La cartiera Discepoli
L’arte tipografica, come altre attività del Lazio hanno sempre gravato su Roma; poche e
di scarsa importanza sono state le officine tipografiche che, almeno fino a
tutto il secolo XVI, hanno lavorato fuori Roma.
Dagli atti notarili si è decifrata la cronistoria della cartiera, che a partire dal 1619 fino all’anno della sua definitiva cessazione d’attività, verso il 1925, ha visto il susseguirsi di vari proprietari, che hanno lasciato come testimonianza dell’attività della cartiera alcuni inventari.
Risale al 19 gennaio del 1740 l’inventario minuzioso della cartiera del conte Felice Degli Atti, dalla quale ricaviamo
la presenza della stanza del tavolato, una stanza contigua dove si trovavano 100 libbre di carta, forme e feltri,
una stanza degli stracci, una del tinello, una stanza delle pile con due pile per “pistare” gli stracci, una stanza
della caldara dove veniva riscaldata la colla, la stanza degli stenditoi, dove si stendevano i fogli di carta per
l’essiccazione, un altro stenditoio con due tese, nella palazzina di sopra e nella stanza della Pila di mezzo, due pile
con due “mazze” per batter gli stracci.
Sul luogo della cartiera, sorgeva in epoca medievale, una gualchiera e prima ancora un mulino. L’edificio era costruito
in muratura con blocchi irregolari di pietra a vista; le volte e i solai erano a botte, perché così previsto per una
buona aerazione del locale e un migliore essiccamento della carta.
Soltanto dopo l’Unità d’Italia ci sarà un aumento della produzione, e dopo il 1876 si passerà alla fabbricazione a macchina.
Per tutto il ‘600, le cartiere del viterbese non possedevano che uno o due tini, pochi operai e si producevano poche decine di kg di carta in fogli. Il processo di produzione nella Cartiera Discepoli, come in quella Roncone era il seguente: gli stracci di lino e di canapa, fiorenti nella zona, venivano divisi in tre, quattro qualità, ammassati e fatti fermentare nelle vasche di raccolta; successivamente venivano triturati per due volte in pile in pestelli; un’altra raffinazione avveniva in pile simili attraverso sbattimento forte e continuo che riduceva il materiale “in tutta pasta”; a questo punto la pasta veniva diluita con acqua in tini e leggermente riscaldata; in questi stessi tini l’operaio immergeva la forma, di tela metallica, asportando uno strato sottile di pasta, cioè il foglio di carta che filtrato e scolato, veniva rovesciato dal ponitore sopra un feltro, quindi passato, seccato e incollato con gelatina e colla animale. Lo stato della Chiesa, a metà dell’Ottocento, vietò l’adozione di macchine continue; risultarono così scarsi e insignificanti i progressi tecnici. Solo più tardi, con l’uso delle macchine cambiarono i sistemi di produzione; la pulitura degli stracci veniva fatta per via secca, cioè con la lisciviatura sotto pressione con calce o con soda in autoclavi rotanti, riscaldate a vapore; a questo punto lo straccio era introdotto per la sfilacciatura nelle pile olandesi , di cui nella Cartiera Discepoli ne abbiamo testimonianza verso la metà dell’Ottocento.
Nel 1905 il Comune convoglia le principali sorgenti della Palanzana per il nuovo acquedotto; questo comportò una carenza
d’acqua insufficiente per l’attività della cartiera. Gli affittuari di allora, la famiglia Poscia, chiama in giudizio
il proprietario Orazio Carnevalini, affinché sia ridotto il canone d’affitto.
Solo nel 1907 si arrivò ad un concordato: Carnevalini vende ai Poscia (che già da molti anni erano possessori della
cartiera al Roncone, costruita nel 1603, costituita da 4 piani e 14 vani), la cartiera in contrada Cuculo per 8750 lire.
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Testo
Angela Baldoni, Valorizzazione del patrimonio archeologico-industriale della Valle dell’Arcionello - Viterbo”.
(Tesi di Laurea, maggio 2006)Fotografie
Sergio StrazzullaHTML project
Stefano Foschi, marzo 2007
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