anche Cronenberg ci cade almeno due volte: subito all’inizio, con quell’odioso insistere sul rasoio che strazia il collo, e quell’altro rasoio che taglia il collo di un ragazzo che pisciava su di una tomba (inutile, non c’entrava nulla con la storia). Per di più si tratta di una mafia russa a Londra, di quel particolare tipo che è il russo, e il suo ambiente; e parla russo, con l’inconveniente della sottotitolatura che disturba l’immagine. Certo molto russa la figura di Kirill, il figlio bonario, espansivo, e ubriacone; e anche quella del padre, bonario e feroce. Al centro Nicolai (Viggo Mortensen), forse il più perfetto tra questi mafiosi, scevro di parola e di gesto, enigmatico; prima autista, poi iniziato alla cosca; che nella sauna sostiene nudo l’assalto dei due sicari armati di coltello, la grande scena di violenza estrema ma fredda, non sanguinosa; la sostiene e la vince. Ma ci riesce incomprensibile che la polizia non s’interessi per nulla di lui, finito all’ospedale con gravi ferite. Una distrazione del regista. Qui e altrove la polizia interviene a crimine avvenuto, ma non s’interessa per nulla alla ricerca degli autori.

Nicolai è il criminale che ha conservato in sé un fondo oscuro di umanità. Mediata forse dal volto pulito e sensibile di Anna, la giovane infermiera (Naomi Watts, la ragazza limpida e gioiosa di Mulholland Drive, indimenticabile), dal suo amore per il piccolo la cui madre è morta di parto. Le salva lo zio, che il bonario e crudele  boss vorrebbe morto, lo spedisce in Scozia in un buon albergo (così dice; in realtà lo vediamo in casa verso la fine: un’altra distrazione?). Soprattutto le salva il piccolo che Kirill per ordine del padre sta per affogare; e però si attarda un poco a contemplarlo, a coccolarlo; molto nel suo carattere. Gli dice, prendendoglielo, “noi non uccidiamo i bambini”, forse la frase più significativa del film.

 

A history of violence

all’Odeon di Lecce, il 18/12/05.

Forse l’opera più bella di Cronenberg, storia di violenza e storia di espiazione. Costruita con ritmo perfetto.

Il marito e padre ha ricostruito la sua vita da un passato violento, di gang e lotte spietate e torture e omicidi. E vive ora in un piccolo tipico centro americano, con la bella moglie e i due figli; e conduce una tavola calda, un modesto esercizio. Ha costruito questo nido di affetti, incomparabilmente caldo e gioioso, dopo la dura spietatezza del crimine, e dopo aver passato tre anni nel deserto per purificarsi e trasformarsi.

Ma il suo passato a un certo punto riemerge, quando due balordi criminali capitano nel locale ed egli, piccolo ed agile ed esperto, li affronta e annienta; e diventa l’eroe, e la stampa e la tivù lo  esaltano. Ma così anche i suoi vecchi amici-nemici lo scorgono, lo scovano.

Ed ecco ricomparire quello cui lui ha tormentato l’occhio col filo spinato, con due figuri a lui simili. La moglie capisce e lui deve confessare, e si dividono i letti.

La notte stessa il fratello capobanda chiama, e lui parte subito, perché comprende che il crimine sta per ripiombare nella sua casa, e viaggia in macchina per quindici ore sino a Philadelfia. Dove il fratello si è creato col  crimine una grande villa, un castello con parco; e irride al fatto ch’egli abbia una famiglia, mentr’egli ha a disposizione donne a piacere. E qui avviene necessariamente il decisivo fulmineo scontro.

Ma il momento magico è il ritorno, quando rientra nella sua modesta dolce casa. È sera, i suoi sono a tavola, e lui compare improvviso. Nessuno parla, ma lì c’è il suo posto, il suo piatto, e il pane e la minestra calda. Allora si sente tutta la forza immensa di quel tessuto di affetti, quel nido di amore che ha saputo conquistarsi, ha difeso con tutto se stesso.

 

Spider

All’Odeon di Lecce, il 30/11/02.

Ragno. Il ragazzo ragno (Ralph Fiennes, una grande interpretazione) che intesse la sua tela (i fili tirati e intricati sopra il letto) per proteggersi dalla sventura che gli si accanisce, il piccolo solo, la madre uccisa dal marito che si divertiva con una sgualdrina nella tetra baracca di campagna, e che lei ha sorpreso; seppellita nell’orto in una buca profonda; su cui egli si getterà piangendo, invocandone il nome, «mamma».

«Assassini» dirà il piccolo ai due, al padre e alla «sgualdrina da quattro soldi» che si è preso subito in casa, e vorrebbe che lui la chiamasse madre. Atroce. La tela di vendetta ch’egli intesse e che porterà a morte la sgualdrina soffocata dal gas, e lui al riformatorio, quindi alla follia.

La Londra dei sobborghi la più squallida desolata, senza forma, senza colore, grigia sempre, notturna. L’ospizio più squallido desolato cui ritorna il giovane, libero (si fa per dire) dalle costrizioni del manicomio; ritorna nel suo squallido desolato quartiere, nella sua stanza grigia squallida immensa, nell’ospizio dove solo quattro creature insane si aggirano. Quello che spacca i vetri, ogni frammento un’arma, terribile. Tutta la storia è rivissuta da lui, nel suo silenzio, nel suo fraseggiare sperduto smarrito, nella coazione interiore.

Un dolore immenso. Nella sua immaginazione la madre, la sgualdrina, la sorvegliante si sovrappongono, sono la stessa figura di donna. Perciò vorrebbe uccidere la sorvegliante, ma non riesce, abulico.

Dietro questo film c’è un romanzo con la sua storia. Ma il  film è di un rigore assoluto, di una poesia arida e intensa, dolorosissima. Un dolore immenso che si trasfigura nonostante tutto.

 

Crash

Al Santa Lucia di Lecce, il 29/11/96.

Un’opera significativa per l’idea e per lo stile, opera sottile ed orrida, stile asciutto, pochi personaggi, pochi ambienti, stile essenziale (deriva da un romanzo di Ballard, la sceneggiatura è di Cronenberg).

L’idea dello scontro tra auto non tanto vissuto come rischio, quanto come  shock e frattura della psiche e del corpo; il gusto sadomaso della frattura, della ferita, della deformazione di lamiere e corpi, del sangue. Che si raccorda, ma non subito chiaramente, col sesso, diventa energia sessuale (secondo l’espressione del crasher di professione). Non è detto come e perché; piuttosto una perversione della sessualità che si eccita a seguito dell’incidente; come si vede nel finale, dopo che il ragazzo ha urtato e fatto uscir di strada la ragazza, che però ne è solo un poco intontita e gli si congiunge. O anche il piacere perverso di congiungersi con gl’incidentati e tra incidentati, in mezzo a complicate protesi e a ferite varie anche profonde (la ragazza del crasher, lo stesso ragazzo protagonista, regista di professione).

Lo scontro è cercato non per volontà di rischio o di morte (anche se il crasher vi muore, precipitando dalla strada dove si divertiva a urtare) ma come fonte di un nuovo piacere accentuato dal rischio e dalla morte sfiorata. Idea certo peregrina, sofisticata, un po’ folle.

Ambienti per lo più macabri, cimiteri di macchine, depositi di macchine incidentate. Ragazze bionde bellissime; e fortemente sensuali anche se molto snelle. Congiungimenti in eccesso,  immotivati, carica erotica che pervade questo strano  e originale film.

 

La  mosca

The fly. Al Santa Lucia di Lecce, il 14/02/87.

Qui un monito per l’umanità, con i suoi strumenti sempre più potenti, i suoi esperimenti sempre più audaci. Un monito sul pericolo della casualità, l’incidente casuale, banale, la presenza fortuita di una mosca. Per cui il prodigio della decomposizione-rigenerazione del corpo umano, il prodigio che cambierà la storia finisce invece nel mostruoso, nell’uomo mosca geneticamente fuso, e che secondo questa base genetica evolve. Perciò, subito dopo l’esperimento, egli prova un senso di rigenerazione, l’orgoglio di un processo nuovo e sovrumano. Ma poi inizia la trasformazione, la configurazione mostruosa dell’uomo-mosca. Che sente la sua umanità diminuire, perciò anche la sua ragione, la sua capacità di bene. Pensa allora che soltanto la fusione con un altro essere umano potrebbe aumentare il suo grado di umanità, consentirgli il recupero.

Nel frattempo la ragazza, la giovane giornalista che si è innamorata del ragazzo prodigio, del nuovo Einstein, è incinta di lui, della sua esaltata passione dopo l’esperimento; incinta perciò, probabilmente, di un mostro. E lui la sequestra per tentare con lei quella fusione che gli darà un più alto quoziente umano. E lo farebbe, se non intervenisse il vecchio amante di lei. Sì che infine implora di essere ucciso.

Il film, molto semplice, quasi elementare nella prima parte, cresce poi con orrida forza mostruosa, forza di natura violata, vendetta di natura. La seconda parte è intensa; l’insieme è orrido grottesco.

Quasi tutto in interni, nel laboratorio di lui. Il film riprende e ricrea The fly  di Kurt Neumann (in ital. L'esperimento dal dottor K), del 1958.

 

La zona morta

The dead zone. Al Massimo di Lecce, il 14/09/1984.

Sarebbe la zona di visione sul futuro da parte del veggente in  cui egli può intervenire e operare (la zona o frangia in cui il futuro è impreciso o indeciso: è la spiegazione che dà il dott. Weizak, il medico che lo segue), e che lo indurrà alla decisione di uccidere il politico-gangster che aspira con sicurezza alla presidenza degli Stati Uniti (ma per intanto al Senato), e di cui ha previsto la futura decisione di guerra nucleare e di morte

Uccidere ed  essere ucciso, essendo votato alla morte perché la crisi di veggenza lo consuma; così come lo consuma la vita di veggente, perseguitato dalla notorietà (dopo i primi fatti clamorosi); costretto alla solitudine e all’isolamento. Divorato continuamente dal suo stesso potere, dalla tensione ed eccitazione in cui vive.

Il film s’incentra in questa figura di giovane stravolto. Sofferente anche dell’amore di Sara perduto nei cinque anni del coma che per lui furono un giorno; un amore vivo e bruciante ma ormai impossibile (la dolce divina Lenora). Sofferente della sua solitudine, del suo trascendente doloroso potere.

Film nitido, teso almeno da quando inizia la trasfigurazione e sfigurazione del giovane; in un ambiente in cui tutto è normale, mediocre (i genitori, il padre, la casa); con quale lentezza. Non però dopo. Nel finale il sovrapporsi delle due morti. Una linea di bontà, il giovane buono, la volontà di bene; in lotta contro il male.

 

Il demone sotto la pelle

cioè Shivers, brividi; oppure The parasite murders; o altro; 1975.

Un film orrido-fantascientifico-, ma di un orrore moderato; un film simbolico, ironico anche.

Poiché siamo nell’Arca di Noè, un residence costruito su di un’isola (formata dai bracci di un fiume) non lontano dalla città, dove gli ospiti possono recarsi quotidianamente per il lavoro. Costruito come un’oasi di pace, di benessere; dove tutto è indirizzato a questo scopo e nulla manca. Il film s’apre sulla descrizione di questo luogo paradisiaco.

Dove però sta accadendo qualcosa d’infernale perché un professore, uno sperimentatore nel campo dei parassiti, ha sviluppato un parassita che stimola la sessualità; pensando di compensare così un mondo troppo preso dal lavoro e dalla carriera. Ma non l’ha ben dosato; o meglio lo sta sperimentando su di una ragazza forse con l’intenzione di dosarlo; ma è ovvio che la ragazza con quel forte stimolo incontra altri uomini e lo trasmette. Il professore, ormai angosciato alla follia, la uccide, fors’anche pensando di bloccare in  certa misura l’epidemia; e si uccide.Questo avviene proprio mentre il direttore accompagna due nuovi ospiti ed esalta la suprema pace dell’oasi.

Conosciamo il segreto della vicenda da un collaboratore di lui; che ne parla all’amico medico dell’oasi. Senza sapere che l’infezione sta già avanzando perché si trasmette nel rapporto sessuale o anche solo nel bacio. Il parassita è un salsicciotto sanguinolento, mobile, attratto dall’uomo; che poi s’installa nel petto, in un luogo impreciso ma visibile; che fa anche soffrire, ma soprattutto scatena un forte, irrefrenabile, violento stimolo. E noi quindi assistiamo al lento e poi veloce e parossistico scatenarsi di questa sessualità collettiva che coinvolge l’oasi intera. E il giovane medico che lotta per mantenersi indenne e per fermarla, se possibile, e far intervenire la polizia. Ma è travolto lui stesso, in quella notte in cui la follia si scatena. E il mattino, che è ancora buio – sono le 5.30, dice la radio, che ha solo un vago sentore della cosa – vediamo gli abitanti dell’oasi uscire in macchina verso la città per invaderla, contaminarla, conquistarla.

Il sesso invade tutto, violento, inarrestabile. Così come – secondo il sogno che racconta l’infermiera Forsythe (la bellissima Lynn  Lowry) – tutto è sesso, perfino il respiro, la parola, perfino la morte. Un pansessualismo invade il mondo. È una malattia, infettiva, endemica, violenta, distruttrice, ci ammonisce Cronenberg.