IVREA - Può accadere
di vivere in un ospedale africano flagellato dal devastante virus dell’ebola
a contatto quotidiano con la morte; di scegliere liberamente di varcare
la soglia del reparto dell’ebola, il “reparto della morte” quasi sicura?
Sì, è quanto è accaduto, nei mesi trascorsi in Uganda,
a suor Dorina Tadiello. La presenza ad Ivrea della sorella e del cognato,
Rosa e Pierangelo Monti, ci consente, ancora una volta, di riannodare i
contatti con una coraggiosa testimone della carità del nostro tempo.
Suor Dorina Tadiello
è missionaria comboniana, suora e medico in Uganda. Attualmente
lavora in un progetto per gli ammalati di aids. All’inizio dell’epidemia
di ebola, si offre come volontaria per assistere i colpiti dalla malattia.
E’ un virus ancora in larga parte sconosciuto, dagli effetti rapidi e devastanti:
una morte atroce, in buona parte dei casi. Nonostante le prove di laboratorio,
non esistono rimedi efficaci.
Suor Dorina non ha
l’aria dell’eroina o della star. E’ una donna che vive e testimonia con
semplicità una consacrazione religiosa che, nella Famiglia delle
Suore Missionarie Comboniane, l’ha portata a condividere i drammi dei poveri
in Africa: i conflitti tribali, la denutrizione e il sottosviluppo, ed
ora il dramma del contagio dell’ebola nel Lacor Hospital di Gulu, in Uganda.
La testimonianza che
ha offerto la sera dello scorso giovedì, nell’incontro organizzato
all’Oratorio San Giuseppe, è di quelle che lasciano un segno profondo,
e non solo a livello emotivo. Non se ne vorrebbe perdere nemmeno una battuta.
Il racconto di suor Dorina è quello di una drammatica avventura
vissuta in un ospedale africano, con i malati colpiti dall’ebola, con i
drammi umani e sociali causati dal male. Una storia drammatica condivisa
con il personale sanitario che aveva scelto di restare al suo posto, e
ha pagato, a sua volta, un prezzo pesante all’epidemia. Un’avventura in
cui sono fiorite testimonianze incredibili di fede, di abbandono, di preghiera,
di carità “estrema”, che consegna se stessi al rischio quotidiano
del contagio e di una probabile morte.
Ed è, per dirla
con le parole di suor Dorina, “una pagina grande” di dedizione, di generosità,
di speranza nella storia dell’Africa. C’è chi è morto nelle
sofferenze più atroci, cantando i canti della propria chiesa.
Suor Pierina, Grace,
Immacolata..., il dottor Matthew Lukwiya, direttore sanitario dell’Ospedale,
hanno pagato con la vita, quel servizio reso agli “ultimi”. Sono
i martiri della carità, nell’ultimo scorcio dell’Anno Giubilare.
Matthew Lukwiya era
un brillante medico ugandese, della tribù Acholi, largamente provata
dai conflitti tribali. Rinuncia ad una brillante prospettiva di carriera
in Occidente, dopo la specializzazione conseguita a Liverpool, e torna
al servizio della sua gente, a Gulu, in un ospedale cattolico, lui, anglicano
convinto, ma soprattutto uomo di pace, di dialogo aperto, dotato di un
senso di responsabilità e di dedizione eccezionali. Nei confronti
del personale sanitario dell’ospedale, sa essere convincente nel richiedere
i sacrifici più grandi, perché è in prima fila, a
vivere di persona quanto chiede agli altri.
Arrivato a Gulu, vede
morire in pochi giorni cinque infermiere, di un male misterioso. E’ lui
ad avanzare per primo l’ipotesi diagnostica, di ebola. Quando l’epidemia
si diffonde, chiama suor Dorina a collaborare con lui. Nel dramma dell’ebola,
matura la coscienza più profonda che, in quella situazione, la professione
medica è soprattutto vocazione a servire la vita e che quel servizio
può richiedere il sacrificio, il dono della propria. Dinanzi alla
salma di una suora morta di ebola, confida a suor Dorina: “Se guardiamo
con gli occhi della fede, ci rendiamo conto che qualcosa di grande sta
avvenendo attorno a noi. Noi ne siamo testimoni. Per ora lo intravediamo
solo in modo confuso...”. E, alla scomparsa di altre infermiere colpite
dallo stesso tremendo morbo, commenta: “Siamo davanti al martirio e alla
santità”. Quando sente che è toccata a lui, osa domandare
nella preghiera: “Mio Dio, morirò di ebola, ma voglio essere l’ultimo”
(tra il personale medico). Una preghiera (per ora) esaudita.
don piero agrano