La cava di peperino e la
segheria Anselmi
Il territorio della Provincia di Viterbo, così geologicamente complesso e articolato, presenta una svariata quantità di
materiali, suscettibili d’impiego nelle costruzioni e nell’industria.
L’attività estrattiva, distribuita in ampia parte del territorio viterbese, costituisce un’attività di notevole rilievo
tecnico ed economico; interessa numerosi tipi litologici, che in base alle loro utilizzazioni sono impiegati come materiali
da costruzione o per l’industria o come rocce ornamentali.
Nel viterbese affiorano tre tipi differenti di roccia: il tufo litoide a scorie nere, il peperino delle alture, che
affiora nella parte superiore del vulcano Cimino ed il peperino tipico che parzialmente è ricoperto dal primo ed a sua
volta poggia sui sedimenti marini pliocenici.
Il Peperino tipico di Viterbo, è una roccia costituita per il 50% da una massa vetrosa filamentosa, talora cristallizzata,
nella quale sono immersi cristalli molto fratturati e frammentati. Il colore del peperino è generalmente grigio o
grigio-verdognolo, ma a Soriano nel Cimino, a Bassano in Teverina e presso Chia se ne trova una qualità rosata, più
ricercata della prima, ma meno compatta.
Caratteristica tipica del peperino di Viterbo è la presenza di “fiamme” nerastre nella varietà grigia e verdognola, e
rossastre in quella rosata, “fiamme” schiacciate parallelamente al piano di giacitura.
Le tecniche di escavazione del peperino
Quello del cavatore è sempre stato un mestiere molto rischioso, specialmente molti anni fa, quando l'estrazione e
il trasporto del marmo verso valle, erano fatti con mezzi rudimentali.
Le pareti lavorate “a spina di pesce” degli inizi del Novecento, ancora visibili all’Arcionello, sono il risultato della
prima fase del processo estrattivo: il cavatore seduto sul cacaritto picchiava col picchio creando un solco perpendicolare
al piano (futura lastra) lungo la parete; più il blocco da cavare era spesso, più si doveva andare in profondità.
I solchi provocati dal picchio creavano sulla parete quest’effetto a spina di pesce (diversa direzione di lavorazione).
Per la seconda fase d’estrazione, allo spessore desiderato, venivano inseriti dei cunei inizialmente di legno, che imbevuti
d'acqua aumentavano il volume e staccavano più facilmente il peperino dal monte. Avvenne presto la sostituzione con cunei
di ferro, sui quali erano montati, sotto e sopra, dei lamierini di ferro, i quali, battuti con pesanti mazze ottenevano
il distacco del peperino dal monte.
Una prima fila di cunei veniva martellata, perpendicolarmente al verso della parete; poi ne veniva inserita una seconda e
poi una terza, fino al completo distacco del blocco.
Verso il 1700 era in uso l’escavazioni per mezzo d’esplosivo (la polvere nera); questa tecnica d’abbattimento con
esplosivo era chiamata "varata" e pur permettendo di abbattere grandi quantità di roccia in tempi brevi, aveva il grosso
difetto di distruggere gran parte del marmo escavabile e di produrre una grande quantità di scarti.
L'esplosivo, dalla fine dell‘800, fu rimpiazzato con il filo elicoidale, di circa 5 mm di diametro e messo in funzione
dall'avvolgimento a forma elicoidale di tre piccoli cavi d'acciaio, (legnoli) che cambiavano senso d’avvitamento ogni 50 m,
in modo che il taglio del peperino avvenisse dritto. Tale filo, di circa 1.000 m di lunghezza, riusciva a tagliare il
blocco attraverso una miscela abrasiva d’acqua e sabbia silicea.
Non era, però, il filo a tagliare la roccia, la cui funzione, era solo quella di trasportare nel solco elicoidale la
miscela d’acqua e sabbia silicea ma era quest'ultima che strusciando sulla superficie della pietra ne corrodeva
minutissime particelle. La sistemazione di tale filo (la stesa) richiedeva molto tempo ed era attuata da operai
altamente specializzati (i filisti).
Si impiegavano tre o quattro giorni per raggiungere una profondità del banco di sette metri. Raggiunta la profondità
voluta, ai piedi del banco si operavano dei buchi con il fioretto e s’infilavano le mine col miccio detonante giallo.
In ultimo, il filo elicoidale segava le lastre percorrendo tutta la cava per cinque seicento metri.
I blocchi, un tempo, venivano segati lastra per lastra, con una lunga sega tenuta da due operai, nell’intercapedine una
mistura di acqua e sabbia, corrodeva e tagliava più facilmente il blocco.
In seguito, furono adottati telai di circa cinquanta lame e attraverso dei distanziatori chiamati tacchetti si poteva
predisporre lo spessore desiderato delle lastre. Anni dopo vennero i telai in ghisa, i dischi a carborundum e le frese
col disco diamantato, che permettevano la fuoriuscita di lastre dello spessore richiesto.
Agli inizi degli anni '80 fu introdotta la tagliatrice a filo diamantato. Il filo diamantato è costituito da un cavo
d’acciaio sul quale sono infilati degli anelli ricoperti di polvere di diamante distanziati gli uni dagli altri da piccole
molle; questo filo, passato intorno al masso e fatto girare da un motore, taglia in poco tempo il marmo.
Diversamente da quanto avveniva per il filo elicoidale, il taglio è ora eseguito dall'abrasione della polvere di diamante
senza dover ricorrere all'impiego della sabbia silicea. L'acqua ha la funzione di raffreddamento oltre a servire a portare
via i residui della pietra.
Una tecnica di recente introduzione è la tagliatrice a catena, una grande motosega, di quelle usate per il taglio degli
alberi. La sua lama è lunga circa 3 metri ed il motore che la aziona, generalmente elettrico, è fissato su di un carrello
che scorre su binari.
La lama può assumere tutte le posizioni, ed è molto veloce anche se il taglio ha uno spessore di 5 cm.
La cava e segheria Anselmi
Una delle più importanti realtà estrattive di peperino viterbese è quello della Ditta Anselmi & Figli, attivi fin dai primi
anni del ‘900. Il capostipite della famiglia, fu Giovanni Anselmi, un apprezzato scalpellino artista, le cui opere
contribuiscono ancora oggi all’arredo urbano della città. Gli Anselmi avevano il loro laboratorio in pieno centro storico,
a via del Lauro, a due passi da Piazza San Pellegrino.
Nel 1910 l’azienda acquista una veste più propriamente industriale, ed è grazie al duro lavoro e alla mentalità
imprenditoriale di Luigi Anselmi che, nei decenni a seguire si amplia e si diversifica la produzione.
Nel 1950, infatti, l’azienda si sposta a Fosso Luparo, in località Palanzana, dove esistevano vecchie cave, ormai
inutilizzabili.
Oltre ai segni evidenti della roccia lavorata dai cavatori degli inizi del ’900, è la segheria alla Palanzana, l’ultima
testimonianza diretta rimasta dell’attività della ditta Anselmi.
La segheria è composta di due capannoni, costruiti nel 1947- ‘48 in località Palanzana, si presenta esternamente con
mattoni di tufo e forati, non prevede suddivisioni interne, ma le diverse aree di lavorazione sono scandite da una serie
di colonne portanti in cemento armato che costituiscono l’ossatura centrale dell’edificio.
Entrambi i capannoni si presentano come lunghi blocchi a pianta longitudinale con tetto leggermente a spiovente,
rivestito da ondulati in eternìt.
La struttura del tetto è sostenuta da telai e contrafforti in ferro, che, ritroviamo anche all’esterno, pronti a sostenere la tettoia che sporge in avanti.
Nei lati più lunghi del capannone diverse uscite con saracinesche permettevano ai camion e agli automezzi di scaricare e
caricare il materiale e una serie di basse finestre a vetri garantivano sufficiente luce agli operai a lavoro.
Al centro dei due capannoni, paralleli l’uno all’altro, è disposto un carroponte che trasportava i blocchi di peperino da
un capannone all’altro per le varie fasi di lavorazione, servendosi di binari.
Nel primo capannone erano disposte per tutta la sua lunghezza, una serie di frese, da quelle per la sgrezzatura del
blocco a quelle per lavori di rifinitura.
Nel secondo capannone, inizialmente vi erano 9 telai a sabbia, mentre negli ultimi anni erano stati sostituiti con quelli
diamantati; inoltre, altri macchinari, erano finalizzati alla produzione in serie di gocciolatoi.
La produzione della ditta Anselmi variava dalle semplici lastre ai semilavorati d’artigianato. Inoltre, si trattava di
una produzione completa che andava dall’estrazione alla segagione, fino alla lavorazione, il tutto eseguito con
attrezzature modernissime.
Nella cava Anselmi l’escavazione era effettuata a cielo aperto, parete alta 30 m, divisa in tre banchi.
Un impiego di filo elicoidale, corredato di montanti, macchine perforanti, con cale a pressione automatica, acqua,
sabbia, provvedeva a filare il banco per una lunghezza di 10 m e un’altezza di 8 m.
Per il distacco del blocco, alla base della parete, venivano inseriti dei cunei in appositi fori, eseguiti con martelli
ad aria compressa, erogata da un impianto centrale composto di quattro gruppi di compressori a due grossi serbatoi.
Il definitivo distacco della parete era possibile grazie alla spinta dei fuselli a pressione d’olio.
Due gru depositavano i blocchi squadrati e sbozzati. Questi venivano poi condotti nella segheria dell’azienda o ceduti a
segherie italiane ed estere.
Dopo aver effettuato il taglio, i blocchi trasportati dalla cava al piano della segheria tramite un carro- ponte a
cavalletto, venivano caricati su carrelli e per mezzo di trasbordatori con argano incorporato, erano introdotti
nella segheria e messi sotto il telaio.
La segheria, composta di telai automatici, provvedeva alla trasformazione dei blocchi in lastre di spessori diversi.
Queste, una volta scaricate erano in parte immesse nei laboratori, in parte caricate su camion e consegnate ad altri
laboratori italiani ed esteri.
Il laboratorio era fornito di moderne macchine come frese giganti «a ponte» che permettevano di squadrare le lastre,
levigatrici «a nastro» o «a ponte» che levigavano il piano, macchinari che provvedevano ad effettuare gli smussi,
a levigare le coste e ad eseguire il gocciolatoio.
Il laboratorio era dotato di torni per eseguire vasche, colonne e balaustre, di macchine sabbiatrici, bocciardatrici, di
compressori per martelli pneumatici che permettevano di eseguire decorazioni.
La disponibilità del peperino e l’attrezzatura di cui era fornita l’azienda permettevano di eseguire qualsiasi tipo di
lavorazione: dai pavimenti ai rivestimenti, dalle finiture per l’edilizia (gradini, stipiti, soglie ecc.) agli elementi
decorativi.
L’azienda chiuse definitivamente nel 2000; oggi, purtroppo, è in evidente stato d’abbandono, vetri spaccati, calcinacci a
terra, resti di lavori in peperino, costituiscono lo scenario desolato dell’azienda.
I macchinari non sono più presenti, distrutti o venduti, hanno lasciato un vuoto incolmabile, solo qualche telaio
arrugginito è rimasto da sentinella all’ingresso del capannone.
È importante ricordare quanta nostra vita passata, leggiamo nelle pareti di una cava o nel monumento di un artigiano,
quanto importante sia costituire un ponte ideale tra noi, la civiltà moderna ed il passato artigianale delle nostre città.
I manufatti, realizzati con precisione maniacale dagli scalpellini artigiani, cavati a colpi di picchio,
trascinati su rulli da coppie di buoi, squadrati e intagliati a mano, con il solo aiuto di qualche regolo e dei
traguardi ottici, sono dei capolavori della perizia, della precisione, della pazienza di questi laboriosi artigiani,
che hanno saputo preservare e trasmettere le conoscenze tecniche e l’amore per questa meravigliosa “arte del lavorare
la pietra”.
Testo Angela Baldoni, Valorizzazione del patrimonio archeologico-industriale della Valle dell’Arcionello - Viterbo”. (Tesi di Laurea, maggio 2006)
Fotografie
Sergio
Strazzulla
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Stefano Foschi, marzo 2007
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