VALLE SACRA - Nei dintorni
di Cintano, la Valle Sacra era considerata, in età medievale, il
luogo delle capre, come si deduce dall’atto d’investitura, nell’aprile
del 1327, di Martino d’Agliè dei conti di S. Martino, da parte del
Vescovo eporediese Palaino, dove compare il termine “Val Caprina”, secondo
i rogiti Guala de Flore.
Il S. Giovanni di Cintano,
connotato da un campanile romanico, allora formava un corpo ecclesiastico
unito con le chiese di S. Maria de castro a Villa e di S. Maria Maddalena
de quinzono.
In dettaglio, il campanile
in pietra nella sua parte integra, mostra delle bifore e delle monofore,
sotto quattro archetti pensili, mentre sui fianchi si susseguono corsi
regolari di pietre ben tagliate.
Nella sacrestia vecchia,
in una lunetta, rimane, invece, l’affresco dell’ “Annunciazione”, sebbene
lacunoso, nei modi del “gotico internazionale”. L’Annunciata è assorta,
con lo sguardo abbassato, intenta al messaggio evangelico, d’estrema bellezza
nel volto incorniciato dai biondi capelli, a contrasto col rosso della
tenda.
A quest’interno corrisponde
l’esterno di una città dipinta, con casamenti ed una chiesa dal
campanile svettante sul cielo scuro, entro le mura merlate.
Nello spicchio estremo
di destra della rappresentazione, si colloca ancora un episodio reso enigmatico
dal fatto che il cartiglio è ormai illeggibile: si tratta di un
monaco seduto, a piedi nudi, sulla soglia della porta d’ingresso della
città di Gerusalemme.
L’Angelo annunciante,
infine, è perso per l’interruzione causata dal tardivo inserimento,
entro tondi, dei misteri dolorosi di Maria, tra cui la Crocefissione.
Il castello di Villa
per contro, entro cui si trovava S. Maria de castro, oggi in rovina, s’articolava
in una torre in pietra, ora ricoperta dall’edera, e in una residenza di
mattoni, in bilico sullo strapiombo. Tra i ruderi, una stanza conserva
un ciclo cavalleresco ad affresco, di cui rimangono però soltanto
più dei frammenti.
Sulla parete sinistra
colpisce, coloristicamente, il fregio col nastro ondulato, ornato da un
motivo a pelta, nell’alternanza di rosso e di giallo. Al di sotto si svolge
la cultura delle “grandi piante”, simile a quella raffigurata nel Palazzo
vescovile d’Ivrea, all’inizio di Quattrocento, per quanto con gli alberi
dal fogliame frastagliato spesso ridotti al nero di preparazione, sulla
siepe di chiusura.
Sulla parete di destra
si vede, invece, un guerriero, in armatura d’acciaio, dai riflessi grigio-azzurrini,
scalare le mura d’una fortificazione: anzi soltanto più un piede,
metallicamente calzato, che poggia tra i merli. L’essenzialità del
disegno lineare lo rende geometrico, in analogia con l’ “arte meccanica”
di Fernand Lèger.
Più naturalistica
una grande pianta, con il tronco chiaro tra larghe foglie verdine, sovrasta
gli archi di sostegno degli edifici castrensi, sopra un velario tracciato
a linee nere.
La cappella montana
di S. Maria Maddalena de quinzono sorgeva, infine, a nord del monte Calvo
ed era al servizio della transumanza verso la Quinzeina. Nel 1311, a favore
di frate Guglielmo, che la reggeva, s’addivenne ad un contributo straordinario,
deciso dalla comunità valligiana: “cum dicta ecclesia esset pauperrima
et frater ibi serviens non haberet redditus unde vivere posset”.
Il trasferimento del
bestiame alla ricerca dei pascoli d’alta quota necessitava, nelle valli
di Canavese, di punti di sosta, anche religiosamente attrezzati.
L’esistenza negli alpeggi
trascorreva lenta, dedita ad occupazioni abitudinarie, rotta solo da eventi
improvvisi, come il fulmine che corre lungo la roccia. L’organizzazione
che la sosteneva non ammetteva margini di disubbidienza alle sue regole,
frutto d’una pratica ormai anonima, dalle radici immemorabili. L’individuo
poteva sentirsi solo accanto agli animali: di lì l’esigenza di santuari,
anche minimi, dove i sentieri s’intersecano, per avvicinarsi al volto degli
altri, nell’ascolto e nella condivisione dei sentimenti.
aldo moretto