NONOSTANTE LE DICHIARAZIONI DEL GOVERNO
"Recupero OP": non tutti sono ottimisti
IVREA - E’ stata una bella serata, quella di domenica 19 settembre,
in cui è stato ripetuto all’interno della fabbrica Op Computers
lo spettacolo di Laura Curino e Daniele Vacis del Teatro Settimo sulla
figura di Adriano Olivetti. Era una vivace rievocazione del capitalismo
illuminato degli Olivetti, ma anche una constatazione che tutta questa
“civiltà’’ era ormai stata archiviata.
E pare proprio così, con la “caduta dell’impero
Olivetti’’ (culturale, sociale, industriale) e il presentarsi sulla scena
dei barbari della finanza, abituati ormai a operare in un mondo virtuale
senza preoccupazioni sociali: “Meglio licenziare dei lavoratori che disattendere
le aspettative degli azionisti’’, dice oggi Colaninno.
Ma questa sorta di involuzione culturale riguarda anche
la politica e le istituzioni: ha ragione il dott. Caglieris quando scrive
“il Governo di centro sinistra, apprendista alla scuola del neo liberismo
e paralizzato dal complesso di apparire ancora legato a forme di vetero
assistenzialismo’’ (La Sentinella, 20.9.1999). Cioè l’impegno principale
del Governo nei mesi scorsi è stato quello di onorare la professione
notarile a fronte delle vicende dei mercati finanziari, svincolandosi da
ogni forzatura che avesse un minimo sapore dirigistico teso a tutelare
risorse umane e materiali in campo informatico, che sono un bene per il
paese.
Bisognerebbe aggiungere che la cosiddetta “globalizzazione’’
sommerge il bene o interesse nazionale.
Ora il Governo, unitamente alle altre istituzioni
locali, afferma di scendere in campo (incontro a Roma del 23 settembre
scorso) per trovare una soluzione complessiva, partendo dalle procedure
che il tribu8nale fallimentare è tenuto a seguire, ossia l’esame
delle varie offerte per rilevare la OPC, che morta vale poco più
che niente. A questo proposito occorre tenere presente che la procedura
fallimentare tutela prioritariamente i creditori.
Per quanto si riesce a capire si tratta di soluzioni di
profilo non elevato, e comunque ritagliate sull’interesse e sulla capacità
o volontà di esporsi di alcuni imprenditori disposti a rilevare
l’azienda fallita (non è chiaro se con o senza marchio).
Il pericolo principale è che si inizi ora una complicata
discussione su processi di riconversione in attività sostitutive
per riutilizzare l’area di Scarmagno, anch eperché ci sarebbero
dei finanziamenti letati al “patto territoriale’’.
Mi pare che manifesti questa opinione anche Dario Cossutta,
presidente di Itainvest, con una sua lettera intitolata “siamo disposti
a discutere di altri progetti’’ (pubblicata sul Manifesto del 18 settembre).
Egli afferma che “il ruolo dello Stato è necessario... per stimolare,
favorire, sostenere iniziative strategicamente valide che i privati per
ragioni diverse non hanno la forza di intraprendere’’. E fin qui va bene.
Poi ci informa che Itainvest (che è una s.p.a. pubblica) ha avuto
il coraggio di esaminare le scelte industriali di Op Computer e di aver
rifiutato l’appoggio a progetti non credibili. Sul merito di questa non
credibilità Cossutta non ci fornisce delucidazioni, e conclude affermando
di poter sostenere “un progetto di riconversione e ristrutturazione di
quella realtà industriale’’.
Può darsi che il giudizio negativo coinvolga anche
il gruppo di manager che ultimamente gestiva in affitto la OPC (cioè
Eurocomputer) e di cui ci si voleva sbarazzare perché non godevano
di gradimenti o sostegni politici. Ma sta di fatto che troppi hanno (attivamente
o passivamente) lavorato in questi mesi perché si arrivasse alla
chiusura: e non perché le linee di produzione di personal computer
fossero inevitabilmente destinate a morire.
Sulle condizioni di quadro bisogna citare due questioni:
la prima è un’opinione diffusa, già al tempo del Governo
Prodi e che Olivetti ha costruito e consolidato nel mondo finanziario sganciandosi
da tutta l’attività sui Pc, ossia che la lotta verso il basso sui
costi dei componenti e dell’assemblaggio non era sostenibile in Italia
e, non essendo più remunerativo quel settore, dovevamo escluderci
dal proseguire quelle produzioni. La seconda questione riguarda la struttura
produttiva che, risalendo agli anni ‘80, non appariva più adatta
a tenere a galla la OPC: dunque era (ed è) necessario un salvataggio
attraverso un’ampia ristrutturazione, come è stata realizzata in
aziende americane, che si sono conservate senza trasferirsi in quei paesi
dove la globalizzazione dirotta il decentramento industriale.
Ma le domande allora sono: serviva azzerare (ossia chiudere)
per fare la ristrutturazione, oppure le ristrutturazioni si fanno mentre
si è presenti sui mercati? E perché se nel merito c’erano
obiezioni e controproposte Itainvest non le ha fatte valere e aiutate conl’avallo
del potere politico?
Dire che l’Italia non perde nulla dalla chiusura di Scarmagno,
e cioè dalla sua uscita da un settore non più strategico,
è una ipocrisia che purtroppo anche illustri docenti di economia
industriale, hanno esposto, per esempio su “Il Sole - 24 Ore’’. Ci vuole
un bel coraggio a pensare che la dispersione, in atto da anni e che
ora continuerà, di tante competenze di fabbrica e di progetto che
c’erano in Olivetti, sia il marchio di una nuova civiltà. Senza
contare i costi sociali e previdenziali di queste distruzioni di occupazione,
e il degrado anche sul tessuto industriale locale provocato dalla cessazione
di una produzione manifatturiera non obsoleta.
Itainvest e il Governo dovrebbero fornirci ora delle indicazioni
di recupero: finora le testimonianze non depongono a favore.
giovanni avonto
24 settembre ‘99
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