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    Susan Sontag "Davanti al dolore degli altri" Edizioni Mondadori
    Recensione di Gabriella Bona (gabri.bona@libero.it)
       

    All’inizio erano soltanto le parole a portarci le notizie di ciò che accede nel mondo, delle tragedie, del dolore, della guerra. Poi sono arrivate le immagini: fotografie, filmati, televisione.
    Spesso si pensa che un’immagine possa rappresentare meglio la realtà, possa farci sentire più vicino agli avvenimenti, possa con la sua immediatezza scatenare una compassione e un’indignazione contro ciò che accade, contro la guerra, soprattutto. Ma Susan Sontag, in “Davanti al dolore degli altri”, analizza i vari aspetti di queste immagini e di come spesso possano portare a un risultato molto diverso da quello che in molti sperano.
    Se è vero, come sosteneva Virginia Woolf ne “Le tre ghinee” – citato in apertura del libro da Sontag – che “lo shock prodotto da tali immagini non possa non affratellare le persone di buona volontà”, la banalizzazione dell’informazione visiva può, invece, fare male alla fratellanza, come quando “durante i combattimenti tra serbi e croati […] le stesse fotografie di bambini uccisi nel bombardamento di un villaggio venivano mostrate sia nelle conferenze di propaganda serbe che in quelle croate”.
    “Le fotografie di un’atrocità possono suscitare reazioni opposte. Appelli di pace. Proclami di vendetta. O la semplice vaga consapevolezza […] che accadono cose terribili”: molto dipende da chi le ha scattate, da chi le utilizza, da chi le guarda e dal significato che a ogni immagine viene dato.
    La soggettività del fotografo e dell’osservatore si uniscono in un’opera di deformazione e di interpretazione.
    Talmente bombardati dalle immagini, spesso non riusciamo a vivere forme di rispetto e di umanità basilari: giornali e televisioni evitano di pubblicare immagini che ritraggono i volti dei soldati uccisi o feriti per una forma di rispetto verso le famiglie: ma questo vale soltanto per alcuni soldati: la dignità verso i soldati irakeni o verso quelli morti nelle guerre africane non è stata ritenuta necessaria.
    Un altro pericolo dell’inondazione di immagini è quello della distrazione: non è indifferenza, ma stanchezza, mancanza di capacità di mantenere sempre viva l’attenzione.
    Un punto importante per Sontag è la scelta delle immagini visibili, esposte, pubblicate: “Per quale motivo nella capitale degli Stati Uniti, una città la cui popolazione è prevalentemente afroamericana, non esiste un museo della storia della schiavitù? […] Creare una memoria è considerato, a quanto pare, troppo pericoloso per la stabilità sociale […] e un museo dedicato alla storia delle guerre americane […] sarebbe considerato – oggi più che mai – un’impresa antipatriottica”.
    Le analisi di Sontag ci portano a vedere attraverso le immagini, e alla loro mancanza, a viverle in modo più attento e più critico, infonde quella giusta sfiducia che, forse, può portare alla consapevolezza e all’indignazione.
      
    gabriella bona 

   
 
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