Vittorio Aprea

PROLOGO

 

Sedeva alla sua scrivania, con le spalle rivolte alla finestra che dava su una strada. Una strada come tante... Una strada che sfociava in una larga piazza. Tutto era opera del Ventennio! Costruzioni uguali, bianche, architettonicamente insignificanti, palazzi dalle facciate in muratura e marmo bianco, indefinibili, dove non riesci a stabilire ove finisca l’opera muraria e inizi quella marmorea. Palazzi uguali, tutti! Piazze ampie, assolate e cosparse dai soliti fusti arborei di palme, eucalipti e pini, fatti crescere laddove prima, circa sessant’anni fa, si estendeva l’immensa plaga di una palude stantia e graveolente, malsana, infetta di lombrichi, zanzare ed altre forme di vita palustre, foriera solo di malaria e febbri perniciose.
Egli sedeva alla sua scrivania e, mentre vergava alcuni righi sul foglio posto a lui davanti, andava con la coda dell’occhio a quell’accecante lucore che filtrava dalle tapparelle della finestra alle sue spalle, lasciandogli intravedere l’assolata piazza e dandogli una sensazione strana di solitudine e tristezza interiore.
Era un uomo solo! Aveva 58 anni ed era solo! E, per giunta, invecchiato dalla tristezza dei suoi ricordi che oscillavano nell’arco di due vite passate e confluivano poi in un’altra vita, quella attuale, quella presente che a lui non dava alcuno sbocco di serenità.
Forse era nato vecchio, se per senescenza si intende l’abbandono ai ricordi e il rimpianto del tempo passato... Aveva vissuto sempre di ricordi e tra ricordi: i suoi, quelli tramandatigli dai genitori, dai nonni... E in quell’atmosfera aveva trascorso momenti fulgidi, dando ai ricordi una patina di dolce abbandono ( essi rappresentavano per lui, una volta, il riposo nelle ore di studio, nell’attività frenetica da cui era coinvolto per ragioni di vita quotidiana); ma quei ricordi oggi rappresentavano per lui non più la pace, il riposo, bensì un fardello pesantissimo che gravava sulla sua mente e sul suo subconscio, dandogli, come in un fantasmagorico altalenante gioco di colori lugubri e luci vivide, sensazioni ed emozioni intrise di malinconia, rimpianto, dolori, sì, dolori lancinanti ed inenarrabili provocati da ferite inferte dal tempo inesorabile, inguaribili ferite marcescenti e putride.
Egli tirava, o almeno cercava di tirare, le somme di tutti i fattori che avevano segnato quella sua vita
e non riusciva a convincersi che erano trascorsi 58 anni senza aver carpito che solo pochi attimi di gioia, mentre quella lunga striscia di anni era costellata in realtà da multiformi segni di incapacità, intolleranza, noia e ribellione ad un’esistenza senza sfoghi. Insomma era un infelice, la cui infelicità però era dovuti a fattori esterni, sì, ma soprattutto alla carenza assoluta di intimi contatti con il tempo in cui era vissuto.
Si sentiva fuori del tempo e non viveva se non abbandonandosi a ricordi non vissuti, ma appresi da libri e dalla tradizione orale per opera di genitori, parenti, amici, conoscenti, dall’essersi inabissato nelle letture di un tempo passato, che, come ogni passato, veniva guardato con l’ottica più favorevole e che, se fosse stato vissuto, forse, avrebbe presentato le stesse difficoltà, gli stessi disagi ed anche la stessa bigia coloritura del tempo presente.
Era lì, alla sua scrivania, a ricordare la sua vita e della sua vita la parte più indimenticabile: la sua Napoli.
Diceva Gian Battista Del Tufo, poeta napoletano del XVII secolo: “Ogni fanciul, prìa che s’avvolge in fasce/ quasi cantando nasce...” e in quella città, è vero, si canta sin dalla nascita. Il canto filtra nell’aria, sollevandosi dalle acque marine, e s’insinua nei vicoletti più angusti, rimbalza sui muri muschiosi ed antichi delle case, si propaga nelle piazze assolate, fino a perdersi oltre le colline di Posillipo, dei Camaldoli, del Vomero, ma non si spegne mai, perchè vive sulle bocche e nei cuori degli emigranti fin oltre gli oceani e, senza esagerare, l’intero mondo risuona di questo canto che non troverà mai fine.
Ed egli ricordava in particolare una strada polverosa, via Arenaccia, percorsa da un alto dalle tranvie provinciali che portavano all’hinterland napoletano, mentre dall’altro lato la strada giungeva nei pressi dell’affollata, popolosa Porta Capuana, al Ponte di Casanova, centro periferico della città, posto al termine dell’antica Napoli angioina ed aragonese, disseminata di antiche vestigia annerite dal tempo e risplendenti al sole tenue e dorato, che fa brillare cupole di chiese e piccole finestrelle fiorite affacciantesi sulla piazza.
In quella strada, al n.113, si trovava la sua vecchia casa, che non vedeva più da oltre 26 anni! Povera, vecchia casa!... Dove una volta erano volti ridenti al sole, ove si effondevano le note di antiche canzoni cantate da balconi spalancati sul panorama della città, attraverso i quali si indoravano le stanze arredate da vecchi mobili fin-de-siècle. In quella casa aveva trascorso quasi 26 anni della sua vita e l’aveva rivisitata di tanto in tanto nei suoi ritorni all’amata città per rivedere i vecchi genitori.
Lungo la strada i cari, vecchi rivenditori e commercianti al minuto: don Gennaro ‘o pastaiuolo, don Gaitano ‘o verdummaro, Enzino ‘o tabaccaro, don Gennaro ‘o sarto, don Luigi ‘o gravunaro, Giruzzo l’ugliararo, e poi...poi... l’associazione cattolica S.Filomena, ove si giocava a carte e si bestemmiava a più non posso, l’associazione della Madonna del Carmine, dove si giocava d’azzardo tra imprecazioni ed ipocriti convenevoli a qualche “mammasantissima” di passaggio. Quanti volti cari e vecchi, che ora fan parte della terra, che non sono più sorridenti al sole, ostentando una spocchiosa sicumera, pur gemendo nella fatica diuturna!...
Egli li ricordava tutti quei volti, coi quali aveva parlato, dai quali aveva ricevuto sorrisi e complimenti per la sua invidiabile età infantile, ai quali si raccomandava, a nome di papà e mammà, quando andava a fare le compere, ricevendo spesso qualche obolo in caramelle e lecca-lecca.
E poi lo scendere e salire per quei quattro piani che portavano a casa sua, con quei gradini di pietra lavica lunghi, sbrecciati, neri, salendo i quali si imbatteva in facce sempre uguali, degne di Migliaro o di Palizzi, ferme nel tempo: immagini di donne rugose, in grembiale, discinte, ed uomini abbruniti dal sole, sempre affaticati, ma sorridenti. Eppure per quelle scale, da quelle porte spalancate sui ballatoi, volavano le canzoni più belle, mentre quelle donne, un po’ discinte e trasandate, pulivano i pavimenti delle loro abitazioni aiutando con le loro voci intonate i motivi che fuoriuscivano dalle radio-bar, tempestate di specchietti luccicanti e zeppe di rosoli e liquori vari, non etichettati, ma di fattura casareccia.
E a tutti questi ricordi si frammischiavano poi quelli scolastici... Un professore di latino e greco che scandiva metricamente, con la sua voce roca e possente “Tytire, tu patulae recubans sub tegmine fagi” ed i versi di Virgilio si involavano dalle finestre aperte, donde provenivano altri versi, quelli dei rivenditori di passaggio che magnificavano le loro merci.
E le passeggiate domenicali che egli faceva con suo padre?...
Quelle indimenticabili passeggiate fatte senza ausilio di mezzi pubblici, a piedi, fino a Montesanto, dove attendeva la funicolare che li portava al Vomero, a San Martino. Dalla funicolare si vedevano distintamente le scale del Petraro, che poi avrebbero disceso a piedi al ritorno. E, per quelle scale, piccole loggette cosparse di una policromia unica di fiori, il cui profumo si mescolava a quelli del ragù e fritti di pesce che venivano approntati nei bassi e nelle case, anche le più modeste, per la mensa domenicale! Allora il caldo, il sole, l’afa egli non li avvertiva... Tutto era come in una favola che sembrava interminabile e che si coloriva sempre più, settimanalmente, di sfumature nuove che davano novello sapore all’esistenza.
Ma egli, il nostro uomo, sapeva, pur nella sua età adolescenziale, che quella favola doveva avere un epilogo ed era cosciente che quell’aurea età sarebbe ben presto finita.
Rimanevano delle pennellate di dolore di quella vita, che di tanto in tanto gli davano la sensazione di riviverla. E questo gli era sufficiente!

    

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