Alessandro Manzoni
e
“La Pentecoste”
Agli
inizi del secolo XIX, quando imperava il Neo-Classicismo e lentamente si
transitava dal periodo Illuministico a quello Romantico, si guardava ai
principi etici e poetici fissati dai canoni della ragione e della
sperimentazione agnostica. In tale periodo va inquadrata la figura di
Alessandro Manzoni, che, nel suo giovanile accostarsi alla cultura del
tempo, dovette affrontare non poche difficoltà. Il
dissolversi del mito della ragione, concepita come fonte di giudizio
perennemente valida e certa, portava alla necessità di individuare un
nuovo sicuro fondamento della moralità. Tale fu il problema del giovane
Manzoni, il quale, dopo la sua esperienza giansenista, persa la speranza
di raggiungere la serenità tramite la ragione, la vta e la storia gli
parvero romanticamente immerse in un vano, doloroso, inspiegabile
disordine e, per non abbandonarsi alla disperazione, si rivolse ad un fine
ultraterreno. Nel
Manzoni, quindi, l’irrequietezza esistenziale s compose nella Fede:
passaggio lento e studiato, giacché la sua esperienza di convittore presso
i Padri Somaschi e vari altri ordini religiosi lo portò alla Fede “per una
via che potrebbe sembrare poco adatta, trattandosi di Fede-per via della
“logica” (così afferma di lui il genero Giovanni Battista Giorgini, che lo
conobbe molto a fondo).
Alessandro Manzoni, invece, maturò la sua Fede fino al punto che la
ricerca del vero, della semplicità e della storicità e poetica romantica,
divennero un tutt’uno con il motto che già secoli prima aveva enunciato
S.Girolamo:”Qui Deum scit, satis est si cetera nescit”. Pur
aderendo alla poetica romantica, che sosteneva che la poesia non deve
essere destinata ad una certa e raffinata “élite”, bensì deve
essere di interesse generale ed interpretare le aspirazioni e le idee dei
lettori, tuttavia Manzoni non accettò mai la convinzione propria del
Romanticismo che la poesia dovesse essere espressione ingenua dell’anima e
quindi non rinunciò mai al dominio intellettuale sul sentimento ed a una
controllata espressione formale, caratteristica di tutto il nostro
Romanticismo. Il
Romanticismo riscopriva i valori tradizionali, quindi rivalutava le
cadenze della canzone e della poesia popolare (anche in musica): il
Manzoni rileva che quando il poeta riprende tali motivi, apparentemente
popolari, spontanei, ingenui, in realtà esegue una ricerca letteraria “al
contrario”, cercando volutamente la semplicità. Quindi non v’è opera
letteraria senza impegno stilistico, anche quando questo è celato sotto
modi semplici. Perciò non si può parlare di poesia popolare, ma di poesia
sublimata, filtrata con canoni stilistici tradizionali e preparata per
essere compresa dalle masse.
Respinte come arbitrarie le regole classiche e riaffermata la concezione
romantica dlla poesia come libera creazione individuale, ma non come
incontrollato sfogo sentimentale, il Manzoni affronta poi il secondo
grande problema: “il vero”. Il
“vero” è fonte ed oggetto della poesia, intendendo per”vero” ciò che
coincide con la storia. Ma a
noi interessa ora il terzo problema, importante anch’esso, a fini della
redazione degli “Inni Sacri”, massima espressione del credo manzoniano: il
terzo problema è proprio quello dell’esistenza. Tutti
commettono de torti, spinti da una forza che ne vince la volontà e che è
la legge della vita e della storia. E’ questo il momento più drammatico
del romanticismo manzoniano, che trova, sì, la sua naturale espressione
nella tragedia (v. Adelchi “…se far torto o patirlo…”), ma che si
rasserena, si placa nella contemplazione della vanità delle cose terrene
sotto l’intervento onnipresente di Dio, i cui fini sono imperscrutabili,
ma giusti e sicuri. Il
Manzoni non fu incline, per sua natura, né alla ribellione disperata al
male e al dolore, come Foscolo, né alla rassegnazione, più o meno
segretamente compiaciuta di se stessa, come in Leopardi, e quindi si placa
nella comprensione, nella virile pietà per gli oppressi, nella fede nella
Provvidenza Divina. Il
Poeta, d’altronde, non si limitava alla mera osservanza religiosa, ma era
fermamente convinto che i principi della morale cattolica fossero
universali e quindi avessero applicazione sociale oltre che religiosa,
trapassando dal dogma alla morale sociale, quindi cercò di ricondurre alla
religione i sentimenti umani, perché potessero essere compresi anche dalle
anime più semplici. Dopo
la sua conversione al cattolicesimo, Manzoni ideò la composizione di
dodici inni sacri, che avrebbero dovuto celebrare e illustrare le
festività più importanti della Chiesa cattolica. Gli Inni Sacri sarebbero
dovuti essere un’occasione al Poeta per esaltare la riconquistata Fede,
l’effetto da Essa prodotto sulla sua coscienza e, ad un tempo, un
tentativo di spiegare al popolo il significato ed il valore, sia
religioso, che morale e sociale d quelle festività rievocatrici dei
momenti salienti dell’incontro dell’umanità col Cristo Redentore. Tutto
ciò veniva realizzato ne “La Pentecoste”, più che negli altri Inni, in
cui, secondo il Somigliano, profondo critico del Manzoni, questi fallì in
entrambi gli scopi.
“La Pentecoste”
“La
Pentecoste” fu composta fra il giugno del 1817 ed il settembre del 1822.
L’Inno
si divide in tre parti:
-
nella prima (vv.1-48) si rievoca l’origine della Chiesa,
la “Madre dei Santi”, che è ad un tempo “del sangue
incorruttibile//conservatrice eterna” a “campo di quei che sperano”;
quando il suo Signore fu tratto dai perfidi a morire sul Golgota e quando
la sua divina spoglia uscì dalle tenebre e salì al trono del Genitore,
recandosi in mano il prezzo del perdono, i suoi primi sacerdoti, gli
Undici Apostoli, se ne stavano rinchiusi nel Cenacolo timorosi della sorte
che era toccata al Maestro, ma lo Spirito Santo discese su di loro,
appunto nel giorno della Pentecoste (dal greco:Pentekosté =50, cioè
cinquanta giorni dopo la Resurrezione) e li animò ad uscire alla luce
per diffondere il Verbo.
-
La seconda parte (vv.49-80) è dedicata alla spiegazione
dei miracolosi effetti della predicazione apostolica, che ha raggiunto
tutte le regioni della terra e si è rivolta a tutti gli uomini, a liberi
ed agli schiavi, ai ricchi ed ai poveri, alle spose e alle vergini,
annunziando una nuova gloria “vinta in più belle prove” ed una
nuova pace “che il mondo irrde, ma che rapir non può”:
-
La terza ed ultima parte (vv.81-144) è una solenne
preghiera allo Spirito Santo, perché discenda continuamente propizio ai
suoi cultori e a chi l’ignora, per rianimare i cuori estinti nel dubbio,
per donarsi come premio ai vinti, per consolare gli sventurati e
sgomentare le ire superbe dei potenti, insegnando loro la pietà: lo
Spirito Santo faccia che il povero sollevi lo sguardo al cielo e volga i
lamenti in giubilo e che il ricco dispens i suoi beni con volto amico e
“ con quel tacer pudico//che accetto il don ti fa” e che accompagni
l’uomo dalla nascita al suo tramonto fino a brillar nel guardo errante
“di chi sperando muor”. Il significato globale dell’Inno è che l’umanità redenta
dal Salvatore non ha tuttavia la forza morale di conservare
la Grazia. Il corpo è debole e le tentazioni della terra sono tante,
perciò occorre che il miracolo della Pentecoste, della discesa dello
Spirito Santo in soccorso dell’umanità, si rinnovi quotidianamente. Detto
significato si ricava da una serie di immagini, che zampillano, una dietro
l’altra, dalla fantasia vivida e commossa del Poeta, che sente
profondamente la grande forza rigeneratrice della nuova Fede e viva
tuttavia il dramma della fragilità umana, delle perenni ingiustizie
sociali, dei travagli che affaticano i miseri ed abbattono i più deboli. Ma, se l’umanità è fragile, essa tuttavia si santifica e purifica,
aggrappandosi proprio al vessillo della Fede che la proietta nella
sofferenza salvifica di Cristo sulla Croce. Mi piace chiudere col ricordare un pensiero sulla Pentecoste espresso
dal Momigliano:”Ma quel che distingue la Pentecoste è il gaudio
dell’anima, che si sente legata, insieme con tutti gli uomini, a Dio; il
suo abbandono appassionato alla guida suprema; il volo ampio dello spirito
che raccoglie con sé, in una sola adorazione, come genuflessa in una
Chiesa sterminata, tutta l’umanità. Il ritmo che muove l’Inno, dal
principio alla fine, è pieno di palpiti, ma ciascuna frase, presa a sé, è
per lo più serena, precisamente tornita. Anche qui si rivela il Poeta, che
sa frenare i sentimenti più impetuosi e fissarli nella forma più nitida”
(Vittorio Aprea)
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