Febbraio 2006
“Gli studi sugli effetti terapeutici della preghiera sono
molto controversi ed i loro risultati suscitano dibattiti anche aspri, ma
crescono gli indizi a favore di un legame positivo tra benessere e pratica
spirituale”. Questo il titolo introduttivo di un articolo dedicato alla
preghiera su una diffusa rivista di psicologia.
Ora scrivo la mia riflessione sull’argomento.
Pregare fa bene a chi crede che faccia bene. Invocare un
aiuto e credere che possa servire è come avere fiducia in un risultato,
premessa indispensabile per ottenerlo.
Sì, io penso, che le preghiere aiutino ad affrontare meglio
disturbi e malattie, non grazie ad un effettivo intervento divino, ma grazie
alla speranza che innesca risposte neurobiologiche favorevoli al loro decorso
positivo.
L’atteggiamento fiducioso e positivo predispone ad una
migliore risposta dell’organismo, così stimolato.
Un atteggiamento negativo e timoroso verso il decorso della
malattia, invece, deprime l’organismo, rendendolo così più debole ad
affrontarla.
La preghiera è una speranza che rivolgiamo alle nostre
forze e per le quali chiediamo un sostegno esterno; invochiamo un aiuto ad una
divinità o ad un angelo protettore, ad un idolo o ad un sogno.
La preghiera, io penso, non è riservata a chi crede in una
religione, ma a tutti coloro che credono in qualcosa o in qualcuno o in sé
stessi.
Credere - ad esempio - nella forza di un amuleto,
investirlo di capacità curative, significa dire al proprio organismo che non sta
combattendo da solo, questo stimola i neurotrasmettitori legati a sensazioni di
benessere, che rilassano l’organismo e lo mettono nella migliore condizione per
affrontare il disturbo o la malattia.
L’affetto d’amici e parenti, la loro presenza, il loro
conforto - in fondo - ottengono analoghi effetti.
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