ROMANO - Dalla terrazza della casa romanese di Enrico Formica si gode una vista "fotografica" sui tetti, inondati di sole della parte bassa del paese. Dentro il suo laboratorio altre viste più universali, a 360 gradi, dedicate a Nizza (l'ultimo libro di foto sue, pubblicato da Priuli e Verlucca), a Barcellona (in preparazione), calendari con paesaggi canavesani e, in un angolo, un computer, ancora perfettamente imballato, che aspetta con ansia di vedere la luce.
Vedo che anche tu ti
sei convertito alle tecniche d'avanguardia…
E' lì da anni;
so di averlo e per ora mi basta.
Che cosa ci fa un fotografo
nel sertão?
La stessa cosa che
potrebbe fare a casa sua: dimostrare che la terra è per l'uomo.
Nella fotografia non
si sentono i suoni, non si percepiscono gli odori, come quando si è
sul posto; sta, quindi, al professionista far sì che tutto
venga trasferito nella fotografia e poi percepito da chi la guarda. Importante
è inserire nel contesto l'"elemento uomo" che è il complemento
oggetto, non il soggetto e poi dalla presenza dell'uomo si deve capire
dove ci si trova: Africa, in Asia, America, ecc.
Conoscevi già
il Brasile?
Non conoscevo il Brasile:
è stato un bellissimo incontro. Mi sono documentato prima di partire.
Quando sei sul posto, non basta l'obiettivo fotografico; bisogna usare
sette o dieci occhi per cercare di cogliere il massimo. E' stato fantastico.
Arrivavo da un'esperienza in terra africana, dove ho visto molta miseria.
In Brasile ho incontrato una povertà più dignitosa e più
discreta: anche nelle favelas, dove la pulizia non è una prerogativa,
mi ha colpito la gioia e l'allegria dei bambini.
Tu sottolinei sempre
la presenza dell'uomo nei tuoi scatti. Come è stato il tuo rapporto
con le persone?
Per abitudine ed educazione,
quando vedo una persona che mi piacerebbe fotografare, chiedo sempre la
sua autorizzazione. Le persone che ho incontrato sono state molto disponibili;
anzi, mi ringraziavano in continuazione: si sono prestate anche per foto
"in posa", che richiedono un po' più di tempo. I Brasiliani,
specialmente i bambini, sono degli attori nati. Dovunque sia andato
ho avuto porte aperte.
Cosa pensi del lavoro
dei nostri missionari?
Ho visto in loro una
forza e un amore incredibile: vivono "in simbiosi" con la gente. Il popolo
bahiano ha un profondo rispetto e tanta riconoscenza nei loro confronti.
Cosa dici dei progetti
che da anni sosteniamo?
Sono rimasto impressionato
dalle cose che sono state realizzate in poco tempo e che vengono sostenute:
asili, scuole, ambulatori..
Il Progetto Catavento
mi ha dato l'idea di una superstrada asfaltata, sulla quale
possono camminare e correre dei bambini, abituati ai piccoli sentieri della
foresta.
Anche questa è
una visione fotografica?
Considerala come ti
pare. Io ho visto nel Progetto una possibilità di vita per tanti
bambini, che della vita hanno conosciuto gli aspetti peggiori.
Ho visto in molti visi la
gioia di poter fare qualcosa, di imparare, di creare degli oggetti.
Nella fazenda Nadia ho incontrato un clima molto sereno; non ho mai percepito
nei bambini la pesantezza dell'obbligo del lavoro. Così, le bambine,
nella loro casa, attente a alla pulizia; attente a curare anche la loro
persona, con civetteria .spontanea..
Tu sei un fotografo
professionista. Come consideri questa tua fatica rispetto ai tanti
altri lavori che hai fatto?
Non c'è in me
un disaccordo tra la mia vita e la mia professione di fotografo.
Spesso nella mia professione
c'è implicito un messaggio pubblicitario: cerco di esaltare qualcosa
che voglio mostrare. Dico "pubblicitario", nel senso
di pubblicità dell'uomo.
Nel mio lavoro su Nizza,
per esempio, si vede una città tirata a lucido, anche se in realtà
non è proprio così. Il mestiere del fotografo è anche
quello di accattivarsi le simpatie di chi non conosce. In Brasile, invece,
mi sono trovato a pubblicizzare, nel senso di valorizzare,
la persona con tutti i suoi valori: l'anima stessa della persone. Al contrario
di quanto fanno molti giornalisti, che speculano sulla miseria delle persone,
ho cercato di cogliere nel dolore, nella drammaticità di tante situazioni,
l'aspetto meno triste, il buono che può scaturire da un male. La
foto di un bambino che piange, per esempio, non è detto che descriva
la fame e la sofferenza di questo bambino. Potrebbe essere semplicemente
la diffidenza e la paura della mia barba.
Ho sempre, comunque,
voluto mostrare la dolcezza di queste persone.
Nelle mie fotografie,
poi, oltre al contenuto, che è l'uomo, ho voluto mostrare anche
il contenitore, che è il paesaggio, che sono gli oggetti, gli
animali.
La differenza, quindi, tra
questo e altri miei lavori è che in questo libro c'è un'anima,
qui ci sono delle persone, che mi hanno accolto e a cui ho voluto subito
bene. Sono contentissimo di aver fatto questa esperienza.
Missione compiuta, dunque.
Anche un fotografo nel sertão,
che non è certamente un ambiente che può rallegrare l'occhio,
può trovare mille volti e mille motivi che rallegrano il cuore e
permettono di nutrire i sogni che vive da altre parti.
g.g.