IVREA - L’uscita di
un libro, dal titolo “Ivrea. Ventun secoli di storia”, edito da Priuli
e Verlucca, con la presentazione del sindaco Fiorenzo Grijuela, ha voluto
ricordare oggi la nascita di Ivrea come città “romana” e il suo
sviluppo nel tempo, fino al presente, procedendo per momenti esemplari,
illustrati da un puntuale apparato fotografico.
La questione delle
origini, quindi, è stata subito ampiamente affrontata da Lelia Cracco
Ruggini e da Rita Lizzi Testa nel suo saggio iniziale che, dopo aver gettato
uno sguardo sul sito scelto, a ridosso dei valichi alpini, dove il fiume
raggiunge la piana, si ferma sulle ragioni, derivanti anche dalla consultazione
dei Libri Sibyllini, del momento di fondazione della colonia di “Eporedia”,
nell’anno 100 a.C.
La fortuna del nuovo
insediamento, appartenente alla tribù Pollia, dipese all’inizio
sia dal controllo delle “aurofodinae” dei victimuli, sull’altipiano della
Bessa, che da quello del transito sempre più frequente degli eserciti.
E proseguì oltre, si potrebbe dire per la sua importanza strategica
connaturata all’acqua e alla roccia.
Tale discorso storico
viene sostenuto, da parte di Liliana Mercando, con un’analisi dei risultati
conseguiti dall’ “archeologia romana”, soprattutto nei confronti dell’ubicazione
del teatro d’età flavia - traianea, attualmente non più visibile,
sulle pendici della collina rocciosa su cui sorgeva l’imponente struttura
del tempio, individuata di recente attraverso gli scavi stratigrafici intorno
all’abside del duomo. Un punto storico centrale per Ivrea, disegnato da
Sergi, è stato quello della marca, prima amplissima, come coordinamento
di comitati governati da un marchese, ossia da Anscario, a partire dall’anno
888; poi più piccola, fino al 1015, quando s’esaurì, a Fruttuaria,
l’avventura esistenziale d’Arduino.
Il periodo “dal vescovo
al comune” è stato trattato, invece, con un procedere svelto da
Antonella Faloppa: sarà da leggersi in parallelo alla recente documentatissima
“Storia della chiesa di Ivrea”.
Gli “spazi del sacro”,
a cura di Annamaria Loggia e di Franco Quaccia, diventano particolarmente
suggestivi per contro nella descrizione delle confraternite: dall’oratorio
di San Nicola da Tolentino a quello di Santa Croce, dedito al Suffragio
e alla preghiera per le anime del Purgatorio; con in mezzo la presenza,
in origine collinare, di San Gaudenzio. Un racconto personalizzato di Franco
Ferrarotti rievoca, infine, un’esperienza di lavoro nell’ambito del movimento
di Comunità ed un prolungato contatto umano, seppur intermittente,
con Adriano Olivetti. E’ commovente la visione del grande industriale ormai
cadavere dentro la sua fabbrica, in un vasto spazio fra le macchine: “La
bara di Adriano Olivetti, scoperta, era stata posta al centro del salone.
Quando me lo vidi, steso nella bara, ormai freddo cadavere ma stranamente
percorso da una potente, misteriosa vitalità, come se da un momento
all’altro dovesse drizzarsi e prendere la parola, i miei freni inibitori
di colpo cedettero: ‘Adesso, solo adesso che è morto, potrete finalmente
starvene tranquilli, cominciare a dire che in fondo era un buon padrone,
tessere la leggenda dell’industriale illuminato’. Parlavo e piangevo insieme,
rabbiosamente, intorno a me e alla bara si allargava un innaturale silenzio”
(p.237).
Si chiude con le prospettive
di Mario Rey ed i suoi scenari, svolti in tono confidenziale, per ritrovare
un equilibrio, che sembrava ultimamente perduto, tra vita economica ed
industriale, tra città diffusa e territorio, confidando in specie
nelle nuove tecnologie della comunicazione, trasversali ai più diversi
settori d’attività, in un orizzonte d’integrazione monetaria e politica
europea. A tal fine si possono ancora utilizzare gli appunti di Pier Paride
Vidari sulla forma della città che, dalla memoria dei luoghi del
lavoro dell’ “Olivetti”, fissati in un museo a cielo aperto, vuole attualizzarsi
in segni d’una rinascita, innanzitutto morale.
aldo moretto