Ogni visita alle chiese
dei paesi dove operano i nostri sacerdoti “Fidei Donum”, insieme ai laici
volontari, suscita sempre in me qualche interrogativo. Già la denominazione
“Fidei Donum” è un invito alla riflessione. Si tratta di un termine
nato dopo un’enciclica di Pio XII pubblicata nel 1957, che iniziava proprio
con queste due parole - Il dono della fede - e che incoraggiava la
cooperazione tra le chiese ricche (a quell’epoca) di sacerdoti e quelle
che ne erano povere o quasi prive. Pochi anni dopo venne il Concilio ed
il seme messo da Pio XII crebbe e si moltiplicò rapidamente.
Si tratta dunque di
un’esperienza nata per aiutare quelli che venivano chiamati i paesi di
missione. Quando poi ci si è resi conto che anche noi si stava diventando
paesi di missione, mentre intanto le chiese di quei paesi si rinvigorivano
e si vivacizzavano, si è passati a parlare, più correttamente,
di cooperazione tra le chiese, il che indica sempre un forte impegno di
evangelizzazione, ma non più a senso unico. Possiamo ben dire anche
noi che la collaborazione con le chiese del Brasile e di altri paesi è
stata ed è un forte stimolo di evangelizzazione.
E’ questa la parola
che più mette in crisi e suscita domande. Noi, cristiani del vecchio
mondo, con che faccia possiamo presentarci ai fratelli del Brasile o dell’Africa
per annunciare che Gesù è risorto ed è il Signore
della storia e della nostra vita? I missionari di 50 o di 100 anni fa potevano
anche stendere un velo pietoso sulle contraddizioni dei loro paesi di origine,
oggi questo non è più possibile. La tentazione allora è
quella di defilarsi, o di limitarsi a fare opera di promozione umana e
di questa sola parlare. Ma anche questo non è possibile. La tentazione
allora è quella di defilarsi, o di limitarsi a fare opera di promozione
umana e di questa sola parlare. Ma anche questo non è possibile:
ce lo impedisce la fede viva e giovane di molti dei cristiani di quelle
comunità. Anche loro in fondo potrebbero limitarsi a ricevere aiuti
materiali, ma per fortuna nostra questo non basta neppure a loro.
Abbiamo perciò
incontrato comunità che radicano fortemente ogni loro iniziativa
nell’eucaristia e nella vita ecclesiale e trovano un sostegno indispensabile
nel servizio del sacerdote visto non solo come il ministro dell’eucaristia
ma come il padre che appartiene totalmente alla comunità ecclesiale
e ai poveri. Ho contemplato più volte nelle scorse settimane con
quanto amore i ministri laici distribuiscono e ripongono la S. Eugarestia,
ma anche con quali occhi pieni di gioia si rivolgono al padre cui hanno
dato la loro piena fiducia. Un ruolo, quello del “padre”, di cui forse
noi non cogliamo tutta la portata, in una realtà che ci colpisce
anzitutto per la grande povertà materiale.
Anche noi però
un piccolo segno di resurrezione e di evangelizzazione lo abbiamo portato
in questi anni. Mi riferisco in modo particolare ad alcune realizzazioni
che portano il nome di nostri giovani prematuramente scomparsi. La scuola
materna dedicata a Laura, il centro sanitario dedicato a Sergio e la fazenda
per i ragazzi tolti dalla strada dedicata a Nadia sono segni di risurrezione,
vite sradicate dalla nostra terra per germogliare in mezzo a quei bambini
e ragazzi, un anticipo di resurrezione, che permette di guardare più
avanti e di crescere nella speranza. Un invito a non aver paura di allargare
sempre più l’orizzonte della speranza e di annunciare Colui che
è il fondamento di ogni speranza duratura.
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