Razza

 

Il concetto di razza è sicuramente uno dei più controversi esistenti all'interno delle scienze naturali e sociali, ed è stato, nel corso della storia, alla base di una enorme quantità di fraintendimenti, che spesso sono stati manipolati "culturalmente" al fine di confermare, a livello scientifico, idee frutto di semplici congetture e di atteggiamenti razzisti. 

Per razza possiamo intendere

 "Qualsiasi gruppo di individui, animali o vegetali, che per un certo numero di caratteri comuni possono essere distinti da altri appartenenti alla stessa specie. La specie pertanto si suddivide in sottospecie, o razze, caratterizzate da elementi fisici trasmissibili ereditariamente, in conseguenza di vari meccanismi (isolamento geografico, mutazioni...). Da due razze appartenenti alla stessa specie si ottengono ibridi fecondi"

Questa definizione ben si accorda con tutte le varietà animali e vegetali esistenti in natura, eccezion fatta, a mio avviso, per l'uomo. I due errori fondamentali commessi nella definizione di razze umane, ossia della divisione del genere umano in specie tra loro distinte per capacità mentali e tratti somatici, sono stati il considerare le caratteristiche intellettive e fisiche come correlate, e il definire la razza bianca come la forma perfetta esistente. I criteri di classificazione vengono considerati, se applicati a questa visione opinabile, come ereditari e naturali, fissati nel codice genetico una volta per tutte.

A livello di analisi storica, possiamo risalire alla prima metà del '700 per rintracciare studiosi dediti allo studio delle classificazioni del mondo. Tra tutti va ricordato Carlo Linneo (1707-1778), il grande naturalista svedese autore del Sistema naturae (1735), opera nella quale classificò, per la prima volta, il genere umano all'interno della specie Homo Sapiens. Successivamente, a tre anni di distanza dal suo primo lavoro, aggiunse una quadripartizione del genere Homo, collegandolo a quattro differenti modalità caratteriali. Questa prevedeva un Homo sapiens americanus, tenace, soddisfatto, libero, un Homo sapiens europeus, spiritoso, vivace, inventivo, un Homo sapiens asiaticus, austero, orgoglioso, avaro, ed un Homo sapiens afer, definito come astuto, lento, negligente. Il concetto di varietà Linneo lo riprese dalla biologia, dove la differenza tra le varie piante non era ereditaria, ma veniva influenzata, a suo dire, dal clima, dal sole e dal vento. Se la pianta fosse stata riportata nel suo habitat naturale, pensava Linneo, si sarebbe avuto un processo di riacquisizione di caratteri originali. Tali concetti non furono applicati, però, all'uomo, e da ciò possiamo concludere che Linneo non attribuiva fattori ereditari alla variabilità della specie umana. La correlazione tra tratti fisici (colore della pelle in particolare) e capacità mentali sembra assente nelle teorizzazioni del naturalista svedese. Il termine razza si trova utilizzato, probabilmente per la prima volta, dal naturalista francese George Buffon (1707-1788), autore di ben 44 volumi della Storia naturale (1749-1788). Scrive Buffon nel 1749 

"In Lapponia e sulle coste settentrionali della terra dei Tartari, troviamo una razza umana dalla figura insolita e di bassa statura" .

Per Buffon, tuttavia, tutti gli esseri umani appartenevano alla stessa specie, e le differenze erano da ricondurre a fattori climatici. Il primo studioso a classificare le varie razze umane, utilizzando come criterio di differenziazione il colore della pelle, fu Johan Friedrich Blumenbach (1752-1840), che riconobbe cinque diverse varietà, la Caucasica (bianca), la Mongola (gialla), l'Etiopica (nera), l'Americana (rossa) e la Malese (bruna). Le categorie classificatrici erano, però, a detta dello stesso Blumenbach, del tutto arbitrarie, ed era impossibile tracciare limiti troppo netti tra l'una e l'altra, essendo tutte imparentate tra di loro. Le diversità somatiche riscontrabili dovevano essere interpretate, quindi, come semplici differenze di grado e non di natura. Nel pensiero di molti studiosi dell'epoca era già presente la preoccupazione che le scoperte scientifiche potessero essere strumentalizzate per fomentare ideologie di superiorità di un gruppo rispetto all'altro, ma ciò non servì ad attenuare un meccanismo che già era stato messo prepotentemente in moto.

Nel corso del XVIII E XIX secolo iniziarono ad acquistare importanza gli studi relativi alle misurazioni del cranio e della sua forma, nella convinzione che potessero essere rivelatori di differenze qualitative, di tipo intellettivo, tra i diversi gruppi umani. Il dibattito scientifico dominante tutto il secolo XIX, fu incentrato sulla opposizione tra fautori della monogenesi (ossia la credenza che l'uomo fosse nato una sola volta e di li si fosse sviluppato in varie direzioni), e la poligenesi (che, al contrario, considera le diversità razziali come frutto di nascite plurime e tra loro indipendenti); almeno per un certo lasso di tempo, la seconda tesi si affermò al livello scientifico, perché pensare a tante umanità differenti equivaleva a giustificare "biologicamente" la diversità dei caratteri. Sempre per i poligenisti, e per chiunque ne accettasse le premesse, era inoltre possibile definire, e giustificare, la schiavitù, la colonizzazione e la sopraffazione, come risultati naturali di dislivelli mentali esistenti tra gli europei (ossia i più intelligenti e perfetti) e i popoli conquistati e sfruttati (in ragione del loro essere razze inferiori da civilizzare), attribuendo alla natura ciò che invece era il risultato di operazioni politiche del tutto "umane". C'è anche chi arrivò a definire, non senza una punta di amara ironia, la schiavitù come un gesto nobile dell'europeo che, cosi facendo, svolgeva un opera di protezione nei confronti del "selvaggio". 

Cosi come in America, anche in Europa il dibattito si concentrò sull'origine della specie umana. Qui, a partire dalla seconda metà dell'800, presero piede le teorie di Darwin (1809-1882), autore dell'Origine delle specie (1859). La ripresa di concetti ripresi dalla biologia ed adattati allo studio del sociale, come la selezione naturale, l'adattamento, la sopravvivenza del più forte, produssero il risultato di vedere l'evoluzione delle società umane come soggette alle stesse leggi operanti in natura; ciò portò alcuni studiosi a criticare tutte quelle iniziative a sostegno delle fasce più deboli della popolazione che, a loro dire, influenzavano il normale corso della natura. In tal modo era possibile giustificare a livello scientifico le disuguaglianze sociali ed economiche presenti nelle società europee, perché queste erano il frutto di una selezione naturale, che aveva fatto emergere quelle persone dotate di facoltà "superiori". Inutile aggiungere che tali convinzioni portavano a concludere facilmente che lo sfruttamento dell'Europa nei confronti di popoli e gruppi diversi, era il semplice prodotto di una legge naturale. Gli stessi antropologi di allora, ad eccezione di pochi, confermarono sostanzialmente queste ideologie marcatamente etnocentriche. Lo stesso Tylor, principale esponente della corrente evoluzionista, pensava che l'europeo fosse dotato di un cervello più complesso rispetto, ad esempio, a quello di un ottentotto del Sud Africa.

Dobbiamo ad un antropologo americano, Franz Boas (1858-1942), il primo attacco sistematico alle teorie razziste del periodo. Boas dimostrò come non vi fosse nessuna analogia deterministica tra la grandezza del cervello e l'intelligenza, e che differenze sostanziali potevano ritrovarsi anche tra individui appartenenti a generazioni successive. Fattori ambientali e nutrizionali potevano contribuire allo sviluppo delle dimensioni e della forma del cranio, ma questo non era la prova di maggiori capacità mentali. Sempre per Boas non vi erano, e mancano a tutt'oggi, prove per dimostrare scientificamente che una cultura fosse intrinsecamente superiore all'altra. 

Gli antropologi americani successivi a Boas, che è, ricordiamo, uno degli antropologi che più di ogni altro ha influenzato la storia dell'antropologia americana moderna, e, più in generale, l'antropologia come scienza, fecero loro l'atteggiamento anti-razzista, criticando in maniera netta ogni tentativo di classificazione del genere umano a seconda di fattori somatici. I vari test per misurare il QI (quoziente intellettivo), non hanno mai dimostrato nulla di veramente scientifico, perché gli studiosi che li proponevano lo facevano sempre influenzati dalla loro cultura e dalle ideologie presenti in essa. La correlazione tra capacità cranica, in termini volumetrici, e capacità mentale, è scientificamente inaccettabile. La specie Homo sapiens anatomicamente moderno ha una capacità media di 1450 cm3; un nostro antico "cugino", l'uomo di Neandertal aveva, al contrario, una capacità cranica di circa 1800 cm3. Questo, tuttavia, non vuol dire che fosse più intelligente di noi, ma solo che aveva particolarmente sviluppato, nel corso della sua evoluzione, zone celebrali connesse a determinate attività fisiche.

Oggi è universalmente accettata la monogenesi dell'uomo, e viene respinto ogni tentativo di determinare fattori in grado di evidenziare differenze di capacità mentali tra i diversi gruppi. Il concetto di razza è stato sostituito con quello, meno imbarazzante, di "tipo umano", almeno dalla maggior parte degli studiosi di scienze sociali. In antropologia non viene accettato più il termine razza, inteso nella sua accezione classificatoria, perché si considera l'uomo, qualsiasi uomo di qualsiasi cultura, come appartenente alla specie Homo sapiens anatomicamente moderno, che ha avuto origine in un continente (l'Africa) circa 200.000 mila anni fa, colonizzando e diversificandosi, a seconda dell'ambiente e del contesto, in tutto il globo. Le differenze somatiche riscontrabili (colore della pelle, forma degli occhi, della bocca, statura ecc. ecc.) devono essere intese esclusivamente come rientranti all'interno di una variabilità esistente in ogni specie. La razza umana è una ed una sola, ed ogni tentativo di classificare gerarchicamente i vari gruppi umani deve essere considerato come un'ideologia etnocentrica da respingere con fermezza. Ogni individuo è figlio di una certa cultura, e una cultura è un qualcosa che si acquisisce, non è fissata per sempre nel nostro codice genetico. I molti casi di acculturazione dovrebbero, da soli, dimostrare come non esistano corrispondenze tra le varie forme del cranio e le facoltà mentali. Credo sia normale che se portassimo un membro di un gruppo facente parte di una tribù stanziata in una foresta tropicale, e lo facessimo interagire con la nostra cultura, per la quale non può essere preparato, ci sembrerebbe irrimediabilmente stupido ed inetto. Proviamo, però, a fare l'esperimento inverso, portando un qualsiasi europeo all'interno di un ambiente sconosciuto e di una cultura diversa. Per complicare il tutto, facciamo in modo che costui sia un personaggio considerato particolarmente dotato all'interno del proprio contesto; il risultato sarebbe ugualmente catastrofico, perché il nostro europeo si dimostrerebbe talmente sciocco ed inadatto a compiere qualsiasi operazione, che verrebbe, probabilmente, schernito a causa delle sue notevoli "mancanze".

 

 

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