IVREA - INCONTRO CON LO SCRITTORE
MBACKE GADJI CHE PARLA DI INTEGRAZIONE ‘Sono un vostro
concittadino’
IVREA - I lettori del
“Risveglio” hanno già avuto modo di conoscere questo scrittore.
Mbacke Gadij. Il suo libro “Pap, Ngagne, Yatt e gli altri” è stato
infatti presentato sul nostro giornale, a giugno, da Gabriella Bona. Ora
la conoscenza si è approfondita, perché Gadij è venuto
a Ivrea, nell’ambito della “settimana multiculturale” organizzata da Comune,
Consulta per l’immigrazione, Associazione Multietnica degli Immigrati di
Ivrea e Canavese, El Majhar, associazione dei marocchini di Ivrea e Canavese.
La sera di giovedì 27, nella Sala Dorata del Municipio, lo scrittore
è stato intervistato da Dirce Levi, Gabriella Bona e Anna Formento,
per conto rispettivamente della “Sentinella del Canavese”, del “Risveglio
Popolare” di “Varieventuali”.
Gadij parla volentieri,
dice di aver bisogno di parlare agli altri e anche a se stesso, per dire
chi è. Con grande vivacità, in un italiano perfetto, racconta
la sua esperienza e quello che gli ha insegnato: nato in Senegal, ha studiato
nelle scuole francesi, poi dal 1986 è vissuto in Francia e in Spagna,
dal ‘94 è a Milano, giornalista. Il punto che gli sta più
a cuore è l’uguaglianza con gli altri cittadini e insieme il riconoscimento
della propria identità. Gli stranieri ricevono in Italia tolleranza
e anche solidarietà, ma lui vuole essere considerato un cittadino
uguale agli altri, ma con rispetto della sua identità e fiducia.
Non è facile l’integrazione. Non bisogna isolarsi nei “club afro”
o simili; bisogna confrontarsi, fare festa con tutti, vivere con tutti.
Questa è una difficoltà di tutti gli immigrati (anche degli
italiani all’estero); l’immigrato non è più quello di prima,
ma non è ancora un altro. Certo nel contatto con gli altri si notano
usanze e modi diversi, ma bisognerebbe riflettere che “ogni fatto ha il
suo contesto” e i costumi nascono dalla storia, nella quale nei secoli
c’è stata ignoranza e fame, che sono causa di abbruttimento; quando
la sopravvivenza è il primo pensiero, non c’è spazio per
altro.
A chi gli osserva che
il suo libro è scritto in uno stile “occidentale”, dove si sente
la sua posizione tra due culture, Gadij risponde che è vero che
non scrive come parla. La sua educazione è stata francese e gli
ha iniettato il sospetto di essere di una cultura inferiore. Perciò
vuole essere come un europeo e batterlo nel suo terreno e scrivere come
un europeo. E’ difficile liberarsi dal senso di inferiorità.
Questa ammissione,
così sincera e sofferta, è quello che più mi ha colpito
nell’incontro con Gadij. Che si è diffuso nell’analizzare il rapporto
tra colonizzatori e colonizzati (non riesce a capire la mentalità
degli schiavisti e dei colonizzatori), dichiarando amaramente che
anche oggi l’Africa non conta nulla, che la politica dei paesi ex-francesi
dipende ancora e sempre dalla Francia, alla quale lui non può perdonare.
Perciò vive in Italia. E’ molto onesto Gadij: sollecitato da una
domanda del pubblico, riconosce senza indugio che gli Africani di oggi
hanno compiuto molti errori e sono governati da un ceto politico inamovibile.
Questa figura di giovane intellettuale, con i suoi rimpianti, la sua amarezza,
il suo orgoglio e il suo calore umano, ci ha molto aiutato a conoscere
meglio la complessa realtà dei nostri nuovi concittadini.