IVREA - Se la rivisitazione
della figura e dell’opera di Adriano Olivetti, a cent’anni dalla sua nascita,
costituiva un atto di doverosa riconoscenza, anche da parte della diocesi
di Ivrea - come ha dichiarato il Vescovo Mons. Miglio nell’introduzione
al Convegno - essa rappresentava altresì una scommessa: se mai fosse
possibile salvare dall’oblio le intuizioni e le esperienze dell’ingegnere
di Ivrea, contrastandone la inesorabile deriva verso il “reperto archeologico”.
A queste motivazioni
si è collegato il Convegno proposto dalla Diocesi di Ivrea, sotto
il titolo “A. Olivetti, imprenditore cristiano?”, realizzato dall’Ufficio
per la Pastorale sociale e del Lavoro, e tenutosi presso la Parrocchia
del Sacro Cuore, ad Ivrea, lo scorso sabato 2 giugno.
Il punto di domanda
che figura nel titolo tendeva ad escludere ogni pretesa, da parte della
Chiesa, di appropriarsi di una figura di tale grandezza ma, semmai, mirava
a riconoscere l’originalità della sintesi fra laicità e ispirazione
cristiana che Olivetti ha saputo attuare.
La relazione del Prof.
Giorgio Campanini dell’Università di Parma, ha avuto il merito di
situare il progetto olivettiano del personalismo comunitario nel lungo
ed accidentato cammino dell’idea comunitaria attraverso il secolo scorso,
cammino segnato da momenti di oblio e di ripresa, ed anche da pericolose
alterazioni e deformazioni da parte dei regimi totalitari. Olivetti, come
è noto, si è ispirato ad alcuni maestri del pensiero sociale
d’oltralpe (soprattutto E. Mounier), non limitandosi ad una semplice “introduzione”
e divulgazione in Italia, ma suggerendo, nelle sue attuazioni concrete
in fabbrica, interessanti elementi di novità.
La prima si può
riscontrare in quella idea di “comunità diffusa” sul territorio,
che cerca di integrare lavoro e tessuto umano, sistema politico e mondo
della produzione, e soprattutto di recuperare il rapporto vitale fra persona
(ecco appunto l’istanza “personalistica”!) che lavora e il lavoro stesso,
con le condizioni oggettive in cui è vissuto.
In tale comunità
- e siamo alla seconda novità di rilievo - si vive un modello decentrato
e realmente “federale” (per l’assetto federale non mancavano ad Olivetti
i riferimenti ai modelli americani e svizzeri) di organizzazione della
società, centrata comunque - ed è questa l’originalità
del progetto olivettiano - sulla struttura produttiva di base del territorio.
Questa struttura diviene una sorta di elemento di identificazione dello
stesso territorio. Tutti sanno in quale misura negli anni ‘60 Olivetti
e la “Olivetti” si siano venuti “legando” all’area canavesana, come fattore
della sua stessa identificazione.
La relazione del prof.
Giovanni Maggia ha disegnato in termini più concreti il rapporto
fra Olivetti, la “Olivetti” e il Canavese. Un territorio, in quegli anni,
tutt’altro che un’isola felice, segnato da una profonda crisi economico
- produttiva (si pensi alla crisi del settore tessile). Olivetti ha cercato
di evitare l’illusione che la sua “ditta” potesse saturare, da sola, l’intera
domanda di occupazione. Ha posto la sua iniziativa sociale e lo sviluppo
della sua azienda come stimolo e punto di equilibrio per un assetto produttivo
più differenziato (si pensi alle iniziative raccolte sotto la sigla
Irur).
A questo si aggiunge
l’attenzione ad evitare un’urbanizzazione selvaggia, una crescita mostruosa
della città, e le realizzazioni, sul piano del Welfare, di servizi
sociali di buon livello, talora di avanguardia, a cui si accedeva non per
un dono elargito benevolmente da qualcuno ma per un preciso diritto di
cittadinanza.
Proprio lo sviluppo
ad opera di Olivetti e della sua azienda di servizi di carattere educativo
poneva le premesse per una certa “concorrenza” (e potenziale conflittualità)
con istituzioni analoghe, in larga parte facenti parte alla Chiesa. Se
i bambini vanno agli asili-nido dell’Olivetti, non vanno più dalle
suore, sussurrava qualcuno...
Ai temi della secolarizzazione,
in parte innescata dall’attuarsi dello stesso progetto comunitario di Olivetti,
era dedicata la relazione del sociologo, il prof. Franco Garelli, dell’Università
di Torino. Rileggendo alcune indagini di carattere sociologico prodotte
a livello diocesano - soprattutto le inchieste svolte in preparazione al
Sinodo Diocesano - il relatore ha fatto rilevare come alcune valutazioni
che lì si leggevano fossero talmente anticipatorie da risultare
ancora largamente attuali. La Chiesa sembrava avere, fin dagli anni ‘70/80,
una chiara coscienza di alcuni processi culturali ancora ampiamente presenti
nel panorama di oggi: la tendenza al “primato del soggettivismo”, l’abbandono
di ampie visuali ideologiche, la valorizzazione della sfera privata, alcune
spinte ad una certa marginalizzazione della Chiesa rispetto ad alcuni fatti
sociali...
“Secolarizzazione”
viene qui a significare una differenziazione sempre più spinta,
l’autonomia sempre più marcata di alcune componenti sociali - il
mercato, la politica... - rispetto alla sfera religiosa. Di qui i problemi
posti dalla duplice “radice” della secolarizzazione: all’interno della
Chiesa, consiste nella difficoltà a misurarsi con la modernità
e ad assumere i necessari aggiornamenti; all’esterno, si esprime nella
constatazione dolorosa di un mondo che si va sempre più allontanando,
nel suo pensarsi nella storia.
Eppure, a giudizio
del relatore, lo sforzo di monitorare il territorio diocesano, la capacità
di cogliere in anticipo certe trasformazioni è indizio convincente
di una vivacità culturale a cui Olivetti ha portato il suo contributo
e a cui la Chiesa stessa non è estranea.
L’intervento dei Vescovi
Giachetti e Bettazzi ha avuto il valore di preziosa testimonianza. Particolarmente
interessante, nelle parole di Mons. Giachetti, l’appassionata difesa dell’ispirazione
cristiana di Olivetti ed anche il rammarico che l’avventura politica, oltre
che la morte prematura, abbia compromesso lo sviluppo di alcune preziose
potenzialità del progetto comunitario olivettiano.
d.p.a.