Relativismo culturale

 

Fino a tutto il XIX secolo, si riteneva che esistessero popoli provvisti di cultura e popoli privi di essa. I gruppi etnici diversi da quelli occidentali, seppur portatori di cultura, venivano considerati popoli di natura, "primitivi" o "barbari". Questa divisione così netta era dettata da una forma di etnocentrismo dell’uomo occidentale, auto-proclamatosi unico detentore del sapere "universale", in grado di proporre la propria cultura come termine di paragone per le altre. La tendenza di interpretare o valutare le altre culture partendo dalla propria, divenne evidente presso gli europei dopo le grandi spedizioni geografiche, con la scoperta dell’America, delle isole del Pacifico e dell'estremo oriente. Alcuni antropologi, ad esempio, consideravano i popoli pre-letterati privi di qualsiasi forma di religione (come fece Sir John Lubbock [1834-1914]) o provvisti di una "mentalità pre-logica" (come sostenne l'antropologo-filosofo Lucien Levy-Bruhl [1857-1939]), semplicemente perché il loro modo di pensare non corrispondeva a quello della cultura sviluppatasi nell’Europa occidentale. Non stupisce, quindi, il fatto che i rappresentanti delle culture non occidentali, ed in modo particolare i popoli privi di scrittura, siano stati in passato ampiamente descritti come esseri immorali, illogici, a volte perfino perversi.

Per difendere la sopravvivenza delle culture "primitive", che non venivano riconosciute se non come esistenti ad uno stato inferiore di evoluzione, si sviluppò all’inizio del '900 il cosiddetto "Relativismo culturale". Gli assertori di tale teoria combattevano l’etnocentrismo, negando l'esistenza di un'unità di misura universale per la comprensione dei valori culturali, poiché ogni cultura era portatrice di istituzioni ed ideologie che non avevano validità al di fuori della cultura stessa. Emerse un nuovo punto di vista che facilitò una profonda comprensione e un più sottile apprezzamento delle culture molto diverse dalla propria. Si comprese, così, che i bisogni umani universali potevano essere soddisfatti con mezzi culturalmente diversi e che ciò che era considerato morale in una cultura poteva essere amorale o eticamente indifferente in un’altra. Presso alcune culture, per esempio, non è amorale uccidere una bambina alla nascita o un uomo troppo anziano e non più produttivo in una situazione in cui non è possibile ottenere cibo a sufficienza per tutti. L’idea che gli elementi di una cultura debbano essere compresi e giudicati nell’ambito della stessa cultura porta alla conclusione che non si può considerare una cultura superiore o inferiore di un’altra. La cultura è il modo di vita di un gruppo sociale, l’insieme dei modelli di comportamento appresi e tramandati da una generazione all’altra durante il processo di socializzazione.

Questa sezione è stata curata da Federica Triolo, laureata in scienze Demo-etno-antropologiche presso l'università La Sapienza di Roma.

 

 

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