La ritualità ed il sacrificio, tipici della religione,
appaiono (ad uno sguardo superficiale) irrazionali ed autolesionisti: l’ebreo
ortodosso che passa ore in piedi vestito di nero davanti ad un muro sotto il
sole, i musulmani sciiti che si feriscono a sangue in determinate ricorrenze, i
“soldati di Dio” di Phuket che in occasione di una loro festa si trafiggono, i
bulgari che il giorno dell’Epifania si buttano nell’acqua gelata per recuperare
un crocefisso o le mutilazioni sessuali a cui vengono sottoposti tanti giovani
nel mondo, non sono fenomeni isolati ed, in genere, rappresentano forme di
coesione sociale molto forte.
Nel XI secolo esistono ancora forme così arcaiche e
primitive d’appartenenza sociale perché la religione ha – da sempre –
rappresentato il collante, lo strumento per ottenere, dai componenti la
comunità, cooperazione sociale.
La ritualità ed il costo personale dell’appartenenza, il
sacrificio, hanno – da sempre – rappresentato la prova e la garanzia per la
comunità che la sua importanza è prevalente rispetto all’interesse personale.
In un gruppo, infatti, potrebbe essere forte la tendenza
dei singoli a non contribuire alla sussistenza della comunità, dormendo anziché
lavorando.
Il legame religioso, attraverso l’iniziazione ed il
sacrificio, serve proprio a creare quel vincolo emotivo funzionale alla
solidarietà di gruppo.
Io credo – tuttavia – che, in un mondo consapevole ed
istruito, la solidarietà e la cooperazione, il rinunciare un po’ per sé per
dare agli altri, siano anche valori laici, necessari allo sviluppo dei popoli
ed al benessere collettivo da cui dipende quello individuale.
Solidarietà e cooperazione possono esistere in un mondo
consapevole ed istruito, senza chiamare in aiuto la religione, di cui qualcuno
disonesto potrebbe farne cattivo uso.
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