CANAVESE - Il Canavese,
per la sua stessa posizione geografica, è sempre stato aperto sia
alle correnti culturali nordiche che a quelle lombarde. Si possono così
seguire, sull’asse Ivrea/Milano, dei percorsi individuali che hanno profondamente
inciso sul sistema dell’arte tardogotica e rinascimentale.
Partiamo dal caso eclatante
dell’affinità tematica che lega la Sala dei giochi di Michelino
da Besozzo nel Palazzo Borromeo di Milano con il “giardino pensile” di
Giacomo da Ivrea nel Palazzo Vescovile eporediese, su commissione di Giacomo
de Pomariis (1427-1437).
Sarà opportuno qui
subito ricordare che Michelino da Besozzo fu a lungo al servizio di Vitaliano,
decorandone le dimore con la rappresentazione pittorica non solo degli
svaghi ma anche con quella di soggetti marini che riflettevano i traffici
mercantili del casato.
E’ la cultura delle “grandi
piante” che avvicina i due cicli ad affresco, specialmente a riguardo
dell’episodio della “Raccolta delle melagrane”, ora nella Rocca Borromeo
d’Angera, che diventa, ad Ivrea, la “Raccolta delle mele cotogne”, con
l’offerta di un verde frutto ad una dama da parte di un cortigiano arrampicatosi
su un ramo del grande albero, dietro la rossa cinta muraria. Va detto,
però, che purtroppo non è stato ancora decifrato nell’esempio
canavesano il testo delle scritte che accompagnano la scena “cortese”.
Nel S. Bernardino d’Ivrea
ha operato, invece, Cristoforo Moretti, dopo essere stato bandito da Milano,
nel 1462, con l’accusa di aver diffamato la moglie di Cristoforo da Soncino,
medico di Bianca Maria Sforza.
Durante il suo lungo esilio,
ha raggiunto anche il Canavese, lavorando nella chiesa francescana secondo
le dolci ed eleganti valenze del suo stile arcaico. E’ stata Andreina Griseri,
nella sua monografia su Jaquerio, a vedervi per prima, seppur dubitativamente,
la sua presenza.
Nel catalogo di Cristoforo
Moretti, celebre è il Polittico di Sant’Aquilino, di recente ricostruito,
che testimonia la capacità d’influenzare, in parallelo agli Zavattari,
l’ultima stagione del gotico morente.
Di chiara esemplarità
per l’intreccio che andiamo disegnando è la vicenda esistenziale
di Martino Spanzotti che raggiunse anche lui Ivrea, per lasciare nel medesimo
S. Bernardino la sua opera più importante.
Storicamente, il suo nome
compare dapprima in un documento di Casale (1480) che ne attesta una provenienza
“milanese”, in linea con il fatto che la famiglia fosse originaria di Campanigo,
sopra Varese. Di lì si spostò a Vercelli che per noi svolge
un po’ la funzione di punto d’incontro e di sosta.
Nel S. Francesco di Rivarolo
Canavese, su committenza di Domenico, vescovo d’Ivrea (1479-1485), affrescò,
viceversa, una “Adorazione del Bambino”, in una riunione dei Dottori della
Chiesa Occidentale, in cui inserì all’estremità destra, devotamente
inginocchiato e a mani giunte, il grande Vescovo eporediese Warmondo.
Per quanto concerne, infine,
Gaudenzio siamo costretti ad ammettere, per ragioni interne alla sua evoluzione,
un viaggio in Canavese per vedere la grande parete spanzottiana del S.
Bernardino d’Ivrea che gli servirà da modello per il suo lavoro
ad affresco in Santa Maria delle Grazie a Varallo (1513). Decide lo schema
compositivo che rimanda a piena evidenza per la spartizione degli episodi
all’idea progettuale di Martino.
Aggiungiamo soltanto più,
in chiusura, che Gaudenzio dalla sua nativa Valsesia andrà a morire,
nel 1546, a Milano, continuando, seppur in modi psicologicamente più
sottili, a coinvolgerci con la propria bruciante umanità.
aldo moretto