Vittorio Aprea
DON PEPPINO
Fuori al ballatoio, al quarto piano, trascorreva gran parte della giornata
ad osservare chi saliva e scendeva per le scale, a curiosare nelle case
altrui, a pigliare in giro i ragazzini che giocavano “’a semmana”,
“’o sottomuro”, “’e ritrattielle”, suggerendo loro le mosse
che dovevano eseguire per farli sbagliare, perchè il suo gusto era quello
di godere sulle piccole disgrazie e arrabbiature dei poveri ragazzini
che gli capitavano a tiro.
Così era don Peppino e così era sempre stato!
Oggi si divertiva di queste piccole cose, ieri i suoi divertimenti erano
stati di tutt’altro genere... Aveva fatto il commerciante, gestendo un bar
di proprietà della suocera e, con il ricavato di tale attività, si era
permesso lussi a quei tempi proibiti quasi a tutti i poveri coinquilini
dello stabile di via Arenaccia, dediti per la maggior parte a lavori con
stipendi fissi, oppure ad arrangiarsi come si usava e si usa ancora nella
nostra Napoli.
Don Peppin o si era permesso lussi di vario genere: ‘a retenata per
via Caracciolo ( corse di carrozze lungo il rettilineo pittoresco che
costeggia la Villa Comunale e il mare da Santa Lucia a Mergellina), ‘a
varchiata a Procida , i bagni sulfurei a Lacco Ameno, circoli da gioco
e, infine, donne... donne a non finire! Non nato certo con un cuor di
leone, ma forte per l’appoggio di suo genero, Rafiluccio, uomo dai muscoli
poderosi e suo difensore per motivi familiari e per vocazione.
Don Peppino si poteva permettere tutto, pur non lavorando mai, o meglio
facendo lavorare la suocera, la moglie, la figlia adottiva, i lavoranti
del bar e, in special modo, Rafiluccio. Si poteva permettere anche di dire
ad un “mammasantissima”: “Si’ ‘a sfaccimma ‘e ll’uommene!”,
bastando però la presenza alle sue spalle di Rafiluccio, pronto a
difenderlo da qualsiasi reazione altrui. E Rafiluccio gli aveva salvata la
vita parecchie volte! Ma era sempre relegato al ruolo di uomo di fatica e
null’altro!
Morto Rafiluccio per un colpo apoplettico e fattosi vecchio don Peppino,
tutta la vita brillante di quest’ultimo era svanita e gli ultimi suoi
giorni si riducevano ad essere trascorsi su quel ballatoio al quarto
piano, contornato da ragazzi che sovente gli facevano la cucca,
apostrofandolo con un’antica cantilena che diceva: “Don Nico’...don
Nico’... tu si’ piecoro ed io no!”
Nanninella, la moglie, gli preparava tutti i giorni i piatti che a lui
più piacevano, ma non mancava tra un bicchiere di vino ed un piatto di
alici fritte, di ricordargli con disprezzo tutto quello che le aveva
combinato in gioventù, intercalando il suo dire con epiteti come”stronzo”,
“ommo ‘e vrachiere”, “samente” e così via... Ma
don Peppino non si scomponeva. Per lui quei ricordi venivano setacciati
dalla sua mente come atti di vero e proprio eroismo mascolino e,
avvicinando a sè la sputacchiera con un piede, vi riversava tutta la sua
acredine sotto forma di sputi, continuando imperterrito a consumare il suo
pasto quotidiano e lanciando dai suoi occhi acquosi e un po’ spenti uno
sguardo di desiderio alla sua Nanninella.
Aveva preso in vecchiaia il gusto al verso. Componeva dei versi senza capo
nè coda; per lui bastava che una frase avesse un troncamento finale con
una qualsiasi vocale accentata, perchè potesse essere definito “verso” e
dargli così il passaporto per assidersi in Elicona tra Apollo e gli altri
aèdi del passato. Invitava spesso il vicinato ad ascoltare quei
componimenti prolissi ed insensati, pur di sentirsi appellare “poeta”. Ma
poeta non lo fu mai!
Con tale illusione però si spense ad oltre 80 anni ed i suoi funerali
furono ricordati per le barzellette che ognuno raccontava al suo seguito.
Lo accompagnarono al camposanto con allegria!...
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