Vorrei soffermarmi a riflettere sul
concetto di povertà.
Per un africano di uno sperduto villaggio
o per un indiano che vive in una capanna in riva al fiume, essere povero ha un
preciso significato: soffrire di fame e di stenti.
Per un londinese essere povero
significa non potersi permettere un paio di scarpe di pelle e per un italiano
essere povero significa non poter andare in vacanza.
Un bambino che, alla ripresa
scolastica, si troverà ad affrontare il tema di come ha trascorso le vacanze e
che debba rispondere che non è andato al mare come tutti gli altri bambini, beh
egli si sentirà povero, anche se non soffre la fame.
Insomma, il concetto di povertà è universale, ma il suo valore è relativo.
Per quell’africano dello sperduto
villaggio, il londinese che, pur non potendo permettersi le scarpe di pelle,
mangia tre volte al giorno ed ha una casa, è ritenuto meno povero e più
fortunato.
La
povertà è quindi una variabile sociale e culturale.
Nel mondo occidentale, una persona è
povera se non risponde agli standard determinati dalla società in cui vive; se
la maggioranza delle persone possiede – ad esempio – un lettore DVD, chi non ce
l’ha finirà per sentirsi escluso dalle conversazioni sulle serate
cinematografiche in salotto e, se non ha la possibilità di acquistarlo perché
ha altre priorità, finirà per sentirsi povero, non perché lo sia nel senso
universale del termine, ma perché lo diventa per la società in cui vive.
Più
una società si affranca dai bisogni materiali come cibo, casa e vestiario, più
il significato di povertà si sposta su livelli secondari.
Un ricco, di conseguenza, si sentirà
povero nei confronti di un altro ricco che possiede una casa al mare, una in
montagna ed una al lago se a lui manca quella al lago e non se la può
permettere. Ciò non toglie che quello rimane sempre un ricco agli occhi di una
persona che ha una sola casa dove vivere.
Povertà
e ricchezza sono, dunque, concetti che assumono valenze diverse a seconda del
luogo e della società.
Una
società consumistica, poi, complica le cose perché, creando con la
pubblicità bisogni superflui, genera automaticamente livelli di povertà che si
portano dietro livelli di stress nella corsa al loro superamento e depressioni
per le difficoltà di percorso.
Io credo che, per non farci travolgere
da questi meccanismi, sia necessario - ogni tanto - allargare lo sguardo
oltremare verso quell’africano che vive in uno sperduto villaggio vestito di
due stracci e verso quell’indiano che vive in una capanna dove la sola acqua è
quella sporca del fiume.
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