DALL’ETA’ GIOLITTIANA AL CROLLO DELLO STATO LIBERALE

STORIA DEL NOVECENTO ITALIANO

L’età giolittiana (1900-1913)

 

La fine dell’ottocento si chiuse con una svolta autoritaria che culminò con i moti del 1898 a Milano dove le proteste per il pane furono represse nel sangue dal governo liberale conservatore monarchico. Alle proteste per il pane subentrarono le proteste per la dura repressione che trovò anche in Parlamento validi e carismatici sostenitori come Giolitti. Una politica più avveduta del re Vittorio Emanuele III (che subentrò ad Umberto I, assassinato) favorì il ritorno ad una migliore atmosfera sociale.

L’inizio del Novecento coincise con l’inizio del decollo industriale in un’Italia in ritardo rispetto agli altri paesi europei, ritardo caratterizzato da scarsa coscienza collettiva (l’unificazione del 1861 era solo sulla carta) ed alto tasso d’analfabetismo (nel 1891 era del 57% con punte del 70 ed oltre nel sud). Questo ritardo ebbe come risvolto l’emigrazione che coinvolse in vent’anni (dal 1881 al 1901) più di due milioni d’italiani, prevalentemente provenienti dalle regioni del nord-est, più intraprendenti e vitali.

Il Novecento nasce in un contesto politico e sociale caratterizzato da spinte socialiste riformiste (guidate da Turati) e compromessi giolittiani. Il governo laico di Giolitti durò dieci anni tra scioperi generali, mobilitazione politica del ceto medio, spinte nazionaliste, guerra in Libia, spinte rivoluzionarie ed impegno politico dei cattolici usciti allo scoperto sotto la guida di Don Sturzo.

Giolitti fece un’abile politica di compromesso che, da una parte rallentò lo sviluppo riformista del Paese, ma dall’altra permise lo sviluppo economico e il miglioramento delle condizioni di vita degli italiani. Le riforme in età giolittiana arrivarono con il contagocce e riguardarono principalmente l’istruzione obbligatoria fino al dodicesimo anno d’età ed il suffragio universale (solo) maschile del 1912 (tutti i cittadini maschi di almeno trent’anni e con servizio miliare assolto potevano andare a votare).

 

La grande guerra (1914-1918)

 

Nel maggio del 1914 l’Italia dichiara guerra all’Austria nel conflitto che già vede alleati Francia, Inghilterra e Russia contro le potenze imperiali d’Austria, Germania e Turchia.

La maggioranza del Parlamento e la maggioranza del Paese, tuttavia, erano contrari all’intervento in guerra, una maggioranza indebolita e scalfita da paure, minacce, ricatti in Parlamento e repressa nelle piazze.

Gli interventisti erano mossi principalmente da un desiderio d’espansione e di grandezza o per riscattare un sentimento di marginalità rispetto agli altri paesi europei o per rinvigorire un senso di noiosa quotidianità. Tra gli interventisti ricordiamo Mussolini, capo dei rivoluzionari socialisti, e D’annunzio, poeta favorevole alla guerra per l’indipendenza dall’imperialismo.

Il re Vittorio Emanuele III volle a tutti i costi entrare in guerra, a fianco del più probabile vincitore (qualunque esso fosse) per poterne trarre vantaggi d’armi e d’onore.

Milioni d’italiani dovettero partire per il fronte dove, tormentati dalla mattina alla sera da comandanti dispotici che volevano  evitare rivolte ed assembramenti, soffrivano di fame e di stenti, morivano a centinaia di migliaia, in una guerra che non avevano voluto e di cui non capivano il senso.

La disfatta di Caporetto fu l’epilogo di una condizione militare non più sopportabile, in cui la resa appariva la condizione migliore.

La situazione al fronte migliorò solo quando, cambiando il governo, vennero promessi aiuti e sussidi ai soldati ed alle loro famiglie e cambiando i vertici militari fu deciso un unico comando interalleato; l’intervento degli Stati Uniti di Wilson fu poi altrettanto decisivo per la vittoria.

I socialisti riformisti, da sempre contrari alla guerra, rimasero coerenti fino alla fine; tuttavia, il loro atteggiamento - della serie “…l’avevamo detto…” - di fronte ai mille problemi dei soldati al fronte e delle loro famiglie, si rivelò inutile e dannoso perché prestò il fianco alle accuse d’immobilismo e d’indifferenza rivolte dai rivoluzionari, tra cui Mussolini.

La vittoria non sopì gli animi dei rivoluzionari, dei futuristi e dei nazionalisti che volevano un mondo nuovo dove una grande e valorosa Italia potesse riunire tutti i suoi “figli”.

Il 10 settembre 1919, l’Austria firma il trattato di pace e l’Italia ebbe il Trentino, l’Alto Adige fino al Brennero, la Venezia Giulia, l’Istria e parte della Dalmazia, ma non Fiume: una vittoria mutilata per i nazionalisti, i rivoluzionari ed i futuristi.

Il poeta D’Annunzio, un mito dopo la guerra per coraggio e spavalderie, si fece promotore di un intervento armato a Fiume che si concluse senza spargimenti di sangue, più una bravata goliardica che una cosa seria.

La guerra non fu solo morte e sofferenza; con la guerra, grazie ai prezzi garantiti dallo Stato ed alle facilitazioni fiscali, l’industria italiana ebbe uno straordinario sviluppo e portò le donne a lavorare nelle fabbriche (molti uomini erano al fronte e quelli rimasti non bastavano alle esigenze produttive), mettendo così fine a secoli di segregazione, d’ignoranza e di esclusione. La guerra permise così il cambiamento di costumi: l’abbigliamento delle donne, che ora dovevano andare in fabbrica o in ufficio,  doveva essere pratico e semplice, non più abiti lunghi ed accollati, non più cappelli, pizzi e merletti, non più busti, velette, sottovesti. Le donne furono altresì impegnate, durante la guerra, quali crocerossine o attive nelle fondazioni a sostegno delle famiglie dei soldati.

 

Il crollo dello stato liberale (1919-1922)

 

Il dopoguerra vide un Paese con debito pubblico ed inflazione elevatissimi. Allo stato di sofferenza sociale si aggiunse uno stato di sofferenza istituzionale. I liberali vengono pesantemente sconfitti, raddoppia i consensi il PSI e nasce con successo popolare il partito dei cattolici (PPI) di Don Luigi Sturzo (sostenuto anche dal Vaticano, desideroso di arginare l’avanzata socialista).

Tutti gli schieramenti, però, non sono in grado di governare da soli, cosicché – di malavoglia – si forma una strana maggioranza borghese-popolare formata dai liberali e dai cattolici. Cade il sistema clientelare e trasformista giolittiano. Sotto l’onda della rivoluzione bolscevica in Russia e delle promesse fatte dal governo in tempo di guerra, i contadini affamati occupano le terre e gli operai, oppressi dalla dura disciplina nelle fabbriche militarizzate, occupano le fabbriche stesse.

Sono due anni (dal 1919 al 1920) in cui l’odio covato durante la guerra, quale inutile strage, (oltre naturalmente alle difficili condizioni di vita del dopoguerra), viene sfogato in tumulti e rivendicazioni; i contadini ottengono le terre e gli operai ottengono aumenti salariali e le otto ore lavorative.

Siamo alla vigilia di una rivoluzione proletaria mancata, sostenuta dai socialisti all’interno della sinistra (PSI, massimalisti, sindacati), ma che in Italia non avrà luogo perché non la volevano i vertici sindacali (per principio) e non la volevano i massimalisti perché non si sentivano organizzativamente e militarmente pronti; la rivoluzione venne messa ai voti e la proposta dei socialisti risultò in minoranza.

D’altra parte, in Italia, il proletariato industriale non aveva effettivi contatti con il movimento dei contadini, lontani e divisi gli uni dagli altri, mancavano delle basi per una effettiva solidarietà di classe, necessaria al successo di una presa di potere proletaria.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La paura, la rabbia, la sete di vendetta accumulate per un biennio dalla borghesia rurale ed industriale, con la quale solidarizzano in pieno i ceti medi urbani (ignorati per troppo tempo da socialisti e sindacalisti), trovano nei fasci di combattimento una valvola di sfogo. Sono i fasci di Mussolini che sostituiscono la rivoluzione di classe con la rivoluzione nazionale, per un’Italia forte, coraggiosa, ardita. Ai due anni rossi succedono due anni neri che portano il paese nella spirale di una vera e propria guerra civile.

Promotori sono gli squadristi, squadre violente organizzate militarmente che minacciano, picchiano ed uccidono chiunque osi protestare, chiunque possa sembrare socialista, incutendo terrore e morte ovunque. Questi squadristi serpeggiano indisturbati grazie alla complicità delle forze dell’ordine ed all’assenza delle istituzioni governative liberali che inizialmente li lasciano fare per dare fiato al riscatto borghese. La violenza squadrista arriva a livelli intollerabili ed il mondo socialista è umiliato e travolto.

 

Nel 1921 i massimalisti (tra cui Gramsci e Togliatti) si staccano dal PSI e formano il Partito Comunista Italiano, fedele – inizialmente – alle direttive del partito rivoluzionario bolscevico russo, deciso ad esportare la rivoluzione di classe in Europa.

 

I liberali al governo pensano di poter portare il fascismo (che nasce come partito nel 1921) nei ranghi della legalità dandogli incarichi di governo e Giolitti conta di poter eliminare i condizionamenti dei popolari, sostituendoli con i fascisti.

La realtà si rivelerà ben diversa e l’ultimo colpo di coda di Giolitti si rivelerà tardivo: Don Sturzo porrà il suo veto ad un nuovo governo Giolitti che era ormai deciso a prendersi la rivincita su Mussolini.

Mussolini chiede la presidenza del Consiglio, minacciando in caso contrario, la mobilitazione dello squadrismo.

Il governo chiede lo stato d’assedio per impedire la marcia delle camicie nere su Roma, ma il re dice no. Vittorio Emanuele III sceglie la strada del compromesso col fascismo, nominando primo ministro Mussolini.

Il potere darà a Mussolini ulteriore legna da ardere sul fuoco dell’illegalità, dell’autoritarismo e dell’eversione.

 

 

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