IVREA - S’avvia al termine
il restauro della Chiesa di San Gaudenzio d’Ivrea (1721-42), ancora assegnata
ad anonimo, ma da attribuire, con ogni probabilità, all’architetto
Luigi Andrea Guibert.
E’ il luogo della leggenda:
lì, Gaudenzio trascorse la notte sulla nuda roccia, vicino al fiume;
all’alba, adagiatosi sul proprio mantello trasformato in zattera, si lasciò
trasportare dall’onda della corrente, fuori dalla città.
Per una breve cronistoria,
si parte dal “pio disegno” dei Pinchia, ossia dell’abate Pietro Lorenzo
e del priore Giovanni Antonio, per giungere alla posa della prima pietra
(1721).
Nel 1723 era compiuta
la “vaga facciata” che rimanda alla “vaghezza” del rococò. Si chiude,
nel 1742, con la costruzione del campanile, adorno di poggioli, per la
vista dall’alto del paesaggio, tra cielo, acqua e vegetazione.
Inoltre, va detto che,
nel biennio 1738-39, l’interno venne decorato dal frescante Luca Rossetti
d’Orta con episodi della vita del Santo.
Ci troviamo di fronte,
dunque, a due momenti costruttivi distinti: nel primo prevalse l’architettura,
con il suo lessico grazioso; nel secondo, la pittura, in strutture dipinte
che sono un completamento illusorio di quelle murarie.
Lo schema compositivo
della facciata la suddivide, essenzialmente, in tre parti: l’iniziale con
la porta, ornata da una cornice mistilinea; la mediana con la tabella in
cui prevale un sottile gusto lineare, quasi astratto nella sua intenzione
formale; la terminale a linea inflessa, su cui si distende, liberamente,
la luce naturale.
La leggerezza del prospetto
del S. Gaudenzio d’Ivrea è ora sottolineata, nel gioco delle forme,
dal recupero, per quanto è stato possibile, dei colori dell’intonaco
originario, con la dominante del grigio-azzurrino sull’avorio diffuso.
Ad essa concorre la
parete che, intorno alla porta, s’incurva in quattro nicchie, con motivo
a conchiglia.
Anche i ferri battuti
impiegati a segnare il limite del recinto, oltre all’esile ricamo delle
due croci sui vertici visivi, conseguono lo stesso effetto.
Il cornicione, plasticamente
segnato, induce una pausa, solo in parte disattesa dal cupolino che spunta
dietro con la macchia di colore delle sue rosse tegole.
Accanto al fastigio
ad onda, la sagoma del campanile si spezza e si riprende secondo un controllato
ritmo musicale, con il tocco a sorpresa dei poggioli a ringhiera in ferro.
Il completamento dell’organismo
del S. Gaudenzio avvenne con la pittura: attraverso un accattivante “inganno
ottico” ad affresco.
Le floride presenze
femminili che s’accendono in abiti rossi, azzurri e verdi, con panneggi
fastosi, tra vasi di fiori e squarci di paesaggio, anche di soggetto cittadino,
in accostamenti imprevedibili come la veduta del castello dalle rosse torri
al di sopra di un teschio, assistono al succedersi delle piccole “sacre
rappresentazioni”, narranti i miracoli del Santo proprio sul luogo in cui
dormì per l’ultima volta, prima del distacco definitivo dalla sua
città.
Vi perdura l’eco d’una
poetica della meraviglia, intesa al piacere visivo e alla persuasione,
trasferendo in figura, con chiarezza, una concezione retorica di pietà,
con attori guizzanti sul verde, fino al trompe-l’oeil delle due ampolle
di vetro, dimenticate dietro all’altare. Ingegnoso vi è anche, nella
liquidità del colore e della luce, lo sforamento del muro da parte
dello sguardo del Santo Vescovo diretto verso la Trinità, collocata
al livello superiore, nella seconda sacrestia sopraelevata.
Su tutto una tensione
per la magia fittizia della rappresentazione in grado di sostenere un paragone
con la realtà, in un colloquio serrato fra pittura ed architettura.
La memoria storica,
infine, ci dice della consacrazione di Gaudenzio, di nascita eporediese
secondo la tarda ma attendibile “Vita Gaudentii”, a vescovo di Novara,
alla fine del IV secolo, nel periodo eroico dell’evangelizzazione.
aldo moretto