MONTANARO - Gentile
redazione,
sono G.L. di Montanaro,
ho 44 anni, sposata con un operaio e mamma di due bambini di 14 e 5 anni.
Ho lavorato per anni in catena di montaggio, prima alla Lancia di Chivasso
e dopo la sua chiusura alla Fiat Mirafiori a Torino.
Turni molto duri, soprattutto
per una donna con levate alle 4 del mattino, per conservare un posto di
lavoro che permettesse alla mia famiglia di condurre una vita quasi normale:
finchè un mattino del 1998, mentre ero intenta al mio lavoro vengo
colta da malore e condotta d'urgenza all'ospedale: ischemia cerebrale con
complicazioni motorie e nervose, conseguenze che mi dovrò portare
dietro tutta la vita.
Dopo mesi di ospedale
a Torino e al centro neurologico di Novara vengo dimessa. Chiaramente la
mia vita da quel giorno è cambiata, sono costretta a licenziarmi
dalla Fiat; confido però di ottenere qualche forma di risarcimento
o qualche lavoro adatto alle mie condizioni di salute.
Mi rivolgo a molti
enti pubblici e privati per esporre la mia situazione, ottengo tante belle
parole e tanti buoni propositi; una persona di uno di questi enti mi disse:
“Signora con questa sua condizione fisica lei ha diritto ad ottenere un
minimo di pensione di invalidità, faccia domanda, vedrà che
non ci saranno problemi”.
Fiduciosa, faccio quanto
mi era stato consigliato. L'INPS, l'ente a cui ci si deve rivolgere
per ottenere tale sussidio, dopo visite accurate e letture attente delle
mie cartelle cliniche mi riserva per due volte punteggio di invalidità
67 centesimi: punteggio quanto mai strano perchè non dà diritto
ad alcuna pensione (il minimo deve essere 70), ma solamente al rimborso
di alcuni farmaci e poco altro. E' un punteggio che non permette di ottenere
alcun posto di lavoro per un invalido, tanto che la presidente di
una Associazione di Invalidi del Lavoro mi disse: “Signora, ma con un punteggio
simile chi vuole che la prenda a lavorare”.
Come mai vengono dati
questi punteggi, che non permettono nè di lavorare nè di
ottenere un minimo di pensione?
Ora è con molta
vergogna che io rendo pubblica la mia situazione: uno stipendio di un operaio
non è in grado di mantenere una famiglia con una moglie malata e
con molti debiti da pagare, con due figli che vanno a scuola e che hanno
gli stessi diritti che hanno gli tutti altri bambini.
Chiedo un po' di giustizia,
non riusciamo a pagare le bollette della luce o del gas, o la tassa sui
rifiuti; ho fatto di nuovo ricorso all'INPS per risolvere il mio caso.
So di non essere l'unica a vivere in queste condizioni di povertà,
ma non so più cosa fare.
Mi sono ammalata sul
posto di lavoro, sono fisicamente menomata, sarei disposta a trovare un
lavoro adatto alle mie condizioni fisiche; però oltre a buoni propositi
non sono riuscita a trovare niente.
Si parla tanto di solidarietà,
soprattutto verso le popolazioni del terzo mondo che vengono da noi per
migliorare le loro condizioni di vita: e io condivido questa solidarietà,
quando le mie condizioni economiche me lo permettevano provvedevo in prima
persona a dare la mia parte di contributo; ma ora che sono io a cercare
questa solidarietà chiedendo un lavoro o una pensione che nei miei
20 anni di turni in catena di montaggio mi sono sudata e meritata, ottengo
solamente porte chiuse e buone parole.
Grazie per l'attenzione.
g.l.