“Caro Presidente
Ciampi, la guerra è sempre un disonore!”...
Caro Presidente Ciampi, a quanto posso
apprendere da un giornale (La Stampa, 18 febbraio), Lei, in visita ad El
Alamein, al cimitero dei soldati italiani uccisi (non è esatto chiamarli
“caduti’’) in quella battaglia, avrebbe detto che essi morirono “per seguire
la voce dell’onore, della lealtà, del dovere’’.
Ora, noi sappiamo che,
nella loro buonafede, e comunque privi di libertà, quei poveri soldati
combattevano una guerra assolutamente ingiusta, voluta da un governo dittatoriale
ed aggressivo, e che quindi nella loro azione non ci fu oggettivamente
né onore, né lealtà, né dovere. La verità
è che quel dovere non lo avevano, ma avevano il dovere contrario,
di disobbedire. Che non potessero saperlo e capirlo, è un fatto
per cui ne abbiamo rispettosa pietà, ma questa verità va
detta sempre.
Ad un comando ingiusto
essi avevano obbedito non per motivi nobili, ma per ignoranza, per impreparazione
civile e morale, per i danni interiori subiti dall’educazione fascista
e dal tradimento di tanti che avrebbero dovuto essergli maestri di intelligenza
e di coscienza. Essi furono vittime, mandati a fare altre vittime. Noi
possiamo comprenderli e scusarli, ma non possiamo dire che fu onorevole
l’azione in cui morirono. L’idea di patria non basta a giustificare e nobilitare
ogni azione, compiuta abusivamente nel suo nome, tanto più se si
tratta di azioni di guerra.
Quei soldati, mandati per
uccidere altri uomini strumentalizzati come loro, furono uccisi perché
non furono i più svelti e i più attrezzati nell’uccidere.
La loro morte è da compiangere con viva pietà, ma non è
umanamente onorevole: è invece uno dei modi più tristi e
umilianti di morire, perché è un morire da potenziali omicidi.
Chi combatte - o è
trascinato a combattere - con armi che uccidono, invece che con la forza
della ragione e della dignità umana, non può sfuggire ad
una di queste sorti: o uccide, ed è un omicida; o è ucciso
mentre è nell’animo un potenziale omicida; o se la cava per fortuna,
ma era moralmente disposto ad uccidere; o ne esce vivo perché ha
pensato soprattutto a salvare la pelle (e questa è cosa buona, perché
così ha salvato, per quanto poteva, anche la vita del “nemico’’).
C’è poi una scelta più grande: quella di chi, trascinato
nella guerra, si rifiuta di uccidere, pronto a morire piuttosto che uccidere,
come fece, tra tanti altri ignoti, il soldato Guido Plavan, di Torre Pellice,
nella prima guerra mondiale: egli usciva con gli altri dalla trincea lasciandovi
il fucile, oppure con il fucile scarico, col consenso del tenente Carlo
Lupo (questa storia è narrata nel volume Le periferie della memoria,
Profili di testimoni di pace, ed. Anppia e Movimento Nonviolento, 1999).
Plavan ebbe la fortuna di non essere ucciso, e visse dando frutti di pace.
Chi fa così disobbedisce al comando guerresco, ma è il più
fedele e coraggioso difensore dell’umanità di noi tutti.
La sorte di chi muore in
guerra da combattente è triste ed anche vergognosa, come ogni partecipazione
alla guerra. La quale è sempre paragonabile alle lotte mortali tra
gladiatori, volute da poteri e da mentalità che usano gli uomini
come pedine in giochi disumani. La guerra è orrenda non perché
siano moralmente orrendi gli uomini che la combattono, ma perché
fa fare cose orrende anche a persone buone, che quelle cose non farebbero
mai, cose che poi non hanno animo di confessare. Qui sta il carattere infernale,
imperdonabile, intollerabile, dello strumento e dell’istituzione guerra,
sia di offesa che di difesa, che deve essere finalmente del tutto “ripudiato’’,
come ci impone la Costituzione, vero onore, essa sì, dell’Italia.
Solo la Resistenza popolare
al nazifascismo fu una guerra “giusta’’ (meglio: giustificabile), ma solo
in quelle precise e limitate circostanze temporali e culturali, perché
oggi, a differenza di allora, si conoscono esperienze e metodi di lotta
non armata e nonviolenta (citati anche nella legge 230/1998, art. 8), con
possibilità di efficacia, che permettono di emanciparsi dall’usoi
contraddittorio e controproducente di un mezzo ingiusto - come sono senza
dubbio le armi - per uno scopo giusto.
Il giornale citato scrive
che anche Lei combattè nella seconda guerra mondiale per lo stesso
senso dell’onore, della lealtà, del dovere che ora rivendica per
i Suoi commilitoni caduti (uccisi). Io amo credere invece che, in questo
ricordo, Lei abbia sentito di nuovo l’umiliazione e il senso di fallimento
umano che noon può non venire dall’aver dato mano alla guerra, qualunque
essa sia, e tanto più quella ingiustissima; sentimento riscattabile
e riscattato da chi ha poi agito per la pace e la giustizia.
Perciò trovo che
Lei ci ha dato una lezione di civiltà, di cui Le sono grato, visitando,
con la stessa pietà, anche le tombe dei soldati “nemici’’ uccisi
dagli italiani in quella battaglia. L’onore distrutto dalla guerra, da
ogni guerra, si ricostruisce proprio ritrovando la comune umanità,
al di là delle assurde ragioni di odio con cui le politiche disumane
spinsero gli uni contro gli altri uomini non capaci in quel momento di
difendersi da quelle politiche.
Da cittadino attivo, insieme
ad altri, nel Movimento Nonviolento di Aldo Capitini (il cui magistero
e testimonianza di pace Lei potè forse incontrare nella Scuola Normale
di Pisa), impegnato nel cercare le ragioni più alte della nostra
convivenza - che risiedono nella pace, nella giustizia, nella libertà
solidale, e non nella sopraffazione bellica o economica, non nella giustificazione
storica delle ingiustizie - vorrei modestamente contribuire a difendere
la nostra patria dalla più grave delle sconfitte, che è ogni
ricaduta nel mito disonorevole della guerra.
In questo tragico errore
anche recentemente il nostro paese si è lasciato trascinare, incapace
di vedere e volere le alternative all’uso dell’omicidio organizzato dallo
Stato, utile solo ai fabbricanti di armi, ai loro committenti e agli speculatori,
tutti servi della morte. Tali alternative esistono sempre, e le si vedrebbe
se solo si avesse l’immaginazione, la volontà e la cultura di pace
per conoscere e sviluppare i metodi per le soluzioni costruttive dei conflitti,
col prevenire e con l’opporsi alle soluzioni distruttive. Ciò era
possibile, innegabilmente, anche nella crisi del Kossovo, come le analisi
più serie e più libere hanno dimostrato.
Le propongo queste considerazioni
con rispetto, fiducia e franchezza, in questa lettera aperta e pubblica,
data l’eminente importanza pubblica dell’argomento. Le sarei grato, e non
solo io, di una Sua risposta parimenti pubblica.
enrico peyretti |